L’elezione del ministro degli Esteri di Gibuti Mahmoud Ali Youssouf alla guida della Commissione dell’Unione africana, avvenuta il 15 febbraio ad Addis Abeba nel corso del 38mo vertice dei capi di Stato e di governo dell’organizzazione continentale, sancisce una dura sconfitta per il Kenya, che puntava sul suo candidato Raila Odinga. Quest’ultimo, ex premier e leader storico dell’opposizione keniota, era dato come favorito da molti alla vigilia del voto, sia nei confronti di Youssouf che del terzo candidato, il malgascio Richard Randriamandrato. Alla fine, tuttavia, Odinga – dopo essere stato in vantaggio nei primi due turni di votazioni – è stato superato da Youssouf e costretto ad uscire dalla corsa: il ministro degli Esteri gibutino è riuscito a quel punto ad assicurarsi i 33 voti necessari all’elezione, conquistando il prestigioso incarico. La sconfitta di Odinga, ritenuto il grande favorito della vigilia e apertamente sostenuto dal presidente keniota William Ruto, potrebbe tuttavia non apparire così sorprendente.
Sebbene tra la delegazione keniota al quartier generale dell’Unione africana si respirasse un clima di grande ottimismo, una serie di fatti avrebbero indispettito gli altri Paesi, contribuendo a far pendere la bilancia del voto in favore del candidato gibutino. Secondo fonti citate dal quotidiano keniota “Standard Media”, la delegazione keniota è rimasta scossa da una lettera che esortava i membri della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) a votare per il candidato del Madagascar – Paese membro del blocco regionale meridionale -, provocando la piccata reazione del primo segretario del ministero degli Esteri, Korir Sing’oei, il quale ha contestato la candidatura del Madagascar affermando che non il Paese non sia parte dell’Africa orientale. “Da un punto di vista tecnico, penso che, in realtà, il Madagascar non dovrebbe essere sulla scheda elettorale per quanto riguarda la regione orientale perché se questo fosse il turno della regione meridionale, potrebbe ugualmente candidarsi. Ciò conferisce al Paese un vantaggio ingiusto”, ha dichiarato Sing’oei alla stampa alla vigilia del voto, in apparente violazione di un ordine di riserbo imposto dal segretariato dell’Ua.
Stando alle stesse fonti, anche altre dichiarazioni di massimi funzionari del Kenya avrebbero sorpreso le altre delegazioni. Ad esempio, il ministro degli Esteri, Musalia Mudavadi, ha affermato che il voto avrebbe dovuto concludersi sabato, quasi alludendo al fatto che alcuni Paesi fossero intenzionati a danneggiare la candidatura di Odinga. “Se non riusciamo a eleggere un presidente in questo momento critico, l’Africa apparirà debole, confusa e indecisa”, ha detto Mudavadi durante una riunione del Consiglio esecutivo dell’Ua, che comprende i ministri degli Esteri, evocando un presunto “complotto” per negare al Kenya la maggioranza dei due terzi di cui avrebbe avuto bisogno per far vincere Odinga. Ma ci sono altre ragioni, anche di natura geopolitica, che potrebbero aver influito sulla mancata elezione del candidato keniota. Il Kenya si trova infatti in una situazione scomoda per via del conflitto nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), tra le accuse secondo cui Nairobi sosterrebbe il Ruanda, a sua volta accusato di sostenere i ribelli del Movimento 23 marzo (M23). È il caso di ricordare, in tal senso, che a Nairobi è stata istituita l’Alleanza del fiume Congo (Afc), la piattaforma politica formata da diversi gruppi di opposizione congolesi, tra cui lo stesso l’M23. Non è inoltre un caso se, nelle scorse settimane, il presidente congolese Felix Tshisekedi ha disertato il vertice della Comunità dell’Africa orientale (Eac) – di cui il Kenya è uno dei membri di spicco – preferendo invece partecipare virtualmente a un summit congiunto Eac-Sadc. Sempre nelle ultime settimane, il presidente keniota William Ruto ha ammesso di aver parlato con l’omologo francese Emmanuel Macron della situazione della Rdc, un fatto che ha mandato su tutte le furie i Paesi francofoni dell’Ua, in particolare gli interlocutori del Sahel che più sono ansiosi di tagliare i legami con la loro ex potenza coloniale.
Lo stesso Ruto, peraltro, si è fatto promotore di un netto avvicinamento del suo Paese agli Stati Uniti, come sancito dalla visita di Stato – la prima di un presidente africano in più di un decennio – effettuata a Washington nel maggio scorso da Joe Biden in occasione del 60mo anniversario delle relazioni Usa-Kenya: una mossa che è apparsa come un chiaro messaggio d’interesse da parte di Washington nei confronti di Nairobi e del suo ruolo di bastione democratico nella regione. In quel frangente, Biden aveva anche annunciato l’intenzione di concedere al Kenya lo status di maggior alleato non Nato, rendendolo il primo Paese dell’Africa sub-sahariana titolare di un riconoscimento che consentirebbe al Paese di ottenere armi più sofisticate dagli Stati Uniti e di impegnarsi con Washington in una cooperazione più stretta in materia di sicurezza. Un avvicinamento, quello agli Usa, che è costato a Ruto e al suo Paese l’appellativo di “marionetta” dell’Occidente, etichetta che si porta dietro dall’inizio della sua presidenza.
