Elezioni

  • A Milano non si possono ripetere gli errori del passato

    Il sindaco Sala, come riporta il Corriere della Sera, rivendica, contro le auto, il diritto a respirare, peccato però che a Milano si respiri sempre peggio proprio per colpa di scelte sbagliate e fatte solo per motivi ideologici proprio da lui e dalla sua amministrazione.
    il traffico diventa ogni giorno più congestionato per lavori e cantieri, di vario genere, ancora aperti dopo molti anni, e per le decisioni del sindaco e della sua giunta, le cui  uniche priorità sono le piste ciclabili, l’esponenziale, assurdo e a volte pericoloso, ingrandimento dei marciapiedi, le continue variazioni dei sensi di marcia, l’aumento delle aree pedonali.
    Tutto questo comporta che ogni giorno si debbano fare, anche per raggiungere luoghi relativamente vicini, tortuose giravolte per la città, consumando carburante, rimanendo spesso bloccati e trovandosi in seri problemi quando deve passare un’autoambulanza, un mezzo dei vigili del fuoco o delle forze dell’ordine e, di conseguenza, l’inquinamento aumenta.
    Politiche sbagliate e vessatorie a partire da quell’obbrobrio che è l’Area C che fa pagare anche i residenti per entrare ed uscire da casa propria!
    Sala, per legge, non si potrà ripresentare ma resta la spada di Damocle di un suo simile alla guida di Milano se il centro destra e il centro, con l’ausilio di coloro che nel passato non si sono recati alle urne o che, e ne abbiamo sentiti molti, si sono pentiti di aver votato a sinistra, visti i risultati, non daranno una svolta positiva per la città.
    Il presupposto è pero che coloro che vogliono il cambiamento abbiano un candidato che dia sicurezze sulla sua capacità di interpretare il vero cuore di Milano che non può, come ora, essere solo una città per ricchi, per rampanti, per affaristi e per turisti, è arrivato il momento di decidere e di decidere con cognizione di causa, non si possono ripetere gli errori del passato.

  • Altra conferma internazionale di una preoccupante realtà

    Se non si parla di una cosa è come se non fosse mai accaduta.

    Si dà realtà alle cose solo quando se ne parla.

    Oscar Wilde

    Il 23 ottobre veniva pubblicato il rapporto finale sulle elezioni parlamentari dell’11 maggio scorso in Albania. Si tratta di un documento elaborato dall’Ufficio per le Istituzioni democratiche e i Diritti umani (Office for Democratic Institutions and Human Rights – ODIHR; n.d.a.). Quell’Ufficio rappresenta una struttura importante dell’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Organization for Security and Co-operation in Europe; n.d.a.). Il compito principale dell’ODIHR è quello di osservare ed analizzare i processi elettorali in tutti i Paesi membri dell’OSCE. Riferendosi al sopracitato rapporto, l’autore di queste righe scriveva per il nostro lettore: “… Ebbene, anche il rapporto finale dell’ODIHR sulle elezioni politiche dell’11 maggio scorso in Albania, elencando una lunga serie le violazioni, evidenziate e verificate dai suoi osservatori, ha confermato ufficialmente molte violazioni sia della Costituzione albanese e delle leggi in vigore, sia del Documento di Copenhagen” (Conferma ufficiale di un denunciato massacro elettorale; 27 ottobre 2025).

    Il 4 novembre scorso la Commissione europea ha reso pubblico il rapporto di progresso per il 2025 dei Paesi candidati all’adesione all’Unione europea. Per quanto riguarda l’Albania il rapporto, per la prima volta dopo una decina d’anni, nonostante sia stato scritto con il solito linguaggio “diplomaticamente corretto”, ha però evidenziato anche diverse problematiche, comprese quelle verificate e documentate durante le “elezioni” dell’11 maggio scorso. Ovviamente la vera, vissuta e sofferta realtà albanese testimonia molte altre palesi e clamorose violazioni dei principi della democrazia, “sfuggite” ai redattori del rapporto. Violazioni attuate da un regime ormai restaurato e che si sta consolidando.  Ma anche solo le problematiche presentate nel rapporto sono sufficienti per capire la preoccupante realtà in un Paese, il cui sistema statale ha poco in comune con un vero sistema democratico. Sempre da fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo, da fatti documentati, denunciati e pubblicamente noti, risulta che ormai il primo ministro albanese, dopo aver ottenuto il suo quarto mandato consecutivo, agisce come un vero dittatore.

