Banche

  • Bruxelles rafforza la prevenzione rispetto ai rischi del sistema bancario ombra

    La Commissione europea ha adottato gli standard tecnici che gli enti creditizi dovranno utilizzare nel segnalare le proprie esposizioni verso soggetti del sistema bancario ombra (in inglese shadow banking system), ossia quel complesso di mercati, istituzioni e intermediari che erogano servizi bancari senza essere soggetti alla relativa regolamentazione in quanto posti al di fuori del perimetro di applicazione delle relative norme.

    Gli standard promosso dall’esecutivo comunitario stabiliscono i criteri per l’identificazione dei soggetti del sistema bancario ombra, garantendo l’armonizzazione e la comparabilità delle esposizioni segnalate dagli enti creditizi. Gli standard forniranno inoltre alle autorità di vigilanza dati affidabili per valutare i rischi delle banche in relazione ai non-banking financial intermediaries.

    Tutto questo dovrebbe rafforzare il quadro prudenziale, consentendo una maggiore trasparenza dei collegamenti materiali tra il settore bancario tradizionale e il settore bancario ombra.

    “Le istituzioni finanziarie non bancarie sono cresciute negli ultimi anni – ha commentato Mairead McGuinness, Commissaria per i servizi finanziari – Alcuni hanno accumulato considerevoli disallineamenti di liquidità e di leva finanziaria e, come evidenziato dalle recenti perdite nel settore bancario che hanno coinvolto tali entità, la loro attività potrebbe rappresentare un rischio per il sistema finanziario. Le norme odierne forniscono alle banche attive nell’UE ulteriore chiarezza su quali entità rientrano nel sistema bancario ombra, garantendo coerenza di reporting tra le banche e migliorando la capacità delle autorità di vigilanza di individuare l’accumulo di grandi esposizioni verso istituzioni finanziarie non bancarie e gestire i rischi in modo efficace”.

  • Banche in allerta contro le truffe dell’intelligenza artificiale

    L’intelligenza artificiale è in grado di imitare la voce delle persone, attraverso voice deepfake realizzati grazie a software che utilizzano algoritmi di deep learning. Ed è giù scattato l’allarme.

    Wall Street Italia riferisce che un esperto di Pindrop, azienda che monitora che esamina i sistemi automatici di verifica vocale per otto delle maggiori banche americane, ha dichiarato al New York Times di aver riscontrato quest’anno un’impennata nella sua diffusione e nella sofisticazione dei tentativi di frode vocale dei truffatori. Imitazioni di voci reali hanno comunicato intenzioni che il titolare della voce non ha mai avuto.

    Il ceo il ceo Vijay Balasubramaniyan ha spiegato: “Tutti i call center ricevono chiamate dai truffatori, in genere da 1.000 a 10.000 all’anno. È normale che ogni settimana arrivino 20 chiamate da parte di truffatori. Finora, le voci false create da programmi informatici rappresentano solo una manciata di queste chiamate. Queste truffe hanno iniziato a verificarsi solo nell’ultimo anno”.

    La maggior parte degli attacchi con voci false che Pindrop ha riscontrato sono avvenuti nei call center dei servizi di carte di credito. Un altro grande fornitore di autenticazione vocale, Nuance, ha riscontrato un attacco deepfake a un suo cliente attivo nei servizi finanziari alla fine del 2022.

    Gli attacchi più rudimentali utilizzano la tecnologia type-to-text, per cui il truffatore digita le parole in un programma, che poi le legge con un parlato sintetico.

    Ma vi sono anche sistemi di intelligenza artificiale generativa, come VALL-E di Microsoft, in grado di creare una finta voce che dice tutto ciò che l’utente desidera, utilizzando solo 3 secondi di audio campionato.

    Tutti gli attacchi sono accomunati dalla rilevazione delle informazioni personali dei clienti delle banche. Secondo la Federal Trade Commission, tra il 2020 e il 2022 i dati personali di oltre 300 milioni di persone sono finiti nelle mani degli hacker, causando perdite per 8,8 miliardi di dollari. Non sono i ladri a usare direttamente le informazioni, ma le mettono in vendita. Sono poi altri ad associarle a persone reali.

