Elezioni

  • From freedom fighter to Namibia’s first female president

    Nicknamed NNN, Netumbo Nandi-Ndaitwah has made history by being elected as Namibia’s first female president.

    The 72-year-old won more than 57% of the vote, with her closest rival, Panduleni Itula, getting 26%, according to the electoral commission.

    It is just the latest episode in a life packed with striking events – Nandi-Ndaitwah has fought against occupying powers, fled into exile and established herself as one of the most prominent women in Namibian politics.

    However, Itula has rejected her victory. He said the election was “deeply flawed”, following logistical problems and a three-day extension to polling in some parts of the country.

    His Independent Patriots for Change (IPC) party said it would challenge the result in court.

    Nandi-Ndaitwah has been a loyal member of the governing party, Swapo, since she was a teenager and pledges to lead Namibia’s economic transformation.

    Nandi-Ndaitwah was born in 1952, in the northern village of Onamutai. She was the ninth of 13 children and her father was an Anglican clergyman.

    At the time, Namibia was known as South West Africa and its people were under occupation from South Africa.

    Nandi-Ndaitwah joined Swapo, then a liberation movement resisting South Africa’s white-minority rule, when she was only 14.

    A passionate activist, Nandi-Ndaitwah became a leader of Swapo’s Youth League.

    The role set her up for a successful political career, but at the time Nandi-Ndaitwah was simply interested in freeing South West Africa.

    “Politics came in just because of the circumstances. I should have become maybe a scientist,” she said in an interview this year.

    While still a high school student, Nandi-Ndaitwah was arrested and detained during a crackdown on Swapo activists.

    As a result of this persecution, she decided she could not stay in the country and joined several other Swapo members in exile.

    She continued to organise with the movement while in Zambia and Tanzania, before moving to the UK to undertake an International Relations degree.

    Then in 1988 – 14 years after Nandi-Ndaitwah fled her country – South Africa finally agreed to Namibian independence.

    Nandi-Ndaitwah returned home and subsequently joined the post-independence, Swapo-run government.

    In the years since, she has held a variety of posts, including ministerial roles in foreign affairs, tourism, child welfare and information.

    Nandi-Ndaitwah became known as an advocate for women’s rights. In one of her key achievements, she pushed the Combating of Domestic Violence Act through the National Assembly in 2002.

    According to Namibian media, Nandi-Ndaitwah criticised her male colleagues for trying to ridicule the draft law, sternly reminding them that the Swapo constitution condemns sexism.

    She continued to rise despite Namibia’s traditional and male-dominated political culture, and in February this year she became vice-president.

    She suceeded Nangolo Mbumba, who stepped up after the death of then-President Hage Geingob.

    In her personal life, Nandi-Ndaitwah is married to Epaphras Denga Ndaitwah, the former chief of Namibia’s defence forces. The couple has three sons.

    Throughout her career, Nandi-Ndaitwah has displayed a hands-on, pragmatic style of leadership.

    She once declared in a speech: “I am an implementer, not a storyteller.”

  • Sotto con Priyanka, la famiglia Gandhi manda per la terza volta qualcuno al Parlamento indiano

    Priyanka Gandhi, segretaria generale del Congresso nazionale indiano (Inc), principale forza di opposizione in India, ha giurato come membro della Camera del popolo, la camera bassa del parlamento, dopo la vittoria alle elezioni suppletive del 13 novembre per il seggio del collegio di Wayanad, nello Stato del Kerala. La neodeputata ha vinto con 622.338 preferenze, superando nettamente i due avversari principali: Sathyan Mokeri del Partito Comunista d’India (Cpi), che ne ha ottenute 211.407, e Navya Haridas del Partito del popolo indiano (Bjp), a quota 109.939.

    Il seggio di Wayanad era vacante perché il fratello Rahul Gandhi, figura di spicco del Congresso e leader dell’opposizione alla Camera, nelle elezioni generali tenutesi in primavera si era presentato e aveva vinto sia in quel collegio sia in quello di Raebareli, nell’Uttar Pradesh, optando poi per Raebareli, storica roccaforte del partito e della famiglia Gandhi. I due sono figli di Rajiv Gandhi, l’ex primo ministro assassinato nel 1991, e di Sonia Gandhi, a lungo leader del Congresso e attualmente membro del Consiglio degli Stati, la camera alta. Priyanka è dunque la terza esponente della famiglia a sedere in parlamento.

    Priyanka Gandhi, 52 anni, è segretaria generale del Congresso dal 2020, dopo essere stata segretaria generale nell’Uttar Pradesh orientale, il suo primo incarico ufficiale. Già da tempo, però, partecipava attivamente alla vita del partito, coinvolta nelle campagne elettorali del fratello e della madre, e consultata su questioni importanti come la scelta dei governanti statali. Il suo ingresso in politica è stato ipotizzato per anni, addirittura prima di quello di Rahul: si faceva il suo nome come erede della dinastia politica Nehru-Gandhi, anche per la somiglianza con la nonna Indira.

    Invece, Priyanka è rimasta a lungo, se non proprio nell’ombra, in seconda linea. Si è laureata in psicologia all’Università di Delhi e ha conseguito un master in studi buddisti; quindi è diventata fiduciaria della Fondazione Rajiv Gandhi. Probabilmente ha evitato un impegno più diretto per non ostacolare il fratello, oltre che per dedicarsi alla propria famiglia, formata con l’imprenditore Robert Vadra, col quale è sposata dal 1997 e ha due figli. Nelle campagne elettorali della madre e del fratello, però, c’è stata la sua gestione, e anche la sua voce a partire dal 2014 quando ha cominciato a prendere la parola in prima persona nei comizi.

