Banche

  • Rapine in banca diminuite del 36,3% dal 2023 al 2024

    Prosegue il calo delle rapine in banca che sono diminuite del 36,3% in un anno, passando dalle 80 del 2023 alle 51 del 2024. In calo anche il cosiddetto indice di rischio – cioè, il numero di rapine ogni 100 sportelli – che è sceso da 0,4 a 0,3. Sono questi i principali risultati dell’indagine condotta da Ossif, il Centro di ricerca Abi in materia di sicurezza, che sono stati presentati oggi nel corso del convegno “Banche e Sicurezza 2025”, l’evento annuale promosso da Abi, in collaborazione con Abi Lab, Certfin e Ossif e organizzato da Abieventi, per conoscere ed esplorare le frontiere della sicurezza fisica e digitale nei settori bancario, finanziario e assicurativo. “La tendenza positiva che ha caratterizzato il fenomeno negli ultimi anni è il risultato di un impegno congiunto crescente tra le banche e le Forze dell’ordine. Questo lavoro condiviso ha avuto l’obiettivo di promuovere una cultura della sicurezza sempre più solida, a tutela sia dei clienti sia dei dipendenti del settore, in linea con le priorità strategiche dell’Abi e dell’intero comparto bancario”, ha sottolineato il direttore generale dell’Abi, Marco Elio Rottigni.

    “Dal 2014 al 2024 – ha aggiunto – le rapine agli sportelli sono diminuite del 93,6%, un risultato significativo che evidenzia l’efficacia delle azioni intraprese. In questo percorso, un ruolo fondamentale è stato svolto dal nuovo protocollo d’intesa tra l’Abi e il Dipartimento di pubblica sicurezza, per la prevenzione dei reati predatori, che ho avuto il privilegio di sottoscrivere a livello nazionale l’11 dicembre, insieme al vice direttore generale della Pubblica sicurezza e direttore centrale della Polizia criminale, Raffaele Grassi, che ringrazio per il suo contributo. Un sentito riconoscimento va anche ai vari Prefetti che, a livello locale, hanno firmato insieme a Ossif e ai rappresentanti delle banche il protocollo pensato per prevenire la criminalità ai danni sia dei clienti sia dei dipendenti delle banche. Il rafforzamento del dialogo istituzionale, lo scambio costante di informazioni e l’impiego di strumenti tecnologici avanzati per la valutazione del rischio hanno permesso di affinare progressivamente le misure di sicurezza, rendendo la risposta al fenomeno criminale sempre più efficace e mirata”. Nel corso delle due giornate autorevoli esponenti delle istituzioni, del mondo bancario, della consulenza e dell’industria si incontreranno e si confronteranno per approfondire e individuare i punti di attenzione, le strategie e le tecnologie più avanzate in un percorso di rafforzamento della sicurezza e della resilienza dell’intero sistema economico, nazionale ed europeo.

    Nel 2024 le rapine sono diminuite in 13 regioni: Campania (da nove a sette), Emilia-Romagna (da otto a quattro), Lazio (da sette a quattro), Lombardia (da 19 a nove rapine), Piemonte (da sette a due), Sicilia (da 14 a dieci), Toscana (da cinque a due), Umbria (da tre a due) e Abruzzo, Basilicata, Calabria, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta dove non ci sono stati eventi (da uno avvenuto nell’anno precedente). Nessun colpo nemmeno in Molise (come nel 2023) e situazione stabile in Liguria (una sola rapina). Aumenti si sono invece verificati nelle Marche e in Sardegna (con una rapina da 0), Puglia e Veneto (con tre rapine da una) e Trentino-Altro Adige (con due rapine da zero). Ammontano ad oltre 400 milioni di euro gli investimenti che ogni anno le banche italiane destinano per rendere le proprie filiali ancora più protette e sicure e per la gestione del contante (trattamento e trasporto valori). Adottando misure di protezione sempre più moderne ed efficaci e formando i propri dipendenti anche attraverso un’apposita “Guida alla sicurezza per gli operatori di sportello”, realizzata da Ossif in collaborazione con il ministero dell’Interno e le Prefetture. La Guida antirapina è un significativo punto di riferimento per chi opera ogni giorno nelle filiali bancarie: una sorta di vademecum su come comportarsi durante le rapine, ma anche indicazioni utili per prevenirle nonché per agevolare il controllo del territorio e l’attività investigativa delle Forze dell’ordine.

  • Nel primo trimestre 2025 truffe telefoniche per 80 milioni

    Da 27 anni, come spiega Ivano Gabrielli, superpoliziotto italiano dei crimini informatici (nella polizia postale e delle Comunicazioni dal 2006 e dal 2017 ne è il direttore), la Polizia postale italiana si occupa del contrasto del cybercrime con una forza 1.800 persone. Affronta reati online di vario tipo: accessi abusivi a sistemi, pedopornografia, cyber-terrorismo e frodi bancarie. Queste ultime sono in forte aumento e un anno fa la Postale ha dovuto creare una divisione dedicata.