    Una simile, preoccupante e pericolosa realtà viene confermata anche da quello che sta accadendo dal settembre scorso, durante le sessioni del nuovo Parlamento. Il primo ministro ormai, con i suoi 83 ubbidienti deputati ed altri che potrebbe “arruolare” nel caso gli servissero, può cambiare anche la Costituzione e approvare qualsiasi sua “visionaria idea” e qualsiasi suo “lungimirante progetto”. Quanto sta accadendo solo in Parlamento da settembre scorso, da quando ha cominciato questa nuova legislatura, testimonia l’ulteriore consolidamento del regime ormai restaurato da alcuni anni in Albania. Si tratta di una nuova dittatura sui generis, come espressione dell’alleanza tra il potere politico, la criminalità organizzata e determinati raggruppamenti occulti internazionali, molto potenti finanziariamente.

    Il primo ministro, tramite i presidente del Parlamento ed altri suoi stretti collaboratori, sta negando ai deputati dell’opposizione i loro diritti fondamentali, riconosciuti dalla Costituzione. Ormai la maggioranza sta continuamente negando all’opposizione il diritto del dibattito parlamentare ed il diritto di chiedere, secondo il regolamento del Parlamento, audizioni parlamentari e la costituzione di commissioni d’inchiesta. La maggioranza ha passato durante la prima sessione del nuovo Parlamento, senza il dibattito in aula, il programma del nuovo governo. Così come, giovedì scorso, ha approvato anche la legge di bilancio e quella controversa sulla “parità di genere”.

    Il rapporto di progresso per il 2025 della Commissione europea, nella parte dedicata all’Albania, riferendosi al Parlamento, evidenzia: “…Il Parlamento può esercitare le sue competenze in un modo parzialmente effettivo”. Il rapporto evidenzia altresì che “…Il Parlamento viene inoltre ostacolato da una limitata supervisione sull’esecutivo, mentre la politicizzazione delle nomine parlamentari a posizioni di rilievo negli organi costituzionali o nelle istituzioni indipendenti, stabilite dalla legge, resta un problema serio”.

    Il sopracitato rapporto evidenzia il fatto che il Parlamento non ha attuato alcune decisioni della Corte Costituzionale entro il termine stabilito dalla legge. Il rapporto si riferisce anche alle opinioni della Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto, nota come la Commissione di Venezia (organo consultivo del Consiglio d’Europa sull’adozione delle costituzioni conformi agli standard del patrimonio costituzionale europeo; n.d.a.). Il rapporto afferma che “In un parere su questo tema, la Commissione di Venezia ha confermato che le decisioni della Corte Costituzionale sono vincolanti per tutti gli organi statali, compreso il Parlamento. Il Parlamento non ha ancora recepito il parere della Commissione di Venezia”. Il rapporto, riferendosi al sistema giudiziario, afferma che “….I tentativi da parte di funzionari pubblici o dai [rappresentanti] politici di esercitare intromissioni e pressioni inutili sono aumentati e sollevano serie preoccupazioni”.

    Riferendosi alle elezioni parlamentari dell’11 maggio scorso in Albania, il rapporto di progresso per il 2025 della Commissione europea evidenzia che “…la gara per le elezioni parlamentari non era paritaria ed il partito al governo ha sfruttato le risorse statali”. Il rapporto evidenzia, altresì, che “Sono stati notati anche sviluppi inquietanti, tra cui il fatto che il partito al governo ha beneficiato di un ampio utilizzo di risorse amministrative e di influenza istituzionale”, nonché “preoccupazioni circa l’influenza delle reti dei patrocinatori”. Il nostro lettore è stato informato che per massimizzare il risultato delle elezioni, politiche o amministrative, il partito capeggiato dal primo ministro, oltre al supporto attivo della criminalità organizzata, sta “beneficiando” dei cosiddetti “patrocinatori”. Si tratta di persone che “aiutano volontariamente” il partito ad avere informazioni di vario tipo sugli elettori, ma anche di “convincerli” a votare per il partito. Il primo ministro ha pubblicamente affermato di essere “orgoglioso” del loro prezioso supporto.

    Il rapporto tratta anche la limitata libertà dei media in Albania, evidenziando che “…Nel campo della libertà dei media, che è una delle principali priorità e condizioni dell’integrazione europea, la Commissione europea ritiene che non vi sia stato alcun progresso…”. Nel rapporto si sottolinea che “Durante l’ultimo anno, l’Albania non ha compiuto progressi nell’allineamento del suo quadro giuridico all’acquis dell’Unione europea e agli standard europei, in particolare per quanto riguarda le principali sfide legate alla libertà dei media”.