  • Follow the money

    Per comprendere le ingiustificabili strategie delle massime autorità monetarie come la BCE può venire in aiuto il principio del “Follow the money”, cioè seguire i soldi ma  soprattutto  i profitti.

    Durante il primo semestre del 2023, mentre si registra nel mondo reale contemporaneo un calo dei consumi del -5% nel settore alimentare, e contemporaneamente quattro flessioni consecutive della produzione industriale ed  il primo  arretramento dell’export, con i beni strumentali che registrano un clamoroso -34%, il mondo bancario banchetta in relazione alle semestrali.

    Unicredit registra il migliore semestre della propria storia con un utile di 4,4 miliardi e quindi un balzo delle proprie performance del +91.4%. Nella medesima lunghezza d’onda Intesa San Paolo  dichiara per il semestre 2023 un utile superiore ai 4,2 miliardi.

    Per entrambi i colossali bancari, uno dei quali ha fagocitato le banche del nord est come Veneto Banca e Popolare di Vicenza al costo di un (1) euro mettendo sul lastrico generazioni di risparmiatori, l’utile per l’intero anno 2023 viene previsto ben  oltre i sette (7) miliardi.

    Il nuovo innalzamento dei tassi di interesse (4,25%) deciso dalla BCE, a fronte di 15 miliardi di rate del mutuo casa non pagate dalle famiglie, creerà ulteriori difficoltà anche al mondo delle imprese che già registra una flessione del ricorso al credito di oltre -24%.

    Ricapitolando, se gli istituti di credito beneficiano dell’ennesima crisi economica espressione delle disastrose conseguenze della pandemia e della guerra russo-ucraina, mentre la realtà economica continua a dimostrare sempre maggiori difficoltà, risulta evidente allora che le priorità della BCE siano assolutamente diverse da quelle della ripresa economica.

    In altre parole, si continua a privilegiare i soggetti protagonisti dell’economia finanziaria che si arricchisce della semplice gestione dei flussi piuttosto di fornire strumenti economici alla ripresa dell’economia reale.

    Una situazione assolutamente intollerabile che si giova anche dello strabismo governativo all’interno del quale il ministro dell’economia invece di intervenire sull’ennesima esplosione del costo dei carburanti (e della inevitabile ripresa della spirale inflattiva), si preoccupa invece della transizione del canone RAI sulle utenze telefoniche, dimenticando come questo sia una imposta sul possesso del televisore e non una tassa di utilizzo.

    La forza del mondo finanziario nelle sue articolate istituzioni si espande e si rafforza per debolezza della politica o, meglio ancora, a causa della stessa supina  complicità.

  • Per le banche europee in arrivo frenata dei ricavi

    Le banche europee, ed italiane, hanno messo a segno una crescita dei risultati in termini di ricavi ed utili in questi mesi grazie, ma non solo, all’aumento dei tassi da parte della Bce ma ora sembrano aver raggiunto il picco visto che stanno adeguando e lo faranno ancor più nel corso dell’anno, il costo della raccolta verso l’alto. Un andamento segnalato anche dal presidente dell’Abi Antonio Patuelli secondo “cui con la ripresa dell’inflazione è più che naturale che la parte eccedentaria dei depositi in conto corrente, utili per pagamenti, sia indirizzata verso vere forme di investimento finanziario o industriale”. Per il banchiere “non sono cresciuti solamente i tassi di interesse delle banche centrali e quelli sui prestiti, ma anche i tassi sulle varie forme di investimento della liquidità. Infatti, le banche commerciali sono inevitabilmente competitive, nelle offerte dei rendimenti per forme di investimento finanziario a medio e lungo termine, con i tassi sui titoli di Stato”.