    Nel 2024 la Postale ha riscontrato 18.967 casi di truffe online e 8.602 frodi informatiche, per un danno economico complessivo di 232 milioni di euro. Nel primo trimestre del 2025, «si osserva un incremento significativo delle somme sottratte: 81,6 milioni di euro contro 57,5 milioni, indicativo di una maggiore capacità offensiva da parte dei criminali», si legge nel report della Postale, che porta la data 14 maggio 2025. Le attività investigative hanno riguardato 4.550 soggetti nel 2024 e 1.225 nel primo trimestre 2025. Numeri che fanno paura. Soprattutto se li traduciamo nelle vite e nelle sofferenze delle vittime. «Questo crimine vive di stagioni. Ora è quella del vishing», spiega Gabrielli. Ossia telefonate truffa.

    L’insidia più frequente in questi mesi è quindi una chiamata dove «qualcuno si spaccia per la tua banca o per un poliziotto, un carabiniere». Grazie a semplici strumenti informatici, i truffatori riescono ad alterare il numero chiamante e quindi sul cellulare della vittima può apparire davvero quello della banca o della polizia. Gli operatori telefonici italiani solo ad aprile, dopo anni di tira e molla, hanno acconsentito a fare un filtro contro le chiamate con numero fasullo. Ma, l’autorità di settore (Agcom) ha dato tempo loro fino all’autunno 2025 per adottarlo nelle loro reti.

    Così, è facile farsi ingannare. «Il truffatore s’inventa un pericolo urgente: stanno svuotando il conto, ci sono movimenti sospetti. E chiede all’utente di agire subito per risolvere», spiega Gabrielli. Ed è questo il momento in cui si consegnano le chiavi di casa al criminale, ossia l’accesso totale al conto. Ad esempio, all’utente viene chiesto il codice che serve per fare bonifici (una password temporanea al solito generata con l’app bancaria). Oppure «i criminali gli chiedono di disinstallare l’app, che poi installano loro sul cellulare (con i dati dell’utente), per avere libero e totale accesso al conto», dice Gabrielli.

    A volte invece lo guidano al telefono per fare alcune operazioni online a loro favore. «Sempre più spesso i truffatori riescono a fare installare, alla vittima, app malevole sullo smartphone, per prenderne il possesso e fare operazioni bancarie», aggiunge Paolo Dal Checco, uno dei più noti ingegneri forensi italiani. Il risultato è lo stesso: soldi sottratti dal conto. Di solito ora tramite bonifico istantaneo o bollettino postale. Due nuovi metodi che (a differenza del bonifico classico) rendono impossibile il blocco successivo del trasferimento. La modalità può fare però una differenza sul piano legale: «Se siamo stati noi a fare l’operazione, è quasi certo che la banca non rimborserà», spiega l’avvocato Fulvio Sarzana, ex arbitro bancario a Roma (nelle controversie tra correntisti e banche). «La normativa di settore, infatti – la direttiva europea Psd2 – tutela l’utente solo se sono terzi a fare i movimenti fraudolenti», aggiunge Sarzana.

    Alcune truffe in effetti comportano una collaborazione totale della vittima. «Sono riusciti a convincere persone ad andare in banca per trasferire i propri soldi su un conto controllato dai criminali, con la scusa che fosse un modo per proteggerli», dice Gabrielli. Altre truffe bancarie colpiscono le carte di credito. Ad esempio ora «ti chiamano sempre spacciandosi per la banca, dicono che la carta è stata clonata. Ti mandano un link che porta a una pagina dove risultano finti movimenti sospetti sul conto», aggiunge Gabrielli. Mandano poi alla vittima una finta carta di credito sostitutiva e ritirano quella valida, chiedendo all’utente anche il pin.

    I trucchetti sono tanti, racconta Gabrielli: «Possono rubare la corrispondenza dove c’è una nuova carta di credito e poi telefonare al cliente per ottenere il pin, facendo finta di essere la banca». I numeri delle carte possono ottenerli anche spingendo gli utenti a comprare su finti siti e-commerce (di cui mettono la pubblicità sui social). «I casi più seri comportano sempre un’importante collaborazione da parte della vittima», dice Gabrielli. Sì, «chi ci casca al solito mostra scarsa consapevolezza del rischio cyber, ma a fare davvero la differenza è la bravura dei criminali nell’inventarsi storie, nel carpire la fiducia. Una bravura che, peraltro, vediamo crescere continuamente». Il sospetto è che le organizzazioni criminali siano arrivate a fare formazione ai truffatori finali, con manuali e script, «un po’ come quelli del telemarketing classico: cosa dire alla vittima, a seconda delle circostanze e delle sue risposte», dice Gabrielli.

    Ma se loro sono ormai geni del crimine, noi come ci difendiamo? Ed è di difesa preventiva che dobbiamo parlare. Perché una volta che il danno è fatto, ottenere il rimborso dalla banca è una strada impervia. Sarzana e Dal Checco consigliano di fare ricorso all’arbitro bancario finanziario, per via dei costi bassi (20 euro); «fare causa alla banca invece è così dispendioso che conviene solo per grandi importi trafugati», dice Dal Checco. Da molte decine di migliaia di euro in su. L’arbitro chiede alla banca di rimborsare se riscontra che quella non ha fatto tutto il possibile per proteggere il cliente. Ma le richieste dell’arbitro non sono cogenti. A volte la banca sceglie di non adempiere e al cliente non resta, appunto, che fare causa, per la quale al solito serve pagare non solo l’avvocato ma anche per avere una perizia forense sui propri dispositivi.