Tale posizione si è ulteriormente acuita per la posizione marcatamente filo-israeliana assunta dal Kenya dopo lo scoppio del conflitto del 7 ottobre 2023, un fatto che potrebbe aver intaccato le possibilità di Odinga di assicurarsi il seggio. L’Unione africana, del resto, ha sempre sostenuto una soluzione a due Stati per il conflitto in Medio Oriente, chiaramente influenzata dalla forte componente araba dei suoi Paesi membri: basti ricordare, ad esempio, che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha tenuto sabato scorso un discorso al summit di Addis Abeba, guadagnandosi una “standing ovation”. A contribuire alla mancata elezione di Odinga potrebbe essere stata anche la sua età avanzata (ha appena compiuto 80 anni): un fatto che potrebbe aver alimentato la percezione che Ruto stia cercando di gestire la politica interna assicurando a Raila un ruolo a livello continentale per facilitare il suo percorso di rielezione.
Quanto al candidato eletto, il gibutino Mahmoud Ali Youssouf, molti analisti attribuiscono la sua vittoria alla sua esperienza nella diplomazia e negli affari dell’Ua, avendo fatto parte del suo Consiglio esecutivo – l’organismo dei ministri degli Esteri – per più di un decennio, al contrario di Odinga che ha brevemente ricoperto soltanto il ruolo di Alto rappresentante dell’Ua per le infrastrutture. Ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale di Gibuti dal 2005, Youssouf ha iniziato la sua carriera diplomatica nel 1993, ricoprendo il ruolo di vicedirettore delle Organizzazioni internazionali al ministero degli Esteri e poi diventandone direttore per il Mondo arabo. Nel 1997 è stato nominato ambasciatore di Gibuti in Egitto e rappresentante permanente presso la Lega degli Stati africani, nonché ambasciatore non residente in Libano, Libia, Sudan, Siria e Turchia. Youssouf è stato poi nominato ministro delegato per la Cooperazione internazionale presso il ministero degli Affari esteri, arrivando a guidare il dicastero quattro anni dopo.
Così come la bocciatura di Odinga scontenta gli Stati Uniti, l’elezione di Youssouf non può che essere ben vista dai Paesi arabi ma anche dall’altra superpotenza globale, la Cina, che a Gibuti ha la sua unica base militare all’estero (2mila uomini). Vero è che il piccolo Paese del Corno d’Africa ospita diversi avamposti di potenze militari occidentali, tra cui gli stessi Usa (con 4.500 militari), la Francia (con 1.450 militari), il Giappone (con 180 militari), l’Italia (presente con la Base militare italiana di supporto, Bmis, che ospita un centinaio di militari) e la Spagna. Tuttavia, è stata proprio la crescente presenza cinese a Gibuti ad attirare un’attenzione senza precedenti sul Paese africano. Posizionato com’è all’estremità meridionale del Mar Rosso, Gibuti è ritenuto strategicamente cruciale, trovandosi nell’intersezione di importanti passaggi marittimi – tra cui lo stretto di Bab el Mandeb e il Golfo di Aden – e, dunque, vitale per il flusso di petrolio e le esportazioni cinesi. La Cina finanzia inoltre la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, inaugurata l’1 gennaio 2018, che collega la capitale etiope Addis Abeba con Gibuti e il suo porto di Doraleh.
La reazione di Pechino all’elezione di Youssouf, del resto, non si è fatta attendere. Nel corso di una conferenza stampa tenuta oggi, il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Guo Jiakun, ha dichiarato che la Cina è pronta a lavorare a stretto contatto con il nuovo presidente della Commissione dell’Unione africana e con tutto l’organismo regionale nel promuovere l’integrazione africana e sostenere la voce del continente sulla scena internazionale, e ha definito l’Ua “un vessillo di forte unità per l’Africa e un’importante piattaforma per la cooperazione internazionale”. Il governo cinese si è quindi detto pronto a lavorare insieme per “continuare a sostenere il ruolo guida dell’Ua nel promuovere l’integrazione africana e inviare una voce più forte negli affari internazionali e regionali, promuovere congiuntamente lo sviluppo approfondito delle relazioni della Cina con l’Ua e l’Africa e guidare lo sforzo del Sud del mondo per cercare la forza attraverso l’unità e raggiungere insieme la modernizzazione”.