Cina

  • Zhongzhi Enterprise Group: China investigates major shadow bank for ‘crimes’

    Chinese officials have launched an investigation into one of the country’s biggest shadow banks, which has lent billions to real estate firms.

    Zhongzhi Enterprise Group (ZEG) has an asset management arm that at its peak reportedly handled more than a trillion yuan ($139bn; £110bn).

    Authorities said they are investigating “suspected illegal crimes” against the firm, in a statement on the weekend.

    This comes days after reports that ZEG had declared it was insolvent.

    The struggling firm reportedly told investors in a letter last week that its liabilities – up to $64bn – had outstripped its assets, now estimated at about $38bn.

    While authorities said they had taken “criminal coercive measures” against “many suspects” it’s still unclear who they are, and what role they play in the firm. The company’s founder, Xie Zhikun, died of a heart attack in 2021.

    ZEG is a major player in China’s shadow banking industry, a term for a system of lenders, brokers and other credit intermediaries who fall outside the realm of traditional regulated banking. Shadow banking, which is unregulated, is not subject to the same kinds of risk, liquidity and capital restrictions as traditional banks.

    China’s shadow banking industry is valued at around $3tn. It often provides a financial lifeline to the country’s property sector. The once-booming industry has been hit by a severe credit crunch, with some of the biggest firms now on the brink of financial collapse.

    “For several decades China been chasing this property bubble – and in order to create this bubble, or to fuel growth in China, they needed capital. So they started getting a lot of money from individual investors offering very, very high returns. And it worked for quite a while because the property prices were going up and it’s a win-win for everybody,” says Andrew Collier, a shadow banking expert at Orient Capital Research.

    Informal lending has always existed in China’s economy, but shadow banking really took off in the aftermath of the global financial crisis in 2008, when credit was scarce.

    Given China’s slowing economy and the crisis in the real estate sector, Mr Collier says the troubles at ZEG may just be the start of a bigger problem: “This is going to spread further into other forms of shadow banks and potentially into the actual real brick-and-mortar banks.”

    Embattled property developers currently owe Chinese banks money worth as much as 30% of the banks’ assets.

    “That is going to take a long time to unwind,” Mr Collier says.

    The latest developments at ZEG has raised concerns of further turmoil in the world’s second-largest economy, after the collapse of property developer Evergrande and more recently the financial woes at Country Garden.

    China’s property sector makes up a third of its economic output. That includes houses, rental and brokering services, as well as construction materials and industries producing goods that go into apartments.

    The latest figures show that China’s economy expanded by 4.9% in the three months between July and September. That is slower than the previous quarter, when the economy grew by 6.3%.

  • L’auto elettrica è un affare per la Cina e molto meno per l’ambiente

    L’auto elettrica è un gigantesco affare per la Cina, come emerge da un reportage dell’inchiesta che il giornalista del Financial Times ha condotto per dare alle stampa il volume «Il prezzo della sostenibilità».

    La Cina è oggi il principale esportare di auto elettriche del pianeta e produce il 75% delle batterie di litio che fanno funzionare tali vetture, ma questo primato è stato conseguito con scarsa attenzione verso l’ambiente, che è il vero propulsore delle vendite di auto elettriche, e non di rado anche verso i lavoratori.

    Zeng Yuqun, ha fondato Catl nel 2011 a Ningde, e 8 anni dopo ha creato la prima gigafactory di batterie in Germania, a Arnstadt, per garantire le forniture a Mercedes Benz e Bmw. Nel 2020 la Catl forniva le batterie a quasi tutti i produttori di auto elettriche compresa la Tesla, controllando con le sue partecipazioni i giacimenti di litio in Argentina e Australia, di nichel in Indonesia e di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. In questo modo la Cina puntava a diventare il primo fabbricante di auto elettriche nel mondo.

    Parallelamente, la Ganfeng di Xinyu nella Cina centrale è diventata il più grande produttore di idrossido di litio estratto in Australia (e poi in Argentina) e trattato in Cina (con poco scrupolo per l’ambiente). In Congo le ditta cinesi operano nell’estrazione del cobalto e alle scarse cautele ecologiche si affiancano condizioni di lavoro nelle miniere decisamente cattive.