    Prevenzione, quindi. Un esperto come Dal Checco consiglia prudenza a tutti i livelli. Installiamo solo software o app da fonte fidata. Potrebbero altrimenti contenere virus, usati per rubare password e dati primari di accesso al conto. Che vengono carpiti anche con «classiche mail truffa, nelle quali si spacciano per la tua banca e ti chiedono di inserire i dati dell’ebanking su un sito, con una qualche scusa», puntualizza Gabrielli. I criminali però per prendere soldi da un conto online hanno bisogno anche di password temporanee ed ecco che si arriva alla telefonata che finalizza la truffa.

    Gli esperti insegnano la regola d’oro: se una presunta banca ci chiama o scrive chiedendoci un dato, diffidiamo. Quelle vere evitano di farlo. Basterebbe seguire questo principio per non cascarci. Ma anche utenti avveduti possono dimenticarsene, colti in momenti di distrazione o stress, così frequenti nella nostra società digitale. I truffatori lo sanno e stanno in agguato. Con i messaggi terroristici, che generano ansia e urgenza, abbattono poi le ultime difese razionali. «Fermarsi qualche secondo a pensare prima di consegnare i nostri soldi a sconosciuti: così ci possiamo salvare», avvisa Gabrielli.

  • La metamorfosi bancaria

    Il mondo economico, distratto da definizioni manieristiche viziate da un pregiudizio ideologico, come si è assistito per la definizione del PIL statunitense in flessione, non riesce a comprendere quanto emerga evidente dalle ultime trimestrali presentate dai principali Istituti bancari italiani.

    Ancora oggi si utilizzano ed applicano anche nell’analisi del sistema bancario non tanto l’intelligenza artificiale quanto vecchi paradigmi economici la cui difesa diventa persino ideologica in quanto ampiamente superati dalla globalizzazione. Se le due principali istituzioni bancarie, come UniCredit e Intesa Sanpaolo, registrano trimestrali da record, la prima con 2,8 miliardi di utili netti mentre la seconda 2,6 miliardi, nonostante le ventisei flessioni consecutive della produzione industriale, come logica conseguenza emerge come ormai lo sviluppo del sistema bancario non sia più legato a quello del sistema Paese e tantomeno a quello industriale.

    Una semplice applicazione della logica economica dimostrerebbe, infatti, senza ombra di dubbio come da anni le banche non abbiano più come strategia economica di crescita il finanziamento delle imprese dal cui andamento economico risulterebbero inevitabilmente legate e condizionate. Viceversa, proprio i risultati delle trimestrali dimostrano come il sistema bancario abbia subito una kafkiana metamorfosi, assumendo le forme ed i comportamenti di un Private Equity, in quanto gli utili provengono soprattutto dalla gestione del risparmio privato.

    Del resto la stessa vicenda Generali, la quale ha visto la contrapposizione tra diversi gruppi finanziari, ne rappresenta l’ulteriore conferma, in quanto l’oggetto del contendere riguarda la gestione del risparmio privato il quale potrebbe addirittura confluire in una società a capitale misto italofrancese. Senza dimenticare tuttavia anche il ruolo dei semplici esattori di commissione, dove l’utilizzo della moneta elettronica garantisce tanto ad assicurarne una percentuale notevole degli utili.

    Qualsiasi possano essere le soluzioni all’interno di una strategia che abbia come obiettivo affrontare una crisi industriale di dimensioni inaudite, che si protrae da oltre due anni, nella assoluta indifferenza del governo in carica, anche come sintesi malefica di un’applicazione ideologica dei Green Deal e di un’incapacità di governi nazionali di far valere le proprie peculiarità, una riedizione del ruolo del credito d’impresa fornito dal sistema bancario rappresenta il primo problema da affrontare all’interno di un’ottica di ripresa.

    Venendo meno il supporto degli istituti di credito alla crescita economica si determina la cristallizzazione della crisi industriale ed economica, la quale, al contrario, diventa invece funzionale alle rendite e speculazioni finanziarie funzionali alla gestione e crescita del risparmio privato.  La loro gestione, in ultima analisi, non determina assolutamente una crescita complessiva e in più blocca ogni ascensore sociale che solo uno sviluppo economico complessivo può garantire.

  • Sei banche italiane su dieci stanno già implementando l’intelligenza artificiale nei propri servizi

    L’88% delle banche italiane avrà una strategia per la Generative AI entro il 2025 (nel 38% dei casi già operativa). Inoltre, per l’80% degli istituti di credito nazionali, le iniziative di GenAI sono parte integrante di una più ampia strategia per lo sviluppo della AI. Queste alcune delle principali evidenze emerse dall’indagine condotta da ABI Lab con il supporto metodologico di Deloitte nell’ambito dell’Osservatorio Fintech Innovation e presentato in occasione dell’evento Sperimenta e innoverAI! Dalla visione alla realtà tra contaminazione e nuove tecnologie, presso il Centro Congressi Bezzi a Milano, con l’obiettivo di approfondire il livello di adozione della Generative AI nel settore Banking. La ricerca è stata condotta su un campione di 16 istituti di credito nazionali, che rappresentano il 76% dell’attivo a livello nazionale e il 79% del numero di dipendenti.