    Queste sono solo alcune delle problematiche in Albania, evidenziate dal rapporto di progresso, per il 2025, della Commissione europea. Ma anche se la realtà fosse quella descritta dal rapporto, viene naturale la domanda: come averebbero reagito i politici, i cittadini e le istituzioni in un qualsiasi Paese democratico se si fossero verificate simili problematiche?! Al lettore la risposta.

    Chi scrive queste righe avrebbe voluto trattare anche altri argomenti, ma lo spazio non lo permette. Nel frattempo egli considera che il rapporto della Commissione europea, nonostante non abbia evidenziato molte altre problematiche, sia un’altra seria conferma delle istituzioni internazionali, di una preoccupante realtà in Albania. Perché, come affermava Oscar Wilde, “Se non si parla di una cosa è come se non fosse mai accaduta. Si dà realtà alle cose solo quando se ne parla”.

  • Conferma ufficiale di un denunciato massacro elettorale

    Elezione. Semplice artificio mediante il quale una maggioranza

    dimostra a una minoranza che sarebbe follia tentare di resistere.

    Ambrose Bierce

    Era in pieno corso il drammatico e pericoloso periodo della guerra fredda in Europa quando, il 3 luglio 1973, nella capitale della Finlandia, Helsinki, è stata organizzata e si è tenuta una riunione dei rappresentanti dei 35 Paesi europei. Non era presente solo l’Albania che aveva rifiutato. Ed era proprio durante quella riunione che si costituì la Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa (CSCE). A quella riunione sono stati invitati e hanno partecipato anche i rappresentanti degli Stati Uniti d’America e dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, semplicemente nota allora come l’Unione Sovietica. Coloro che organizzarono il vertice volevano promuovere il dialogo politico tra i due campi avversari, la loro cooperazione e garantire la pace in Europa.

    Due anni dopo, sempre a Helsinki, il 1o agosto 1975, si riunirono i capi di Stato e di governo dei 35 Paesi europei, per la firma finale del documento che costituiva la Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa. Da allora la Conferenza ha svolto molte altre riunioni e ha preso diverse decisioni importanti.

    Dal 5 al 29 giugno 1990 a Copenhagen, nell’ambito delle attività della CSCE, si è svolta quella che ormai è nota come la Conferenza sulla Dimensione Umana. I rappresentanti dei Paesi membri hanno riconosciuto, tra l’altro, che “….la democrazia pluralistica e lo Stato di diritto sono essenziali per garantire il rispetto di tutti i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali…”. Essi hanno, altresì, espresso l’impegno di tutti i Paesi membri della CSCE per costituire delle “…società democratiche fondate su libere elezioni e sullo Stato di diritto”. Per la prima volta, alla riunione di Copenhagen della Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa ha preso parte come osservatore anche un rappresentante dell’Albania. In seguito, durante il vertice della CSCE a Berlino, tra il 19 e 20 giugno 1991 anche l’Albania, l’ultimo Paese europeo, aveva deciso di diventare membro della Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa.

    Alla fine della riunione è stato firmato anche quello che ormai è noto come il Documento di Copenhagen. I Paesi membri della Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa si impegnavano, tra l’altro, a garantire “Libere elezioni da svolgersi ad intervalli ragionevoli con voto segreto o con procedure equivalenti di libera votazione, in condizioni che assicurino in pratica la libera espressione dell’opinione degli elettori nella scelta dei loro rappresentanti” (articolo 5/1).

    I Paesi membri, firmatari del Documento di Copenhagen, si impegnavano a garantire anche “Una netta separazione tra Stato e partiti politici; in particolare, i partiti politici non devono confondersi con lo Stato” (articolo 5/4).

    In seguito, l’articolo 6 del Documento di Copenhagen affermava: “Gli Stati partecipanti dichiarano che la volontà del popolo, liberamente e correttamente espressa mediante elezioni periodiche e oneste, costituisce la base dell’autorità e della legittimità di ogni governo”. I Paesi firmatari del Documento si impegnavano inoltre ad assicurare che “La legge e il sistema politico consentano di condurre le campagne elettorali in un’atmosfera corretta e libera, nella quale né misure amministrative, né la violenza, né l’intimidazione impediscano ai partiti e ai candidati di esporre liberamente le proprie opinioni e posizioni o impediscano agli elettori di conoscerle e discuterle nonché di dare il proprio voto senza timore di rappresaglie” (articolo 7/7). Con la loro firma, tutti i rappresentanti dei Paesi firmatari, membri della Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa, garantivano che “Nessun ostacolo legale o amministrativo limiti il libero accesso ai mezzi di informazione su base non discriminatoria per tutti i raggruppamenti politici e gli individui che intendono partecipare al processo elettorale” (articolo 7/8).

