Cina

  • Secondo gli 007 olandesi la Cina è una minaccia cibernetica più grave della Russia

    La Cina rappresenta una minaccia cibernetica più grave della Russia per l’Europa. Lo ha affermato il viceammiraglio Peter Reesink, direttore del servizio di intelligence militare olandese (Mivd), in un’intervista concessa all’edizione europea di “Politico”, sottolineando la necessità per i Paesi europei di non distogliere l’attenzione da Pechino nonostante il conflitto in corso in Ucraina. “Il sistema cibernetico cinese è molto complesso e organizzato. Non siamo in grado di comprenderne pienamente la portata. Direi che è più minaccioso di quello russo”, ha dichiarato Reesink. Il rapporto annuale del Mivd pubblicato lo scorso mese ha messo in evidenza i legami sempre più stretti tra Russia e Cina sul piano geopolitico, economico e militare, così come i rischi crescenti che queste due potenze pongono per la sicurezza europea. La Cina, secondo l’intelligence olandese, ha preso di mira almeno dieci Paesi europei con operazioni cibernetiche, sulla scia di attacchi rilevati negli Stati Uniti contro fornitori di telecomunicazioni.

    Quanto alla Russia, il Mivd ha rilevato cyberattacchi volti a ostacolare le elezioni europee, con incursioni contro siti di partiti politici e sistemi di trasporto pubblici nei Paesi Bassi. Reesink ha aggiunto che simili operazioni russe sono state rilevate anche in altri Paesi europei, soprattutto quelli dell’ex sfera d’influenza sovietica. Reesink ha inoltre espresso forte preoccupazione per il crescente potenziale militare russo. Secondo i dati dell’Istituto internazionale di ricerche sulla Pace di Stoccolma, la spesa per la difesa russa nel 2024 ha raggiunto i 149 miliardi di dollari, in aumento del 38 per cento rispetto al 2023. La Russia sta producendo più artiglieria di quanto ne necessiti per la guerra in Ucraina, e sta spostando unità verso i confini con i Paesi baltici e la Finlandia. Anche se l’Mivd non prevede a breve un nuovo conflitto lanciato da Mosca, Reesink avverte che la Russia potrebbe essere pronta entro un anno da un eventuale cessate il fuoco con Kiev.

    Il direttore dell’intelligence militare olandese ha anche parlato delle implicazioni del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, definendolo una “chiamata al risveglio” per i servizi di sicurezza europei. Trump, ha osservato, ha preso il controllo delle agenzie di intelligence statunitensi nominando fedelissimi e riducendo fondi, il che potrebbe minare l’affidabilità del partenariato informativo. “Non possiamo chiudere gli occhi”, ha detto Reesink, aggiungendo che l’Europa potrebbe dover rivalutare i livelli di condivisione delle informazioni con Washington se dovessero emergere segnali politici preoccupanti. Tuttavia, Reesink ha sottolineato che la cooperazione operativa quotidiana tra le agenzie rimane solida e reciproca. “Per la prima volta, durante un recente incontro a Bruxelles, erano presenti tutti i direttori delle agenzie di intelligence civili e militari europee. C’è una nuova consapevolezza: dobbiamo fare di più per conto nostro”, ha concluso il direttore dell’Mivd.

  • Donato Barack Obama alla Casa Bianca, ora il Kenya dona tutto il resto alla Cina

    Innalzare le relazioni bilaterali ad un “nuovo livello”, con l’obiettivo di creare una comunità Cina-Africa “adatta a tutte le turbolenze” di fronte al “caos” internazionale. È questa l’ambizione riaffermata dal presidente cinese Xi Jinping e dall’omologo keniota William Ruto in occasione del loro incontro avvenuto a Pechino, durante una visita di Stato di cinque giorni del leader keniota, la prima in Cina dal suo insediamento tre anni fa. Una visita che sancisce il rafforzamento dei legami strategici ed economici tra i due Paesi, in un momento in cui sia Pechino che Nairobi stanno cercando di rivedere le loro alleanze di fronte alla minaccia della guerra commerciale scatenata dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

    L’incontro tra Xi e Ruto ha inoltre costituito l’occasione per stipulare 20 accordi di cooperazione incentrati sui progetti legati alla Nuova via della seta e sui settori alta tecnologia, cultura, media, economia e commercio. Nella loro dichiarazione congiunta diffusa al termine dell’incontro, entrambi i leader hanno affermato di essere “impegnati a infondere maggiore stabilità nel mondo con la certezza della solidarietà e della cooperazione tra Cina e Africa”, allo scopo di salvaguardare gli “interessi comuni dei Paesi in via di sviluppo” e di difendere il sistema multilaterale, attraverso una “globalizzazione economica inclusiva”.

    I due leader hanno ribadito la volontà di mantenere fitti scambi al vertice, di consolidare la cooperazione a tutti i livelli, di “sostenersi fermamente a vicenda” su questioni che riguardano i rispettivi interessi e di “opporsi con decisione alle ingerenze e alle pressioni esterne” e hanno convenuto di rafforzare la cooperazione in vari ambiti – infrastrutture, commercio, digitalizzazione, salute, istruzione, finanza ed economia verde – e di incentivare un ulteriore allineamento della Nuova via della seta (Belt and road initiative, Bri) cinese alla Vision 2030 del Kenya.

    Pechino e Nairobi si sono dette pronte ad approfondire ulteriormente gli scambi anche nel campo della sicurezza, con particolare attenzione alla lotta al terrorismo, al narcotraffico e ai crimini transnazionali. “Le parti – recita la nota congiunta – negozieranno attivamente e firmeranno un memorandum d’intesa sulla cooperazione tra le rispettive forze dell’ordine, stabiliranno meccanismi di collaborazione” e “rafforzeranno gli scambi in settori quali la formazione del personale, l’industria e il commercio correlati alla difesa, la lotta al terrorismo, le esercitazioni e l’addestramento congiunti”.

    A livello multilaterale, Cina e Kenya sostengono “la riforma necessaria e il rafforzamento delle istituzioni delle Nazioni Unite, incluso il Consiglio di sicurezza”, per aumentare la rappresentanza dell’Africa e degli altri Paesi in via di sviluppo. “In risposta ad una situazione internazionale di caos e cambiamenti interconnessi, è necessario promuovere una governance globale basata sulla consultazione, sulla costruzione congiunta e sulla condivisione, plasmare un ordine internazionale più giusto e ragionevole, abbandonare risolutamente la legge della giungla e opporsi all’egemonia, alla politica di potenza e a tutte le forme di unilateralismo e protezionismo”, sottolinea il documento.

    Relativamente alla situazione africana, sia Pechino che Nairobi “invitano la comunità internazionale a sostenere gli sforzi dei Paesi del continente e di organizzazioni regionali come l’Unione africana per risolvere autonomamente i problemi africani in modo africano. La Cina sostiene fermamente l’Unione africana nella promozione dell’unità tra i Paesi del continente, nella risposta attiva alle problematiche connesse alla sicurezza regionale e nella mediazione di conflitti e controversie regionali”. I colloqui tra Xi e Ruto, conclude la nota, si sono svolti in “un’atmosfera franca e cordiale”, che ha incentivato un “approfondito scambio di opinioni sulle relazioni bilaterali, sui rapporti Cina-Africa nel quadro della nuova situazione (internazionale), così come su questioni internazionali e regionali di comune interesse”. La visita del presidente keniota viene definita nel documento “un completo successo”.