    «Negli ultimi anni, l’innovazione e le evoluzioni tecnologiche hanno permesso di affrontare sfide sempre più complesse. In questo momento, la Generative AI rappresenta un ulteriore cambio di paradigma che apre a nuove opportunità. Dalla iper-personalizzazione dei servizi fino al miglioramento dell’efficienza operativa dei sistemi informativi, il potenziale di applicazione è molto vasto e, in gran parte, ancora inesplorato. Ma per poter cogliere realmente questi vantaggi in termini di business, non basta solo implementare strumenti tecnologici avanzati, perché diventa necessario ripensare all’organizzazione aziendale e al miglioramento dell’offerta verso i propri clienti attuali e futuri, integrare competenze digitali e abilitare i propri collaboratori ad interagire con queste nuove tecnologie», ha commentato Paolo Gianturco, Financial Services Tech Leader di Deloitte Central Mediterranean.

    Sei banche italiane su 10 dichiarano progetti di AI in produzione, mentre il 69% degli istituti finanziari segnala di essere attualmente in una fase di sperimentazione dei progetti GenAI.

    Per il 69% delle banche italiane il budget GenAI è parte del budget complessivo di AI, ottimizzando le risorse e favorendo sinergie tra progetti, mentre solo il 13% delle realtà italiane ha dedicato un budget specifico per l’intelligenza artificiale generativa. Il trend di investimenti per iniziative legate all’intelligenza artificiale è in crescita: l’82% delle banche prevede un budget in aumento per le progettualità legate all’AI, il 38% in modo significativo (cioè oltre il 10%), e il 44% in modo moderato, quindi fino ad un massimo del 10% degli investimenti. Questo andamento si riscontra anche se si analizza più strettamente la sola GenAI, dove circa l’88% degli istituti di credito indica un incremento significativo o moderato degli investimenti previsti nei prossimi anni. Tra i fattori principalmente considerati nel valutare un investimento in GenAI, l’80% delle banche considera i ricavi e benefici attesi, il 67% i costi e investimenti necessari, e sempre il 67% dei rispondenti i rischi e la compliance.

    Un dato interessante riguarda poi le aspettative dei player bancari su ritorno dell’investimento dei progetti dedicati alla GenAI: il 75% non indica un periodo di ROI preciso, mentre il 13% risponde “da 6 mesi a meno di 1 anno”.

    Risorse e competenze disponibili, tempi di sviluppo e impostazione strategica aziendale sono i tre fattori che le banche indicano come principali nella scelta tra una logica “make” (costruire internamente i propri sistemi di GenAI) oppure “buy” (acquistare dall’esterno). Infatti, nella realizzazione di soluzioni, la strategia make è utilizzata prevalentemente per le attività di studio e progettazione, risk management, audit e assurance (indicate da oltre il 40% delle banche), mentre la formazione, l’implementazione architetturale, la manutenzione e lo sviluppo seguono principalmente logiche di esternalizzazione. Il 54% delle banche ha in corso partnership attive con aziende ICT/BigTech per lo sviluppo di iniziative di GenAI, mentre le sinergie future saranno realizzate principalmente con software Vendor e fintech/start up, indicate rispettivamente al 55% e 45% dei casi.

    L’81% delle banche afferma di presidiare le tematiche legate all’AI. E nel 77% dei casi la GenAI è seguita dalle stesse strutture aziendali che trattano temi di AI o di Innovazione, mentre il 23% dichiara di aver creato un presidio ad hoc dedicato alla GenAI. In media 4 dipendenti bancari ogni 1000 sono coinvolti in iniziative di AI e GenAI, e circa tre quarti delle banche prevede per i prossimi due anni un incremento degli FTE (full-time equivalent) interni che saranno dedicate a tali attività.

    Oltre il 57% delle banche dichiara uno skill gap moderato o alto in aree relative a Ethics, Solution Testing&Deployment e Data Science/Prompt Engineering. Il 75% delle banche ha già attuato o ha in programma di realizzare azioni culturali e di change management in risposta alle nuove progettualità di GenAI. Tra le iniziative ritenute più rilevanti, ci sono la formazione su tematiche di GenAI (50%), la revisione e l’adattamento dei processi aziendali (50%) e l’introduzione di nuove figure professionali (40%). La promozione di piani di formazione rappresenta un aspetto rilevante per lo sviluppo di iniziative di GenAI. E tra le principali attività formative attualmente realizzate ci sono: corsi rivolti ai dipendenti sull’uso della GenAI (44%), formazioni su temi di GenAI awareness (33%) e formazione di team di sviluppo per creare nuove soluzioni (33%). Inoltre, in futuro saranno predisposti percorsi dedicati allo sviluppo di nuovi ruoli o alternativi all’interno dell’organizzazione (56%).