    Il 21 novembre 1990 a Parigi si è svolta un’altra riunione della Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa. Alla fine di quella riunione è stato adottato un importante documento, noto ormai come la Carta di Parigi per una nuova Europa. Con quel documento si affermava anche la fine del drammatico e pericoloso periodo della guerra fredda tra i due campi avversari in Europa. Dopo quattro anni, durante il vertice di Budapest è stato deciso il passaggio dalla Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione in Europa ad una nuova organizzazione, con una vera e propria struttura istituzionale, necessarie a far fronte a tutti gli obiettivi posti. La nuova organizzazione è stata ufficialmente costituita il 1º gennaio del 1995 e da allora si chiama l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Organization for Security and Co-operation in Europe – OSCE; n.d.a.). Nell’ambito dell’OSCE da allora funziona l’Assemblea Parlamentare composta dai rappresentanti di tutti i Paesi membri, nonché alcune strutture esecutive.

    Come un’importante struttura esecutiva dell’OSCE è stata costituita e funziona anche l’Ufficio per le Istituzioni democratiche e i Diritti umani (Office for Democratic Institutions and Human Rights – ODIHR; n.d.a.) con sede a Varsavia. Uno dei compiti istituzionali dell’ODIHR è anche quello di promuove i processi elettorali democratici in tutti i Paesi membri dell’OSCE.

    Giovedì scorso, 23 ottobre, è stato reso pubblico il rapporto finale dell’ODIHR sulle elezioni dell’11 maggio 2025 in Albania. Il nostro lettore è stato informato, dalla prima settimana di maggio in poi, sempre con la dovuta oggettività, fatti accaduti, documentati e ufficialmente denunciati alla mano, di quella che, invece di essere una normale gara elettorale parlamentare è stato un vero e proprio massacro elettorale. Ebbene, anche il rapporto finale dell’ODIHR sulle elezioni politiche dell’11 maggio scorso in Albania, elencando una lunga serie le violazioni, evidenziate e verificate dai suoi osservatori, ha confermato ufficialmente molte violazioni sia della Costituzione albanese e delle leggi in vigore, sia del Documento di Copenhagen.

    Dalle prime pagine del sopracitato rapporto risulta che le elezioni sono state dominate dal partito al potere che ormai si comporta, fatti evidenziati dagli osservatori alla mano, come un partito – Stato. Il rapporto finale dell’ODIHR afferma che “Il partito al potere ha beneficiato dal vasto uso delle risorse amministrative durante la campagna elettorale, generando un ingiusto vantaggio”. Il che significa una palese violazione del sopracitato articolo 5/4 del Documento di Copenhagen. In seguito il rapporto finale afferma che “La legislazione elettorale e la sua interpretazione da parte dall’amministrazione elettorale non ha impedito le pratiche abusive”. Una simile affermazione testimonia la violazione del sopracitato articolo 7/7 del Documento di Copenhagen. Il rapporto finale dell’ODIHR evidenzia molti casi dell’intimidazione dei media ed il controllo della maggior parte di loro dal potere esecutivo, in piena violazione dell’articolo 7/8 dello stesso Documento. Il rapporto finale dell’ODIHR sulle elezioni dell’11 maggio 2025 in Albania, evidenzia anche molti casi della presenza e del supporto attivo della criminalità organizzata a favore del partito del primo ministro albanese. Così come evidenzia anche molte altre serie e palesi violazioni delle leggi in vigore in Albania, Costituzione compresa, anche del Documento di Copenhagen.

    Chi scrive queste righe, riferendosi al massacro elettorale dell’11 maggio scorso in Albania, pensa che quelle “elezioni” si dovevano dichiarare non valide. Egli trova molto attuale quanto affermava Ambrose Bierce sulle elezioni, che sono “un semplice artificio mediante il quale una maggioranza dimostra a una minoranza che sarebbe follia tentare di resistere”. Il caso dell’Albania lo conferma.

  • Il nuovo presidente della Bolivia rallenta l’erosione cinese del peso degli Usa in Sudamerica