  • Eliminata una dozzina di Al-Shabaab, Mogadiscio annulla le elezioni nell’Oltregiuba

    Almeno 12 membri del gruppo jihadista somalo degli al Shabaab, di cui tre comandanti, sono morti in un raid aereo avvenuto nell’area di Haway, vicino alla città di Sablale, nella regione del Basso Scebeli. Lo riferiscono fonti citate dal sito d’informazione somalo “Garowe online”, secondo cui i comandanti stavano tenendo una riunione operativa al momento dell’attacco, presumibilmente pianificando un attacco terroristico.

    Sablale, situata a circa 200 chilometri dalla capitale Mogadiscio, è considerato un centro di comando chiave per le operazioni di al Shabaab nella regione meridionale. Non è chiaro chi abbia effettuato il raid, tuttavia il Comando degli Stati Uniti per l’Africa (Africom) compie frequenti attacchi simili.

    Il gruppo jihadista somalo ha perso ampie fasce di regioni rurali centrali e meridionali a seguito di una recente operazione dell’Esercito nazionale somalo (Sna), con l’aiuto degli alleati (tra cui gli Usa). L’esercito è attualmente coinvolto in operazioni attive nelle regioni centrali e meridionali.

    Sempre nella fascia meridionale del Paese, il governo federale della Somalia non ha riconosciuto l’esito delle elezioni del 24 novembre nell’Oltregiuba, che hanno visto la rielezione del presidente uscente Ahmed Islam Mohamed alias “Madobe”, dichiarando il voto illegale e in violazione della Costituzione del Paese. In un duro comunicato pubblicato al termine di una riunione di gabinetto presieduta dal primo ministro Hamza Abdi Barre, il governo ha inoltre accusato annunciato di aver incaricato il Procuratore generale di presentare un’azione legale contro Madobe presso la Corte suprema. “Il nostro impegno per lo stato di diritto è risoluto. Le azioni intraprese oggi riflettono la nostra determinazione a sostenere i principi democratici e ad assicurare che tutti i processi elettorali siano condotti in conformità con la legge”, ha affermato il premier Barre in conferenza stampa.

    Ahmed Islam Mohamed alias “Madobe” è stato rieletto presidente dello Stato dell’Oltregiuba, in Somalia, al termine di contestate rielezioni regionali tenute oggi. Lo ha annunciato la Commissione elettorale statale, precisando che il presidente uscente è stato rieletto per un secondo mandato con 55 voti sui 75 totali espressi dal parlamento regionale. Altri due candidati, Abubakar Abdi Hassan e Faisal Abdi Matan, hanno ricevuto rispettivamente quattro e 16 voti. Entrambi hanno riconosciuto la sconfitta e si sono congratulati con il vincitore, che guiderà lo Stato regionale per altri cinque anni. “Sono pronto a lavorare con il presidente eletto dell’Oltregiuba Ahmed Madobe”, ha affermato Abdi Hassan, mentre Abdi Matan ha affermato che “il risultato delle elezioni è stato giusto”. Le elezioni si sono tenute oggi nella capitale regionale Chisimaio. Madobe ha pronunciato un duro discorso di insediamento, nel quale ha ribadito la necessità che all’interno dello Stato prevalga lo spirito di riconciliazione, sottolineando che dal 2013 la sua amministrazione ha dovuto affrontare una seria opposizione che ha incluso la violenza armata.

    I toni più duri sono stati usati nei confronti dell’amministrazione federale di Mogadiscio, con la quale Madobe è ai ferri corti per la riforma costituzionale voluta dal presidente Hassan Sheikh Mohamud e per le tensioni dovute alla presenza delle truppe etiopi nella regione di Ghedo (che fa parte del territorio dell’Oltregiuba): da una parte il governo federale ne chiede il ritiro, vista la disputa con Addis Abeba sul controverso memorandum d’intesa siglato con il Somaliland, dall’altro Madobe ne chiede la permanenza in quanto ritenute cruciali nel contrasto al terrorismo. “Non riconosco l’Etiopia o il Kenya, né mi interessa nessun altro. Nell’Oltregiuba non c’è nessun altro presidente al di fuori di me. Non ci sono forze di sicurezza qui, tranne le forze dell’Oltregiuba, e nessuno oserà disturbare la stabilità di Chisimaio sotto la mia sorveglianza”, ha dichiarato Madobe. Il presidente eletto ha quindi accusato il governo federale di aver schierato le sue truppe a Raaskambooni nel tentativo di destabilizzare la regione e distogliere l’attenzione dalla guerra contro il gruppo jihadista al Shabaab, come fatto nel 2013 sotto il primo mandato dello stesso presidente Mohamud. “Questo non accadrà mai più”, ha giurato, avvertendo che le forze regionali annienteranno qualsiasi minaccia da parte del governo federale. “L’Oltregiuba è l’Oltregiuba e non ci sarà mai nessun’altra amministrazione in questo Stato tranne la mia”, ha aggiunto Madobe.