    Il 70% delle banche ha definito o prevede di definire processi, metodologie e strumenti per garantire l’etica e la conformità all’AI Act entro il 2025. Monitorare i requisiti normativi e garantire la conformità (79%), promuovere un approccio di AI Governance by Design fin dalla fase di progettazione (71%) e garantire la supervisione umana nel processo di validazione dei contenuti della GenAI (57%) sono le pratiche più ricorrenti adottate dalle banche per gestire attivamente i rischi legati all’implementazione della GenAI. Per rispondere a tale esigenza, inoltre, si rileva dall’indagine come la metà delle banche rispondenti ha definito un Framework di governance per l’uso di strumenti e applicazioni di GenAI. Infatti, le disposizioni previste dall’AI Act rappresentano il principale riferimento normativo che le Banche in Europa devono considerare per assicurare il corretto sviluppo delle implementazioni di GenAI. E il recepimento di questi requisiti comporta interventi su tutto il Modello Operativo (strumenti, processi e procedure) in modo da garantire la conformità all’intero impianto normativo.

  • Dall’evasione fiscale al sistema bancario

    All’interno di un sistema democratico ogni forma di pagamento dovrebbe rappresentare la manifestazione di una libera scelta del cittadino rispetto al pagamento per un qualsiasi acquisto e proprio per questo dovrebbe risultare legittima in ogni sua forma di espressione.

    La continua pressione, invece, nella sola direzione a favore dei pagamenti attraverso la moneta elettronica, soprattutto da parte di quelle forze politiche ed istituzionali italiane ed europee, e che si considerano liberali o addirittura progressiste, quindi più vicine alle incombenze del cittadino comune, suscita dubbi e probabilmente esprime anche una certa complicità con il sistema bancario.

    Andrebbe ricordato come con l’utilizzo dei pagamenti elettronici (una forma assolutamente comoda anche per chi scrive) si pagano ogni giorno tra i 150 ed i 180 milioni in commissioni.

    In un mese, quindi, questa somma diventa di 4,5 miliardi di euro e in un anno di trasforma in oltre 54 miliardi di risorse sottratte al processo di creazione di  valore aggiunto e trasformate in una  semplice commissione pagata al sistema bancario.

    L’evasione fiscale in Italia ammonta nel 2021 a 81 miliardi di euro di imponibile (compresa però anche quella contributiva) e nel 2023 sono state recuperate, secondo l’Agenzia delle Entrate, oltre 24 miliardi di imposte evase, proprio grazie, cosi si afferma, al maggiore utilizzo delle carte di debito e di credito e quindi alla tracciabilità dei pagamenti.

    Dalla semplice considerazione nel confronto tra i numeri  emerge come l’utilizzo della moneta elettronica rappresenta più  lo strumento “perfetto” finalizzato alla trasformazione di una ipotetica evasione fiscale in utili a favore del sistema bancario, in quanto per recuperare 24 miliardi di imponibile il costo complessivo risulta di circa 54 miliardi, con un saldo a tutto favore del sistema bancario.

    In altre parole per un euro recuperato di evasione fiscale il sistema bancario ne incassa due (2).

    Per questo semplice motivo, allora, il recupero anche dell’intero ammontare dell’evasione fiscale non potrà mai tradursi in una riduzione della pressione fiscale (“paghiamo tutti per pagare di meno”) ma diventa già da oggi semplicemente un ulteriore arricchimento ingiustificato del sistema bancario in quanto già ora le commissioni rappresentano il 57% degli utili degli istituti.

    Nessuno intende giustificare l’evasione fiscale ma risulta evidente come la moneta elettronica rappresenti lo scettro del potere del sistema bancario che esercita sulle masse di consumatori. In cambio, lo stesso sistema acquista i titoli del debito pubblico che assicurano la libertà di crescita nella spesa pubblica alla classe governativa e politica.

    La diarchia (*) trova la propria massima espressione nello storytelling della lotta all’evasione fiscale.

    (*) novembre 2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/

  • Esplode la bomba del debito usa e globale

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su notiziegeopolitiche.net del 16 marzo 2024

