Cina

  • Xi Jinping e Putin discutono di Trump

    All’indomani dell’insediamento del presidente Donald Trump alla Casa Bianca, l’omologo cinese Xi Jinping ha avuto una videocall con il leader russo Vladimir Putin. A riferirlo l’emittente cinese Cctv, senza aggiungere al momento dettagli sul colloquio. Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha confermato la notizia. “Il colloquio al momento è in corso”, ha dichiarato all’agenzia di stampa Tass.

    Se i contenuti del video-incontro ancora non sono noti, di certo, però, Pechino e Mosca non hanno nascosto nelle scorse ore i timori per alcune dichiarazioni e per gli ordini esecutivi firmati dal tycoon a poche ore dall’insediamento. A partire dagli accordi sul clima, passando per Oms e finendo con Panama.

    La Cina ha espresso ”preoccupazione” per l’annunciata uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima, decisa dal presidente americano con la firma di un ordine esecutivo, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun. “Il cambiamento climatico è una sfida comune a tutta l’umanità e nessun Paese può rimanere indenne o risolvere il problema da solo”, ha affermato Guo.

    E ancora: “Il ruolo dell’Oms dovrebbe essere solo rafforzato, non indebolito”, ha commentato sull’ordine esecutivo di Trump con cui il presidente americano ha dato il via al processo per ritirare gli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della Sanità. “La Cina, come sempre, sosterrà l’Oms nell’adempimento delle sue responsabilità e lavorerà per costruire una comunità sanitaria condivisa per l’umanità”, ha aggiunto Guo. Trump ha criticato l’Oms per la gestione della pandemia di Covid-19.

    Ed è considerato ”un atto di bullismo” l’inserimento di Cuba nella lista nera dei Paesi che sostengono il terrorismo da parte degli Stati Uniti. L’uso ripetuto della lista da parte di Washington “contraddice i fatti e rivela pienamente il volto egemonico, autoritario e prepotente degli Stati Uniti”, ha affermato Guo.

    Dal canto suo, la Russia si aspetta che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la leadership di Panama rispettino il regime giuridico internazionale di questa via navigabile. Lo ha affermato il direttore del dipartimento latinoamericano del ministero degli Esteri russo, Alexander Shchetinin, rispondendo a una domanda della Tass.

    ”Ci auguriamo che durante le previste discussioni tra la leadership di Panama e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulle questioni del controllo sul Canale di Panama che, ovviamente, rientrano nell’ambito delle loro relazioni bilaterali, le parti rispettino l’attuale regime giuridico internazionale di questa via navigabile fondamentale”, ha sottolineato.

    Shchetinin ha ricordato che il regime giuridico internazionale del Canale di Panama ”è chiaramente definito e registrato nel Trattato sulla neutralità permanente e sul funzionamento del Canale di Panama tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica di Panama, firmato dal presidente americano Jimmy Carter e il capo del governo panamense, il generale Omar Torrijos, il 7 settembre 1977 ed entrarono in vigore il primo ottobre 1979″. Il diplomatico ha aggiunto che ”il regime stabilito dal trattato è ulteriormente sancito dal protocollo, al quale hanno aderito circa 40 stati del mondo. La Russia partecipa al protocollo dal 1988 e conferma i suoi obblighi di mantenere la neutralità permanente del Canale di Panama, sostenendo la conservazione sicura e aperta di questa via d’acqua di transito internazionale”.

    ”A questo proposito sottolineiamo: secondo le modifiche apportate dagli Stati Uniti e da Panama al trattato nell’ottobre 1977, ciascuno dei due paesi deve proteggere il canale da qualsiasi minaccia al regime di neutralità. Il diritto specifico degli Stati Uniti alla difesa del Canale di Panama non significa e non deve essere interpretato come il diritto di intervenire negli affari interni di Panama, e qualsiasi azione della parte americana non sarà mai diretta contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di Panama”, ha concluso Shchetinin.

    Il Canale di Panama, inaugurato nel 1914, fu costruito e controllato dagli Stati Uniti. Nel 1977 il Trattato Torrijos-Carter determinò il trasferimento graduale del canale a Panama, completato nel 1999. L’accordo prevede la neutralità del canale e la sua accessibilità al commercio mondiale.

