Elezioni

  • Mercenari rumeni arricchitisi in Africa a fianco del candidato putiniano alla presidenza della Romania

    A marzo l’agenzia di stampa statale russa Tass aveva riportato le affermazioni dell’agenzia di intelligence russa Svr secondo cui l’Ue starebbe cercando di interferire nelle prossime elezioni presidenziali in Romania. L’Svr ha affermato che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha chiesto a Bucarest di impedire al candidato presidenziale rumeno Calin Georgescu, che è emerso come il favorito nelle elezioni annullate dello scorso anno, di partecipare alla ripetizione delle elezioni a maggio. Georgescu ha elogiato in passato il presidente russo Vladimir Putin come «un uomo che ama il suo Paese» e ha definito l’Ucraina «uno Stato inventato», ma sostiene di non essere filo-russo. Dopo che a dicembre la Corte costituzionale della Romania ha annullato le elezioni due giorni prima del ballottaggio dell’8 dicembre (Georgescu era uscito vincente dal primo turno e aveva dichiarato di non aver speso nulla per la campagna elettorale), i pubblici ministeri in Romania hanno avviato un’indagine in sede penale contro Georgescu, accusandolo di sostegno a gruppi fascisti, «incitamento ad azioni contro l’ordine costituzionale» e false dichiarazioni sul finanziamento della campagna elettorale e sulla divulgazione dei beni.

    Parallelamente le autorità rumene hanno condotto 47 perquisizioni in cinque contee che, secondo quanto riferito, sono collegate ad alcuni dei collaboratori di Georgescu e che hanno portato alla luce un deposito di armi, fra cui lanciagranate e pistole, e diversi milioni di dollari in contanti di varie valute. I procuratori hanno dichiarato che le accuse contro i sospettati includono “false dichiarazioni sulle fonti di finanziamento” di una campagna elettorale, possesso illegale di armi e avvio o creazione di un’organizzazione “a carattere fascista, razzista o xenofobo”.

    Tra gli uomini vicini a Georgeuscu spicca il non di Horatiu Potra, ex Legione straniera francese poi guardaspalle dello stesso Gerorgescu. Potra è diventato milionario con le sue attività nel settore della sicurezza privata: in Congo la sua compagnia è stata schierata a Goma e Sake, in Sierra Leone ha fornito i propri servizi a diverse compagnie minerarie. Sebbene non siano mai stati dimostrati legami coi mercenari russi di Evgeny Prigozhin, Potra era in Repubblica Centrafricana quando, nel 2017, sono arrivati i primi uomini del gruppo Wagner.  Lo scorso dicembre, proprio mentre infuriava la questione delle elezioni presidenziali, Potra è stato arrestato in Romania con altre 20 persone mentre si dirigeva verso Bucarest con denaro e armi per «creare disordini», ma poi è stato rilasciato. Oggi è ricercato e dovrebbe trovarsi a Dubai. La polizia gli ha trovato in casa armi, granate, lanciarazzi e mitragliatrici, ma anche 3,3 milioni dollari e 24 chili d’oro.

  • Il Regno Unito sanziona una rete filo-russa in Moldova per interferenze elettorali

    La Gran Bretagna ha sanzionato quello che ha descritto come un gruppo filo-russo responsabile di aver tentato di truccare un referendum in Moldavia e di destabilizzare la sua democrazia, ha dichiarato il Foreign Office in un comunicato. La Moldavia faceva parte dell’Unione Sovietica, ma i suoi legami con la Russia si sono deteriorati mentre il governo moldavo accelerava la sua integrazione con l’Unione europea. Il governo moldavo ha accusato la Russia di aver cercato di delegittimare le elezioni presidenziali, vinte alla fine dal presidente filo-occidentale Maia Sandu, e il referendum del 20 ottobre per l’adesione all’Ue. La Russia ha negato le accuse.

    Le sanzioni anticorruzione hanno preso di mira l’organizzazione non governativa russa Evrazia, imponendo il congelamento dei beni e il divieto di viaggiare al gruppo, al suo fondatore Nelli Parutenco e al membro del consiglio di amministrazione Natalia Parasca. Il ministro degli Esteri David Lammy ha dichiarato che la Gran Bretagna non avrebbe ignorato i tentativi di minare la democrazia in Paesi che considerava amici e partner. “Quando il denaro sporco fluisce liberamente, erode la fiducia del pubblico, destabilizza le economie e consente ad attori maligni di sovvertire lo stato di diritto”, ha dichiarato Lammy alla Reuters. “Affrontando queste minacce, difendiamo le fondamenta della governance democratica: istituzioni di cui i cittadini possono fidarsi e che chiedono conto a chi detiene il potere”.