    Le vicende finanziarie dovrebbero essere valutate per quello che sottendono, a volte situazioni negative. Attualmente sono gli Usa che preoccupano perché dal giugno 2023 ogni cento giorni il debito pubblico aumenta di ben mille miliardi di dollari. I dati sono eloquenti. Anzitutto va rimarcato che in dieci anni, dal 2014 a oggi, il debito americano è raddoppiato, passando da 17.000 miliardi all’attuale cifra di 34.500 miliardi. Molti ritengono che il modello “mille miliardi ogni 100 giorni” continuerà in futuro.
    Il Congressional Budget Office, l’organismo indipendente che produce analisi economiche per il Congresso, stima che il deficit di bilancio annuale passerà da 1.600 miliardi di quest’anno a 2.600 miliardi del 2034. In altre parole, nel prossimo decennio gli Stati Uniti aggiungeranno quasi 19.000 miliardi di dollari all’attuale debito pubblico fino a un totale di 54.000 miliardi.
    Nello stesso decennio soltanto per gli interessi gli Usa spenderanno più di 12.400 miliardi. Perciò si stima che la quota per il pagamento degli interessi sul debito potrebbe superare le altre voci di bilancio, comprese le spese per la difesa. Si tenga presente che le proiezioni sono fatte stimando che il tasso d’interesse dovrebbe scendere sotto il 3% dall’attuale 5,5%.
    Questa è la realtà nascosta, volutamente ignorata per dar spazio soltanto all’esaltazione dei dati positivi relativi alle aspettative dell’aumento del pil e dell’occupazione.
    L’Institute of international finance, l’associazione delle maggiori istituzioni finanziarie del pianeta con sede a Washington, afferma che nel 2023 la “bolla globale” del debito, quello pubblico, delle imprese e delle famiglie, con l’eccezione dei derivati finanziari, sarebbe aumentata di circa 15.000 miliardi di dollari portando il debito globale al livello di 310.000 miliardi! Un decennio fa era di 210.000 miliardi. Si tratta di un pericoloso trend mondiale.
    Non si tratta di un malessere ma di una febbre da cavallo le cui cause risiedono in decenni di politiche finanziarie errate. Gli effetti si manifestano di volta in volta in modi differenti o in settori diversi ma sono sempre il frutto avvelenato di una finanza speculativa che inquina tutti i settori dell’economia. Lo abbiamo visto nella grande crisi del 2008-9, mai affrontata veramente, nelle bancarotte bancarie, nella liquidità a “go go” dei quantitative easing, nelle politiche della Federal Reserve del tasso di interesse zero prima e dell’impennata dei tassi poi per rincorrere l‘inflazione.
    In questo quadro è stupefacente osservare che, mentre il debito e la liquidità crescono, hanno raggiunto i massimi storici anche l’oro, il bitcoin e Wall Street. L’oro ha superato i 2.000 dollari l’oncia, il bitcoin, la criptovaluta più conosciuta, è ritornato a valori impensabili, appena sotto i 70.000 dollari, con un aumento del 200% in 12 mesi, e S&P 500, il più importante indice azionario della borsa di Wall Street, ha sfondato ampiamente il punto massimo storico di 5.000 punti. Ovunque si guardi, i mercati azionari stanno battendo i record: l’indice europeo azionario STOXX 600 ha stabilito il proprio record intorno ai 500 punti e il Nikkei 225 giapponese ha superato il suo migliore valore precedente, fissato nel 1989.
    Questa euforia è provocata in particolare dall’effervescenza dei titoli legati alle imprese dell’intelligenza artificiale. Per esempio, il produttore di chip AI Nvidia ha registrato l’incredibile crescita dei ricavi del 265% nel quarto trimestre 2024, facendo salire più del 60% il prezzo delle sue azioni da inizio anno. In verità occorre cautela perché di troppa euforia si può morire! D’altronde è già successo negli anni novanta con la bolla dei titoli IT, information technology, che, dopo avere drogato il mercato di Wall Street portandolo in un paradiso artificiale, nei primi anni del 2000 un crac, noto come dot-com crash, lo fece sprofondare nei più bassi gironi dell’inferno.
    Molti negli Usa, a fronte dell’insostenibilità del debito propongono la riduzione dei deficit di bilancio, che significa tagli alla spesa pubblica. Sarebbe un giro di vite sul welfare, sulle spese sanitarie, sull’istruzione, sui trasporti, ecc., che andrebbe a colpire i livelli di vita della popolazione più povera e della cosiddetta middle class già depauperata. A Washington si stima che le entrate, che ammontano al 17,5% del Pil nel 2024, scenderanno al 17,1% nel 2025, per poi rimanere sotto il 18% fino al 2027.
    In sintesi di tutto si parla, tranne che mettere mano alla finanza dominante sfuggita ai controlli con il rischio che possa riverberare i suoi effetti negativi in tutto il mondo. Questa è una ragione di più per chiedere al G7 e al G20 di affrontare lo spinoso problema.

    Mario Lettieri, già sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista

  • Al servizio dei risparmiatori

    Il Patto Sociale si è già occupato, anche con un rilevante articolo del dottor Giuseppe Nenna, Presidente della Banca di Piacenza, dei gravi problemi dovuti alla desertificazione bancaria ma i dati elaborati dalla fondazione Fiba ci presentano un altro inquietante scenario.

    Secondo la Fondazione dal 2009 al 2022 nel settore bancario si sono persi più di 66.000 posti di lavoro al netto delle nuove assunzioni che sono state 38.000, non vi è stato perciò nessun ricambio generazionale ma una perdita secca di posti di lavoro con i conseguenti danni per tutti, clienti compresi.

    Le ristrutturazioni societarie, le fusioni ed acquisizioni sono servite alle banche ed ai loro soci, non certo ai dipendenti o ai clienti che hanno visto chiudere banche e filiali anche a causa della riforma delle banche popolari e di credito cooperativo.

    I primi cinque gruppi bancari controllano più del 50% del mercato ingenerando, ovviamente, una mancanza di reale concorrenza ed una distorsione del settore.

    La chiusura di tante filiali nei centri abitati, voluta dalle grandi banche, ci auguriamo possa dare maggior vigore a quelle medie che operano con un forte legame al territorio e che ancora credono, a ragione, nel rapporto diretto tra clienti e funzionari della banca. Per questo speriamo che siano proprio le banche “minori” ad occupare quella fascia di mercato, tremila comuni, che le grandi hanno abbandonato riportando, almeno una parte, del sistema bancario ad essere al servizio dei risparmiatori.

  • Crac di banche regionali Usa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 15 febbraio 2024

    Dopo il collasso di tre istituti di credito regionali statunitensi nel marzo scorso, il settore è di nuovo sotto stress. Infatti, in un solo giorno le azioni della New York Community Bank (Nycb) sono crollate del 38%, dopo aver riportato una perdita di 252 milioni di dollari nell’ultimo trimestre.