    Il voto si è svolto in un clima di forti tensioni, dopo che sabato scorso pesanti combattimenti sono scoppiati nella capitale regionale, Chisimaio, dove le forze di sicurezza dell’Oltregiuba si sono scontrate con le truppe fedeli a un candidato presidenziale dell’opposizione, Ilyas Beddel Gabose, che sfidava il leader statale Ahmed Madobe in vista delle elezioni cruciali previste per domani, 25 novembre. Gli scontri, riferiscono fonti citate dal quotidiano “Somali Guardian”, sono scoppiati dopo che a Gabose è stato negato l’ingresso in un hotel dove erano in corso i preparativi per le elezioni. Le tensioni sono rapidamente aumentate quando una delle sue guardie del corpo è stata uccisa, innescando un violento scambio di colpi di arma da fuoco. Si segnalano vittime da entrambe le parti, anche se il bilancio esatto rimane poco chiaro. Gabose, le cui forze si sono scontrate con le truppe regionali dell’Oltregiuba, ha annunciato la sua candidatura a presidente regionale solo pochi giorni fa ed è membro del Senato della Somalia.

    Il ministro della Sicurezza somalo Abdullahi Sheikh Ismail Fartag ha condannato le violenze a Chisimaio, accusando il presidente uscente Madobe di esacerbare le tensioni nella regione e di aver deliberatamente portato il Paese verso un collasso totale, trasformandosi in un conflitto ancora più devastante. “Ciò dimostra che Ahmed è determinato a provocare una guerra civile tra le comunità fraterne che vivono nell’Oltregiuba”, ha detto. Ciò è avvenuto solo pochi giorni dopo che il primo ministro somalo Hamza Abdi Barre, ex alleato di Madobe, ha accusato il suo ex amico di aver tentato di rovesciare il suo governo e lo ha messo in guardia dall’utilizzare le forze di sicurezza per alimentare la violenza nel tentativo di assicurarsi la rielezione, dichiarando che tali azioni sarebbero state considerate un reato penale. In un chiaro segno di crescenti tensioni tra l’Oltregiuba e il governo federale, Mogadiscio ha recentemente bloccato tutti i voli dalla capitale alla città di Dolow, nella regione di Ghedo, come forma di rappresaglia contro le autorità dell’Oltregiuba per l’arresto di sei ufficiali dell’esercito in rotta verso Elwak. Inoltre, Mogadiscio ha schierato truppe e armi a Elwak, nell’evidente tentativo di estromettere l’amministrazione allineata al presidente Madobe dalle città chiave di Ghedo.

  • Il comune sardo di Ollolai offre case a un euro agli elettori delusi dalla vittoria di Trump

    L’amministrazione di Ollolai, comune sardo in provincia di Nuoro, sta offrendo case a un euro agli elettori statunitensi delusi dalla vittoria del repubblicano Donald Trump alle presidenziali del 5 novembre. “Sei stanco della politica globale? Cerchi di abbracciare uno stile di vita più equilibrato mentre ti assicuri nuove opportunità? È ora di iniziare a costruire la tua fuga europea nello stupefacente paradiso della Sardegna”, afferma il sito web promozionale dell’iniziativa, che punta ad affrontare il problema dello spopolamento mettendo in vendita case a prezzi irrisori. L’offerta si rivolge soprattutto a futuri e potenziali espatriati dagli Stati Uniti, che beneficeranno di una “procedura accelerata”. A spiegarlo all’emittente “Cnn” è il sindaco di Ollolai, Francesco Columbu, il quale ha chiarito che il sito web è stato appositamente creato “per soddisfare le esigenze di ricollocazione post-elettorale degli Stati Uniti”.

    “Ci concentreremo soprattutto sugli americani. Naturalmente, non possiamo vietare alle persone di altri Paesi di presentare domanda, ma loro beneficeranno di una procedura accelerata”, ha detto il sindaco, spiegando che il possesso di un passaporto statunitense non è un prerequisito per il trasferimento. Tuttavia, “stiamo scommettendo su di loro per aiutarci a far rivivere il villaggio, sono la nostra carta vincente. Certo, non possiamo menzionare specificamente il nome di un presidente appena eletto, ma sappiamo tutti che è lui la persona da cui molti americani vogliono allontanarsi e lasciare il Paese”, ha aggiunto, spiegando che l’offerta è valida per pensionati, lavoratori a distanza, imprenditori e persone di tutte le età.

    Le tipologie di alloggi offerte, le cui foto e planimetrie verranno caricate presto sul sito web, sono tre: case temporanee a titolo gratuito per alcuni nomadi digitali, case da un euro che necessitano di ristrutturazione e case pronte da abitare con prezzi fino a 100.000 euro. Negli ultimi cento anni, la popolazione di Ollolai è passata da 2.250 a 1.300 abitanti, con solo una manciata di nascite all’anno. Molte famiglie hanno lasciato il paesino in cerca di fortuna, di lavoro e vite migliori, facendo scendere ulteriormente il numero dei residenti ad appena 1.150 negli ultimi anni.

  • La certezza del diritto

    Uno stato democratico si caratterizza attraverso la certezza del diritto che assicura equità tra i diversi poteri all’interno di una società sempre più complessa ed articolata. La stessa divisione dei poteri rappresenta lo scheletro di garanzie istituzionali dal quale poi vengono esercitati i diversi poteri nella piena e reciproca legittimità. In questo contesto democratico, la sola idea, si ribadisce la sola idea, di spostare l’appuntamento elettorale delle elezioni regionali, in scadenza nel 2025, all’anno successivo e, di conseguenza, aumentando di un anno il mandato in una carica, rappresenta un attacco senza precedenti non solo alla certezza di diritto ma anche alla tutela del diritto di voto attraverso il quale si esercita la volontà dei cittadini.