  • La Cina balza al secondo posto mondiale per le riserve di litio

    La Cina ha compiuto notevoli progressi nell’esplorazione dei depositi di litio, emergendo come il secondo maggiore detentore di riserve di litio al mondo. Il China Geological Survey, alle dipendenze del ministero delle Risorse naturali cinese, ha riferito oggi che le riserve di litio nazionali sono aumentate dal 6 al 16,5 per cento del totale globale, portando il Paese dalla sesta alla seconda posizione nella classifica mondiale. Il balzo riflette la stata scoperta una cintura di depositi di litio spodumene di classe mondiale che si estende per 2.800 chilometri nell’ovest della Cina.

    Le risorse di litio note nei laghi salati dell’altopiano Qinghai-Tibet sono aumentate a loro volta in misura sostanziale, posizionando la Cina come la terza più grande base di risorse di litio da laghi salati a livello globale. Inoltre, i ricercatori cinesi hanno superato importanti sfide tecniche nell’estrazione del litio dalla lepidolite, un minerale ad alto contenuto di litio che finora ha presentato sfide in termine di costi di lavorazione. Il litio è un elemento cruciale per una vasta gamma di settori emergenti, tra cui veicoli elettrici, sistemi di stoccaggio energetico, comunicazioni mobili, trattamenti medici e combustibile per reattori nucleari.

  • Shein lawyer refuses to say if it uses Chinese cotton

    A senior lawyer representing Shein has repeatedly refused to say whether the company sells products containing cotton from China, prompting an MP to brand her evidence “ridiculous”.

    Yinan Zhu, general counsel for the fast-fashion giant, confirmed its suppliers did manufacture products in the country, but declined to say whether they used Chinese cotton.

    Firms that source clothing, cotton, and other products from the Xinjiang region in the north west of China in particular have come under pressure following allegations of forced labour and human rights abuses.

    Ms Zhu’s refusal to answer questions was met with backlash from a committee of MPs, who accused her of “wilful ignorance”.

    Shein has grown rapidly since it was founded in 2008, and saw its business boom during the pandemic.

    Its steep rise has meant the company has gone from a little-known brand to one of the biggest fast fashion retailers globally, shipping to customers in 150 countries.

    But the company, which was founded in China but is now headquartered in Singapore, has come under fire over its environmental impact and working practices, which include allegations of forced labour in supply chains. Shein has denied this.

    China has been accused of subjecting members of the Uighur, a mainly Muslim ethnic minority, to forced labour. In December 2020, research seen by the BBC showed that up to half a million people were being forced to pick cotton in Xinjiang, but Beijing has denied any rights abuses.

    The allegations have led to some big fashion brands, including H&M, Nike, Burberry and Adidas, removing products using Xinjiang cotton, which has led to a backlash in China, and boycotts of the companies.

    On Tuesday, MPs on the Business and Trade committee repeatedly challenged Ms Zhu over whether Shein products contained Chinese cotton and in particular cotton from Xinjiang.

    Ms Zhu declined to answer and asked if she could write to the committee following the hearing.

    She told MPs that the company does not own any factories or manufacturing facilities, but works with a large network of suppliers, mostly in China, but also in Turkey and Brazil.

    She added that Shein complied with “laws and regulations in the countries we operate in”.

    Ms Zhu said its suppliers were required to sign up to robust standards and that third party agencies carried out thousands of audits.

    Challenged on whether the company specifically prohibits its suppliers from sourcing cotton from Xinjiang as part of its checklist of conditions, she said: “I’m going to have to ask for permission to write back to this.”

    The hearing came after the BBC reported the company had filed initial paperwork to list shares on the London Stock Exchange, which could value it at £50bn.

    Ms Zhu refused to provide answers on the potential listing.

    Charlie Maynard, a Liberal Democrat MP on the committee, hit out at Ms Zhu’s comments, and accused her for “wilful ignorance”.

    “I am on your website and I can see about 20 products which are all cotton…. and yet you say to our chair that you can’t state whether Shein is selling any products which are made in China, which are made of cotton? I find that completely ridiculous,” he said.