    La Gran Bretagna ha già detto che Mosca sta usando la disinformazione, i finanziamenti illeciti e la sovversione politica per degradare la democrazia in Moldavia. Il Ministero degli Esteri britannico ha dichiarato che la rete Evrazia era gestita dall’oligarca Ilan Shor. Shor, che vive in Russia, è stato sanzionato dalla Gran Bretagna nel 2022 in base alle norme anticorruzione. Evrazia è stata sanzionata dall’Ue in ottobre.

    La Moldavia ha dichiarato che i programmi, compreso quello gestito da Shor, hanno cercato di comprare i voti di centinaia di migliaia di persone. Egli nega di aver commesso illeciti. L’ultima serie di sanzioni fa parte di una più ampia campagna britannica contro la corruzione, che i ministri considerano cruciale per la sicurezza nazionale. Hanno preso di mira il problema anche in Guatemala e in Georgia. La Gran Bretagna ha sanzionato i leader del “Clan giudiziario” della Georgia, descritto come “un gruppo di giudici politici di partito che abusano della loro posizione per influenzare le sentenze dei tribunali e minare lo stato di diritto” a vantaggio del partito Sogno georgiano. Negli ultimi anni, il partito Sogno georgiano ha messo sotto scacco l’opposizione e ha riavvicinato l’ex repubblica sovietica alla Russia. Le sanzioni del Guatemala hanno preso di mira funzionari che avrebbero cercato di minare le riforme anticorruzione del presidente Bernardo Arevalo.

  • La democrazia americana

    Il presidente americano ha dato ragione a Vance che ha definito l’Europa patetica e scroccona, poi calcando la mano ha aggiunto che gli europei sono dei parassiti.

    Se questi sono i giudizi che vengono dal governo della nazione che è stata il più grande alleato dell’Europa nonché esempio per tanti giovani di ieri e dell’altro ieri cerchiamo subito di dare ai giovani di oggi altri punti di riferimento.

    Facciamoci coraggio: alla fine del primo quarto di secolo del nuovo millennio dobbiamo tutti rivedere le certezze che ci hanno guidato dalla fine della seconda guerra mondiale.

    1) Gli Stati Uniti, come dice la parola stessa, è un’Unione di stati molto diversi tra loro per cultura, abitudini, sensibilità. L’eroe buono, dei film del secolo scorso, è una utopia, una favola, un falso mito

    2) La democrazia, quella vera, non può basarsi su sistemi che impongono di iscriversi alle liste per poter votare, come avviene in America, e sulla non partecipazione al voto di milioni di elettori, come avviene ormai anche in Europa

    3) Le dichiarazioni e decisioni politiche basate sull’improvvisazione, che non tiene conto delle conseguenze, diramate dalla rete ed usate per dare risonanza a questo o a quel personaggio creano fratture profonde che rendono difficile raggiungere i necessari compromessi tra opposte visioni

    4) Le posizioni di Trump verso Putin e viceversa hanno ormai svelato il loro disegno, politico ed economico, e cioè dare vita in breve tempo ad un nuovo assetto mondiale, insieme alla Cina, nel quale non c’è spazio per l’Europa che non deve avere peso e per questo ogni giorno il presidente americano crea nuovi problemi, dà vita a nuove provocazioni contando sulla difficoltà europea a rispondere

    5) A breve Putin non intende aggredire i paesi europei ma, distruggendo sistematicamente l’Ucraina, si muove per renderli sempre più insicuri minando l’Unione dall’interno attraverso personaggi alla Orban o alla Salvini

    6) L’Europa non riesce trovare la necessaria unità per rivedere i trattati che impongono l’unanimità, un sistema ormai superato dalla storia e per il numero degli Stati membri, l’Europa non ha ancora compreso fino in fondo i reali pericoli, in ogni campo, non ha il coraggio, l’avvedutezza politica, di costruire quell’Unione politica e di difesa della quale parla invano da anni, in sintesi non ha leader politici sufficientemente capaci di avere una visione per l’immediato futuro

    7) Ci siamo cullati col sogno americano non perché, caro Trump, siamo parassiti ma perché vi avevamo visti per quel che non siete, nonostante i molti segnali negativi che arrivavano da tempo. Vi avevamo riconosciuta una leadership dovuta al vostro specifico contributo nello sconfiggere il nazismo, anche se ragionando avremmo dovuto ricordare che siete entrati in guerra solo dopo essere stati attaccati dai giapponesi e non prima per difendere i popoli europei aggrediti o gli ebrei sterminati.

    Gli Stati Uniti sono stati i primi a portare avanti i processi di globalizzazione, dalla rete ai mercati liberi, oggi vogliono ridurre il libero mercato a seconda degli interessi loro, anche a costo di mettersi d’accordo con dittatori liberticidi come Putin e a danno di paesi liberi, questa è la democrazia di Trump.

  • Deutschland Alles Gut?