    Anche l’indice bancario regionale Kbw è sceso del 6%, il suo più grande calo giornaliero da maggio. Non sono crolli improvvisi e momentanei. Le perdite sono continuate, colpendo altre banche regionali, tra cui la Bank of California, la BankUnited con base in Florida, la Western Alliance Bank dell’Arizona, la Bank OZK dell’Arkansas e la Valley National Bank del New Jersey.

    È utile ricordare che in queste situazioni c’è sempre una certa speculazione che soffia sul fuoco. Si stima che chi ha scommesso sul crollo delle azioni delle banche regionali abbia registrato profitti per 685 milioni di dollari in un giorno! Perciò gli investitori e le autorità di regolamentazione sono di nuovo in allerta.

    Una delle cause sarebbe l’esposizione al mercato immobiliare commerciale che è da tempo in difficoltà. Ci sarebbero state delle grosse perdite sui prestiti immobiliari concessi. Le banche sono state e sono costrette ad accantonare cospicui fondi per coprire eventuali perdite.

    C’è anche una nefasta eredità lasciata dalla pandemia: il valore di molti immobili, infatti, sarebbe crollato poiché milioni di lavoratori sono ancorati al lavoro a distanza, lasciando gli uffici vacanti o sottoutilizzati. Ancora una volta, però, è soprattutto l’alto tasso d’interesse della Federal Reserve al 5,5% a mettere in difficoltà molte banche, colme di titoli Treasury in perdita, e a rendere difficile il pagamento dei prestiti accesi dagli investitori immobiliari. Anche la recente decisione del governatore Jerome Powell di non ritoccare al ribasso i tassi ha dato una spallata al mercato.

    Vi è poi la richiesta da parte della Federal deposit insurance corporation (Fdic) alle banche di riempire i suoi fondi svuotati per i salvataggi fatti la scorsa primavera. La Fdic è l’agenzia indipendente del governo Usa che garantisce i depositi fino a 250 mila dollari. Si stima che le banche regionali americane dovrebbero versarle almeno 500 milioni di dollari. Inoltre, per sopravvivere, molte banche regionali starebbero portando avanti numerose operazioni di fusione/acquisizione e ciò renderebbe il mercato più instabile, volatile.

    La crisi immobiliare americana sta mettendo, com’era prevedibile, in serie difficoltà anche alcune banche europee, canadesi e giapponesi esposte sul mercato immobiliare statunitense. Al riguardo, la banca privata svizzera, gestore patrimoniale, Julius Baer, ha registrato forti ribassi dei suoi profitti e altre banche maggiori, come la Deutsche Bank, hanno dovuto accantonare delle riserve extra per far fronte a eventuali perdite su investimenti immobiliari americani.

    Anche i salvataggi fatti lo scorso anno hanno lasciato dei buchi irrisolti. Ad esempio, la Nycb ha registrato delle difficoltà a seguito dell’acquisizione di prestiti per un valore di 13 miliardi di dollari dalla Signature Bank di New York, uno dei tre istituti di credito falliti lo scorso anno. Molte banche regionali lamentano rilevanti diminuzioni del loro cosiddetto net interest income (nii), che è la differenza tra quanto esse guadagnano sui prestiti concessi e gli interessi pagati sui depositi. Per riuscire a trattenere i depositi dei clienti in fuga e in cerca di compensi più alti, esse hanno dovuto alzare gli interessi offerti.

    In un recente discorso, Michael J. Hsu, presidente dell’Office of the Controller of the Currency (Occ), l’agenzia federale di vigilanza bancaria, ha analizzato le crisi bancarie del 2023 evidenziando tre grandi problematiche: la «fuga dei depositi» non assicurati è sempre più veloce; mantenere degli asset liquidi non è sufficiente in caso di grave stress; il contagio colpisce le grandi banche anche in mancanza di un loro rapporto diretto con quelle regionali in crisi. Si ricordi che nella Silicon Valley Bank, il cui fallimento è stato il secondo più grande della storia Usa, il 90% dei depositi non erano assicurati e, al sorgere della crisi, in precipitosa fuga.

    Hsu ha inoltre riportato che la Fdic evidenzia che i depositi non assicurati sono aumentati del 10% annuo, passando dai 2.300 miliardi di dollari del 2009 ai 7.700 miliardi del 2022. Molte più banche si basano su depositi non assicurati.

    Inoltre, le banche, che sono visionate dall’Occ, hanno 12.000 miliardi di dollari di depositi, il 40% dei quali, pari a 4.800 miliardi, è senza l’assicurazione della Fdic.

    In altre parole, il sistema bancario americano è seduto su una bomba a orologeria. In caso di stress o di crisi, i «run», cioè le fughe dei depositanti dalle banche, diventerebbero incontrollabili. Continuiamo a pensare che il G20 debba affrontare il tema di una riforma radicale del sistema che non riguarda soltanto gli Usa.

    * già sottosegretario all’Economia ** economista

  • Banche e territorio

    Non ha trovato molta eco sui media la notizia che ormai 3.000 comuni in Italia sono privi di uno sportello bancario.

