Non era l’Italia il paese delle tanto sbandierate primarie?
Così dicevano. Invece una settimana nell’ombra di frenetiche e riservate riunioni, si sono decise le candidature per le elezioni, e ora, giorno dopo giorno, si comincia ad apprendere i nomi dei candidati dei “nostri territori”, selezionati spesso a insaputa degli stessi iscritti dei partiti. Ricordo solo un meccanismo di Possibile per discutere apertamente delle candidature, ma c’è da guardare attoniti a queste notti della repubblica, in cui senza molta luce si decidono le liste dei futuri eletti, notti in cui molti aspiranti candidati si priverebbero di un braccio o ucciderebbero la madre pur di farcela, e manco esagero troppo. Basti pensare a “liberali” della domenica che il lunedì si presentano sotto lo scudo crociato, a gente che si voleva di sinistra e di opposizione ma improvvisamente si ravvede accodandosi a partiti che volevano cambiare l’Italia e oggi sono tutti contenti per aver infilato il simbolo accanto agli avversarsi di una vita. Notti in cui si commettono “parricidi” e si vivono “esperienze tra le più devastanti della propria vita”, come hanno dichiarato alcuni protagonisti – e allora che dire, ringrazio di aver avuto ben altre esperienze devastanti, che so io, in Afghanistan o in Ruanda, anziché in quelle stanze romane.
Non sono della partita e non parlo per me, ma lo dico qui anche per rispondere ai tanti che chiedono “ma ti candidi?”. A volte nella vita arrivano degli “altolà” di un ordine superiore a cui ci si deve arrendere, ed è il mio caso – e dire che in questi anni non sono restato con le mani in mano e nemmeno sono mancati gli incoraggiamenti, ma così deve essere.
Tuttavia ho anche cercato di prodigarmi per qualche amico – gente tosta con voti veri, onestà e voglia di fare – insomma buoni candidati. Ma mica funziona così: proporre una persona di qualità a volte quasi infastidisce, si rischia di alterare un lavoro faticoso, dove con complessi algoritmi si calcolano i voti in più di ciascuno, ma con quel “non troppo” che non metta in ombra i candidati da favorire, idem per competenze, che ci vogliono ma senza far sfigurare chi ne è sprovvisto ma è bravo soprattutto a fare il lecchino.
Proprio così: in molti casi (quasi sempre), meglio non avere consensi, non avere serietà, pur di non alterare gli equilibri di quella che spesso si merita il nome di casta.
Del resto, basta vedere alcuni profili di candidati selezionati, per capire quel che è richiesto, anche in liste che si vorrebbero tra le più aperte e innovative: c’è da restare sconcertati per il servilismo sfacciato, senza nemmeno un briciolo di pudore e tantomeno di autoironia, temperato da un autoreferenzialità alla “ma siamo noi i migliori, la classe dirigente del futuro”.
Orrore.
Non invidio questi selezionatori di liste, per i quali occorrerebbero un corso di laurea e pure un albo professionale, tra i tanti inutili di cui è ricca l’Italia: perché devono possedere competenze matematiche sui voti di ciascun aspirante candidato, psicologiche, geografiche su tutti i collegi della penisola e delle isole, manageriali per creare, con tutti questi ego, una squadra, comunicative, e ancora molto altro. Quanto agli esclusi, potrebbero mettersi insieme e fare un proprio partito, e magari non sarebbe dei peggiori.
(Ma c’è un’eccezione. Conosco un partito che ha chiuso le sue liste raccogliendo candidati rigorosamente provenienti dai propri territori, non appartenenti alla casta dei politici di professione ma invece cittadini con le loro storie vere, entusiasti di partecipare ben sapendo che non corrono per il potere – sanno che non saranno eletti – per parlare di un’altra Italia e testimoniare un impegno di un’altra qualità. È il Partito Repubblicano Italiano, che ritorna sulle schede elettorali dopo vent’anni, alleato di nessuno – ovvero libero. Ma ne parlerò un’altra volta).