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Al di là delle solite e patetiche dichiarazioni degli esponenti politici italiani che si esaltano per lo scampato pericolo dell’avanzata dell’estrema destra in Germania (comunque rappresenta il 2° partito), i commenti dimostrano ancora una volta un imbarazzante provincialismo in quanto i dati elettorali tedeschi hanno una lettura inequivocabile.

    Come in Olanda prima, e successivamente in Austria, anche in Germania l’elettorato si è espresso contro la deriva ambientalista rappresentata dal Green Deal la quale ha innescato una crisi economica ed occupazionale senza precedenti nell’Unione Europea.

    In Germania l’SPD assieme a Die Linke ottengono lo stesso numero di seggi della CDU/CSU, mentre i 147 seggi assegnati alla AFD si rivelano la vera incognita nella architettura parlamentare che dovrebbe rappresentare il sostegno politico ad un governo di coalizione. Emerge evidente, comunque sia, come la maggioranza dei tedeschi abbia espresso un parere fortemente negativo (*) proprio nei confronti della Ue e della stessa Commissione Europea. In buona sostanza, le priorità ideologiche sostenute dall’Unione Europea non hanno più nessuna sintonia con le reali aspettative degli elettori e cittadini europei. Prova ne sia che mentre il mondo internazionale sta “assaggiando” le prime conseguenze del nuovo pragmatismo espresso dalla amministrazione Trump, l’Unione Europea si trova ora occupata a discutere sul divieto di un utilizzo dei vecchi giocattoli, oppure della introduzione di un ulteriore divieto, questa volta relativo all’utilizzo dei caminetti. In aggiunta poi contemporaneamente, ed in considerazione del “grande successo” dei quindici, ha varato un sedicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia.

    Quello che emerge ancora una volta dalle elezioni nazionali certifica una frattura totale ed assoluta tra il pressapochismo ideologico espresso dalla Commissione Europea e la necessità di trovare delle certezze economiche relative all’andamento del proprio futuro da parte degli elettori.

    In altre parole, mentre negli Stati Uniti si assiste al trionfo di un magari opinabile interventismo che rappresenta una nuova stagione politica, l’unione Europea esprime un conservatorismo ideologico portatore di immediate catastrofi economiche, politiche ed occupazionali senza precedenti.

    Basti ricordare, infatti, come l’Unione Europea rappresenti l’unica macrozona a pagare una crisi non solo economica ma anche di posizionamento geopolitico di dimensioni imbarazzanti, dimostrandosi ancora una volta incapace di elaborare una minima reazione attraverso una semplice bozza di strategia anticiclica. Infatti, l’idea stessa di far uscire dal deficit le spese militari conferma le priorità di una classe politica ormai priva di ogni rapporto con la realtà oggettiva.

    Quali maggioranze si creeranno a supporto di un probabile nuovo governo di Grosse Koalition risulta allora di importanza marginale. Il vero sconfitto di queste elezioni risulta il conservatorismo europeo.

    (*) In questo caso risulta assolutamente legittimo sommare i voti della CDU ed AFD in un’ottica fortemente critica nei confronti della Commissione europea.

  • Alla vigilia delle elezioni Alexander Privitera presenta il libro “ACHTUNG! – Germania in panne. Che ne sarà del modello tedesco?”

    Lunedì 24 febbraio, alle ore 18:00, presso la Libreria Egea dell’Università Bocconi (Viale Bligny 22, a Milano), sarà presentato il libro ACHTUNG! – Germania in panne. Che ne sarà del modello tedesco? di Alexander Privitera, edito da Paesi Edizioni. A pochi giorni dalle elezioni tedesche, il saggio analizza i motivi della crisi politica, economica e sociale della Germania con una disamina dell’operato dei suoi cancellieri. Il Paese che dalla fine della Guerra fredda più è stato simbolo di un’Europa finalmente in pace, si trova alle prese con una «tempesta perfetta». La Germania riunificata è d’improvviso più vulnerabile e il continente fa i conti con un Paese che sta perdendo la sua capacità di imprimere una direzione all’Europa. Nel libro Alexander Privitera ci avvicina ai protagonisti e alle storie di coloro che in Germania hanno prima creato e poi smarrito la vocazione europea del proprio Paese e così facendo hanno finito per riproporre un quesito che si sperava ormai superato: la questione tedesca.

    A dialogare con l’autore ci saranno Piero Benassi, già rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue, e Francesco Cancellato, direttore di Fanpage.it.