  • Tutti gli occhi puntanti sulla Palestina. E mano libera per la Cina contro gli Uiguri

    La Cina, si sa, è il prossimo fronte su cui l’Occidente verrà sfidato dopo Ucraina e Israele. L’attenzione è tutta rivolta alla brame pechinesi verso Taiwan, ma – come verrà sottolineato a Ginevra il prossimo 30 novembre – già dal 2017 – un anno prima dell’ultima Revisione Periodica Universale (UPR) della Cina – il governo cinese ha intensificato la persecuzione di lunga data nei confronti dei membri della comunità etnica uigura, nonché dei kazaki, dei kirghisi e di altri gruppi a maggioranza musulmana e/o turca, usando il pretesto di combattere l’estremismo religioso e il terrorismo.

    Da allora numerosi esperti delle Nazioni Unite hanno documentato il ruolo del governo cinese nel commettere violazioni e abusi dei diritti umani nella regione uigura (denominata Regione autonoma uigura dello Xinjiang dal governo cinese). L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani ha stabilito in un rapporto storico che la portata della detenzione arbitraria e discriminatoria degli uiguri e dei membri di altri gruppi a maggioranza musulmana e/o turca può costituire crimini contro l’umanità e che permangono le condizioni per gravi le violazioni dei diritti umani continueranno. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù ha precedentemente avvertito che alcuni casi di lavoro forzato degli uiguri e dei membri di altre comunità di minoranze etniche potrebbero equivalere alla riduzione in schiavitù come crimine contro l’umanità. Inoltre, il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale ha deferito la situazione nella regione uigura all’Ufficio delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio e la responsabilità di proteggere.

    In assenza di discussioni formalmente obbligatorie sulla situazione dei diritti umani in Cina presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’imminente revisione dell’UPR della Cina nel gennaio 2024 rappresenta un’opportunità tempestiva e importante per rafforzare l’attenzione internazionale e discutere le azioni necessarie per prevenire ulteriori crimini contro l’umanità. Sebbene l’UPR sia un processo lungo e in genere non si traduca in un’azione immediata, è particolarmente utile per i paesi che già sperimentano atrocità, in quanto può fornire un forum per riflettere su diverse raccomandazioni per un’azione urgente, dare visibilità alle crisi in corso e confrontare le persone interessate. stato coinvolto nella perpetrazione di crimini atroci e far luce sulle sue azioni.

    Questo evento offrirà agli Stati membri delle Nazioni Unite l’opportunità di comprendere meglio la natura, la portata e il contesto delle atrocità in corso nella regione uigura e il valore aggiunto unico del processo UPR nell’affrontare la continua persecuzione guidata dallo Stato. La discussione metterà in luce come le informazioni e la documentazione esistenti provenienti da vari meccanismi e procedure delle Nazioni Unite possano essere utilizzate nell’UPR e negli sforzi successivi e complementari per mobilitare azioni di follow-up. Gli interventi di esperti daranno visibilità e visibilità al lavoro vitale della società civile nazionale e dei difensori dei diritti umani che documentano i crimini atroci commessi nella regione uigura.

  • Asian Games: China censors ‘Tiananmen’ image of athletes hugging

    A photo of two Chinese female athletes that made an inadvertent reference to the Tiananmen Square massacre has been censored on Chinese social media.

    The race numbers for Lin Yuwei and Wu Yanni form “64” – a common allusion to the incident which happened on June 4.

    Discussions of the incident remain taboo in China, with authorities routinely scrubbing any mention of the topic from the internet.

    In 1989, troops shot dead hundreds of pro-democracy protesters in Beijing.

    It remains unclear how many people actually died that day, but human rights groups’ estimates range from several hundred to several thousand killed.

    The athletes had embraced each other after a 100m hurdles race at the Asian Games in which Ms Lin won gold. She was wearing her lane number 6 next to Ms Wu’s lane number 4 in the photo.

    Users had posted their congratulations to Ms Lin on Weibo, one of China’s biggest social media platforms, but posts which included the photo were replaced with grey squares.

    However, the photo does not appear to have been completely scrubbed off the internet, with some Chinese news articles still showing a photo of the two athletes.

    China has won nearly 300 medals so far in the Asian Games, which are currently taking place in the Chinese city of Hangzhou. It is due to go on until 8 October.

    Discussion of the events that took place in Tiananmen Square is highly sensitive in China – with generations of younger Chinese growing up with little to no knowledge about the Tiananmen Square massacre.

    Posts relating to the massacres are regularly removed from the internet, which is tightly controlled by the government.

    Last year, a popular Chinese influencer’s livestream, which took place on the eve of the 33rd anniversary of the massacre, ended abruptly after he showed his audience a vanilla log cake which resembled a tank – a reference to a iconic image of one so-called Tank Man, which shows a civilian with shopping bags standing in front of a queue of tanks, attempting to block them.

