Pluralismo del mercato sacrificato sull’altare dei conti pubblici
Un saggio di Sforza Fogliani sulle banche popolari evidenzia come la debolezza dello Stato sia stata fatta pagare all’iniziativa privata
Suscita meritoriamente più dubbi di quanti ne risolva Corrado Sforza Fogliani nella sua perorazione contro la trasformazione per legge delle banche popolari in spa voluta dal governo Renzi. E soprattutto il saggio ‘Siamo molto popolari’ del presidente dell’Associazione nazionale delle banche popolari e presidente onorario della Banca di Piacenza ha il grande pregio di porre una questione che in un’ottica liberista (il saggio è edito da Rubbettino) è cruciale: come si permette lo Stato di intervenire nel pluralismo che il capitalismo ha realizzato nel settore bancario? Cosa giustifica quell’intervento?
Raccontare quanto in 150 anni di esistenza le banche popolari abbiano aiutato lo sviluppo dei territori in cui hanno preso vita è forse un po’ tardivo nel momento in cui la legge che decreta la trasformazione delle maggiori di loro è stata adottata ed è pendente di fronte alla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi secondo ragioni di diritto prima e piuttosto che di economia. Sforza Fogliani mira a una riforma delle riforma e le gesta delle banche che narra sono volte a suffragare l’opportunità di tale riforma della riforma, ma se prevenire è meglio che curare tale narrazione sarebbe giunta probabilmente più opportuna prima che la legge fosse adottata, adesso la questione è piuttosto perché la Corte costituzionale dovrebbe bocciare quella legge alla luce delle richieste che le sono pervenute in tal senso (e che l’autore riporta per intero in appendice).
Che le banche popolari siano state sacrificate da Renzi in cambio del quantitative easing della Banca centrale europea è tesi più asserita che dimostrata, sulla base della sostanziale coincidenza temporale tra l’introduzione dell’obbligo di trasformazione in spa da parte delle popolari di taglia più grande e l’avvio dell’acquisto di titoli di Stato italiani da parte di Francoforte (una sorta di post hoc ergo propter hoc che però viene suggerito più che dato per certo). Ma pur restando insoluto il dubbio che più milita a favore della trasformazione in spa delle popolari – perché mai un nuovo socio dovrebbe portarvi capitali freschi, in caso di necessità, se nelle popolari ognuno ha lo stesso peso, qualunque sia la sua quota di partecipazione? – Sforza Fogliani solleva un dubbio estremamente meritevole di considerazione: come la debolezza dell’amministrazione pubblica, dovuta al suo indebitamento, ha condotto a sacrificare l’iniziativa privata che si è concretizzata nel fiorire di banche popolari. Può uno Stato pensare a sé stesso, ad alleviare i suoi debiti, sacrificando banche private in cambio dell’intervento della Bce (che acquistando i Bot allevia il debito pubblico perché contribuisce a tenere bassi i tassi di interesse che il governo deve pagare per finanziarsi, ma consente anche il protrarsi della perversa pratica dello Stato di indebitarsi contando che c’è sempre qualcuno che compra i suo bond)?
Il vero rischio di una svendita degli asset dell’Italia sta in questo ben più che nel rischio, adombrato da subito dall’autore, che la trasformazione in spa della popolari italiane consenta alla finanza internazionale di mettere le mani su quelle stesse banche. All’interno dell’Ue vige la libertà di movimento dei capitali e dunque degli investimenti, ma se proprio vi fosse motivo perché il sistema creditizio italiano sia messo al riparo da scalate straniere la questione può essere impostata anche per altra via: anziché evitare la trasformazione delle popolari in spa, adottare criteri per contemperare la libertà di investimento con la tutela degli interessi nazionali dei Paesi verso i quali gli investimenti si dirigono. E’ una strada certo non ignota in altri Paesi d’Europa.
Che la soglia oltre la quale scatta l’obbligo per le popolari di divenire spa sia stata fissata a un livello più basso rispetto ad altri Paesi non stupisce ove si consideri quanto il capitalismo italiano sia meno sviluppato e sofisticato di quello di altri Paesi; che il mantenimento delle popolari possa passare per l’adozione della cosiddetta governance duale o la creazione di una holding (in cui solo l’attività bancaria in senso stretto si tramuti in spa) sono invece tesi meritevoli di approfondimento (il fatto che una popolare come UBI abbia scelto di ripudiare la governance duale o che le Fondazioni bancarie siano da anni oggetto di discussione non rappresentano di per sé prove contrarie definitive).
Sicuramente, per concludere, le popolari hanno consentito abusi – il capitalismo finanziario non è propriamente un gioco, richiede competenza, e la vicenda delle popolari venete attesta come la partecipazione alla vita di una banca da parte di chi non ha cognizioni di causa adeguate impedisca un controllo efficace sulla gestione della banca stessa, essendo troppo facile raggirare i più sprovveduti -, ma Sforza Fogliani ha più che ragione nel ricordare che scandali bancari si sono avuti anche in seno a istituti creditizi in forma di spa. E dunque ecco il vero interrogativo di fondo che il saggio ha il merito di suscitare: cosa giustifica l’intervento dello Stato nel limitare le tipologie di istituti di credito cui il mercato (un deposito di saggezza, secondo la lezione di Friedrich von Hayek) ha liberamente dato vita? Forse che davvero esista un’attività umana in cui al 100% si possa debellare la disonestà? Può lo Stato barattare la messa in sicurezza dei suoi conti col pluralismo del mercato nel settore del credito? Davvero ridurre la presenza di popolari riduce i rischi di disonestà nel settore creditizio?