  • Il nuovo presidente dell’Unione africana sposta il continente nero dall’Atlantico alla penisola saudita

    L’elezione del ministro degli Esteri di Gibuti Mahmoud Ali Youssouf alla guida della Commissione dell’Unione africana, avvenuta il 15 febbraio ad Addis Abeba nel corso del 38mo vertice dei capi di Stato e di governo dell’organizzazione continentale, sancisce una dura sconfitta per il Kenya, che puntava sul suo candidato Raila Odinga. Quest’ultimo, ex premier e leader storico dell’opposizione keniota, era dato come favorito da molti alla vigilia del voto, sia nei confronti di Youssouf che del terzo candidato, il malgascio Richard Randriamandrato. Alla fine, tuttavia, Odinga – dopo essere stato in vantaggio nei primi due turni di votazioni – è stato superato da Youssouf e costretto ad uscire dalla corsa: il ministro degli Esteri gibutino è riuscito a quel punto ad assicurarsi i 33 voti necessari all’elezione, conquistando il prestigioso incarico. La sconfitta di Odinga, ritenuto il grande favorito della vigilia e apertamente sostenuto dal presidente keniota William Ruto, potrebbe tuttavia non apparire così sorprendente.

    Sebbene tra la delegazione keniota al quartier generale dell’Unione africana si respirasse un clima di grande ottimismo, una serie di fatti avrebbero indispettito gli altri Paesi, contribuendo a far pendere la bilancia del voto in favore del candidato gibutino. Secondo fonti citate dal quotidiano keniota “Standard Media”, la delegazione keniota è rimasta scossa da una lettera che esortava i membri della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) a votare per il candidato del Madagascar – Paese membro del blocco regionale meridionale -, provocando la piccata reazione del primo segretario del ministero degli Esteri, Korir Sing’oei, il quale ha contestato la candidatura del Madagascar affermando che non il Paese non sia parte dell’Africa orientale. “Da un punto di vista tecnico, penso che, in realtà, il Madagascar non dovrebbe essere sulla scheda elettorale per quanto riguarda la regione orientale perché se questo fosse il turno della regione meridionale, potrebbe ugualmente candidarsi. Ciò conferisce al Paese un vantaggio ingiusto”, ha dichiarato Sing’oei alla stampa alla vigilia del voto, in apparente violazione di un ordine di riserbo imposto dal segretariato dell’Ua.

    Stando alle stesse fonti, anche altre dichiarazioni di massimi funzionari del Kenya avrebbero sorpreso le altre delegazioni. Ad esempio, il ministro degli Esteri, Musalia Mudavadi, ha affermato che il voto avrebbe dovuto concludersi sabato, quasi alludendo al fatto che alcuni Paesi fossero intenzionati a danneggiare la candidatura di Odinga. “Se non riusciamo a eleggere un presidente in questo momento critico, l’Africa apparirà debole, confusa e indecisa”, ha detto Mudavadi durante una riunione del Consiglio esecutivo dell’Ua, che comprende i ministri degli Esteri, evocando un presunto “complotto” per negare al Kenya la maggioranza dei due terzi di cui avrebbe avuto bisogno per far vincere Odinga. Ma ci sono altre ragioni, anche di natura geopolitica, che potrebbero aver influito sulla mancata elezione del candidato keniota. Il Kenya si trova infatti in una situazione scomoda per via del conflitto nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), tra le accuse secondo cui Nairobi sosterrebbe il Ruanda, a sua volta accusato di sostenere i ribelli del Movimento 23 marzo (M23). È il caso di ricordare, in tal senso, che a Nairobi è stata istituita l’Alleanza del fiume Congo (Afc), la piattaforma politica formata da diversi gruppi di opposizione congolesi, tra cui lo stesso l’M23. Non è inoltre un caso se, nelle scorse settimane, il presidente congolese Felix Tshisekedi ha disertato il vertice della Comunità dell’Africa orientale (Eac) – di cui il Kenya è uno dei membri di spicco – preferendo invece partecipare virtualmente a un summit congiunto Eac-Sadc. Sempre nelle ultime settimane, il presidente keniota William Ruto ha ammesso di aver parlato con l’omologo francese Emmanuel Macron della situazione della Rdc, un fatto che ha mandato su tutte le furie i Paesi francofoni dell’Ua, in particolare gli interlocutori del Sahel che più sono ansiosi di tagliare i legami con la loro ex potenza coloniale.

    Lo stesso Ruto, peraltro, si è fatto promotore di un netto avvicinamento del suo Paese agli Stati Uniti, come sancito dalla visita di Stato – la prima di un presidente africano in più di un decennio – effettuata a Washington nel maggio scorso da Joe Biden in occasione del 60mo anniversario delle relazioni Usa-Kenya: una mossa che è apparsa come un chiaro messaggio d’interesse da parte di Washington nei confronti di Nairobi e del suo ruolo di bastione democratico nella regione. In quel frangente, Biden aveva anche annunciato l’intenzione di concedere al Kenya lo status di maggior alleato non Nato, rendendolo il primo Paese dell’Africa sub-sahariana titolare di un riconoscimento che consentirebbe al Paese di ottenere armi più sofisticate dagli Stati Uniti e di impegnarsi con Washington in una cooperazione più stretta in materia di sicurezza. Un avvicinamento, quello agli Usa, che è costato a Ruto e al suo Paese l’appellativo di “marionetta” dell’Occidente, etichetta che si porta dietro dall’inizio della sua presidenza.