    Parlando al termine dell’incontro, il presidente cinese Xi Jinping ha dichiarato che la Cina è pronta a lavorare con il Kenya per favorire lo sviluppo delle relazioni di Pechino con il continente e a rafforzare la solidarietà e la cooperazione nel Sud globale. “Cina e Kenya dovrebbero continuare a sostenersi fermamente a vicenda nella salvaguardia della sovranità nazionale, della sicurezza e degli interessi di sviluppo, sostenersi fermamente a vicenda nell’esplorazione di percorsi di sviluppo adatti alle loro condizioni nazionali, approfondire gli scambi di esperienze nella governance statale e divenire compagni di viaggio e veri amici sulla strada della modernizzazione”, ha detto Xi.

    Oltre ad aprire ad un aumento delle importazioni di prodotti kenioti di alta qualità, la Cina punta a collaborare con Nairobi per mantenere una regolare comunicazione a livello politico, promuovere la connettività e il commercio sostenibile, esplorare flussi finanziari diversificati e contribuire al rafforzamento della Nuova via della seta. La Cina, ha aggiunto Xi, “non causa problemi, ma non ne ha paura” ed è pronta a collaborare con altri Paesi per rispondere alle problematiche nel panorama internazionale. Alludendo alla politica daziaria del presidente statunitense Donald Trump, Xi ha detto che “non ci sono vincitori nelle guerre commerciali e tariffarie”, e ha sottolineato la propensione di Pechino a “collaborare con altri Paesi del mondo per rispondere alle diverse problematiche attraverso l’unità e la cooperazione, salvaguardando i propri diritti e interessi legittimi, le regole del commercio internazionale e l’equità e la giustizia internazionali”.

    Il presidente Ruto, da parte sua, si è detto convinto che l’attuale guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina potrebbe sancire la fine del vecchio ordine mondiale, attesa da tempo. Parlando nel corso di una conferenza pubblica tenuta presso l’Università di Pechino, Ruto ha aggiunto che un nuovo sistema commerciale mondiale dovrebbe tenere conto delle attuali realtà di una struttura economica globale ingiusta guidata dalle potenze occidentali, in cui le nazioni sottosviluppate, comprese quelle africane, sono svantaggiate. “L’architettura finanziaria e di sicurezza nata dalle ceneri di quel conflitto ha ampiamente favorito il Nord del mondo a spese del Sud del mondo, con l’esclusione di tutti gli altri”, ha lamentato Ruto, che ha partecipato a una tavola rotonda tra investitori di Kenya e Cina, durante la quale sono stati siglati sette accordi con aziende cinesi allo scopo di investire in nuovi progetti di sviluppo nella più grande economia dell’Africa orientale. Il leader keniota ha inoltre esortato sia Nairobi che Pechino a intensificare la loro campagna per promuovere la causa del Sud del mondo sulla scena internazionale, insistendo sulla riforma delle istituzioni globali “per renderle più rappresentative ed efficienti”. Ruto ha quindi descritto le aziende cinesi come la forza trainante della crescita economica del Kenya nel corso degli anni attraverso gli investimenti.

    Tra gli accordi firmati alla presenza dei due leader, degni di nota sono il memorandum d’intesa sull’economia blu, la pesca e gli affari marittimi, che allinea il Kenya all’accordo dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) sui sussidi alla pesca, e il protocollo d’intesa sulla cooperazione scientifica e tecnologica per promuovere partnership nella ricerca, nell’innovazione e nei progressi tecnologici. Il fulcro della cooperazione tra Pechino e Nairobi è però il settore delle infrastrutture, con il Kenya che beneficerà di progetti chiave nell’ambito della Nuova Via della Seta (Bri). Tra questi rientrano l’estensione delle fasi 2B e 2C della ferrovia a scartamento standard (Sgr), il raddoppio dell’autostrada Rironi-Mau Summit e 15 strade rurali finanziate dalla Banca di sviluppo cinese (Cdb). Sono inclusi anche i finanziamenti per il raddoppio della tangenziale nord, il raddoppio della Kiambu Road alla tangenziale nord, la costruzione del ponte Nithi, il finanziamento del sistema intelligente di gestione del traffico (Itms) e l’ampliamento delle strade cittadine di Eldoret. Inoltre, un accordo sulle leggi ferroviarie, sulle infrastrutture, sugli standard operativi e sul trasporto multimodale getta le basi per una moderna rete ferroviaria che collega persone e mercati in tutta la regione. È incluso anche un accordo quadro per la fase III del sistema di trasporto intelligente di Nairobi e per il miglioramento degli incroci cittadini, per contribuire a ridurre la congestione del traffico e migliorare la mobilità urbana. Da segnalare infine accordi nei settori della sanità, delle risorse idriche, dell’istruzione professionale, della cooperazione culturale, dello scambio e la diffusione di notizie, della formazione, del commercio elettronico, della produzione sostenibile, dell’agroalimentare, della sostenibilità ambientale, del cyberspazio, dell’intelligenza artificiale, delle procedure di immigrazione e sui visti e della prevenzione della tratta di esseri umani.

    Quello in corso è il terzo viaggio che il presidente Ruto effettua in Cina dal suo insediamento, avvenuto nel settembre 2022, ma si tratta della prima visita di Stato in assoluto che compie a Pechino. In precedenza il leader keniota aveva infatti partecipato al Terzo Forum sulla Via della Seta, nell’ottobre 2023, e al Forum sulla cooperazione Cina-Africa, nel settembre 2024. Una visita, quella di Ruto, che avviene sulla scia dei dazi del 10% applicati dal presidente statunitense Donald Trump su tutte le esportazioni keniote verso gli Stati Uniti, che hanno accelerato il tentativo da parte di Nairobi di diversificare i propri partner commerciali. Tra questi, la Cina riveste un interesse fondamentale, dal momento che Pechino occupa attualmente il primo posto nella lista. Secondo l’Amministrazione generale delle dogane (Adg) di Pechino, nei primi tre mesi dell’anno gli scambi di merci tra i due Paesi sono aumentati dell’11,9% su base annua, raggiungendo i 16,13 miliardi di yuan (circa 2,24 miliardi di dollari), segnando il sesto trimestre consecutivo di crescita. Secondo i dati doganali, nello stesso periodo le esportazioni cinesi verso il Kenya hanno registrato un aumento annuo dell’11,8%, mentre le importazioni dal Kenya sono aumentate del 13,2%.

    Il Kenya è un Paese chiave della Bri, l’ambizioso piano che mira a collegare Africa, Asia ed Europa attraverso imponenti progetti infrastrutturali ed energetici. La Cina ha già finanziato miliardi di dollari per la costruzione di strade, porti e una ferrovia keniota che collega la città costiera di Mombasa alla capitale Nairobi. Cina e Kenya hanno ampliato notevolmente la cooperazione in diversi settori sin dall’instaurazione delle relazioni diplomatiche, avvenuta più di sessant’anni fa. Nel 2017, i loro legami sono diventati un partenariato strategico di cooperazione globale. Oggi la Cina è il principale partner commerciale del Kenya e la principale fonte delle sue importazioni, mentre il Kenya è il principale partner commerciale della Cina nell’Africa orientale. All’inizio della sua presidenza Ruto aveva privilegiato i legami con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti, rispetto alla Cina, venendo ricevuto alla Casa Bianca nel maggio 2024 dall’allora presidente Joe Biden, che in quell’occasione annunciò il conferimento al Kenya dello status di “alleato primario non membro della Nato”, assegnato ai Paesi che hanno una cooperazione militare privilegiata con gli Usa, pur non partecipando ad alleanze come la Nato. Tuttavia, dopo l’entrata in carica di Donald Trump, i dazi statunitensi e la riduzione degli aiuti Usa hanno spinto Nairobi a cercare nuovi mercati e investimenti da Pechino.