    Per le banche quindi l’ultima parte del 2023 si presenta con una luce meno favorevole. Secondo un’analisi di Bloomberg il picco dei ricavi è giunto al suo massimo e la pressione di clienti, opinione pubblica e politica sta imponendo agli istituti di credito di ritoccare verso l’alto i rendimenti applicati sulla raccolta, restringendo così quella forbice fra tassi attivi e passivi che ha permesso al comparto di trarre beneficio dai numerosi rialzi della Bce, il cui tasso è passato dall’1,2% di inizio 2022 al 3,2%. Le stime dei ricavi complessivi degli istituti di credito europei per il 2023 sono così passate in un anno da 557 miliardi (+16%) e quelle degli utili a 144 miliardi (+31,4%). Gli istituti hanno ritoccato più lentamente i tassi sui nuovi depositi rispetto a quelli sui nuovi mutui ipotecari nei mesi scorsi. In particolare secondo calcoli sui dati Bce i rendimenti sono saliti di 66 punti base, appena il 18% rispetto agli aumenti della Bce. Ma in prospettiva si tratta di un beta che si ridurrà visto che le banche dovranno trattenere i propri clienti ed evitare impatti sulla liquidità oltre che convogliarli verso prodotti di investimento più remunerativi. A questo andranno aggiunti altri fattori di rischio per i bilanci bancari come le pressioni inflazionisti sui costi, l’andamento del mercato immobiliare commerciale, le minusvalenze dei portafogli dei titoli sovrani.

  • Asia meridionale, grave crisi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 24 giugno 2023

    Quasi tutti i paesi vicini all’India (Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh e Nepal) stanno affrontando problemi delle loro bilance dei pagamenti. Il Bangladesh fatica a pagare le sue importazioni di carburante, a causa della carenza di dollari Usa. Lo Sri Lanka è già venuto meno ai suoi impegni internazionali e il Pakistan è sull’orlo dell’inadempienza. Oltre allo shock dei prezzi delle materie prime, causato solo in parte dalla guerra in Ucraina, il vero fattore scatenante è dovuto alle politiche sui tassi di cambio, sia a seguito delle decisioni monetarie della Federal Reserve, sia per quelle prese dai paesi in questione. Com’è noto, un aumento dei tassi d’interesse in Usa ha come effetto la svalutazione delle monete dei paesi emergenti e induce alla fuga dei capitali.

    I tassi di cambio della rupia pakistana, della rupia dello Sri Lanka (Slr) e del taka bengalese sono stati mantenuti a lungo fissi rispetto al dollaro. Tutti e tre i paesi importano carburante, cibo e fertilizzanti e, resistendo alla svalutazione e mantenendo un tasso di cambio “forte”, hanno tenuto bassi anche i prezzi delle merci importate. Contemporaneamente, però, un tasso di cambio artificialmente forte rende le esportazioni non competitive e non è sostenibile nel tempo.

    Questi paesi hanno un’altra esportazione: il lavoro umano. L’Asia meridionale (inclusa l’India) è una delle principali fonti di migrazione di manodopera (circa 43 dei 164 milioni di migranti a livello globale) e, di conseguenza, destinataria di rimesse. E’ una questione che interessa anche l’Italia, poiché circa 800 mila lavoratori immigrati provengono da queste regioni. La Banca Mondiale stima che nel 2023 il 20% degli 815 miliardi di dollari di rimesse globali proverrà da cittadini asiatici (Cina esclusa) che lavorano all’estero. Si rileva che nel 2021 le rimesse, pari a 157 miliardi di dollari, erano tre volte gli investimenti esteri diretti in quella regione asiatica.

    Le rimesse in entrata hanno permesso ai paesi dell’Asia meridionale di mantenere tassi di cambio “forti”, contro le realtà del mercato. Di fatto essi hanno due tassi di cambio: uno “ufficiale” e uno “di mercato” che riflette la svalutazione. I lavoratori che inviano denaro tramite canali bancari devono utilizzare il tasso ufficiale. Quando la divergenza tra i due tassi diventa troppo ampia, com’è accaduto negli ultimi due anni, le rimesse iniziano a diminuire. Un divario ampio e prolungato tra il tasso di cambio ufficiale e quello di mercato porta all’uso di altri canali informali per il trasferimento di soldi da parte dei lavoratori.