    Tale posizione si è ulteriormente acuita per la posizione marcatamente filo-israeliana assunta dal Kenya dopo lo scoppio del conflitto del 7 ottobre 2023, un fatto che potrebbe aver intaccato le possibilità di Odinga di assicurarsi il seggio. L’Unione africana, del resto, ha sempre sostenuto una soluzione a due Stati per il conflitto in Medio Oriente, chiaramente influenzata dalla forte componente araba dei suoi Paesi membri: basti ricordare, ad esempio, che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, ha tenuto sabato scorso un discorso al summit di Addis Abeba, guadagnandosi una “standing ovation”. A contribuire alla mancata elezione di Odinga potrebbe essere stata anche la sua età avanzata (ha appena compiuto 80 anni): un fatto che potrebbe aver alimentato la percezione che Ruto stia cercando di gestire la politica interna assicurando a Raila un ruolo a livello continentale per facilitare il suo percorso di rielezione.

    Quanto al candidato eletto, il gibutino Mahmoud Ali Youssouf, molti analisti attribuiscono la sua vittoria alla sua esperienza nella diplomazia e negli affari dell’Ua, avendo fatto parte del suo Consiglio esecutivo – l’organismo dei ministri degli Esteri – per più di un decennio, al contrario di Odinga che ha brevemente ricoperto soltanto il ruolo di Alto rappresentante dell’Ua per le infrastrutture. Ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale di Gibuti dal 2005, Youssouf ha iniziato la sua carriera diplomatica nel 1993, ricoprendo il ruolo di vicedirettore delle Organizzazioni internazionali al ministero degli Esteri e poi diventandone direttore per il Mondo arabo. Nel 1997 è stato nominato ambasciatore di Gibuti in Egitto e rappresentante permanente presso la Lega degli Stati africani, nonché ambasciatore non residente in Libano, Libia, Sudan, Siria e Turchia. Youssouf è stato poi nominato ministro delegato per la Cooperazione internazionale presso il ministero degli Affari esteri, arrivando a guidare il dicastero quattro anni dopo.

    Così come la bocciatura di Odinga scontenta gli Stati Uniti, l’elezione di Youssouf non può che essere ben vista dai Paesi arabi ma anche dall’altra superpotenza globale, la Cina, che a Gibuti ha la sua unica base militare all’estero (2mila uomini). Vero è che il piccolo Paese del Corno d’Africa ospita diversi avamposti di potenze militari occidentali, tra cui gli stessi Usa (con 4.500 militari), la Francia (con 1.450 militari), il Giappone (con 180 militari), l’Italia (presente con la Base militare italiana di supporto, Bmis, che ospita un centinaio di militari) e la Spagna. Tuttavia, è stata proprio la crescente presenza cinese a Gibuti ad attirare un’attenzione senza precedenti sul Paese africano. Posizionato com’è all’estremità meridionale del Mar Rosso, Gibuti è ritenuto strategicamente cruciale, trovandosi nell’intersezione di importanti passaggi marittimi – tra cui lo stretto di Bab el Mandeb e il Golfo di Aden – e, dunque, vitale per il flusso di petrolio e le esportazioni cinesi. La Cina finanzia inoltre la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, inaugurata l’1 gennaio 2018, che collega la capitale etiope Addis Abeba con Gibuti e il suo porto di Doraleh.

    La reazione di Pechino all’elezione di Youssouf, del resto, non si è fatta attendere. Nel corso di una conferenza stampa tenuta oggi, il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Guo Jiakun, ha dichiarato che la Cina è pronta a lavorare a stretto contatto con il nuovo presidente della Commissione dell’Unione africana e con tutto l’organismo regionale nel promuovere l’integrazione africana e sostenere la voce del continente sulla scena internazionale, e ha definito l’Ua “un vessillo di forte unità per l’Africa e un’importante piattaforma per la cooperazione internazionale”. Il governo cinese si è quindi detto pronto a lavorare insieme per “continuare a sostenere il ruolo guida dell’Ua nel promuovere l’integrazione africana e inviare una voce più forte negli affari internazionali e regionali, promuovere congiuntamente lo sviluppo approfondito delle relazioni della Cina con l’Ua e l’Africa e guidare lo sforzo del Sud del mondo per cercare la forza attraverso l’unità e raggiungere insieme la modernizzazione”.

  • India sees huge spike in hate speech in 2024, says report

    Instances of hate speech against minorities jumped 74% in India in 2024, peaking during the country’s national elections, according to a new report.