    A questi ultimi, infatti, verrebbe posticipato di un anno il diritto costituzionalmente garantito di confermare o meno la fiducia alla coalizione al governo, anche se regionale, dopo cinque anni che ora, nella proposta, diventerebbero sei.

    Pur essendo condivisibile l’obiettivo di istituire un unico Election Day per evitare la campagna elettorale perenne nel Paese, questa modifica della durata del mandato elettorale dovrebbe venire dichiarata all’ultimo appuntamento elettorale, non certo in corso d’opera e comunque escludendo le autorità in carica.

    In più, a “sostegno” di questa iniziativa si aggiunge una ulteriore miserabile motivazione individuabile nella volontà espressa del Vice Presidente del Consiglio di offrire la possibilità al governatore del Veneto in carica di inaugurare le prossime Olimpiadi del 2026.

    La sintesi si traduce nella modifica e nell’utilizzo per fini espressamente privati di una garanzia democratica, i tempi del mandato elettorale, per di più manifestata da un vicepresidente del Consiglio, espressione cioè del potere esecutivo, un potere concorrente rispetto a quello legislativo.

    In altre parole, quando il potere esecutivo intende modificare i principi istituzionali così come la certezza del diritto automaticamente si esce dal modello democratico per entrare in una selva oscura.

    Questa iniziativa rappresenta una strategia politica assolutamente priva di qualsiasi fondamento democratico, ed anche se potrebbe esprimere un sostanziale analfabetismo istituzionale, ma non certo giustificarla, risulta assolutamente inaccettabile e rappresenta un pessimo e molto pericoloso esempio di utilizzo delle prerogative democratiche finalizzate al perseguimento di obiettivi personali o di un singolo partito.

    L’election day rappresenta una delle fondamentali riforme da adottare per evitare di vivere in un paese in continua campagna elettorale, incapace quindi di elaborare qualsiasi programma a medio e lungo termine. Tuttavia va ribadito che il percorso verso la sua adozione dovrebbe escludere i rappresentanti attualmente in carica. L’idea di ridurre il perimetro di garanzia istituzionale attraverso la proroga di un anno del mandato elettorale offre il senso della cultura democratica di chi la propone e rappresenta un ulteriore insulto ai cittadini che vedrebbero rimandato di un anno il proprio diritto al voto.

    In ultima analisi questa proposta rappresenta il senso e la volontà di prevaricazione del potere esecutivo nei confronti delle garanzie istituzionali e della stessa certezza del diritto. La sola ignoranza non può più rappresentare una giustificazione accettabile.

  • Somaliland opposition leader wins presidential election

    The opposition leader of the self-declared republic of Somaliland, Abdirahman Mohamed Abdullahi, has won the territory’s presidential election.

    More popularly known as Irro, he won with 64% of the vote to become Somaliland’s sixth president since it broke away from Somalia in 1991.

    The 69-year-old, a former speaker of Somaliland’s parliament, beat incumbent Musa Abdi Bihi, who took 35% of the vote.

    During campaigning, Irro said his party would review a controversial deal to lease landlocked Ethiopia a 20km (12-mile) section of its coastline for 50 years to set up a naval base – an agreement that has caused a diplomatic feud in the region.

    As part of the deal, announced on New Year’s Day, Somaliland expects to be recognised by Addis Ababa as an independent nation.

    This has upset Somalia, which regards Somaliland as part of its territory – and it has said it views the deal as an act of aggression.

    Irro has never rejected the deal out of hand, but when discussing it has used diplomatic language, which suggests a change of tack.

    Somaliland is located in a strategic part of the world, and is seen as a gateway to the Gulf of Aden and the Red Sea.

    Despite its relative stability and regular democratic elections, it has not been recognised internationally.

    “We are all winners, the Somaliland state won,” Irro said, commending everyone for the peaceful vote on 13 November that was witnessed by diplomats from nine European countries and the US.

    He also thanked outgoing President Bihi, who has led the breakaway region since 2017.

    Critics say Bihi lost support because of a paternalistic style – saying he had been dismissive of public opinion at a time when economic difficulties have undermined the value of the local currency.

    The president-elect, who will be sworn in on 14 December, is seen as a more unifying figure.

    But he has said he will continue Somaliland’s relations with Taiwan – over which China claims sovereignty.

    When the two established diplomatic relations in 2021 it angered both China and Somalia.

    Somaliland is a former British protectorate that joined the rest of Somalia on 1 July 1960.

    In a conflict leading up to the overthrow of President Siad Barre in 1991, tens of thousands of people were killed in Somaliland and its main city of Hargeisa was completely flattened in aerial bombardments.

    In the chaos that followed Barre’s departure, Somaliland declared its independence and has since rebuilt the city, created its own currency, institutions and security structures.

    This is often contrasted to Somalia, which collapsed into anarchy for decades and still faces many challenges, including from Islamist militants, and does not hold direct elections.

    Born in Hargeisa, Irro went to school in Somalia and later attended college in the US – graduating with a master’s degree in business administration.

    After university he pursued a diplomatic career, joining Somalia’s foreign service in 1981.

    He was posted to Moscow where he worked at Somalia’s embassy. During the civil war, he became the country’s acting ambassador to the former Soviet Union.

    Many people fled Somalia during the conflict, which tore the nation apart, including Irro’s family who went to live in Finland.

    He was able to be reunited with them there and obtained Finnish citizenship.