  • Pechino prova a zittire gli uiguri all’Onu

    Per prevenire verifiche a parte della comunità internazionale di abusi o violazioni da parte cinese nello Xinjiang verso la minoranza musulmana uiguri, Pechino ha cercato di impedire un forum promosso a margine dell’annuale assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. I diplomatici cinesi hanno inviato una lettera alle missioni internazionali all’Onu che è però stata rispedita al mittente dagli ambasciatori e da gruppi attivisti ai quali veniva rivolto l’invito a disertare il forum. Durante l’incontro Sophie Richardson, direttrice della sezione cinese di Human Rights Watch (Hrw), ha mostrato una copia della lettera pubblicata in esclusiva nei giorni scorsi dal National Review, stigmatizzandone il contenuto: un governo che agisce in questo modo, ha aggiunto, «non ha alcun diritto di far parte del Consiglio Onu per i diritti umani» e conferma che «ha molto da nascondere».

    Anche Beth Van Schaack, attuale ambasciatrice Usa per la giustizia penale globale, ha definito la lettera della rappresentanza di Pechino (menzionata attraverso l’acronimo Prc del partito comunista) all’Onu «un altro esempio della campagna di repressione transnazionale» sugli uiguri. Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International, conferma che gli uiguri continuano a vedersi negate le libertà di movimento, di religione o di cultura, mentre aumentano i procedimenti giudiziari a loro carico, compreso il «trasferimento di detenuti dai cosiddetti centri di rieducazione o di formazione professionale a carceri penali più formali». Degli oltre 15mila residenti dello Xinjiang di cui si conoscono le sentenze, più del 95% dei condannati (spesso con accuse vaghe, come separatismo o messa in pericolo della sicurezza dello Stato) hanno ricevuto pene da 5 a 20 anni, e in alcuni casi anche il carcere a vita.

  • Secondo il “Washington Post” la Cina ha sfruttato la pandemia per raccogliere dati genetici a livello mondiale

    Le agenzie d’intelligence occidentali temono che la Cina abbia sfruttato la pandemia di Covid-19 per raccogliere una vasta mole di dati sul genoma umano a livello mondiale, da sfruttare per ottenere un vantaggio nella “corsa alle armi genetica” con gli Stati Uniti. Lo scrive il Washington Post, che ricorda come durante la pandemia Pechino abbia inviato aiuti a numerosi Paesi sotto forma dei sofisticati laboratori portatili di analisi genetica “Fire-Eye”. Il primo Paese a ricevere uno di questi laboratori, alla fine del 2021, fu la Serbia. Oltre a rilevare le infezioni da coronavirus tramite l’analisi di frammenti del virus, il laboratorio portatile sviluppato dalla Cina è in grado di svolgere complesse analisi del genoma umano, come vantato dai suoi sviluppatori: per questa ragione, l’arrivo di un esemplare del laboratorio Fire-Eye venne accolto con entusiasmo dalle autorità di Belgrado, che vantarono in quell’occasione di disporre “del più avanzato sistema di medicina e generica di precisione nella regione”.

    Nel corso della pandemia, Pechino ha donato o venduto laboratori analoghi a numerosi altri Paesi, e ora, secondo il WP, diversi analisti sospettano che la generosità della Cina sia parte di un tentativo di attingere a nuove fonti di dati genetici umani di alto valore in tutto il mondo. Si tratterebbe di uno sforzo intrapreso da Pechino da oltre un decennio ricorrendo a diversi metodi, che includerebbero anche l’acquisizione di società statunitensi del settore e una serie di operazioni di pirateria informatica. La pandemia avrebbe offerto ad aziende e istituti cinesi l’opportunità di distribuire strumenti per il sequenziamento del Dna umano in aree del Globo dove in precedenza Pechino aveva accesso limitato o nullo. I laboratori Fire-Eye si sono diffusi infatti in almeno quattro continenti e in più di 20 Paesi, inclusi Canada, Lituania, Arabia Saudita, Etiopia, Sudafrica e Australia. In diversi Paesi, come la già citata Serbia, i laboratori portatili si sono trasformati in centri di analisi genetica permanenti.