  • Variabili innumerevoli e imprevedibili

    Chi pensa di poter spiegare il comportamento di Trump definendolo un “pazzo”, criticandolo per la sua apparente impreparazione alla politica internazionale o accusandolo di essere “ondivago” nelle sue decisioni annunciate e poi modificate in poco tempo è del tutto fuori strada. Dimentica, chi lo fa, che Trump non ragiona come siamo abituati a veder fare dai politici ma è, e resta, un uomo d’affari (seppur con i fallimenti alle spalle) e ogni suo comportamento lo denota. Già nel suo primo mandato usò spesso i dazi come uno strumento per le negoziazioni e li modificò o li annullò a seconda delle convenienze. Per ottenere ciò che vuole alza continuamente la posta, finge di dimostrarsi disponibile a negoziare e poi rilancia. Il suo obiettivo è “spiazzare” gli interlocutori, disorientarli e poi, poiché parte dal presupposto di avere in mano le carte più forti vuole ottenere il massimo risultato possibile. I suoi modi sono quelli di un bullo ignorante e prepotente, ma anche mostrarsi così gli fa gioco. Col sembrare irragionevole e imprevedibile lui crede (e forse ha ragione) di obbligare gli altri sulla difensiva e di renderli più disponibili ad evitare il peggio per loro.

    Se con la sua tattica sembra fare passi in avanti e altri indietro, la sua strategia è abbastanza chiara e lui sa bene ciò a cui mira. Il suo (e il nostro) problema è che nella vita degli uomini e delle società umane le variabili sono sempre infinite e nemmeno il piano più elaborato e, sperabilmente, lungimirante offre tutte le garanzie di successo. Bastano, spesso, fatti imprevisti e non voluti a modificare ogni risultato auspicato. Negli scacchi le variabili sono tutte calcolabili e l’avversario è uno. In politica, e soprattutto nella politica internazionale, gli amici possono diventare nemici (e viceversa) e ogni piccolo sassolino può trasformarsi in valanga. Uno degli eventi che probabilmente non aveva previsto e che lo ha costretto a parzialmente correggersi strada facendo è stato il crollo di valore dei titoli del tesoro americani. È facile immaginare che rientrasse nei suoi piani il “periodo di grazia” riguardante i dazi doganali ma, forse, è stato costretto ad anticipare i tempi.

    Trump ha abbandonato le giustificazioni ideologiche dei suoi predecessori ma l’obiettivo, e cioè uno sguardo americano-centrico sul mondo, è rimasto lo stesso. Gli USA hanno sempre usato il classico liberismo e l’idea della democrazia come fondamenti ideologici utili ad espandere la loro influenza. È cambiato, tuttavia, il contorno: con l’emergere di nuove potenze economiche e politiche è definitivamente finito il progetto di un mondo unipolare con a capo gli Stati Uniti. Attualmente, l’America di Trump non è più interessata a propagandare la globalizzazione, l’autorità morale o risolvere i problemi del mondo. L’”America First” si focalizza sull’interesse nazionale aperto a trattative pragmatiche basate sull’interesse reciproco. Con realismo, ora cerca soltanto di ottenere il massimo beneficio da ogni interazione nell’economia, nella sicurezza, nella politica. Se trova ostacoli nel negoziare questi benefici è pronto a usare la forza, sia essa economica o politica, ben conscio di essere tuttora il Paese del mondo più ricco economicamente e più possente militarmente. Nei limiti del possibile Trump cercherà di evitare una qualunque guerra poiché la trova controproduttiva e distruttiva, ma ciò non significa che escluderà del tutto e per sempre anche questa opzione, almeno come minaccia.

    I suoi obiettivi economici sono di ridurre il debito pubblico e di rilanciare le capacità manifatturiere degli Stati Uniti andate diluendosi nel mondo globalizzato, quello da loro stessi costruito nel passato. Per ottenere questi risultati deve riuscire a modificare la bilancia commerciale oggi fortemente sfavorevole e i dazi sono un importante strumento di pressione. Chi attualmente vanta un saldo positivo verso gli Stati Uniti dovrà accettare di riequilibrare l’interscambio o ne pagherà le conseguenze. Naturalmente il livello delle tariffe doganali sarà tale da garantire l’equilibrio che Trump considera ottimale. Parallelamente, punterà a indebolire il dollaro, seppur con cautela, per rendere più costose le importazioni e più convenienti le esportazioni.

    Per quanto riguarda la sicurezza Trump è ben conscio che, paradossalmente, il bipolarismo precedente alla caduta dell’Unione Sovietica garantiva la pace molto di più dell’attuale semi-anarchia mondiale. Il punto d’arrivo cui mira ora potrebbe essere una nuova “Yalta” ma, per arrivarci da una posizione di forza, pensa di dover aver più carte in mano, in modo da poter dettare una buona parte delle future condizioni agli altri soggetti che si siederanno al tavolo. Rientra in questo calcolo la volontà di riprendere il controllo sulle principali vie di comunicazione (vedi Panama) e, conscio del ruolo futuro che giocherà l’Artico, poter mettere le mani sulla Groenlandia. Contemporaneamente, vuole garantirsi i confini a nord (Canada) e a sud (Messico) anche per controllare sia i commerci che le immigrazioni abusive. Non si creda che questa sua politica sia del tutto nuova: già nel 1867 Andrew Johnson comperò l’Alaska e avanzò l’ipotesi di farlo anche con la Groenlandia, così come nel 1803 la Louisiana fu comprata dalla Francia. Nel 1895 Grover Cleveland intervenne nella disputa di confini tra il Venezuela e la Guaiana sulla base della dottrina Monroe che dal 1890 aveva stabilito che tutto l’emisfero Occidentale fosse una “riserva” degli USA. Il segretario di Stato Richard Olney lo espresse in modo molto chiaro “Gli Stati Uniti sono praticamente sovrani su questo continente e il loro fiat è legge verso i soggetti cui si indirizzano”. Nel 1903 Theodor Roosevelt intervenne per garantire la secessione di Panama dalla Colombia in modo da garantirsi l’esclusività per la costruzione dell’istmo. Perfino Woodrow Wilson non rinunciò a intromettersi sulla sovranità altrui e nel 1915 mandò i marines a Haiti “per ristabilire l’ordine”, mentre nel 1916 inviò le truppe in Messico per catturare il “ribelle” Pancho Villa.  Si conoscono poi i numerosi interventi “intromissivi” americani in Guatemala, nella Repubblica Domenicana, in Cile, in El Salvador, in Nicaragua e a Grenada. La prima proposta alla Danimarca per la Groenlandia appartiene a Harry Truman che offrì ben 100 milioni in oro nel 1946. L’atteggiamento assertivo e prepotente di Trump è quindi una conferma della norma piuttosto che una rottura della tradizione.

    Oggi, a differenza dei recenti Presidenti che lo avevano preceduto, Trump ha capito essere soltanto la Cina, e non la Russia, il vero competitor del potere mondiale degli USA e quindi sta puntando ad un accordo diretto con Mosca non perché, come pensano alcuni superficiali, pensi di poter staccare la Russia dalla Cina, bensì perché attraverso l’accordo di Mosca si creino le premesse per la Yalta definitiva a cui punta.