    The report, released on Monday by Washington-based research group India Hate Lab, documented 1,165 such instances last year, adding that politicians like Prime Minister Narendra Modi and Home Minister Amit Shah were among the most frequent purveyors of hate speech.

    Muslims were targeted the most, with 98.5% of recorded instances of hate speech directed against them.

    The report said most of the events where hate speech occurred were held in states governed by Modi’s party or larger alliance.

    The BBC has sought comment on the India Hate Lab report from several spokespersons at Modi’s Hindu nationalist Bharatiya Janata Party (BJP).

    Over the years, BJP leaders have often been accused of targeting India’s minority communities, especially Muslims.

    The ruling party has rejected allegations of Islamophobia and hate speech levelled at it by rights groups and opposition leaders.

    On Tuesday, its national spokesperson reiterated this stance, telling CNN that the country had a “very strong legal system which is structured to maintain peace, order and ensure non-violence at any cost”.

    “Today’s India does not need any certification from any ‘anti-India reports industry’ which is run by vested interests to prejudice and dent India’s image,” Jaiveer Shergill said.

    But the party was accused of using hate speech during the heated election campaign last year. The prime minister himself was accused of using divisive rhetoric that attacked Muslims. In May, India’s Election Commission also asked the party to remove a social media post that opposition leaders said “demonised Muslims”.

    According to the India Hate Lab report, 269 hate speech instances were reported in May 2024, the highest in the year.

    Christians have also been targeted by hate speech, but to a lesser extent than Muslims, the report says.

    Rights groups have often said that minorities, especially Muslims, have faced increased discrimination and attacks after Modi’s government came to power in 2014. The BJP has repeatedly denied these allegations.

    The lab’s report said that hate speech was especially observed at political rallies, religious processions, protest marches and cultural gatherings. Most of these events – 931 or 79.9% – took place in states where the BJP directly governed or ruled in coalition.

    Three BJP-ruled states – Uttar Pradesh, Maharashtra and Madhya Pradesh – accounted for nearly half of the total hate speech events recorded in 2024, the lab’s data showed.

    The ruling party was also the organiser for 340 such events in 2024, a 580% increase from the previous year.

    “Hate speech patterns in 2024 also revealed a deeply alarming surge in dangerous speech compared to 2023, with both political leaders and religious figures openly inciting violence against Muslims,” the report said.

    “This included calls for outright violence, calls to arms, the economic boycott of Muslim businesses, the destruction of Muslim residential properties and the seizing or demolition of Muslim religious structures”.

  • Elezioni ‘influenzate’

    L’ex Commissario francese presso la Commissione Europea, Thierry Breton, in una recente intervista alla televisione francese di informazione BFM-TV a proposito delle prossime elezioni in Germania, ha fatto un collegamento un po’ sospetto con ciò che è successo in Romania nelle ultime elezioni presidenziali. Ecco ciò che ha detto collegando i due eventi: «Dobbiamo impedire le interferenze e far sì che le nostre leggi siano applicate». Per essere ancora più preciso ha aggiunto: «esattamente come è stato fatto in Romania». Se per “leggi” avesse invece usato “interessi” sarebbe stato ancora più esplicito.

    In sintesi, ha confermato che la decisione della Corte Costituzionale rumena che aveva annullato le elezioni tenute il 24 novembre adducendo “interferenze straniere” sia stata influenzata dal desiderio della Commissione Europea e dell’”Occidente” di impedire che il voto finale premiasse un candidato non filo NATO e non filo-europeo.  Accettando quella logica, se ogni elezione ove si sono verificate interferenze di Stati stranieri e il risultato non fosse stato gradito, sarebbe stato legittimo annullarle. Cosa dire allora di tutte le interferenze avvenute nelle elezioni di tutti gli Stati europei da dopo la guerra? Anche in Italia è risaputo che, sin dalle prime elezioni repubblicane, da un lato l’Unione Sovietica finanziava e aiutava il Partito Comunista Italiano e dall’altro gli Stati Uniti aiutavano con tutti i mezzi la Democrazia Cristiana, il Partito Social Democratico e il Partito Liberale. Abbiamo sempre avuto dei Parlamenti illegittimi?