    Il caso dello Sri Lanka è emblematico. Nella seconda metà del 2021 le rimesse in entrata sono state di 2,1 miliardi di dollari, in calo di quasi il 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Lo Sri Lanka ha un’emigrazione di oltre 1 milione di lavoratori, molti dei quali hanno smesso di utilizzare i canali ufficiali, rendendo il default più probabile. All’inizio del 2022, il tasso di cambio ufficiale era di circa 200 Slr per un dollaro, mentre il tasso di mercato era superiore di oltre il 20%. Alla fine, dopo il default, ci vogliono 360 rupie per un dollaro.

    La rupia pakistana, che è scesa di oltre il 40% rispetto al dollaro Usa nel 2022, è ancora scambiata sul mercato aperto con uno sconto rilevante rispetto al tasso di cambio ufficiale. Per preservare le sue magre riserve valutarie, il Pakistan ha ridotto le importazioni, costringendo alcune industrie a chiudere con un danno per la sua economia. Le esportazioni pakistane sono diminuite del 19% durante il trimestre gennaio-marzo 2023. Anche le rimesse in entrata verso il Pakistan hanno subito un duro colpo. Durante i primi 10 mesi dell’anno scorso, le rimesse sono diminuite del 13%. Le riserve valutarie sono al lumicino e il default è ormai una questione di tempo.

    Il Bangladesh ha intrapreso un’azione correttiva poiché le sue riserve monetarie hanno iniziato a precipitare già nel 2022, ma erano ancora a un livello decente di 35 miliardi di dollari. Ha contrattato con il Fmi un pacchetto di salvataggio recentemente approvato. Il Bangladesh ha dovuto svalutare la sua valuta di quasi il 25%. Uno dei fattori che ha spinto il governo ad agire è stato proprio il calo delle rimesse del 16%.

    In tutti questi casi, i governi sono stati in grado di mantenere un tasso di cambio artificialmente forte grazie ai flussi di denaro provenienti dai milioni di lavoratori emigrati. Questa politica è insostenibile a lungo termine. Anche l’India è uno dei principali destinatari delle rimesse – 89 miliardi di dollari l’anno – ma si tratta di una frazione rispetto al totale delle sue esportazioni. L’India ha abbandonato i tassi di cambio fissi nel 1992 e ha permesso alla sua valuta di trovare il suo equilibrio. Per i suoi vicini dell’Asia meridionale è molto più difficile e sono di fronte a tumulti monetari e a nuove svalutazioni. E’ una ragione di più per accelerare un assetto mondiale multilaterale più giusto anche dal punto di vista economico e sociale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Le colpe delle banche centrali

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso si ‘ItaliaOggi’ il 21 giugno 2023

    È molto severo il giudizio di Jacques de Larosière sulla gestione della politica monetaria delle banche centrali. L’ex direttore del Fondo monetario internazionale, del Tesoro francese e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ha plasticamente spiegato le loro errate decisioni ricordando «il racconto di Goethe dell’apprendista stregone il cui goffo uso dei poteri magici produce una scia incontrollabile di disastri». Niente di più vero.

    De Larosière non è stato un santo nella sua lunga carriera di alto dirigente delle politiche monetarie francesi e internazionali. I Paesi in via di sviluppo non hanno un buon ricordo dell’austerità e delle dure condizioni imposte dal Fmi. Fa, però, piacere, oggi che non è più costretto da responsabilità, sentirlo esprimere liberamente giudizi tranchant sulla politica monetaria dominante.

    In un suo recente scritto ha affermato: «Le banche centrali di tutto il mondo hanno acquistato enormi quantità di titoli di stato ad alto prezzo, il cui valore, come risultato delle loro azioni di inasprimento degli interessi, è successivamente crollato precipitosamente. Sfortunatamente, hanno incoraggiato le istituzioni finanziarie private a seguirne l’esempio, con conseguenze nefaste. Lungi dal promuovere la stabilità, le banche centrali hanno tenuto una lezione magistrale su come organizzare una crisi finanziaria».