    “You mention every other spot of the compass, but you don’t mention west China, you don’t mention Xinjiang at all. It’s wilful ignorance.”

    Ms Zhu responded saying she was “doing the best I can”, and was “giving answers to the best of my ability”, which prompted Maynard to reply: “That is simply not true.”

    Appearing exasperated, Liam Byrne, chair of the committee, said for a company that sells £1bn worth of goods to consumers, and was looking to list in the UK, the committee had been “pretty horrified by the lack of evidence” Ms Zhu had provided.

    “You can’t tell us anything about listing, you can’t tell us anything about cotton in Shein products, and you can’t tell us much, in fact.”

    Byrne added that Ms Zhu’s reluctance to answer basic questions “bordered on contempt of the committee”.

    In contrast, fellow fast-fashion retailer Temu told the committee that it did not permit sellers from the Xinjiang region to sell products on the platform.

    Stephen Heary, senior legal counsel at Temu, said: “Any issues of labour practices are something that we take fundamentally very seriously.”

    Byrne said the company had given “some reassurance” over its supplier agreements.

  • Il dumping ideologico

    Le forme di dumping possono essere molteplici e la consapevolezza dovrebbe influenzare la politica economica e strategica dell’Unione Europea. Il costo del lavoro in Cina risulta inferiore del -77% rispetto al costo medio occidentale, fornendo così un vantaggio strutturale all’economia cinese e conseguentemente incrinando ogni modello di libero mercato votato alla semplice e scolastica applicazione del principio della concorrenza. Tuttavia questo differenziale viene determinato non solo da un basso livello retributivo ma anche dalla assenza di tutele dell’intero sistema produttivo e per questo assolutamente non paragonabile a quanto il mondo occidentale invece garantisce.

    A questo “dumping retributivo” che già ha distrutto, all’inizio del terzo millennio, il sistema tessile abbigliamento, europeo anche grazie alla volontà speculativa di molte aziende che hanno delocalizzato la propria produzione, ora se ne aggiunge un secondo il quale da solo azzera ogni valore strategico alla politica europea per la “tutela dell’ambiente”.

    Va infatti ricordato che in Cina ogni anno vengano importati cinque miliardi di tonnellate di carbone usato come combustibile per assicurare il 60% dell’energia elettrica fornita appunto dalle centrali a carbone. In questo modo vengono alimentati i sistemi industriali ed in particolare quello dell’automotive i cui prodotti, come l’auto elettrica, paradossalmente in Europa vengono invece considerati a “basso impatto ambientale”.

    La forma più inquinante di produzione energetica quindi, quella a carbone, viene utilizzata dal settore automotive cinese il quale, proprio per questo motivo, è espressione di un ciclo produttivo a fortissimo impatto ambientale legato appunto all’utilizzo del carbone, un fattore determinante nella valutazione di impatto ambientale complessivo di un prodotto ed assolutamente non considerato all’interno dell’Unione Europea.

    Prova ne sia che la stessa Unione Europea non solo omette di considerare e premiare il basso impatto ambientale della produzione di autoveicoli europei che utilizzano fonti energetiche sicuramente meno inquinanti di quella di origine carbonifera cinese, In più dal 2025 imporrà alle case automobilistiche europee il pagamento di sanzioni per tutte quelle aziende che non rispettasse i limiti di emissioni già arbitrariamente definiti. In questo modo non si valuta la qualità complessiva del ciclo produttivo dell’intero settore automotive europeo il cui impatto ambientale risulta minimo rispetto a quella cinese, ma addirittura lo si penalizza sulla base di valori ridicoli legati alle emissioni degli autoveicoli, quindi a valle della filiera produttiva.

    In altre parole, la tecnologia automobilistica europea che ha permesso la riduzione negli ultimi vent’anni del – 97% delle emissioni di PM10 e del -92 % del NOx, attraverso l’applicazione di multe basate sul mancato rispetto di valori delle emissioni assolutamente ideologici, favorirà la concorrenza cinese e la sua produzione ad altissimo impatto ambientale. L’automobile cinese così viene doppiamente incentivata dal regime cinese attraverso la fornitura di energia in “dumping ambientale” oltre ai finanziamenti pubblici alle stesse case automobilistiche, ma anche la stessa Unione Europea la favorisce ulteriormente in quanto penalizza fiscalmente il settore automotive europeo.

