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Pechino prova a zittire gli uiguri all’Onu

Per prevenire verifiche a parte della comunità internazionale di abusi o violazioni da parte cinese nello Xinjiang verso la minoranza musulmana uiguri, Pechino ha cercato di impedire un forum promosso a margine dell’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. I diplomatici cinesi hanno inviato una lettera alle missioni internazionali all’Onu che è però stata rispedita al mittente dagli ambasciatori e da gruppi attivisti ai quali veniva rivolto l’invito a disertare il forum. Durante l’incontro Sophie Richardson, direttrice della sezione cinese di Human Rights Watch (Hrw), ha mostrato una copia della lettera pubblicata in esclusiva nei giorni scorsi dal National Review, stigmatizzandone il contenuto: un governo che agisce in questo modo, ha aggiunto, «non ha alcun diritto di far parte del Consiglio Onu per i diritti umani» e conferma che «ha molto da nascondere».

Anche Beth Van Schaack, attuale ambasciatrice Usa per la giustizia penale globale, ha definito la lettera della rappresentanza di Pechino (menzionata attraverso l’acronimo Prc del partito comunista) all’Onu «un altro esempio della campagna di repressione transnazionale» sugli uiguri. Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International, conferma che gli uiguri continuano a vedersi negate le libertà di movimento, di religione o di cultura, mentre aumentano i procedimenti giudiziari a loro carico, compreso il «trasferimento di detenuti dai cosiddetti centri di rieducazione o di formazione professionale a carceri penali più formali». Degli oltre 15mila residenti dello Xinjiang di cui si conoscono le sentenze, più del 95% dei condannati (spesso con accuse vaghe, come separatismo o messa in pericolo della sicurezza dello Stato) hanno ricevuto pene da 5 a 20 anni, e in alcuni casi anche il carcere a vita.

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