    Evidentemente, in questa partita l’Europa non è che soltanto un piccolo pedone sia dal punto di vista politico sia militare e ci sarebbe da stupirsi del contrario, visto la incapacità di noi europei, dal dopoguerra ad oggi, di saper diventare un vero soggetto politico. Viene da sorridere sentire chi parla di una “difesa europea” che sarebbe sensata e possibile soltanto se l’Europa fosse capace (ma come potrebbe farlo con i politici che ci troviamo attualmente?) di trasformarsi in una Federazione di Stati. Chi farnetica di una “difesa” costruita esattamente come è la Nato dimentica che quest’ultima ha funzionato sempre e soltanto avendo un “capo in testa” che imponeva l’unanimità. Dovremmo noi oggi riconoscere questo ruolo ai francesi e/o ai britannici come auspicano Macron e Starmer? Dio ce ne scampi! Decisioni con il voto di maggioranza? Si potrebbe fare, come già avviene, per gli aspetti marginali ma non quando si tratta di politica estera o di difesa. Non è possibile nemmeno immaginare una Federazione europea composta da 27 Stati, magari addirittura con l’aggiunta della disastrata e disgraziata Ucraina! A parte che alcuni, vedi Polonia e i Baltici ad esempio, stanno già più con gli USA che con Bruxelles (salvo da quest’ultima incassare i generosi benefici economici), una futura, possibile e democratica Federazione dovrà partire dai Paesi che più pesano: Francia, Italia, Germania, Spagna, cui potranno eventualmente aggiungersi altri volenterosi con politici lungimiranti. È scontato che dell’Europa attuale Trump non se curi, salvo chiederle (imporle?) di pareggiare la bilancia commerciale e comprare più armi e prodotti agricoli geneticamente modificati (ogm).

    Nel suo intento di arrivare ad un primo accordo con la Russia è ben chiaro al tycoon che Mosca non arretrerà di un millimetro dai motivi che l’hanno spinta ad entrare in guerra. Tuttavia, visto che quelle in Ucraina è sempre stata una guerra per procura, accettare pari pari le condizioni russe significherebbe riconoscere la sconfitta degli Stati Uniti sul campo di battaglia ed è per evitare l’immagine negativa che ne scaturirebbe che Trump ha preso platealmente le distanze da Zelensky e chiede a Kiev di rimborsare, in qualche modo, gli aiuti ricevuti da Washington. In altre parole, deve disconoscere la paternità americana della situazione e porsi solo come terza parte. In più, in una ipotetica pace imporrà all’Ucraina di consentire a società americane di giocare la parte del leone nella futura ricostruzione. Con buona pace degli illusi europei. Un accordo con Putin, se le condizioni di Mosca saranno accettate, è possibilissimo e questo aprirà nel futuro non molto lontano (e proprio con l’intermediazione di Mosca) l’apertura di un tavolo economico-politico con Pechino. A quel tavolo dovranno poter sedere tutti e tre, Usa, Russia e Cina e saranno loro, insieme, a decidere come spartirsi le zone di influenza nel resto del mondo. Se si arriverà a questa fase, anche per vantare un maggiore potere negoziale Trump potrebbe coinvolgere anche l’India, storico nemico della Cina. Così il quadro sarà completo. Davanti ad un accordo tra tutti questi Grandi, il resto del mondo, compreso noi europei, non potrà che accettare e subire. Il vero rischio per Trump è che il suo atteggiamento così violento verso gli alleati tradizionali potrebbe creare le condizioni per costoro di cominciare a valutare le possibili alternative, magari guardando proprio alla Cina. Anche se una nuova Yalta farebbe comodo a tutti i Grandi, arrivarvi con una zona di influenza più ampia già acquisita farebbe comodo nel momento delle negoziazioni.

    Chi può affermare con assoluta certezza come andranno le cose nella realtà? All’inizio di questo articolo scrivevamo che le variabili sono così innumerevoli e imprevedibili che tutto potrebbe cambiare. Chissà se in meglio o in peggio per l’Europa.

  • Il braccio di ferro Usa-Cina potrebbe bruciare valore per 2.500 miliardi di dollari

    Uno scenario estremo di disaccoppiamento tra i due principali mercati finanziari globali, quello statunitense e quello cinese, potrebbe comportare perdite fino a 2.500 miliardi di dollari a causa di vendite forzate di titoli azionari e obbligazionari da parte di investitori di entrambi i Paesi. È quanto emerge da un’analisi pubblicata il 14 aprile da Goldman Sachs. Secondo il rapporto, elaborato da un team di analisti guidato da Kinger Lau e Timothy Moe, gli investitori statunitensi potrebbero essere costretti a cedere fino a 800 miliardi di dollari in azioni cinesi quotate negli Stati Uniti, qualora nuove normative vietassero tali investimenti.

    Al contempo, la Cina potrebbe liquidare titoli di Stato e partecipazioni azionarie statunitensi per un valore complessivo stimato in circa 1.670 miliardi di dollari. L’ipotesi di un disaccoppiamento finanziario sta guadagnando terreno sulla scia dell’aggravarsi delle tensioni commerciali tra i due Paesi. Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha recentemente dichiarato che l’eventualità di un “delisting” delle aziende cinesi dai listini americani “resta sul tavolo”, nel contesto della nuova ondata di dazi imposti da Washington, pari al 145%, cui Pechino ha risposto con tariffe del 125 per cento su tutte le importazioni statunitensi e del 25% su una serie di beni selezionati.

    Nel rapporto, gli analisti di Goldman evidenziano l’accresciuto rischio di “delisting” per le aziende cinesi che operano negli Stati Uniti attraverso un certificato American depositary receipt (Adr). Una misura del genere colpirebbe circa 300 imprese, inclusi alcuni dei maggiori gruppi tecnologici cinesi. Alla data del 7 marzo, risultavano quotate a New York, sull’American Stock Exchange e sul Nasdaq, 286 aziende della Cina continentale con una capitalizzazione complessiva di circa 1.100 miliardi di dollari, secondo la Us-China economic and security review commission. Secondo James Wang, responsabile della strategia per la Cina di Ubs Investment Bank Research, il “delisting” avrebbe gravi conseguenze strutturali, tra cui l’accesso limitato alla liquidità dei mercati Usa, un possibile calo delle valutazioni e un’erosione della base di investitori. Tuttavia, ha osservato Wang, la raccolta di capitale attraverso Adr si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio del mercato di Hong Kong. Tra le principali società cinesi quotate a New York figurano il gruppo Alibaba (257 miliardi di dollari di capitalizzazione), Pdd Holdings (125,7 miliardi) e NetEase (64 miliardi). L’indice Nasdaq Golden Dragon China, che segue 68 società cinesi quotate negli Stati Uniti, ha perso il 15 per cento dall’inizio del mese, a fronte di un calo del 4,4 per cento dello S&P 500 e del 9,5 per cento dell’Hang Seng Index di Hong Kong.

    Nel 2022, cinque grandi aziende cinesi a controllo statale – tra cui PetroChina e Sinopec – si sono ritirate dai listini statunitensi in seguito a una controversia sugli standard di revisione contabile, poi risolta con un accordo tra le autorità di vigilanza dei due Paesi. Molte società cinesi hanno da allora avviato una doppia quotazione a Hong Kong per mitigare il rischio di “delisting”. Secondo Goldman Sachs, 27 aziende attualmente quotate solo negli Stati Uniti – per un valore complessivo di 184 miliardi di dollari – avrebbero già i requisiti per una seconda quotazione nella città asiatica. Tra queste figurano Pdd, Full Truck Alliance e Futu. Secondo gli analisti della banca statunitense, un’eventuale quotazione a Hong Kong “potrebbe favorire una rivalutazione” dei titoli, grazie alla possibilità per gli investitori statunitensi di convertire gli ADR in azioni ordinarie in caso di improvvisi shock di liquidità.