    La chiusura di tante filiali sta creando molti disagi e difficoltà agli abitanti ed aumenta i problemi legati alla sicurezza per chi, per varie ragioni, ha bisogno di contante ed è costretto a ritirarlo in comuni diversi da quello nel quale abita.

    Specie per le persone più anziane o con disabilità questo disservizio diminuisce la loro libertà ed autonomia.

    E’ molto grave la chiusura di tante filiali, dopo che per anni si è presentato l’accorpamento di diversi istituti di credito come un grande progresso che avrebbe portato vantaggi agli utenti, maggiore sicurezza e trasparenza.

    In verità vi sono invece susseguiti diversi licenziamenti, molti disservizi, un sempre più evidente distacco tra i clienti e il personale delle grandi banche. Infatti mentre i costi sono aumentati per gli utenti sono sempre di più diminuiti i servizi, in pratica si paga per utilizzare una cassa automatica e diventa difficile qualunque operazione che necessità di un consiglio, di un aiuto o che esuli da quanto precedentemente predisposto dai sistemi della banca.

    Un esempio? All’UniCredit sostengono che è impossibile per un correntista ottenere un bancomat se non si ha un cellulare dal quale poter firmare il contratto!

    Sempre l’UniCredit a Milano, andrebbe verificato cosa accade in altre città, ha eliminato da quasi tutte le filiali lo sportello di cassa con le evidenti conseguenze negative per i clienti.

    La desertificazione bancaria, come l’ha definita un servizio televisivo, va di pari passo con la disumanizzazione del sistema bancario che si salva solo per alcuni istituti i quali, per la lungimiranza dei loro presidenti, hanno rifiutato gli accorpamenti ed hanno fatto diventare una forza il loro essere banche del territorio.

    Anche qui un esempio: la banca di Piacenza, che restando una banca legata strettamente alla città ed alla sua provincia, ha portato i suoi servizi anche in altri territori quali Milano, Modena e Pavia tenendo sempre fede alla necessità di tenere aperti gli sportelli anche in comuni piccoli.
    Si discute molto sulla necessità di dividere le carriere dei magistrati ma non si parla più, nonostante a suo tempo alcune forze politiche ora al governo avessero sollevato il problema, della urgenza di rendere più chiaro il sistema bancario distinguendo tra banche d’affari e banche di risparmio.

    I cittadini credono ancora, nonostante la comodità per certi aspetti dell’home banking, nelle banche che danno un servizio a tutto campo e creano un rapporto con i loro correntisti, inutile parlare, senza per altro concludere, di tassare i super profitti e ci si occupi invece di controllare che chi paga un servizio lo abbia effettivamente.

    Forse è anche il momento di chiedersi se tutti questi accorpamenti hanno giovato all’utente o solo ad un certo tipo di sistema bancario.

  • Zhongzhi Enterprise Group: China investigates major shadow bank for ‘crimes’

    Chinese officials have launched an investigation into one of the country’s biggest shadow banks, which has lent billions to real estate firms.

    Zhongzhi Enterprise Group (ZEG) has an asset management arm that at its peak reportedly handled more than a trillion yuan ($139bn; £110bn).

    Authorities said they are investigating “suspected illegal crimes” against the firm, in a statement on the weekend.

    This comes days after reports that ZEG had declared it was insolvent.

    The struggling firm reportedly told investors in a letter last week that its liabilities – up to $64bn – had outstripped its assets, now estimated at about $38bn.

    While authorities said they had taken “criminal coercive measures” against “many suspects” it’s still unclear who they are, and what role they play in the firm. The company’s founder, Xie Zhikun, died of a heart attack in 2021.

    ZEG is a major player in China’s shadow banking industry, a term for a system of lenders, brokers and other credit intermediaries who fall outside the realm of traditional regulated banking. Shadow banking, which is unregulated, is not subject to the same kinds of risk, liquidity and capital restrictions as traditional banks.

    China’s shadow banking industry is valued at around $3tn. It often provides a financial lifeline to the country’s property sector. The once-booming industry has been hit by a severe credit crunch, with some of the biggest firms now on the brink of financial collapse.

    “For several decades China been chasing this property bubble – and in order to create this bubble, or to fuel growth in China, they needed capital. So they started getting a lot of money from individual investors offering very, very high returns. And it worked for quite a while because the property prices were going up and it’s a win-win for everybody,” says Andrew Collier, a shadow banking expert at Orient Capital Research.

    Informal lending has always existed in China’s economy, but shadow banking really took off in the aftermath of the global financial crisis in 2008, when credit was scarce.

    Given China’s slowing economy and the crisis in the real estate sector, Mr Collier says the troubles at ZEG may just be the start of a bigger problem: “This is going to spread further into other forms of shadow banks and potentially into the actual real brick-and-mortar banks.”

    Embattled property developers currently owe Chinese banks money worth as much as 30% of the banks’ assets.

    “That is going to take a long time to unwind,” Mr Collier says.

    The latest developments at ZEG has raised concerns of further turmoil in the world’s second-largest economy, after the collapse of property developer Evergrande and more recently the financial woes at Country Garden.

    China’s property sector makes up a third of its economic output. That includes houses, rental and brokering services, as well as construction materials and industries producing goods that go into apartments.

    The latest figures show that China’s economy expanded by 4.9% in the three months between July and September. That is slower than the previous quarter, when the economy grew by 6.3%.

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