    In questo modo esse hanno indebolito i propri bilanci e la propria reputazione. Com’è noto, con i quantitative easing i loro bilanci sono cresciuti a dismisura, pieni di asset backed security, titoli di dubbio valore, e di titoli pubblici acquistati dalle grande banche internazionali. Questi ultimi, ritenuti “sicuri” e “protetti” all’inizio, adesso, grazie all’aumento dei tassi d’interesse, sono in perdita.

    Le banche centrali, quindi, sono nei guai. In verità lo sono molto di più le banche commerciali private perché esse devono valutare le partecipazioni obbligazionarie in rapporto al loro valore di mercato, rendendole vulnerabili alla fuga dei depositanti. Le banche centrali non devono affrontare questo pericolo poiché le loro partecipazioni obbligazionarie non sono valutate in rapporto al mercato ma in base alla convenzione contabile secondo cui esse sono detenute al valore nominale fino alla loro scadenza.

    De Larosière aggiunge: «Riducendo i tassi di interesse quasi a zero e continuando il QE per un periodo irragionevolmente lungo, le banche centrali hanno aumentato il credito e la domanda nell’economia, il che probabilmente avrebbe portato sia all’inflazione sia agli investimenti speculativi, che alla fine sarebbero andati male quando i tassi di interesse sarebbero aumentati». Il risultato alla fine è stato il contagio tra le banche centrali e quelle commerciali, soprattutto se queste ultime operano in un ambiente mal regolamentato e se sono mal gestite.

    Negli Usa la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia federale che garantisce i depositi fino a 250 mila dollari, già a marzo stimava che le banche americane erano sedute su perdite non riconosciute di circa 600 miliardi di dollari sui loro titoli in portafoglio – una cifra che saliva ben oltre mille miliardi se si includono le perdite sui prestiti a basso rendimento. Inoltre, molte di queste banche hanno anche livelli rilevanti di depositi non coperti dalla Fdic.

    In generale, le banche private, se non funzionano, sono a rischio di bancarotta, come abbiamo visto nelle settimane passate. Questo non vale per le banche centrali che in caso di bisogno potrebbero chiedere una ricapitalizzazione, anche se non facile e a condizioni pessime. È vero che le banche centrali sono indipendenti ma, di fatto, sono fortemente coinvolte in questioni fiscali e dipendenti dai mercati finanziari. De Larosière teme che il risultato più probabile possa essere la stagflazione, che produrrebbe una serie di tensioni politiche ed economiche. E aggiunge: «Con la loro gestione della politica monetaria, le banche centrali hanno contribuito all’inflazione e a indebolire il sistema finanziario». Sono conclusioni molto pesanti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Più rischi per i derivati otc

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Poalo Raimondi apparso su ItaliaOggi l’8 giugno 2023

    L’ultimo bollettino della Bri, Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, con i dati del secondo semestre del 2022 proietta ombre oscure sull’andamento dei derivati finanziari otc. Com’è noto, oltre a essere non regolamentati e tenuti fuori bilancio, essi segnano la febbre e i rischi per le banche too big to fail, troppo grosse per essere lasciate fallire.

    Questa volta è il gross market value (valore lordo di mercato) degli otc a rivelare il problema. Nel semestre analizzato, è cresciuto del 13% toccando i 20.700 miliardi di dollari. Un livello mai visto nei sei anni precedenti.

    Nelle poco comprensibili parole dei banchieri, questa enorme cifra sta indicare «la somma di tutti i contratti derivati otc in essere, con valori di sostituzione positivi e negativi valutati ai prezzi di mercato prevalenti alla data di riferimento». In altre parole, se al 31 dicembre 2022 tutti i contratti otc fossero stati chiusi, quella sarebbe stata la somma necessaria per saldare le differenze.