    Si passa, così, da un “dumping” relativo al costo del lavoro a quello energetico il quale al proprio interno contiene ed esprime in più articolato “dumping ideologico” la cui matrice politica si conferma di origine socialista ed in questo molto simile a quella adottata dal colosso cinese. Basti ricordare come l’Unione Europea possa essere considerata come la massima esponente di questo interventismo in ambito economico, in quanto risulta l’unica istituzione ad avere adottato il divieto, dal 2035, alla produzione ed alla vendita dei motori endotermici.

    Il percorso intrapreso nell’Unione Europea  da un sistema economico europeo espressione di valori liberali ed occidentali ad una società socialista è già stato avviato attraverso l’adozione dei principi ideologici del dumping ideologico.

  • Gli scenari di guerra

    La Cina, in risposta al divieto statunitense di esportatore tecnologia verso centoquaranta aziende operanti in Cina ed in particolare con azionariato cinese in vigore dal 31.12.2024, ha deciso di fermare le esportazioni di terre rare (gallio germanio ed antimonio) le quali soni fondamentali per la realizzazione di semiconduttori.

    Questo ennesimo episodio di “rappresaglia commerciale” rappresenta l’ultimo atto di un conflitto politico e strategico che sta definendo lo scenario bellico che vedrà sempre più contrapposte le due vere superpotenze mondiali: Stati Uniti e Cina.

    Proprio questo conflitto dalle dimensioni e ripercussioni simili ad un conflitto nucleare riduce ogni altro scenario di guerra in corso a semplici fattori strutturali e specifici ma soprattutto funzionali alla strategia bellica complessiva.

    In particolare lo scenario del conflitto russo ucraino acquisisce all’interno della nuova strategia statunitense un valore strategico fondamentale. Le prime bozze del piano di pace che sembra l’amministrazione Trump proporrà ai due contendenti si potrebbero sintetizzare in un congelamento delle posizioni attuali, la nascita di una zona cuscinetto ed il divieto per l’Ucraina di aderire alla Nato valevole per i prossimi vent’anni. L’obiettivo dell’amministrazione americana, quindi, risulta quello di concedere a Putin, in considerazione anche dell’impossibilità dell’Ucraina di resistere a lungo, un parziale riconoscimento delle proprie ambizioni territoriali.  Una concessione che ovviamente non terrebbe in alcuna considerazione le responsabilità dello stesso conflitto, ma avrebbe l’importante funzione di allontanare la Russa dall’alleanza dell’ultimo periodo imbastita con la Cina.

    Sul fronte opposto, ma non meno importante, la scelta di rinominare il medesimo mediatore che riuscì a creare le condizioni per un incontro tra i leader della Corea del Nord ed il presidente Trump va intesa nella medesima ottica in quanto la sua nomina risulta funzionale ad una volontà di creare un progressivo, anche se solo parziale, isolamento della Cina sul versante coreano.

    Nel sentiment statunitense, infatti, viene considerata molto probabile l’apertura di un nuovo scenario bellico, e non solo commerciale, che dovrebbe coinvolgere la Cina e Taiwan. Quest’ultima rappresenta una realtà fondamentale nell’economia mondiale per la propria produzione di microchip, molto spesso con capitali statunitensi.

    Tornando al divieto di export delle terre rare, deciso appunto in risposta dalle autorità cinesi alla politica statunitense, sarebbe allora interessante capire se esista una minima percezione e consapevolezza da parte delle autorità istituzionali, politiche, strategiche ed economiche dell’Unione Europea in relazione alle conseguenze che si potrebbero determinare con il mantenimento delle posizioni europee in uno scenario strategico e politico nuovamente polarizzato da Stati Uniti e Cina. In altre parole, se sia “possibile e sostenibile” il mantenimento delle strategie ideologiche ambientaliste completamente svincolate dal contesto internazionale verso una elettrificazione della mobilità, e quindi una diretta dipendenza dall’export cinese, che sicuramente determinerà una riduzione dell’indipendenza politica ed economica, quindi democratica, dell’Unione europea.