    Irro returned to Somaliland several years later, entering politics in 2002 as co-founder of the opposition Justice and Welfare party (UCID).

    He went on to serve as speaker of the parliament for 12 years.

    It was during this time that he established the Wadani Party, which has grown to be a powerful political force in Somaliland and on whose ticket he won this year’s election.

    Additional reporting by Bidhaan Dahir and BBC Monitoring.

  • Elezioni statunitensi ed aspettative balcaniche

    Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura;

    alla prova poi, difficile, schizzinosa….

    Alessandro Manzoni

    Rivolgendosi ai suoi discepoli, che insieme con lui erano saliti alla montagna, Gesù disse loro: “Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta” (Vangelo secondo Matteo, 5/14; n.d.a.). Riferendosi proprio a questi versi anche il puritano inglese John Winthrop si rivolse ai suoi compagni di viaggio, mentre si apprestavano ad arrivare al Nuovo Mondo nel lontano 1630. “Noi dobbiamo sempre considerare che dobbiamo essere come una città sopra una collina; gli occhi di tutta la gente sono su di noi”. Parole che ispirarono anche Ronald Reagan durante il suo ultimo discorso da presidente degli Stati Uniti d’America, dopo la fine del suo secondo mandato. Durante quel discorso, nel gennaio 1989, lui immaginava gli Stati Uniti come “una città luminosa, una città su una collina”. Un modello che, secondo lui, avrebbe dovuto ispirare, illuminare e attrarre tutti coloro che apprezzano la libertà e la democrazia.

    Il 5 novembre scorso si sono svolte le elezioni negli Stati Uniti d’America. Erano le 60e elezioni, dopo le prime, quelle del 1788-1789, in cui è stato eletto il primo presidente degli appena costituiti Stati Uniti d’America, George Washington. Gli Stati Uniti sono stati costituiti durante il secondo congresso continentale il 4 luglio 1776, come unione di tredici colonie britanniche che decisero di staccarsi dal Regno Unito. Durante quel congresso è stato approvato il testo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Un testo scritto da Thomas Jefferson, uno dei Padri Fondatori della nuova Federazione. Un anno dopo, nel 1787 è stata presentata la Costituzione degli Stati Uniti d’America, che è entrata poi in vigore nel marzo del 1789.

    Il 5 novembre scorso si è votato per eleggere sia il presidente, che tutti i rappresentanti del 119o Congresso, ossia la Camera dei rappresentanti, nonché 34 nuovi rappresentanti del Senato. Ebbene, dalle elezioni è uscito vincitore il candidato del partito repubblicano, Donald Trump, ottenendo il suo secondo mandato non consecutivo come il 47° presidente degli Stati Uniti d’America. In più, dalle elezioni del 5 novembre scorso il partito repubblicano, ad ora, ha vinto anche la maggioranza dei seggi del Senato e della Camera dei rappresentanti.

    Ovviamente le elezioni del 5 novembre scorso negli Stati Uniti d’America non potevano non attirare l’attenzione delle cancellerie di tutto il mondo, dei media e delle più importanti istituzioni internazionali, quelle dell’Unione europea comprese. Il risultato di quelle elezioni ha suscitato delle aspettative anche nei Paesi balcanici. Paesi che, per varie ragioni cercano delle alleanze, oltre a quelle ormai stabilite o, almeno, degli appoggi temporanei. Ragion per cui vedono nel nuovo presidente degli Stati Uniti d’America un probabile alleato e/o sostenitore dei loro interessi. E stanno facendo di tutto per riuscirci, compresi il coinvolgimento degli “emissari” che possono garantire dei “rapporti d’affari” con i più stretti famigliari del presidente appena eletto. Ma ci sono anche alcuni rappresentanti politici dei Paesi balcanici che, nel passato, hanno avuto dei rapporti non buoni con alcune persone molto vicine al nuovo presidente statunitense, persone che con buone probabilità avranno delle importanti cariche istituzionali. Cariche che possono avere delle influenze significative anche nella regione dei Balcani occidentali.

    Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono state seguite con grande attenzione ed interesse in Serbia. I massimi rappresentanti del Paese hanno festeggiato la vittoria di Donald Trump. Proprio loro che hanno un appoggio dichiarato dal presidente della Russia e da altri Paesi che, sulla carta, non hanno o, almeno, non dovrebbero avere buoni rapporti con gli Stati Uniti d’America. E si tratta di importanti rapporti geopolitici, geostrategici, economici ed altri. Il presidente della Serbia si è vantato di essere stato tra i primi che aveva salutato personalmente il nuovo presidente statunitense.

    “Sono stato tra i primi al mondo. Forse lo ha fatto [prima di me] solo il presidente australiano. Ho parlato anche con delle persone dal suo più ristretto ambiente. […]. In Serbia tutti speravano in una vittoria di Donald Trump a causa degli avvenimenti del 1999. Molte persone pensavano che lui era un diavolo, ma adesso sembrerà un angelo…” ha detto il presidente serbo. Aggiungendo altresì che “…è importante per me che lui è un imprenditore e credo che i nostri rapporti saranno migliori”. Bisogna sottolineare che nel maggio scorso il genero di Trump ha firmato con il governo serbo un contratto di investimenti di circa 500 milioni di dollari per delle costruzioni in pieno centro della capitale della Serbia.