    L’enorme crescita è dovuta ai derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse (ird, interest rate derivatives) e riflette la grande incertezza provocata dall’inflazione e dagli aumenti dei tassi da parte della Fed e della Bce. È la stesa Bri a evidenziare il problema quando, spiegando il significato del gross market value, afferma che «i valori lordi di mercato forniscono informazioni sull’entità potenziale del rischio di mercato nelle transazioni in derivati e sul relativo trasferimento del rischio finanziario in atto”.

    Il gross market value degli ird denominati in euro è aumentato del 23% nella seconda metà del 2022, dopo un aumento del 37% nella prima metà.

    Quello degli ird in dollari è aumentato rispettivamente del 40% e del 30%. Poiché i tassi fissati oggi dalle banche centrali sono saliti sopra quelli prevalenti al momento della stipulazione dei contratti, il loro valore lordo di mercato è, quindi, aumentato.

    Ciò vuol dire che servono molti più soldi per coprire i contratti in scadenza o in difficoltà. Chi si trova in una simile situazione avrà bisogno di maggiore liquidità, per cui cercherà di far cassa vendendo degli asset in suo possesso, oppure pagherà con soldi presi in prestito a tassi molto salati. Tali comportamenti, ovviamente, influenzano negativamente i mercati.

    Questo è il secondo effetto destabilizzante provocato dalla politica yo yo delle banche centrali: prima tasso zero e tanta liquidità inflattiva e poi, con l’aumento dei tassi, la repentina e continuata chiusura delle bombole di ossigeno. Il primo effetto è stato la mina posta sotto i titoli, soprattutto quelli pubblici, venduti in passato a tassi bassi e oggi, dopo il rialzo dei tassi, non più rimunerativi.

    Nel secondo semestre 2022 il valore nozionale di tutti gli otc è, invece, rimasto quasi invariato, 618.000 miliardi di dollari, con un aumento di soli(!) 14 mila miliardi. Il valore nozionale è l’ammontare di tutti i derivati sottoscritti, una cifra enorme, quasi impensabile, che indica la dimensione della bolla in caso di collasso sistemico. I fautori della bontà dei derivati hanno sempre contrapposto il gross market value a quello nozionale, sostenendo che il secondo non rifletterebbe il vero rischio sottostante. Adesso, però, devono fare i conti con l’impennata del primo!

    Recentemente, sull’argomento l’Isda, International swaps and derivatives association di New York ha tenuto una conferenza a Chicago. L’Isda è l’associazione che raccoglie tutti i partecipanti nel mercato dei derivati otc. Il resoconto ufficiale riporta che sono stati gli stessi operatori dei mercati sui derivati a dire che ci si dovrebbe preparare a nuovi eventi di stress per la mancanza di liquidità, com’era avvenuto nel marzo del 2020 e con i fallimenti bancari delle settimane passate. «Sta per succedere qualcosa: il fattore scatenante potrebbe essere diverso, ma accadrà», ha affermato un dirigente della Bank of New York Mellon. Un’analisi condivisa da molti partecipanti al convegno di Chicago. Si aspettano anche che il deflusso dei depositi dalle banche regionali statunitensi potrebbe continuare, poiché i clienti cercano rendimenti più elevati.

    È sconcertante il fatto che siano proprio gli operatori dei mercati a essere preoccupati sugli andamenti futuri. Purtroppo, le agenzie di controllo e le banche centrali sembrano essere rimasti sui libri di testo di economia del diciottesimo secolo! Oppure sono ammaliati dal feticcio del 2% d’inflazione annua.

    *già sottosegretario all’Economia *economista

  • USA. Il caso della First Republic Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su www.notiziegeopolitiche.net il 6 maggio 2023 