  • Maggiore chiarezza cinese

    Se anche il governo cinese nega di aver inviato suoi cittadini a combattere in Ucraina tutti sappiamo bene che per uscire dalla Cina occorre un’autorizzazione, un passaporto, e si eseguono una serie di controlli ed è perciò decisamente improbabile che decine di cinesi, se non sono centinaia, abbiano potuto raggiungere la Russia per arruolarsi, nella guerra contro l’Ucraina, senza che qualche autorità ne fosse al corrente.

    Volontari, o mercenari che dir si voglia, possono raggiungere la Russia o l’Ucraina da qualunque paese democratico dove vi è la libertà, ma se i soldati o gli aspiranti soldati arrivano in Russia dalla Corea del Nord, dalla Cina o da altri paesi dove vige un regime autoritario questi non possono essere usciti senza il consenso della rispettive autorità.

    Stiamo infatti parlando di un numero considerevole di cinesi e non di singoli casi isolati che fortunosamente potrebbero essere riusciti a scappare.

    Inoltre la nota amicizia ed alleanza che, da qualche anno, e cioè da qualche mese prima dell’invasione dell’Ucraina, si è consolidata tra Pechino e Mosca, è una concreta prova che il dragone non è affatto neutrale come ha tentato di far credere.

    Oggi che, dopo i dazi americani, la Cina si rivolge all’Europa sperando in nuovi rapporti economici l’Europa dovrebbe avere la capacità e la forza di chiedere al presidente cinese maggiore chiarezza sui suoi comportamenti verso l’Ucraina e la guerra scatenata da Putin e un suo concreto intervento per garantire che dalla Cina non siano più inviati in Russia uomini ed armi.

  • Promesse di soldi facili o di fidanzamento? Attenti al più buthcering

    Una donna madre di due figli ha perso 200mila euro dopo aver abboccato a una truffa sul web: una finta voce identica a quella di Chiara Ferragni l’ha indotta a investire in criptovalute e lei ha consentito agli interlocutori che aveva chiamato fidandosi del falso messaggio ricevuto ad accedere al suo computer e, da lì, ai suoi risparmi.

    Si chiama pig butchering, letteralmente “macellazione del maiale”, ed è forse il più grande business criminale sconosciuto al pubblico. Secondo alcune stime, vale 500 miliardi di dollari l’anno, cioè quanto il traffico degli stupefacenti. «In Italia abbiamo trovato batterie di call center dedicate a questa truffa, in Veneto e Lombardia, ma chiamano anche dall’Albania», spiega Ivano Gabrielli, direttore del Servizio polizia postale e delle comunicazioni. «Sono persone collegate alla piccola criminalità nostrana, di solito, ma abbiamo anche rilevato legami con camorra e mafia albanese. Più di rado, sono ivoriani e nigeriani. Nei call center usano script, come quelli del telemarketing, con le cose da dire, le tecniche psicologiche da usare».

    La macellazione continua fino all’ultimo pezzo del “maiale”: questa è la terminologia usata dagli stessi criminali. Quando il “maiale” è un uomo, capita che a contattarlo, normalmente tramite app di dating e da lì poi via whatsapp, siano donne (perlopiù asiatiche) che simulano un flirt e intanto invitano a investire in cripto.

    Il termine internazionale pig butchering è una traduzione dal cinese. La truffa è nata in Cina e colpiva solo in patria, a opera delle triadi (la loro criminalità organizzata), ma dieci anni fa il Partito comunista l’ha affrontata con una guerra senza confini. Ha arrestato centinaia di migliaia di persone e fatto pressioni sui governi di Cambogia e Myanmar. In quei due Paesi ci sono le batterie di call center più potenti al mondo, addirittura con piccole cittadine nate allo scopo, come emerge anche da un’inchiesta globale del giornale inglese The Economist. Il Partito comunista cinese ha persino mobilitato il proprio enorme apparato di propaganda, producendo film, spettacoli televisivi e canzoni per mettere i cittadini in guardia. Anche per questo i criminali sono stati spinti a colpire gli occidentali. Soprattutto negli Usa, dove hanno sottratto 12,5 miliardi di dollari nel 2023 (in crescita del 22%). «In Italia siamo sui 200 milioni di euro», dice Gabrielli. Tra le vittime più importanti, il direttore di una banca del Kansas, Shan Hanes, spinto a dare fondo alle proprie sostanze (un milione di dollari), a rubare 47 milioni dalla banca e 40mila dollari dalla chiesa locale dov’era un pastore part time. Hanes, manager cinquantenne stimato dalla propria comunità, ad agosto è stato condannato a 24 anni.

    The Economist ha appurato che i truffatori riciclano il denaro in attività lecite come la pubblicità del gioco d’azzardo o palazzi nel quartiere della moda di grandi città europee. Quelli cinesi collaborano anche con il narcotraffico sudamericano. Prima di incassare i soldi rubati, li fanno passare da vari conti, normali o di criptovalute, tramite prestanomi contattati con la promessa di guadagni facili.

  • La scommessa dei dazi americani

    Un eminente analista politico americano non pregiudizialmente ostile a Trump, Stephen Kotkin, dice di lui: “Trump è la quintessenza dell’America…non è un alieno che è atterrato da qualche altro pianeta… riflette qualcosa di profondo e duraturo nella cultura americana. Pensate a tutti i mondi che ha frequentato e che lo hanno innalzato. Wrestling professionistico, reality TV, casinò e gioco d’azzardo non sono più solo a Las Vegas o Atlantic City ma ovunque, incorporati nella vita quotidiana. Cultura della celebrità. I social media. Tutto questo mi sembra l’America. E sì, anche la frode, la menzogna sfacciata e la roba di P. T. Barnum, imbonitore di Carnevale. Questo è un pubblico non piccolo, ed è da dove viene Trump e chi è”. Poco dopo, a scanso di equivoci, aggiunge: “E’ passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo avuto competenza e compassione ai vertici” (Purtroppo, detto per inciso, è successo lo stesso da noi in Europa).

    Tali considerazioni non possono essere dimenticate nel giudicare le sue scelte politiche, sia quelle annunciate sia quelle realizzate, e ciò in aggiunta al fatto che Trump non ha cultura politica e ragiona solo come un imprenditore. In particolare bisogna tenerne conto quando valutiamo la questione dei previsti dazi alle importazioni di merci verso gli Stati Uniti. In questo caso è ancora più evidente l’attitudine di Trump a giocare d’azzardo. Secondo l’interpretazione più accreditata la sua è una scommessa, seppur rischiosa e potenzialmente pericolosa sia per gli USA sia per quel resto del mondo che subirà le nuove tariffe doganali.

    Non si può, comunque, dimenticare che gli USA soffrono oggi di un forte deficit commerciale negli scambi con l’estero e l’obiettivo dichiarato dal Presidente americano è di “trasformare ancora una volta l’America nella superpotenza manifatturiera del mondo”. Attualmente gli scambi con l’estero sono negativi per circa 920 miliardi di dollari, di cui circa 100 con la Germania e 40 con l’Italia (per noi gli USA sono il secondo mercato mondiale dopo la UE e le esportazioni costituiscono il 33,7% del nostro PIL). Interessante è anche sapere che durante il suo primo mandato aveva ereditato un minus di 503 miliardi, cifra che quattro anni dopo era diventata di 626 miliardi nonostante fosse riuscito a ridurre quella con la Cina di ben 39 miliardi. Pure Biden aveva provato a ridurre il deficit mantenendo i dazi imposti da Trump e perfino aggiungendone qualcuno di nuovo ma, anche per lui, il risultato finale fu negativo: le perdite aumentarono addirittura di quasi 300 miliardi. In entrambe le presidenze l’effetto di questo tipo di operazioni ha trascinato l’aumento dell’inflazione interna causata dal maggiore costo dei beni importati. Ciò senza un aumento generalizzato della produzione delle aziende manifatturiere locali.