    Ora non sappiamo se in Romania il voto sia stato determinato da “influenze” russe (perché a loro è rivolta l’accusa) ma non sono state trovate certezze di alcun genere che possano dimostrare che il voto degli elettori non sia stato liberamente espresso o che ci siano state frodi. Ciò che invece è sicuro è che un sentimento anti-establishment, e in particolare quello rappresentato da Calin Georgescu, era da tempo diffusissimo tra i cittadini e nessuno può stupirsi se si sia manifestato con il voto. Georgescu, considerato a torto o ragione filo-russo, ha ricevuto il consenso di una maggioranza relativa degli elettori (23%) mentre seconda è arrivata la candidata detta filo-europea Elena Lasconi (19%). Tutto lasciava pensare che al previsto ballottaggio il primo avrebbe potuto vincere con un grande vantaggio. Da qui la decisione della Corte Costituzionale di impedirlo annullando il ballottaggio dell’8 dicembre e di far ripetere il voto del primo turno il prossimo 4 maggio 2025. Nel frattempo, sia il Presidente Klaus Johannis (filo-europeo, e quindi filo-NATO) resta in carica, pur se scaduto nel suo mandato dal 21 dicembre 2024. Come lui anche il Governo, da sempre filo-europeo e filo-NATO.

    Perché si temeva così tanto che Georgescu potesse diventare il prossimo Presidente della Romania? Per capirlo occorre ricordare innanzitutto quali sono i poteri reali di un Presidente di quella Repubblica.

    La Costituzione attribuisce al Presidente la rappresentanza del Paese in sede internazionale e lo designa garante dell’equilibrio tra i poteri. Il capo di Stato condivide con il Governo il potere esecutivo… Inoltre: “È data facoltà al Presidente di consultare il Governo su questioni importanti o urgenti. Il capo di Stato può partecipare alle sedute del Governo su problemi di interesse nazionale e riguardanti la politica estera, la difesa e l’ordine pubblico. Il Presidente è il capo delle forze armate e presiede il Consiglio Supremo di Difesa del Paese… accredita e revoca i rappresentanti diplomatici e approva l’istituzione, lo scioglimento, o la modifica del rango delle missioni diplomatiche rumene all’estero”.

    È in virtù delle competenze riguardanti la politica estera (oltre che la popolarità ottenuta con il suo programma anti guerra in Ucraina, anti subordinazione alla UE e contro l’invadenza della NATO nel Paese) che sono nate le preoccupazioni di Bruxelles e dei maggiori sostenitori dell’Ucraina e della NATO. In effetti motivi di preoccupazione non infondati.

    La Romania è un partner chiave degli USA sul Mar Nero e rappresenta una importante frontline nei confronti della Russia. Ospita migliaia di truppe americane e NATO, è un punto strategico per il sistema di difesa di missili balistici e per le missioni di ricognizione (se servisse, anche di attacco) aeree. Inoltre è un luogo critico per l’integrazione avanzata per gli aerei F-16, per i sistemi Patriot e per il Centro di Controllo in Bucarest del Centro Combinato di Operazioni aeree con base principale a Torrejon in Spagna.

    Nonostante la Romania continui ad essere uno dei Paesi più poveri dell’Unione, ha deciso di investire nei sistemi di difesa nel 2025 il 2,5% del proprio PIL (l’Italia è ancora sotto il 2%). In particolare ha programmato l’acquisto di due dragamine dalla Gran Bretagna, di quattro sistemi di lancio missilistico navale dalla Raytheon (USA) per 128 milioni di dollari, di 54 obici K9 Thunder dalla Corea del Sud (920 milioni USD) e altro ancora. Nel frattempo, sempre con la Corea ed esattamente con la Hanwha Aerospace ha progettato di costruire in Romania un nuovo stabilimento per la produzione di carri armati idonei agli obici K9 sopra menzionati. Con la tedesca Rheinmetal sta progettando la produzione in loco di veicoli armati Lynx. In altre parole, la Romania è e sta diventando sempre più un pilastro strategico per il fronte orientale della NATO.

    La possibile vittoria di un Presidente ostile ad appoggiare la guerra in Ucraina, contrario alla presenza di truppe Nato e critico nei confronti della Commissione Europea avrebbe certamente cambiato gli equilibri esistenti.

    Ciò è da considerarsi sufficiente per giustificare l’annullamento della volontà popolare? Se fosse il caso, si dovrebbe fare la stessa cosa nelle prossime elezioni tedesche?

    Ognuno si dia la risposta che preferisce.

  • From freedom fighter to Namibia’s first female president

    Nicknamed NNN, Netumbo Nandi-Ndaitwah has made history by being elected as Namibia’s first female president.

    The 72-year-old won more than 57% of the vote, with her closest rival, Panduleni Itula, getting 26%, according to the electoral commission.

    It is just the latest episode in a life packed with striking events – Nandi-Ndaitwah has fought against occupying powers, fled into exile and established herself as one of the most prominent women in Namibian politics.

    However, Itula has rejected her victory. He said the election was “deeply flawed”, following logistical problems and a three-day extension to polling in some parts of the country.

    His Independent Patriots for Change (IPC) party said it would challenge the result in court.

    Nandi-Ndaitwah has been a loyal member of the governing party, Swapo, since she was a teenager and pledges to lead Namibia’s economic transformation.