    L‘elezione di Trump ha reso molto felice anche il presidente della Republika Srpska (Repubblica Serba; n.d.a.) di Bosnia ed Erzegovina che è una delle due entità del Paese. I media hanno fatto vedere lui bevendo grappa e cantando, mentre seguiva in televisione i risultati che confermavano la vittoria di Donald Trump. Bisogna sottolineare che il presidente della Republika Srpska è stato dichiarato in precedenza una persona “non grata” per gli Stati Uniti d’America come un estremista serbo. Anche lui però è, come il presidente serbo, molto legato al presidente della Russia. Lui però si è vantato, scrivendo nelle reti sociali dopo la vittoria di Trump, che “Siccome l’ambasciata statunitense a Sarajevo non ha organizzato la festa per la vittoria di Donald Trump l’ho organizzato io come presidente della Republika Srpska”.

    Il risultato delle elezioni presidenziali del 5 novembre scorso negli Stati Uniti è stato seguito anche in Kosovo con interesse. Si perché i massimi dirigenti del Paese avevano delle aspettative per la vittoria della candidata del partito democratico. Ma nonostante ciò anche loro, formalmente, hanno salutato il presidente eletto. Bisogna sottolineare che alla fine del suo primo mandato, il presidente Trump il 4 settembre 2020 ha ospitato nel suo ufficio le delegazioni della Serbia e del Kosovo per firmare un “accordo economico”. Ma, secondo gli analisti, le ragioni erano ben altre, tra cui anche la possibilità di ripartizioni territoriali tra i due Paesi. Una proposta che non è stata mai accettata dagli attuali rappresentanti governativi e statali del Kosovo.

    La vittoria di Donald Trump è stata salutata anche dal primo ministro albanese. Sì, proprio da lui che alla vigilia delle elezioni del 2016 dichiarava convinto che “… nessun problema a ripetere, sia in albanese che in inglese, che Donald Trump è una minaccia per l’America e che non si discute che è una minaccia anche per i rapporti tra l’Albania e gli Stati Uniti”. Il primo ministro albanese allora era altresì convinto che “È vergognoso per gli Stati Uniti d’America eleggere un presidente come Donald Trump!…Se Trump sarà presidente, questa sarà una disgrazia per gli Stati Uniti!”. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò a tempo debito (Dichiarazioni irresponsabili e deliranti, 21 novembre 2016; Piroette geopolitiche e alleanze instabili, 4 novembre 2019). Ma adesso lui ha cambiato completamente opinione sul presidente appena eletto. “La vittoria di Trump potrebbe essere qualcosa migliore per l’Europa”, dichiarava la scorsa settimana da Budapest il primo ministro albanese. Per lui adesso gli Stati Uniti con Donald Trump saranno “una città luminosa, sulla collina”. Chissà perché?! Ma niente può stupire da un saltimbanco senza scrupoli come lui!

    Chi scrive queste righe seguirà come andranno a finire le aspettative balcaniche legate al risultato delle elezioni statunitense del 5 novembre scorso. Ma anche per i rappresentanti politici dei Paesi balcanici potrebbe essere valido quanto scriveva Alessandro Manzoni. E cioè che “Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa…”.

  • Dalla caduta del muro di Berlino ai nuovi assetti mondiali: l’Europa si svegli

    Il 9 novembre 1989 abbiamo tutti festeggiato la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania che rappresentava anche una nuova speranza per un’Unione Europea più forte e coesa.

    A distanza di tempo rimangono ancora irrisolti i problemi dovuti alla riunificazione, non solo quelli economici, tutti gli stati europei hanno infatti, in misura diversa, contribuito a pagarne il costo, ma quelli culturali legati alla permanenza, per tanti anni, degli abitanti della Germania dell’est sotto il giogo comunista e senza conoscere il valore autentici della libertà e della democrazia.

    Oggi la Germania, per molto tempo pilastro fondamentale dell’Unione, sta vivendo una crisi preoccupante per i risvolti interni ed esterni: formazioni politiche estremiste, crisi di governo, riduzione della crescita sono problemi che, assommati a quelli derivanti dalla guerra russa contro l’Ucraina, dalla mancanza di unione politica e di difesa in Europa e dal nuovo corso che con Trump prederanno gli Stati Uniti, destano significative preoccupazioni.

    Il diverso corso che prenderà la politica statunitense verso l’Europa, anche tendendo conto degli altri risvolti internazionali, e l’attuale debolezza tedesca, che va di pari passo a quella francese, e non solo, dovrebbero finalmente convincere il Consiglio europeo ad affrontare immediatamente al proprio interno il confronto sulla urgente necessità di attuare quanto fino ad ora è stato solo enunciato e promesso.

    L’Europa è veramente unita solo se si dota, finalmente, di una politica comune di difesa e di progettualità sociale ed economica, senza l’Unione politica siamo destinati ad un inesorabile declino con catastrofiche conseguenze per noi e per i paesi nostri partner, a cominciare dall’Africa che è sempre più colonizzata da Cina e Russia.

    Il nuovo patto di offesa, più che di difesa, tra Russia e Corea del Nord, la ormai stretta amicizia tra Russia e Cina, la confluenza degli interessi di alcuni paesi Bric verso la ricerca di un diverso ordine mondiale, il che non significa solo modifica di assetti economici ma soprattutto di sistemi culturali e del concetto di libertà e democrazia, non consentono all’Europa ulteriori indugi.

    Anche a noi cittadini il compito di ricordarlo ai nostri rappresentanti nazionali ed europei, solo se sentiranno che la nostra voce è forte e decisa finalmente faranno seguire i fatti alle troppe parole inutili.