    I termini del nuovo confronto, o meglio del nuovo conflitto mondiale, non saranno più determinati, come in passato, da una divisione tra due blocchi, occidentale ed orientale, ma tra due complesse articolazioni economiche ed istituzionali: quella statunitense e la rivale cinese.

    L’idea, quindi, di agevolare attraverso l’adozione di facilitazioni politiche e normative una “transumanza elettrica” made in China non solo rappresenta la condizione per il suicidio politico, economico ed occupazionale della stessa Unione Europea, in più potrebbe essere interpretata come una scellerata scelta di campo da parte di entrambi i contendenti.

  • Gli Usa aggiungono 29 aziende cinesi all’elenco della legge sul lavoro forzato

    II dipartimento per la Sicurezza interna degli Stati Uniti, per conto della Task Force per il contrasto del lavoro forzato (Fletf), ha aggiunto 29 aziende cinesi all’elenco delle entità oggetto della Legge sulla prevenzione del lavoro forzato uiguro (Uflpa). È quanto annunciato in una nota dal dipartimento per la Sicurezza interna. Ciò porta il numero totale di entità incluse nell’elenco a 107, come parte degli sforzi del governo degli Stati Uniti per combattere il lavoro forzato nelle catene di fornitura globali, in particolare nella regione autonoma uigura dello Xinjiang.

    L’Uflpa, entrato in vigore nel 2022, mira a impedire l’importazione di beni prodotti utilizzando il lavoro forzato, in particolare da regioni legate ad abusi dei diritti umani, come lo Xinjiang. Il segretario per la Sicurezza interna, Alejandro Mayorkas, ha sottolineato che gli Stati Uniti continueranno a far rispettare la legge in modo aggressivo, perseguendo le aziende che si impegnano in pratiche di lavoro forzato e salvaguardando i mercati statunitensi dallo sfruttamento delle popolazioni vulnerabili, in particolare gli uiguri e altre minoranze etniche.

    La lotta alla droga è stato invece l’argomento che Donald Trump ha sfoderato per ribadire l’intenzione di applicare dazi alle importazioni dal Paese del Dragone. Donald Trump ha dichiarato che, una volta tornato presidente degli Stati Uniti, firmerà un ordine esecutivo che impone dazi del 25% su tutti i prodotti provenienti da Messico e Canada che arrivano negli Stati Uniti, e dazi aggiuntivi sulla Cina. “Il 20 gennaio, come uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre a Messico e Canada una tariffa del 25% su TUTTI i prodotti in arrivo negli Stati Uniti, e le sue ridicole frontiere aperte”, ha detto Trump in un post su Truth Social, affermando che i dazi rimarranno in vigore finché i due Paesi non porranno un freno alla droga, in particolare al fentanyl, e ai migranti che attraversano illegalmente il confine. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti “addebiteranno alla Cina un dazio aggiuntivo del 10%, oltre a qualsiasi dazio aggiuntivo, su tutti i loro numerosi prodotti in arrivo negli Stati Uniti d’America”. E ha affermato che il motivo della tariffa aggiuntiva era l’incapacità della Cina di frenare il numero di farmaci che entravano negli Stati Uniti. La Cina è un importante produttore di precursori chimici che vengono acquisiti dai cartelli della droga, incluso il Messico, per produrre il fentanyl, un oppioide sintetico altamente potente. “Ho avuto molti colloqui con la Cina sulle enormi quantità di farmaci, in particolare Fentanyl, che vengono inviati negli Stati Uniti, ma senza alcun risultato… Finché non smetteranno, addebiteremo alla Cina un dazio aggiuntivo del 10%, oltre a qualsiasi dazio aggiuntivo, su tutti i loro numerosi prodotti che entrano negli Stati Uniti d’America”.