    Liu Pengyu, un portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, interpellato dal Washington Post ha negato categoricamente che Pechino possa aver avuto accesso ai dati genetici raccolti dai laboratori di sua produzione, evidenziando che oltre ad assistere i Paesi beneficiari nel contrasto alla pandemia, i laboratori donati e venduti dalla Cina stanno fornendo assistenza cruciale nello screening di altre malattie, incluso il tumore. L’azienda con sede a Shenzhen che produce i Fire-Eye, Bgi Group, sostiene di non avere accesso ai dati raccolti dai suoi laboratori portatili. Fonti statunitensi consultate dal quotidiano affermano però che Bgi sia stata selezionata da Pechino per edificare e gestire la China National GeneBank, un vasto archivio governativo dei dati genetici raccolti dalla Cina, che includerebbe già dati e profili genomici di milioni di individui di tutto il mondo. Lo scorso anno il Pentagono ha inserito Bgi nella lista delle “aziende militari cinesi” operanti negli Stati Uniti, e nel 2021 l’intelligence Usa ha stabilito che l’azienda sia legata allo sforzo globale del governo cinese teso a ottenere informazioni sul genoma umano a livello mondiale, anche negli Stati Uniti.

  • Nuovi sospetti sull’origine made by China del Covid

    Nel novembre del 2019, poche settimane prima che venissero accertati i primi casi di Covid-19 in Cina, tre ricercatori dell’Istituto di virologia di Wuhan si ammalarono di una patologia mai accertata. Lo indicano informazioni dell’intelligence statunitense che sono state pubblicate oggi dal quotidiano Wall Street Journal e che sembrano avvalorare la tesi della “fuga da laboratorio” all’origine del coronavirus, una teoria sposata nei mesi scorsi anche dal Federal Bureau of Investigation (Fbi) e dal dipartimento dell’Energia di Washington. Uno dei tre scienziati, identificato come Ben Hu, lavorava su un progetto finanziato dal governo Usa e volto proprio a studiare gli effetti dei coronavirus sugli umani. Secondo l’intelligence statunitense, i sintomi mostrati dal ricercatore nel novembre del 2019 sono compatibili sia con quello che successivamente sarebbe stato chiamato Covid-19 che con un’influenza stagionale. Nessuno dei ricercatori, comunque, è deceduto a causa della malattia. A tre anni di distanza, dopo che la pandemia ha mietuto quasi sette milioni di vittime in tutto il mondo, l’origine del virus è ancora oggetto di dibattito. L’ipotesi iniziale, quella del salto di specie, non è mai stata confermata, e la comunità scientifica internazionale resta ancora divisa sul tema. Lo scorso anno, contribuendo ad alimentare ulteriormente le tensioni con la Cina, l’Fbi ha determinato “con un moderato grado di fiducia” che all’origine del virus potrebbe esserci una fuga da laboratorio avvenuta proprio all’Istituto di virologia di Wuhan. Successivamente il dipartimento dell’Energia è giunto a una simile conclusione.

    Quattro altre agenzie d’intelligence Usa, invece, ritengono più probabile che l’origine del virus sia naturale. La Cia non si è mai espressa. Secondo il Wall Street Journal, la comunità d’intelligence statunitense dovrebbe però desecretare proprio nei prossimi giorni nuove informazioni riguardanti il dossier, forse contenenti anche dettagli sui ricercatori ammalatisi nel novembre del 2019. Stando alle informazioni già in possesso del quotidiano, gli altri due scienziati sarebbero Yu Ping e Yan Zhu, il primo autore proprio quell’anno di una tesi sul coronavirus dei pipistrelli. Il nome più importante resta tuttavia quello di Hu, che secondo le fonti ebbe un ruolo centrale nelle ricerche sul coronavirus a Wuhan, alcune di queste finanziate proprio dagli Stati Uniti. Hu era anche uno stretto collaboratore di Shi Zhengli, esperta tra le più note in materia di coronavirus. Il primo caso ufficiale di Covid-19 fu confermato nella stessa Wuhan l’8 dicembre. La Cina ha sempre respinto l’ipotesi che il Covid-19 sia stato il risultato di una fuga di laboratorio e nel corso degli anni ha anche messo in dubbio che la pandemia abbia avuto origine a Wuhan. “Il vero ostacolo per lo studio delle origini del Covid è la manipolazione politica degli Stati Uniti”, ha dichiarato lo scorso marzo il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin.

  • Il Congresso mondiale degli uiguri chiede all’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani di intraprendere azioni concrete per fermare il genocidio

    Il 1° settembre ricorre il primo anniversario dello storico rapporto sugli uiguri stilato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR). Il rapporto conclude che le atrocità e le violazioni dei diritti umani in corso nel Turkistan orientale, in particolare la “detenzione arbitraria e discriminatoria” degli uiguri e di altri popoli turchi, nel contesto di altre restrizioni “potrebbero equivalere a crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità”.