  • Le elezioni americane e la vittoria di Trump

    Le ragioni che spingono ogni elettore verso la scelta che farà sono sempre più di una e non ogni volta tutte coscienti perfino per chi vota. Figuriamoci come possano essere tutte chiare a chi cerca di spiegare politicamente il perché di consensi o di ostilità. Certamente, il più delle volte i motivi che spingono con quel voto a stare da una parte o dall’altra o da un’altra ancora sono magari irrazionali, seppur chi lo fa dà a sé stesso spiegazioni del tutto logiche. È ciò che succede nel tifo calcistico. Provate a chiedere ad un tifoso sfegatato perché tifa per quella certa squadra. Vi risponderà con una serie di ragioni apparentemente razionali, ma lui stesso in fondo ne dubita e non riuscirà mai a spiegarsi con sincera sicurezza i motivi di quella “passione”. In politica, quando ancora vivevano le ideologie contrapposte, tutto era più semplice, visto che quali fossero le “verità” e le motivazioni per giustificarle, seppur a posteriori, erano disponibili per tutti, ovunque e ogni giorno. Comunque esistevano i libri “Bibbia”, forse mai letti, che si potevano citare.

    Quando scomparvero le grandi contrapposizioni ideologiche i voti cominciarono a diventare sempre più “mobili” e le “chiese” dovettero fare i conti con “fedeli” sempre più incerti. Fu allora che cominciò a manifestarsi con un costante crescendo il fenomeno dell’astensionismo. Chi continuava a votare, pur mantenendo davanti a sé stesso ed agli altri una qualche ragione oggettivabile dovette, quindi, affidarsi alle personalità che meglio potevano rappresentare, a torto o a ragione, ciò cui aspiravano o immaginavano di aspirare. Frequentemente, il fenomeno avveniva attraverso quel meccanismo che gli psicologi chiamano “proiezione” e che consiste nell’attribuire al personaggio in oggetto obiettivi o caratteristiche che in realtà sono soltanto immaginate.

    Nonostante le evidenti differenze tra i sistemi politici europei e quello americano, in questo secondo caso e in particolare durante le elezioni presidenziali, la scelta è, almeno in parte, dovuta soprattutto alla personalità dei candidati e a come sono percepiti. Dico almeno in parte poiché negli USA la secolare divisione tra soli due partiti ha continuato per molti (ma, evidentemente, non per tutti) a restare una discriminante.

    Gli analisti politici (e gli pseudo-tali) hanno cercato, e a volte trovato, molte ragioni razionali per giustificare la scelta di voto tra Trump e Harris: il fenomeno dell’immigrazione, i problemi di disoccupazione dei colletti blu, l’inflazione, soldi spesi per guerre lontane e incomprensibili, la candidatura tardiva e l’evidente inadeguatezza della candidata democratica, ecc. Tutte motivazioni reali ma ciò che pochi hanno non sufficientemente evidenziato è la ragione psicologica inconscia che ha spinto molti elettori verso una direzione o l’altra. Non va dimenticato che tutti i candidati particolarmente in vista hanno sempre una loro storia, una loro identità, un loro qualche “programma” ma che sono anche oggetto di quella “proiezione” cui si accennava poco sopra. Ebbene, Harris è stata percepita come rappresentante di un sistema ora dominante, soffocante per il popolo e vicino alle élite; Trump come chi si batteva contro quel sistema.

    È innegabile che sia negli Stati Uniti sia nelle altre democrazie occidentali è in corso da tempo uno scivolamento sociale verso il cosiddetto “pensiero unico”. In particolare, proprio le cosiddette “sinistre” (negli USA i Democratici) ne sono i dichiarati interpreti e lo impongono a tutti grazie al controllo esercitato sulla stampa, al conformismo becero degli intellettuali e alla censura praticata in vario modo verso chi non sia “in sintonia”.  Sto parlando di quei presunti “valori” che vengono smerciati come universali ed assoluti, cioè come l’unica verità ammissibile. Eccone qualche esempio: la cultura woke, il politicamente corretto, l’enfasi sul “Bene” dell’immigrazione, l’ideologismo green e quell’assurda a-sessualità che è il pensiero gender. Il paradosso sta nel fatto che mentre nel passato le “sinistre” sembravano essere coloro che prendevano le parti delle minoranze contro la potenziale arroganza impositiva della maggioranza, oggi sono assurte ad essere diventate l’emblema della prepotenza di poche minoranze contro la maggioranza della popolazione.

    Da chi è composta questa “maggioranza”? Da chi sa o percepisce pur senza il coraggio di manifestarlo pubblicamente che il gender è una idiozia perché esistono maschi e femmine, che esistono etero e omosessuali, che esistono anche, seppur rari, i transgender, ma poi ci si ferma li ed il resto è solo frutto di poche fantasie malate o di chi, semplicemente, crede di sentirsi “moderno”. La maggioranza ha capito che la filosofia woke è la negazione delle proprie radici e non è quindi accettabile, ha capito che il battage sulla responsabilità umana dei cambiamenti climatici è per lo meno esagerata, visto che nella storia del nostro pianeta variazioni di clima molto importanti sono sempre avvenute anche in assenza di industrie e di uso del petrolio. La maggioranza ha capito che il politicamente corretto è pura ipocrisia o becero conformismo e che l’immigrazione incontrollata nei numeri e nel tipo di cultura è fonte di gravi tensioni sociali e favorisce la delinquenza. Ha anche capito, magari sempre inconsciamente, che anche nelle democrazie più storicamente consolidate esistono certi poteri (finanziari) sempre più forti che condizionano la politica e rendono quindi pura apparenza molti aspetti della lotta tra partiti. Nelle elezioni americane questi sentimenti, pur non essendo la sola ragione della vittoria di Trump, hanno giocato un grande ruolo. Se ci si chiede perché molti supposti elettori Democratici hanno votato a favore dell’aborto nei referendum e poi Repubblicano nelle elezioni una parte della spiegazione sta proprio lì. Chissà sa la nostra “sinistra” sarà capace di capirlo? Ma forse manca troppo di capacità introspettiva e di autocritica per capirlo.