    In risposta, la Cina ha avvertito che “nessuno vincerà una guerra commerciale”. Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese, ha affermato che la Cina ha adottato misure per combattere il traffico di droga dopo l’accordo raggiunto lo scorso anno tra Joe Biden e Xi Jinping. “La parte cinese ha notificato alla parte statunitense i progressi compiuti nelle operazioni di polizia contro gli stupefacenti legate agli Stati Uniti”, ha affermato in una dichiarazione. “Tutto ciò dimostra che l’idea che la Cina consenta consapevolmente ai precursori del fentanyl di fluire negli Stati Uniti è completamente contraria ai fatti e alla realtà”.

  • Responsabilità antropica del cambiamento climatico

    Chi continua a sostenere che il cambiamento climatico sia dovuto alla presenza di grandi quantità di CO2 e di altri “gas serra” creati dall’uomo farebbe bene ora anche a riflettere su un fatto nuovo accaduto recentemente in Lombardia.

    Grazie al ritiro dei ghiacciai, a un’altitudine di più di 3000 metri, si sono scoperti incisioni rupestri che denotano in loco la presenza umana durante l’età del bronzo (in Europa 2300-1100 A.C.).

    Due considerazioni andrebbero fatte a questo proposito ma non sembra che i nostri giornalisti le abbiano ancora fatte:

    – Uomini organizzati vivevano, o almeno frequentavano, quelle altitudini in maniera costante. Tanto è vero che si presero la briga di farvi dei disegni perenni. Non era troppo freddo per starci a lungo?

    – Sicuramente non scavarono il ghiacciaio per poter disegnare sulle rocce sottostanti. All’epoca in quelle montagne, seppur sopra i 3000 metri, non c’erano ghiacciai perenni. Ovviamente il clima era diverso e più caldo degli anni nostri (così come lo fu nei tempi romani). I ghiacciai si formano e spariscono nel corso dei secoli da sempre su questo pianeta.  Esistevano, all’epoca, uso diffuso dei combustibili fossili, delle industrie, dei riscaldamenti ovunque? A cosa era dovuto il “riscaldamento climatico” dell’età del bronzo?

    P.S. 1) Grazie all’aver messo in ginocchio molte industrie in Europa, la Commissione è riuscita ad ottenere una qualche piccola riduzione delle emissioni di gas considerati pericolosi per il clima. L’Europa produceva circa il 7% delle emissioni mondiali e ora, forse, siamo al 6 e qualcosa. Nel frattempo, la Cina che ne produceva più o meno il 36% ha aumentato la sua percentuale grazie all’apertura di nuove centrali a carbone. Così ha fatto l’India e stanno facendo gli Stati Uniti. La nostra fortuna è che potremo comprare molti più prodotti fabbricati in quei Paesi invece di quelli soliti (oramai noiosi) che producevamo da noi.

    2) Sembrerebbe che a Baku, per parlare di come combattere la CO2 internazionalmente, tra delegati e giornalisti siano presenti in tutto circa 51.000 persone (non cambierebbe drasticamente anche se fossero solo 5.000). Sono tutti arrivati in bicicletta o a piedi? Oppure in carrozze trainate da cavalli?

    3) Una cosa è battersi contro l’inquinamento di aria e acque, atteggiamento doveroso e salutare. Un’altra è inventarsi cause di un cambiamento climatico che gli stessi “inventori” definiscono inarrestabile, se non parzialmente. Se sappiamo davvero che le acque oceaniche sono destinate ad alzarsi, perché invece di prendere decisioni masochiste sprecando enormi ricchezze non pensiamo a cosa fare per delocalizzare chi ne potrebbe restare sommerso? E perché non attrezzare intere società per i cambiamenti che, sembra, comunque arriveranno?

  • Operazione Pig presentato a Piacenza

    Dai legami della mafia albanese con la ‘ndrangheta ai propositi di sovvertimento dell’ordine internazionale creato dall’Occidente che Putin persegue insieme ai Brics, dalla rivalità tra Russia e Cina in Africa alla prospettiva di un mondo in cui l’intelligenza artificiale crea un Elon Musk dominante e masse di lobotomizzati cibernetici.