    Nandi-Ndaitwah was born in 1952, in the northern village of Onamutai. She was the ninth of 13 children and her father was an Anglican clergyman.

    At the time, Namibia was known as South West Africa and its people were under occupation from South Africa.

    Nandi-Ndaitwah joined Swapo, then a liberation movement resisting South Africa’s white-minority rule, when she was only 14.

    A passionate activist, Nandi-Ndaitwah became a leader of Swapo’s Youth League.

    The role set her up for a successful political career, but at the time Nandi-Ndaitwah was simply interested in freeing South West Africa.

    “Politics came in just because of the circumstances. I should have become maybe a scientist,” she said in an interview this year.

    While still a high school student, Nandi-Ndaitwah was arrested and detained during a crackdown on Swapo activists.

    As a result of this persecution, she decided she could not stay in the country and joined several other Swapo members in exile.

    She continued to organise with the movement while in Zambia and Tanzania, before moving to the UK to undertake an International Relations degree.

    Then in 1988 – 14 years after Nandi-Ndaitwah fled her country – South Africa finally agreed to Namibian independence.

    Nandi-Ndaitwah returned home and subsequently joined the post-independence, Swapo-run government.

    In the years since, she has held a variety of posts, including ministerial roles in foreign affairs, tourism, child welfare and information.

    Nandi-Ndaitwah became known as an advocate for women’s rights. In one of her key achievements, she pushed the Combating of Domestic Violence Act through the National Assembly in 2002.

    According to Namibian media, Nandi-Ndaitwah criticised her male colleagues for trying to ridicule the draft law, sternly reminding them that the Swapo constitution condemns sexism.

    She continued to rise despite Namibia’s traditional and male-dominated political culture, and in February this year she became vice-president.

    She suceeded Nangolo Mbumba, who stepped up after the death of then-President Hage Geingob.

    In her personal life, Nandi-Ndaitwah is married to Epaphras Denga Ndaitwah, the former chief of Namibia’s defence forces. The couple has three sons.

    Throughout her career, Nandi-Ndaitwah has displayed a hands-on, pragmatic style of leadership.

    She once declared in a speech: “I am an implementer, not a storyteller.”

  • Sotto con Priyanka, la famiglia Gandhi manda per la terza volta qualcuno al Parlamento indiano

    Priyanka Gandhi, segretaria generale del Congresso nazionale indiano (Inc), principale forza di opposizione in India, ha giurato come membro della Camera del popolo, la camera bassa del parlamento, dopo la vittoria alle elezioni suppletive del 13 novembre per il seggio del collegio di Wayanad, nello Stato del Kerala. La neodeputata ha vinto con 622.338 preferenze, superando nettamente i due avversari principali: Sathyan Mokeri del Partito Comunista d’India (Cpi), che ne ha ottenute 211.407, e Navya Haridas del Partito del popolo indiano (Bjp), a quota 109.939.

    Il seggio di Wayanad era vacante perché il fratello Rahul Gandhi, figura di spicco del Congresso e leader dell’opposizione alla Camera, nelle elezioni generali tenutesi in primavera si era presentato e aveva vinto sia in quel collegio sia in quello di Raebareli, nell’Uttar Pradesh, optando poi per Raebareli, storica roccaforte del partito e della famiglia Gandhi. I due sono figli di Rajiv Gandhi, l’ex primo ministro assassinato nel 1991, e di Sonia Gandhi, a lungo leader del Congresso e attualmente membro del Consiglio degli Stati, la camera alta. Priyanka è dunque la terza esponente della famiglia a sedere in parlamento.

    Priyanka Gandhi, 52 anni, è segretaria generale del Congresso dal 2020, dopo essere stata segretaria generale nell’Uttar Pradesh orientale, il suo primo incarico ufficiale. Già da tempo, però, partecipava attivamente alla vita del partito, coinvolta nelle campagne elettorali del fratello e della madre, e consultata su questioni importanti come la scelta dei governanti statali. Il suo ingresso in politica è stato ipotizzato per anni, addirittura prima di quello di Rahul: si faceva il suo nome come erede della dinastia politica Nehru-Gandhi, anche per la somiglianza con la nonna Indira.

    Invece, Priyanka è rimasta a lungo, se non proprio nell’ombra, in seconda linea. Si è laureata in psicologia all’Università di Delhi e ha conseguito un master in studi buddisti; quindi è diventata fiduciaria della Fondazione Rajiv Gandhi. Probabilmente ha evitato un impegno più diretto per non ostacolare il fratello, oltre che per dedicarsi alla propria famiglia, formata con l’imprenditore Robert Vadra, col quale è sposata dal 1997 e ha due figli. Nelle campagne elettorali della madre e del fratello, però, c’è stata la sua gestione, e anche la sua voce a partire dal 2014 quando ha cominciato a prendere la parola in prima persona nei comizi.

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