    La First Republic Bank di San Francisco (Frb), la quattordicesima banca americana, ha chiuso i battenti. E’ il secondo fallimento più grande della storia dopo quello della Washington Mutual nel 2008. Per evitare che potesse provocare una slavina finanziaria e per tranquillizzare, almeno momentaneamente, i mercati è stata organizzata una “special operation” pubblica – privata.
    La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia di regolamentazione bancaria, in qualità di curatore fallimentare ha preso possesso della banca e contemporaneamente l’ha venduta alla JPMorgan Chase di New York, la più grande banca americana e indiscussa regina dei derivati finanziari speculativi. Quest’ultima prenderà il controllo dei 103,9 miliardi di dollari di depositi e dei 229,1 miliardi di attività della First Republic, 173 dei quali in prestiti e 30 in titoli.
    Per l’acquisto la JPMorgan ha pagato 10,6 miliardi. Il fondo di garanzia della Fdic dovrebbe intervenire con 13 miliardi per coprire le perdite subite dai correntisti della banca. La Fdic, infatti, garantisce i depositi fino a 250.000 dollari. Essa dovrebbe anche aggiungere 50 miliardi di finanziamenti, di crediti. In altre parole, il grosso del salvataggio è sulle spalle pubbliche.
    Si tenga presente che nei depositi citati vi sarebbero 92 miliardi di precedenti aiuti, 30 dei quali nella forma di crediti concessi dalle 11 maggiori banche statunitensi e il resto dalla Federal Reserve e da altre entità pubbliche. Sono serviti solo per guadagnare un po’ di tempo ed evitare il tracollo immediato.
    Il crollo della Frb è da manuale. All’inizio di marzo, quando si annunciava il percorso di fallimento della Silicon Valley Bank, le azioni della First Republic valevano ancora 115 miliardi. Oggi pressoché niente. Già nei primi tre mesi dell’anno, ben 102 miliardi di depositi erano “scappati” dalla banca. Infatti, come le altre due banche fallite, la Silicon Valley e la Signature, la Frb è crollata sotto il peso di prestiti e investimenti in obbligazioni che hanno perso miliardi di dollari di valore a seguito della politica della Fed di alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione. Di conseguenza, molti clienti, soprattutto quelli facoltosi, hanno iniziato a ritirare i loro soldi e gli investitori hanno scaricato le sue azioni, innescando anche una crisi di liquidità.
    L’amministratore delegato della JPMorgan, Jamie Dillon, si augura che questa fase di alta instabilità finanziaria si possa calmare, anche se “potrebbe esserci un altro caso più piccolo”. Ma, aggiunge, gli investitori sono ancora esposti ai rischi creati dagli aumenti dei tassi d’interesse della Fed e dal loro impatto sugli asset, compresi gli immobili.
    Nonostante le tante assicurazioni, si teme che le crisi bancarie da “acute” possano diventare “croniche”. Gli effetti macroeconomici dello stress bancario potrebbero essere solo nella fase iniziale.
    Negli Usa vi è la convinzione che la Fed ha gestito male la politica sui tassi d’interesse, con rialzi prima tardivi e poi troppo concentrati. Infatti, in dodici messi il tasso è aumentato del 5%, uno choc secondo solo a quello degli anni ottanta. Inoltre, come ha ammesso anche il vice presidente della banca centrale Michael Barr davanti al Congresso, la Fed è mancata nella supervisione e nella regolamentazione bancaria.
    I fallimenti hanno dimostrato che circa un quarto del cosiddetto portfolio bancario è fatto di titoli in perdita rispetto agli attuali tassi di’interesse. Di fatto il rischio di una fuga generalizzata di depositi dalle banche regionali verso quelle più grandi e verso i fondi del cosiddetto sistema bancario ombra resta rilevante. Ciò comporterebbe anche una riduzione dei crediti verso l’economia. Si toccano con mano gli effetti indesiderati della liquidità creata a piene mani e a basso costo. Oggi la Fed rischia di fare lo stesso errore: sottovalutare le conseguenze sistemiche delle sue attuali politiche.
    Naturalmente le banche too big to fail stanno approfittando della politica della Fed. Lo dimostra un dato sorprendente: nel primo trimestre del 2023 la JPMorgan Chase ha fatto ben 21 miliardi di profitti sui tassi di interesse, più del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poiché i tassi sui depositi dei clienti erano e restano bassi, la banca si è subito adeguata al rialzo dei tassi nelle concessioni di prestiti e negli investimenti.
    I non pochi interventi di salvataggio evidenziano alcune criticità che si faranno presto sentire. Prima di tutto acuiscono la concentrazione bancaria, le grandi banche diventano più grandi e too big to manage. In secondo luogo si sta minando la fiducia nei confronti della Fdic e della sua capacità futura di essere garante di tutti i depositi. Il che è molto preoccupante.

    Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • Agenzie di rating Usa farlocche

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 28 marzo 2023

    Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve: il loro mancato intervento è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

    Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail (troppo grande per fallire).

    C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250 mila dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

    È in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie.

    Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni Ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

    È comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

    C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone.

    Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

    Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

    E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

    Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio. Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

    Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008. Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

    Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La finestra svizzera

    Voltaire una volta scrisse: “Se vedi un banchiere svizzero saltare dalla finestra salta dopo di lui perché c’è sicuramente qualcosa da guadagnare”. Una frase che esplicita quale potesse essere una volta la percezione della affidabilità dei banchieri svizzeri unita alla sicurezza ed alla professionalità espressa nella gestione degli istituti di credito svizzeri.

    Da Voltaire ad oggi molte cose sono cambiate, non sempre nella direzione auspicabile, e soprattutto l’ultima vicenda legata alla crisi di Credit Suisse ha dimostrato come le peculiarità del “Sistema Svizzero”, e quindi comprensivo delle azioni del management, risultino diluite all’interno del mondo della finanza globale.

    Negli ultimi due anni l’istituto di Zurigo ha subito sanzioni per oltre 12 miliardi in relazione ad operazioni fraudolente come quella dei titoli venduti alla clientela privi di assicurazione, senza dimenticare lo scandalo del Mozambico.

    In questo contesto gestionale opaco si inseriscono la vicenda del Ceo pedinato dall’istituto e il patteggiamento a Milano per 110 milioni di evasione fiscale.

    Tuttavia il quadro reputazionale della banca toccò il minimo storico con la sentenza del 27 giugno 2022 nella quale il tribunale di Bellinzona, in Canton Ticino, riconobbe colpevole l’istituto di credito di Zurigo di riciclaggio a favore di un narcotrafficante bulgaro.

    Decisamente una sentenza storica nell’ambito del sistema bancario svizzero che compromise inevitabilmente la ieratica immagine dell’Istituto stesso ma anche dei Banchieri svizzeri in generale.

    Del resto non va dimenticato come lo stesso salvataggio di Credit Suisse vede protagonista UBS, la quale aveva ottenuto una ricapitalizzazione con le finanze pubbliche della Confederazione durante la crisi finanziaria del 2008.

    All’interno di un mondo finanziario assolutamente globale e digitale, specialmente nell’ultimo decennio, gli istituti bancari svizzeri si trovano stretti in un angolo dalla concorrenza dei fondi privati nella creazione di nuove ricchezze e conseguenti dividendi.

    Contemporaneamente hanno perso la propria posizione monopolista, diventata nei tempi passati quasi ormai una rendita di posizione, nella gestione dei grandi patrimoni.

    In questo contesto contemporaneo in continua evoluzione la priorità dell’intero sistema bancario elvetico dovrebbe focalizzarsi nel raggiungimento di una nuova credibilità da ottenere anche attraverso la elaborazione di un nuovo protocollo simile nei contenuti e nella forma a quello entrato in vigore per la tutela della produzione industriale: lo Swiss Made.

    Nello specifico questo dovrebbe rappresentare una sicurezza aggiuntiva per la clientela internazionale rispetto alle rinnovate competenze, espressione anche di un codice etico Suisse Made, applicato anche al management esattamente come lo Swiss made assicura la filiera industriale ed alimentare.

    Da Voltaire ad oggi molti lustri sono passati e le vicende relative a troppi istituti bancari elvetici ne hanno minato il patrimonio reputazionale.

    In attesa di una rinnovata credibilità espressa dalla classe politica e dirigente svizzera attraverso una nuova tutela normativa, nel caso in cui si dovesse assistere ad un banchiere che si gettasse dalla finestra sarebbe indicato neppure affacciarsi a quella finestra.

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