    La presentazione del thriller di fantapolitica ‘Operazione Pig’ di Albert de Bonnet al PalabancaEventi di Piacenza nell’ambito delle iniziative dedicata da Banca di Piacenza alla promozione di lettura e cultura è stata l’occasione per spaziare a tutto campo dal mondo della fiction al mondo così come è in realtà o come appare possibile che diventi realmente. La presentazione è avvenuta in contumacia dell’autore, perché quest’ultimo per ragioni professionali preferisce mantenersi riservato, ed a presentare il libro sono stati la sua buona amica Cristiana Muscardini, per l’occasione «portavoce» a suo stesso dire di De Bonnet, e il giornalista Andrea Vento, che assicura non essere Albert de Bonnet un nom de piume di Giuliano Tavaroli, pure atteso alla presentazione piacentina ma pure infine assente alla presentazione stessa.

    La storia di un gruppo di spie alle prese con la scomparsa di uno scienziato e alle prese con un virus modificato in Cina, questa la trama di ‘Operazione Pig’, è stata l’occasione per dibattere delle prospettive concrete di un mondo e una mentalità, quella occidentale, che mentre si interroga su quanto potrà fare la sua forza motrice ora che a guidarla vi sono Donald Trump ed Elon Musk ancora non ha capito cosa abbia generato il Covid, se e quanto i paletti posti alla ricerca scientifica in nome della tutela (nella fattispecie, l’alt di Barack Obama a certe ricerche sul suolo americano) non abbiano gettato le premesse per un assalto da Oriente, assalto che peraltro – nelle parole di Muscardini e Vento – si concretizza pressoché quotidianamente per il tramite di quella diaspora cinese che, di pari passo con l’ammissione di Pechino nel Wto nel fatale 2001, fa di ogni attività esercitata da cinesi espatriati un possibile veicolo di contagio della sicurezza e della prosperità economica altrui. La concretezza del pericolo, a fronte di quelle che sembrano esagerazioni più consone appunto a un thriller che alla vita quotidiana, è stata messa sotto gli occhi di tutti da un aneddoto e da alcuni dati raccontati da Muscardini: un imprenditore piacentino si è visto svuotare il conto in banca dopo aver portato a riparare il suo smartphone per una banale rottura del vetro dello schermo e a fronte dei pericolo di hackeraggio e infiltrazione telematica l’Italia ha impiegato i 750 milioni appositamente ricevuti dalla Ue per la cyberseecurity per creare un ufficio centrale a Roma con 7 persone e paghe da Quirinale (peraltro inferiori a quelle riconosciute ai collaboratori tecnici cui quell’ufficio affida in outsourcing i suoi compiti) mentre ha lasciato gli uffici locali della Polizia postale con organici ampiamente sottodimensionati rispetto alle necessità operative.

  • Il benessere dell’umanità

    “Il benessere dell’umanità è sempre l’alibi dei tiranni”, Albert Camus

    Da sempre l’ideologia rappresenta lo strumento attraverso il quale giustificare una scelta anche di natura economica la quale altrimenti sarebbe ingiustificabile. Questo è quanto accade, ora, in merito alla transizione verso una mobilità elettrica, sostenuta proprio da quelle compagini politiche che hanno visto crollare i propri modelli politici e di sviluppo con la caduta del Muro di Berlino lasciandoli senza riferimenti. L’attenzione e la sete di riscossa politica si spostano quindi verso il modello di vita e consumi occidentale.

    In questo contesto allora ecco la lotta alla mobilità indipendente possibile grazie all’utilizzo delle autovetture private ed al loro “impatto”.

    L’auto  risulta responsabile dell’1% delle emissioni di CO2, la cui riduzione del 50% sarebbe ottenibile semplicemente attendendo la normale conversione delle vecchie auto o magari attraverso una incentivazione fiscale alle classe di emissione euro 6.

    Quindi, in considerazione del fatto che l’Italia risulta responsabile dello 0,7% delle emissioni totali e l’intera Europa del 6,5%, tanto le emissioni attuali di CO2 (1%), attribuibile alle auto, quanto la loro riduzione del 50% risulterebbero già di per sé  marginale in rapporto alle conseguenze economiche e sociali legate ad un avvento dell’auto elettrica cinese. Basti ricordare, infatti, come il settore Automotive in Europa rappresenti dodici milioni di posti di lavoro, circa mille miliardi di entrate fiscali ed il 12% del PIL.