    Trump, pur essendo un miliardario che, a differenza del mito americano non si era “fatto da solo”, pur essendo un bancarottiere e pure, probabilmente, un evasore fiscale è stato percepito come “il” personaggio anti-sistema. Il suo rompere le regole nel linguaggio, il suo maramaldeggiare le abitudini sociali, il suo essere ostracizzato dai media hanno fatto da colore alla sua esuberante personalità. In qualche modo, lo hanno reso credibile come uomo della riscossa di quelle fasce della popolazione che non potevano più identificarsi con la classe dirigente oramai solo autoreferente. Ciò che ha prevalso nella mente dei suoi elettori è il semplice buonsenso quotidiano contro “verità” incomprensibili e contro natura. Il fatto che le élite mediatiche, gli intellettuali conformisti e perfino la maggior parte delle star miliardarie e ingioiellate, si pronunciassero con una sola voce contro di lui lo ha reso ancora più appetibile agli occhi di chi si sentiva vessato da “verità assolute” non sue ma non aveva mai avuto il coraggio, o il modo, di dirlo apertamente.

  • Il vero vincitore delle elezioni statunitensi

    Ora che i risultati emergono nella loro evidenza si possono anche individuare i fattori del successo di Donald Trump.

    Di certo l’attenzione dimostrata verso il lavoro inteso come un fattore determinante nella progettualità di vita dal quale dipendono le vite delle famiglie ha sicuramente ottenuto il proprio e giusto riscontro elettorale. In questo contesto, e come naturale conseguenza logica, ha ottenuto maggior peso lo stesso mondo dell’industria e dell’agricoltura, che rappresentano il vero Deep State statunitense, in assoluta contrapposizione alle rendite di posizione legate ai flussi sia turistici che di semplice business delle città posizionate sulla costa (1).

    In questo senso l’idea stessa di introdurre dei dazi, già anticipata dalla precedente amministrazione Biden, se venisse confermata nasce proprio dal principio di una maggiore tutela nei confronti dei prodotti made in USA rispetto soprattutto ai prodotti made in China, e in questo senso l’export italiano non dovrebbe temere dei grossi contraccolpi ai propri flussi commerciali verso il mercato statunitense. Va ricordato, infatti, come una ricerca della Bloomberg Investiment presso i consumatori statunitensi di Made in Italy avesse evidenziato, nel 2018, come tutti i consumatori si erano dichiarati disponibili a pagare anche un prezzo maggiorato del +30% purché questi prodotti rimanessero espressione della filiera italiana e del vero Made in Italy. Un vero monito ed opportunità nella complessa gestione delle filiere artigianali ed industriali portatrici dei valori legati al way of life che il Made in Italy esprime.

    La rinnovata centralità del sistema industriale come fattore di crescita rappresenta, quindi, la seconda motivazione che ha portato alla vittoria in quanto strettamente legato al valore del lavoro ed a quanto questo riesca ad assicurare in termini di qualità della vita (2).

    Sicuramente, poi, il successo parte anche dalla consapevolezza nell’adozione del principio di uguaglianza per tutti i lavoratori statunitensi di ogni origine e razza. Contrapposto, viceversa, a quello dell’inclusione all’interno di Stato etico come proposto dal delirio Woke ed abbracciato dalla candidata democratica ed espresso dall’intero mondo di Hollywood. Una deriva etica che esalta la folle centralità dell’IO ASSOLUTO da imporre alla società dalla quale si pretendono oltre i diritti riconosciuti, anche quelli specifici in relazione alla propria singola particolarità (3).

    La prospettiva di crescita economica, quindi, legata alla capacità di assicurare il benessere dei cittadini è stata premiata rispetto alla presunzione ideologica che voleva imporre un modello di inclusione per la cui realizzazione potevano venire addirittura negati quei diritti fondamentali, come quello di critica e di opinione, che il “politicamente corretto” ha cercato di limitare come una sorta di censura (4).

    A questo si aggiunga come di certo sia stato ridimensionato nella sua importanza e capacità di influenzare la masse di adoratori tutto il mondo di Hollywood, che si era dichiarato apertamente a favore della candidata Kamala Harris ed illuso di favorirla.

    Gli Stati Uniti esprimono una democrazia complessa ed articolata, più vicina nella sua grandezza a un continente che non ad un semplice stato federale, in questo favorito anche dalla indipendenza energetica che probabilmente favorirà il proprio progressivo isolazionismo.

    In questa articolata complessità emersa dai risultati delle ultime elezioni negli Stati Uniti si conferma, viceversa, l’incapacità di comprenderne le dinamiche con un approccio provinciale della stragrande maggioranza dei media e del corpo politico italiano ed europeo.

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