    L’annuncio e l’applicazione di nuovi e importanti dazi doganali non potrà che coinvolgere un ulteriore aumento dell’inflazione per i consumatori americani e una successiva possibile reazione speculare dei Paesi colpiti da quelle misure. È oggettivamente impossibile che Trump e il suo staff non abbiano calcolato queste probabili conseguenze ma, evidentemente, contano sul fatto che gli USA sono, e restano, il potere economico e militare più grande del mondo e tocca quindi a loro fissare le regole del gioco. Ecco dunque la scommessa: le nuove tariffe doganali americane dovrebbero mettere in ginocchio le economie di tutti i Paesi che vantano un attivo nella loro bilancia commerciale con gli USA. E tale effetto dovrebbe avvenire prima e in modo più pesante di quando e di quanto ne soffriranno i consumatori sul mercato interno a stelle e strisce. A questo punto, le controparti straniere cercherebbero di negoziare in qualche modo e gli americani potrebbero darsi disponibili a rivedere i dazi soltanto in cambio di un riequilibrio degli scambi bilaterali. In altre parole meno dazi se le controparti si impegnano a comprare più prodotti made in USA. Funzionerà oppure no? Chi soffrirà per primo o di più? Per ora, nessuno può rispondere con una verosimile certezza a questa domanda.

    Tuttavia, nelle menti di alcuni degli economisti trumpiani esiste anche un’altra teoria.

    Gli avversari della politica dei dazi (sono tanti anche negli USA) ricordano le conseguenze negative per l’economia interna e internazionale della Smooth-Hawley Tariff Act del 1930. Questa legge aumentò le tariffe doganali su più di 20.000 prodotti importati e contribuì in modo determinante alla crisi cominciata nel ’29. Secondo i sostenitori della nuova politica tariffaria c’è però una differenza fondamentale tra gli USA di allora e quelli di oggi. In quel periodo gli Stati Uniti avevano il più grande surplus commerciale del mondo ed erano la patria dei maggiori esportatori del pianeta. Contemporaneamente, i consumatori interni non erano in grado di assorbire con i loro consumi tutto ciò che le imprese americane producevano. Attualmente la situazione è esattamente il contrario: gli americani investono e consumano molto di più di quanto producono ed hanno oggi il più grande deficit commerciale della loro storia.

    I dazi sono effettivamente una tassa sui consumatori ma, aumentando il prezzo della produzione e di altri beni commerciabili, i dazi fungono implicitamente anche da sussidio per i produttori nazionali. Mentre nel primo caso gli Stati Uniti soffrivano di troppo risparmio e troppo poco consumo e dovevano quindi esportare tutto ciò che potevano nel resto del mondo (esattamente come oggi fa la Cina), oggi avviene il contrario: producono molto meno di quanto consumino. Tassando i consumi attraverso i dazi si sovvenziona così la produzione interna e si reindirizzerà necessariamente una parte della domanda verso l’aumento della quantità di beni e sevizi prodotti in casa. Ciò aumenterebbe il Pil degli Stati Uniti (e anche l’inflazione) con conseguente aumento dell’occupazione, salari più alti e meno debito. Le famiglie americane sarebbero in grado di consumare ancora di più in valori assoluti, anche se il consumo in percentuale del Prodotto Interno Lordo diminuisse.

    Come è ovvio, l’economia non è una scienza esatta (ma esistono le scienze “esatte”?) e, di conseguenza, ogni ipotesi è pura teoria che potrà essere verificata solo con i fatti. Ciò che è indiscutibile resta che l’attuale economia americana, pur essendo la più importante del mondo non è del tutto sana. Secondo la banca Mondiale nel 2023 gli Stati Uniti hanno avuto un PIL di più di 27 mila miliardi di dollari (le esportazioni incidono solo per circa l’11%), la Cina di 18 mila, la Germania 4500, il Giappone 4200 e l’Italia di soli 2200. Nello stesso tempo, tuttavia, il debito sovrano in rapporto al PIL è di ben il 144% e lo squilibrio commerciale resta il più grande del mondo. Non c’è allora da stupirsi che Washington sperimenti qualche tecnica per cercare di rimediare ad una situazione non idilliaca. Se il calcolo degli economisti trumpiani si dimostrerà corretto avrà avuto ragione Trump quando diceva che i consumatori americani dovranno soffrire un poco all’inizio ma poi torneranno a stare bene e perfino meglio di prima. Se invece si sbagliassero e i dazi fossero applicati e mantenuti, le conseguenze economiche negative per i consumatori americani saranno piuttosto pesanti.

    Comunque vada, seppur in misura diversa, tutti i Paesi del mondo ne soffriranno, a partire da quelli che attualmente vivono di esportazioni come Italia e Germania. Soprattutto sarà colpita la Cina a meno che riesca, come sta provando a fare da qualche anno senza risultato, a rilanciare i consumi interni in misura sufficiente da assorbire la locale sovrapproduzione.

  • La Cina controlla oltre un quarto dei porti commerciali africani

    Con un totale di 231 porti commerciali esistenti in Africa, le aziende cinesi sono presenti in oltre un quarto degli “hub” marittimi del continente, essendo azioniste attive di 78 porti in 32 Paesi. Lo evidenzia nel suo ultimo studio il Centro per gli studi strategici sull’Africa, istituto affiliato al dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, specializzato in ricerche focalizzate su sicurezza e geopolitica. Secondo lo studio, le aziende statali cinesi sono azioniste attive di circa 78 porti come costruttori, finanziatori o operatori diretti, con una predilezione per i terminal dell’Africa occidentale (35 porti), seguiti dalle coste orientale (17), australe (15) e settentrionale (11). Si tratta, osservano i tecnici, di una presenza molto più capillare rispetto a quella di altre regioni: a titolo di confronto, l’Asia ospita 24 porti costruiti o gestiti dalla Cina, l’America latina e i Caraibi dieci.

    In alcuni scali africani le aziende cinesi dominano l’intera impresa di sviluppo portuale, dalla finanza alla costruzione, alle operazioni e alla proprietà azionaria. Grandi conglomerati come la China Communications Construction Corporation (Cccc) si sono aggiudicati i lavori come appaltatori principali, assegnando in seguito subappalti ad aziende sussidiarie come la China Harbor Engineering Company (Chec): è questo il caso del porto nigeriano di Lekki, uno dei più trafficati dell’Africa occidentale, dove la Chec ha effettuato i lavori di progettazione e costruzione dopo aver ottenuto un prestito dalla China Development Bank (Cdb), acquisendo al termine una quota finanziaria del 54 per cento nel porto, che gestisce con un contratto di locazione di 16 anni. Oltre al porto di Lekki, in Africa occidentale le aziende cinesi detengono oltre il 50 per cento di quota nel terminal di Kribi, in Camerun (66 per cento) e in quello di Lomé, in Togo (50 per cento).