    In relazione, poi, alle polveri sottili andrebbe ricordato come ad un grammo emesso da un motore endotermico ne corrispondano 1850 grammi attribuibili alla resistenza al rotolamento dei pneumatici che diventano 3850 nel caso di una guida più nervosa, ma comunque all’interno dei limiti imposti dal Codice della strada.

    Come logica conseguenza emerge evidente come il problema dell’impatto ambientale nella mobilità sia  più legato, in relazione alle polveri sottili, agli pneumatici che non al motore endotermico.

    Viceversa, la deriva strategica intrapresa dall’Unione Europea e soprattutto dalla sua Commissione trova la propria ragione in una scelta puramente ideologica nella quale la leva ambientalista rappresenta il fattore scatenante.

    Contemporaneamente in Cina negli ultimi due anni sono stati autorizzate le produzioni di 218 GW da centrali a Carbone (1 GW, 1 miliardo di Watt), quindi sono centinaia le centrali a carbone che la Cina sta costruendo in questo momento per alimentare il proprio sviluppo, e quindi anche l’industria automobilistica cinese, con un vita media compresa tra i 50 e i 75 anni, quindi operative fino alla fine del secolo in corso.

    In questo contesto basti ricordare come le emissioni delle centrali a carbone rappresentino un quinto di quelle totali e metà sia  localizzata in Cina ma in continua crescita.

    Pensare di utilizzare i prodotti di una economia malsana, con il primato mondiale dell’impatto ambientale, rappresenta, all’interno di una politica attenta ad un equilibrio ambientale, sia nel settore Automotive come in precedenza avvenne con il tessile abbigliamento,

    la strategia a più alto tasso di inquinamento che la UE potesse adottare.

    La sola giustificazione che possa sostenere il blocco della vendita e produzione dei motori endotermici a partire dal 2035 può venire considerata solo come espressione in un cieco furore ideologico che da sempre rappresenta il modo per sostenere quanto altrimenti risulterebbe assolutamente ingiustificabile e sempre in nome del bene comune.

  • India and China agree to de-escalate border tensions

    India and China have agreed on patrolling arrangements to de-escalate tensions along a disputed Himalayan border which has seen deadly hand-to-hand clashes in recent years, India’s top diplomat has said.

    Vikram Misri said on Monday the two sides have agreed on “disengagement and resolution of issues in these [border] areas that had arisen in 2020”.

    He was referring to the Galwan Valley clashes – the first fatal confrontation between the two sides since 1975, in which both sides suffered casualties.

    Relations between the neighbours have been strained since then.

    “An agreement has been arrived at on patrolling arrangements along the Line of Actual Control (LAC) in the India-China border areas, leading to disengagement and a resolution of the issues that had arisen in these areas in 2020,” Mr Misri said.

    Mr Misri, however, did not give any details about the disengagement process and whether it would cover all points of conflict along the disputed border.

    The Indian foreign secretary’s statement comes just a day before Indian Prime Minister Narendra Modi travels to Russia for a meeting of Brics nations which includes Brazil, Russia, India, China and South Africa.

    Mr Misri didn’t confirm if a bilateral meeting between Mr Modi and Chinese President Xi Jinping was on the agenda.

    His remarks on Monday mark a major development between the two nuclear-armed nations since the Galwan clashes.

    Troops in the Galwan Valley fought with clubs and sticks because of 1996 agreement between the two countries that prohibited the use of guns and explosives near the border.

    Several rounds of talks between their diplomats and military leaders in the last four years had not resulted in a major breakthrough.

    Troops from the two sides clashed in the northern Sikkim area in 2021 and again in the Tawang sector of the border in 2022.

    Border tensions have cast a long shadow on India-China relations for decades. The two countries fought a war in 1962 in which India suffered a heavy defeat.

    Business relations between the two Asian giants have also suffered due to the tensions.

    The root cause is an ill-defined, 3,440km (2,100-mile)-long disputed border. Rivers, lakes and snowcaps along the frontier mean the line often shifts, bringing soldiers face to face at many points, sparking a confrontation.

    The two nations have been also competing to build infrastructure along the border, which has sparked further tensions.

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