    Ad oggi il rapporto offre la valutazione più definitiva dei problemi affrontati dagli uiguri e da altri popoli turchi. Nonostante le ampie raccomandazioni al governo cinese, non sono stati riconosciuti miglioramenti per affrontare la situazione, al contrario le misure repressive sono peggiorate.

    “Un anno dopo questo rapporto innovativo, chiediamo una rinnovata azione da parte della comunità internazionale. La Cina ha continuato la sua violenta repressione nei confronti degli uiguri e degli altri popoli musulmani turcofoni e la recente visita di Xi Jinping nel Turkistan orientale dimostra che il PCC non ha intenzione di porre fine alle sue politiche repressive, ma piuttosto raddoppia il piano sistematico per cancellare gli uiguri”, ha affermato Il presidente del Congresso mondiale uiguro, Dolkun Isa.

    Il Congresso mondiale uiguro chiede all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, di dare seguito alle raccomandazioni contenute nel rapporto del suo ufficio, di informare il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla situazione attuale nel Turkistan orientale e di individuare un modo costruttivo per porre rimedio alle persistenti lamentele degli uiguri.

  • L’immobiliare cinese Ebergrande bussa a New York per ridurre i debiti da saldare

    Il colosso immobiliare cinese Evergrande ha avviato a New York la procedura per la ristrutturazione del debito offshore e non comporta un’istanza di fallimento, come lo stesso gruppo ha comunicato attraverso  una nota alla Borsa di Hong Kong.

    Gravata da debiti per oltre 300 miliardi di dollari, la società ha chiesto al tribunale di Manhattan la ristrutturazione di 19 miliardi di dollari di debito estero, sulla base del capitolo 15 del codice fallimentare degli Usa, che protegge le società non statunitensi in fase di ristrutturazione dai creditori intenzionati a promuovere azioni legali.

    Evergrande sta negoziando da quasi due anni con i propri creditori dopo essere risultato inadempiente sul pagamento del debito nel 2021 a causa di una crisi di liquidità. Il default ha avuto inevitabili ripercussioni sull’intero settore immobiliare cinese, che rappresenta poco meno di un terzo del prodotto interno lordo nazionale.

    Negli ultimi mesi non sono mancati momenti di tensione durante le trattative tra Evergrande e i creditori stranieri, in particolare quando nel marzo dello scorso anno la compagnia ha annunciato il sequestro di 2 miliardi di dollari di beni da parte di banche cinesi che avrebbero dovuto restare a disposizione degli obbligazionisti esteri.

    Alcuni creditori, inoltre, hanno contestato la permanenza alla guida del gruppo del presidente Hui Ka Yan.

  • Il quadro ormai è chiaro

    Alle soglie di una  una nuova recessione economica ecco gli effetti disastrosi della politica economica e strategica italiana ed europea  portata avanti con cecità ideologica (https://www.ilpattosociale.it/europa/lunione-europea-ormai-e-una-zona-franca/).

    Il nostro Paese come l’intera Unione Europea in questi anni passa da una dipendenza verso i paesi produttori di petrolio (Opec), il cui unico obiettivo era quello di accumulare ricchezze, ad una di carattere non solo energetico ma soprattutto politico.

    La  totale genuflessione energetica e di interi settori industriali di fatto pone le basi di una vera e propria dipendenza verso una superpotenza (Cina) la quale dimostra strategie espansive dominanti sia politiche che strategiche ed ovviamente economiche molto invasive e preoccupanti per la nostra democrazia.

    Mentre negli anni Settanta la contrapposizione tra i due blocchi politici, quello occidentale e il socialista, era rappresentata dal  muro di Berlino, ora abbiamo fagocitato all’interno delle nostre istituzioni i nemici del nostro stesso sistema economico e politico.

    Questi  hanno assunto le sembianze dei presunti ambientalisti ma, sottoposti ad  una metamorfosi kafkiana, si sono trasformati da soggetti politici ad agenti di distruzione del nostro sistema politico, economico e sociale.

    La dipendenza della nostra economia da un sistema totalitario come la Cina rappresenta il loro vero  obiettivo politico, ottenuto attraverso l’imposizione ambientalista di una ideologia talebana.

    Una strategia che ha assunto i requisiti squisitamente politici a discapito dei veri  valori ambientalisti per i quali tutte le persone nutrono la massima attenzione.

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