    In questo quadro si inserisce il più ampio piano di sviluppo, da parte di Pechino, di una connettività globale articolata lungo sei corridoi, altrettante rotte e diversi porti e Paesi del mondo: si tratta dell’Iniziativa Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri), progetto dal quale l’Italia si è sfilata a fine 2023 ma che continua a rappresentare per la Cina un progetto strategico di primaria importanza, e per l’Africa un’opportunità difficilmente trascurabile. Tre dei sei corridoi del piano cinese attraversano infatti il continente, approdando nell’Africa orientale (Kenya e Tanzania), nella regione egiziana di Suez e in Tunisia. Un fattore che conferma, una volta di più, il ruolo centrale che il continente africano riveste nelle ambizioni globali di Pechino. Nel piano quinquennale Bri (2021-2025), del resto, si sottolinea la volontà di trasformare la Cina in “un forte Paese marittimo”, parte di un più ampio ringiovanimento come “Grande potenza” dotata di “punti di forza strategici all’estero”. Nello sviluppo della Nuova via della Seta, Pechino ha inoltre progettato di collegare i nuovi corridoi commerciali e i 16 Paesi africani senza sbocco al mare ai porti, come strategia di affaccio su nuovi mercati.

    Lo studio si concentra anche sulle ripercussioni in termini di potere territoriale che la gestione di contratti di locazione operativa o di concessioni portuali alla Cina comporta. Tramite le sue aziende, Pechino detiene concessioni operative in 10 porti africani, assicurandosi un controllo strategico degli accessi. Oltre ai benefici finanziari dati dalle attività marittime, infatti, l’operatore portuale determina l’assegnazione dei moli, accetta o nega gli scali portuali e può offrire tariffe e servizi preferenziali per le navi e il carico della sua nazione. Il controllo sulle operazioni portuali da parte di un attore esterno – osservano i relatori del rapporto – solleva dunque preoccupazioni in termini di sovranità e sicurezza, motivo che ha spinto alcuni Paesi a vietare la gestione da parte di operatori portuali stranieri. Nonostante i rischi di perdita del controllo, tuttavia, la tendenza in Africa è quella di privatizzare le operazioni portuali per migliorarne l’efficienza. Fra i rischi collegati ad una gestione portuale affidata ad attori esterni c’è peraltro quello legato al supporto logistico ad attività militari. Il porto Doraleh di Gibuti, ad esempio, per anni promosso da Pechino con scopi unicamente commerciali, è stato ampliato per ospitare nel 2017 una struttura navale. Da quell’anno il piccolo Paese del Corno d’Africa ospita così la prima base militare cinese all’estero, con un modello che secondo alcuni potrebbe essere replicato altrove nel continente.

    La crescente presenza di aziende cinesi nei porti africani promuove inevitabilmente anche gli obiettivi militari di Pechino. In 36 dei 78 siti portuali in cui sono coinvolte le aziende cinesi – oltre il 46 per cento del totale – possono attraccare le navi della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione. È il caso dei porti di Abidjan (Costa d’Avorio), Gentil (Gabon), Casablanca (Marocco), Tamatave (Madagascar), Maputo (Mozambico), Tincan (Nigeria), Pointe-Noire (Repubblica del Congo), Victoria (Seychelles), Durban e Simon’s Town (Sudafrica). Alcuni di questi porti, si precisa ancora nel rapporto, sono stati negli anni anche basi di partenza per esercitazioni militari dell’Esercito Popolare di Liberazione. Tra questi ci sono i porti di Dar es Salaam (Tanzania), Lagos (Nigeria), Durban (Sudafrica) e Doraleh (Gibuti). Quest’ultimo ha coinvolto esercitazioni con l’Etiopia, Paese che dall’indipendenza conquistata dalla vicina Eritrea (1993) è ormai senza sbocco sul mare e persegue un’aggressiva campagna politica per riconquistarlo.

    Le truppe cinesi hanno anche fatto uso di strutture navali e terrestri per alcune delle loro esercitazioni, tra cui la base navale di Kigamboni in Tanzania, il centro di addestramento militare completo di Mapinga e la base aerea di Ngerengere, tutte costruite da aziende cinesi. La Awash Arba War Technical School ha svolto uno scopo simile in Etiopia, così come le basi di altri paesi. In totale, secondo il centro studi statunitense dal 2000 ad oggi l’Esercito Popolare di Liberazione ha effettuato in Africa 55 scali portuali e 19 esercitazioni militari bilaterali e multilaterali. Una presenza che si declina, oltre agli impegni militari diretti, anche nella gestione della logistica militare. Un caso fra molti è quello dell’impresa statale cinese Hutchison Ports, gruppo che detiene una concessione di 38 anni dalla Marina egiziana per gestire un terminal presso la base navale di Abu Qir, a nord-est di Alessandria.

  • Trump dopo aver tolto all’Ucraina l’aiuto dell’intelligence ha sulla coscienza i morti

    Ora all’Europa ed ai cittadini di tutto il mondo dovrebbe essere chiaro, dopo quanto accaduto in questi giorni, che  i morti ucraini ed i feriti delle ultime ore sono da imputarsi a Trump che ha tolto all’Ucraina quell’ombrello di intelligence che l’aiutava a prevenire e intercettare gli attacchi assassini di Putin.

    Trump può ascrivere ai primi giorni del suo nuovo mandato una serie di assassini programmati.

    L’Ucraina è diventata la cavia del nuovo assetto globale che i tre dittatori, Trump, Putin e Xi Jinping vogliono realizzare.

    Se Putin ha riportato indietro la storia di cinquanta anni, spingendo popoli pacifici, per timore della propria incolumità, a pensare di tornare indietro dai trattati che mettevano al bando le mine anti uomo e le bombe a grappolo, cosa dobbiamo dire di Trump,  presidente di quella che si vantava di essere la più grande democrazia al mondo, che scientemente condanna a morte inermi civili ucraini per raggiungere il suo obiettivo affaristico?

    Guardiamo i fatti come sono, ciascuno può avere l’ardire di fornire la sua verità ma la realtà è inconfutabile anche se la politica spesso ha la memoria troppo corta, e troppi sporchi interessi da difendere, per ricordarsene.

    L’Ucraina è stata attaccata tre anni fa, l’intento di Putin era di ucciderne  il presidente e di dare vita ad un governo fantoccio per annettersi di fatto tutto il paese con una dirigenza politica a lui asservita.

    Gli ucraini hanno coraggiosamente reagito, il presidente Zelensky non è scappato ed è rimasto alla guida del suo popolo.

    Ci sono state stragi di ogni tipo da parte dell’esercito russo, della Wagner e del bieco ceceno, rasi al suolo villaggi, rapiti centinaia di bambini, colpiti ospedali, palazzi civili, centrali energetiche per rendere sempre  più impossibili le condizioni dei civili.

    Il diritto internazionale è andato, come si suol dire, a farsi fottere perché nessuno aveva la capacità di imporlo mentre la Russia, aggressore di uno stato sovrano, continuava e continua imperterrita ad avere il potere di veto alle Nazioni Unite.

    Gli alleati dell’Ucraina hanno dato tangibilmente la loro solidarietà ma troppo spesso le armi e gli aiuti promessi sono arrivati in ritardo, troppo in ritardo per la resistenza sul campo.

    Putin ha dato l’avvio a nuovi reclutamenti, salvando i figli degli oligarchi e prendendo le nuove reclute dalle regioni più povere e lontane dalla capitale, ha aperto le carceri a malfattori e assassini arruolandoli, ha usato milizie private come la Wagner, fino a che ha fatto assassinare anche il suo capo per controllarle meglio e impossessarsi delle ricchezze accumulate da Prigozin, ha stretto alleanza con uno degli uomini più folli e sanguinari, Kim Jong-un, facendo arrivare al fronte i soldati della Corea del Nord.

    Ora Putin chiede a Zelensky di essere disponibile alla pace ed il presidente ucraino dice di sì ma che vuole garanzie per il futuro, infatti le garanzie che erano state date quando l’Ucraina, alla fine della guerra fredda, aveva ceduto il suo arsenale militare nucleare non sono servite a nulla.

    La risposta di Trump è stata di togliere gli armamenti già promessi e l’aiuto dell’intelligence con il quale l’Ucraina riusciva a debellare una parte degli attacchi russi che massacrano i civili.

    Cosa dobbiamo dire di più? Avere Trump come alleato è un pericolo, è inaffidabile probabilmente per i suoi problemi caratteriali, dice e smentisce anche se stesso.

    Cosa dire di fronte a personaggi come Orban e Salvini felici di essere vassalli di qualcuno più forte, e che scambiano la giustizia con un loro possibile tornaconto? Purtroppo non sono i soli ma quelli come loro sono soltanto un piccolo incidente della cronaca.

    Il tempo però stringe, l’Europa sta cominciando a svegliarsi ma è troppo lenta, non c’è più tempo per i nazionalismi ottusi, la patria si difende insieme alle altre patrie dando vita ad un’Europa che ci rappresenti tutti sul piano politico, militare e culturale e bisogna fare presto e bene.

  • La Cina prova a sfruttare l’allontanamento degli Usa dall’Europa

    Mentre i nuovi Stati Uniti di Donald Trump sono in rotta di collisione con i tradizionali alleati, la Cina cerca d’inserirsi con un serrato corteggiamento nei confronti degli europei. Dal ritorno alla Casa bianca del miliardario, con le minacce di dazi sia contro Pechino sia contro l’Europa, persino più pesanti per gli alleati, gli aerei diretti dalla Repubblica popolare alle capitali del Vecchio Continente sono piuttosto affollati di funzionari cinesi.

    Donald Trump ha lanciato un negoziato diretto con la Russia per chiudere la guerra in Ucraina, senza inizialmente coinvolgere Kiev e gli alleati europei, puntando anzi il dito contro di loro. Inoltre ha annunciato dazi fino al 25% contro i paesi europei e al 20% totali contro la Cina. Con una retorica che, paradossalmente, appare più feroce verso i tradizionali amici che verso il dichiarato concorrente globale.

    Questa politica ha scosso notevolmente i partner europei, mentre l’apparente luna di miele di Trump con il presidente russo Vladimir Putin preoccupa la Cina, la quale si è molto avvicinata a Mosca dopo l’invasione russa dell’Ucraina, non condannata da Pechino.

    Mosca, nelle ultime settimane, ha tenuto a riequilibrare, attivando varie comunicazioni con Pechino, compresa una telefonata tra Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Il numero uno del Consiglio di sicurezza russa Sergey Shoigu è volato a Pechino nei giorni scorsi per incontrare Xi e rassicurarlo sulla saldezza dell’amicizia russo-cinese.

    Tuttavia, dal punto di vista di Pechino, la possibilità che si riapra una relazione con l’Unione europea è da cogliere sia per creare un equilibrio e tentare di mettere un cuneo nell’alleanza Usa-Europa, come Trump vorrebbe fare in quella Russia-Cina, sia per garantirsi un mercato per le merci cinesi che sarà sempre più difficile vendere negli Usa, se Trump insisterà sulla guerra commerciale.

    Per quanto riguarda l’Europa, la strategia del “de-risking”, che finora è stata applicata nei confronti della Cina, sembra oggi essere più necessaria nei confronti egli Stati uniti, ha detto un diplomatico europeo al South China Morning Post (SCMP).

    A febbraio in diverse capitali europee si sono visti alti diplomatici cinesi, a partire dal ministro degli Esteri Wang Yi, che ha partecipato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, oltre che visitare Londra e Dublino.

    “Nel corso degli anni, alcuni hanno detto che la Cina sta cercando di cambiare l’ordine e che vuole avviare un nuovo sistema”, ha dichiarato Wang alla Conferenza. “Adesso non se ne parla più molto, perché c’è un paese che si sta ritirando da trattati e organizzazioni internazionali e, credo, in Europa si possono sentire brividi quasi ogni giorno”, ha aggiunto, facendo riferimento agli Stati uniti e sottolineando che, invece, la Cina “cresce all’interno dell’ordine esistente”.

    A margine di quell’evento, Wang ha detto all’Alta rappresentante della politica estera Ue Kaja Kallas che Pechino sostiene che Europa e Ucraina debbano avere un posto a tavola nei negoziati di pace. Una posizione, questa, ribadita in ogni occasione dai funzionari del ministero degli Esteri cinese. Altre visite sono state effettuate da due infuenti vice di Wang Yi, cioè la direttrice dell’informazione del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying e il viceministro esecutivo agli Esteri Ma Zhaoxu, entrambi diplomatici di lungo corso. Il messaggio che hanno trasmesso – secondo SCMP – è che la Cina è un partner più affidabile e costante rispetto all’imprevidibilità dell’America di Trump. Pechino, nel suo corteggiamento, sembrerebbe disposta anche a fare alcune concessioni. Mentre in passato proponeva una revoca contestuale delle sanzioni reciproche – cioè quelle attivate dall’Ue per le presunte violazioni dei diritti umani contro gli uiguri del Xinjiang e quelle imposte da Pechino in rappresaglia – ora propongono di revocare quattro o cinque sanzioni per ognuna tolta dalla lista europea. Un altro aspetto è quello della questione ucraina. Dall’invasione russa, l’Europa ha puntato il dito contro Pechino per la mancata condanna di Mosca e per i rapporti stretti con la Russia. Ma ora sono cambiate diverse cose e la decisione degli Stati uniti di votare contro la risoluzione europea alll’Onu sull’Ucraina, assieme alla Russia, alla Bielorussia, alla Corea del Nord, all’Ungheria e Israele, marca una differenza: la Cina si è astenuta, non ha votato “no”. Siamo inoltre nel 50mo anniversario dell’apertura delle relazioni tra Europa e Cina, quindi l’occasione potrebbe essere quella giusta. Il prossimo mese, il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic, che in questo momento storico ha un ruolo particolarmente delicato, sarà in Cina, dove potrebbe presentare una lista di richieste, alle quali Pechino potrebbe a sua volta non opporre un rifiuto totale. In ballo ci sono questioni come la sovrapproduzione industriale cinese, il sostegno di Pechino alle sue imprese e le possibilità di accesso al mercato da parte delle imprese europee. Inoltre, diverse capitali europee sperano di attrarre investimenti cinesi Il corteggiamento cinese sta comunque avendo orecchie recettive in Europa. “L’Europa deve prendere le proprie decisioni in modo autonomo. E dobbiamo decidere quando la Cina può essere un partner e quando è un concorrente”, ha dichiarato recetentemente il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares al Financial Times. Un segnale potrebbe arrivare da eventuali contatti di vertice. L’ultimo summit Ue-Cina è stato nel 2023 a Pechino, ma al momento non c’è nulla di certo per un possibile vertice in Europa. Il presidente Xi Jinping non ha in programma viaggi in Europa – tranne Mosca a maggio – per tutto l’anno. Comunque sarebbero in corso sondaggi, mentre a dire del SCMP il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa dovrebbe recarsi a Pechino a luglio. Si sta ragionando sull’ipotesi che si unisca anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ma la questione è delicata, perché la numero uno dell’esecutivo europeo è stata finora uno dei “falchi” anti-cinesi in ambito Ue.

Pulsante per tornare all'inizio