    La vittoria del moderato Rodrigo Paz Pereira alle presidenziali in Bolivia rappresenta una svolta importante per l’America latina: viene infatti meno un importante membro della famiglia “neo-socialista”, parte di quei governi che per lunghi tratti hanno sfilato i loro Paesi dall’orbita degli Stati Uniti proponendosi come attori di un dialogo Sud-Sud la cui agenda è stata in gran parte dettata dalla Cina. Tolti i regimi fortemente autocratici ancora in piedi – da Cuba al Nicaragua, passando per il Venezuela – la Bolivia è stata soprattutto per mano di Evo Morales (2006-2019) uno dei Paesi più determinati ad applicare la formula divenuta popolare a inizio secolo: rapporti con Washington al minimo e grandi affari con Pechino, prima tramite la vendita delle abbondanti materie prime per finanziare la generosa spesa pubblica interna, con l’invito alle imprese a partecipare ai grandi progetti infrastrutturali. Paz Pereira ha già fatto sapere che ripristinerà le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, interrotte nel 2008 nel pieno di una crisi tra Morales e l’amministrazione Usa guidata dall’allora presidente George W. Bush, sorta a seguito dell’espulsione dell’ambasciatore e dei funzionari dell’agenzia antidroga Dea. Il presidente eletto ha anche annunciato che alla cerimonia di insediamento, in programma l’8 novembre prossimo, non inviterà i capi di Stato di Cuba, Venezuela e Nicaragua, che “chiaramente non sono democrazie”.

    L’importanza della svolta registrata a La Paz è riflessa anche in un comunicato congiunto in cui dieci governi del continente americano – tra cui Stati Uniti, Argentina ed Ecuador – si dicono pronti “a sostenere gli sforzi dell’amministrazione entrante per stabilizzare l’economia della Bolivia e aprirla al mondo”, benedicendo “l’allontanamento dalla cattiva gestione degli ultimi due decenni”. Le ultime elezioni hanno peraltro quasi reso invisibile il Movimento per il socialismo (Mas), il partito che ha sostenuto i governi Morales intestandosi le battaglie dei contadini e delle popolazioni indigene, le stesse che già nei mesi scorsi hanno indetto manifestazioni e blocchi stradali contro i primi, timidi, annunci di riforme liberali. Un monito che il governo entrante prende sul serio promettendo una transizione non “traumatica”. Un percorso analogo a quello intrapreso dalla Bolivia lo ha perfezionato lo scorso aprile l’Ecuador, con la rielezione di Daniel Noboa a presidente. Il giovane esponente di una famiglia imprenditoriale ha battuto per due volte Luisa Gonzalez, la parlamentare su cui aveva scommesso Rafael Correa – presidente dal 2007 al 2017, e oggi in esilio in Belgio -, uno dei simboli della stagione del cosiddetto “socialismo del XXI secolo”. Noboa ha garantito collaborazione alla Casa Bianca – a partire dal tema della gestione dei migranti, ma anche sottoponendo a referendum l’idea di concedere alle forze Usa la base militare nelle Galapagos – e messo in campo l’obiettivo di un riequilibrio dei conti pubblici che passa anche attraverso la denuncia di contratti firmati in passato con Pechino, a partire da alcune grandi infrastrutture energetiche “pagate” con la cessione di petrolio a prezzi calmierati. La decisione di togliere i sussidi al costo del diesel, voce onerosa dei conti pubblici, ha spinto le popolazioni indigene a proclamare uno sciopero che dura ormai da oltre un mese.

    Ma il Paese sudamericano che ha compiuto il cambiamento più radicale, mettendo apparentemente fine anche alla dinastia politica dei Kirchner, rimane l’Argentina. Il presidente Javier Milei, al potere dalla fine del 2023, ha subito messo in chiaro che Buenos Aires ha Washington come unico referente, dal punto di vista strategico, commerciale e militare. Un’adesione incondizionata all’Occidente, inteso come estensione dei valori liberali cari alla tradizione Usa, che non solo mette all’indice i rapporti con il “sud del mondo”, a partire dall’Iran, ma fa sì che l’Argentina sia oggi uno dei partner più convinti di Israele. Assunta la presidenza, Milei ha per prima cosa tolto la firma apposta dal predecessore, Alberto Fernandez, al trattato di adesione ai Brics, blocco ritenuto “strategicamente inutile” e con compagni di viaggio non graditi. La sintonia con la Casa Bianca ha da ultimo permesso a Milei di firmare un accordo di “swap” fino a venti miliardi di dollari, un aiuto finanziario cruciale per portare avanti la più che ambiziosa agenda di riforme, costruita su un pareggio di bilancio prima impensabile e un’apertura ai mercati a lungo negata, con l’obiettivo riportare a livelli fisiologici l’inflazione.

    Della generazione di leader protagonisti della prima ondata di governi sudamericani di centrosinistra resiste Luiz Inacio Lula da Silva, tornato alla presidenza del Brasile dopo la parentesi di un altro leader strettamente legato a Trump, Jair Bolsonaro. E il Brasile è non a caso uno dei Paesi su cui si fa più sentire la strategia di pressione – commerciale ma non solo – varata dall’attuale amministrazione Usa, che ha annunciato dazi fino al 50 per cento su molti dei prodotti in uscita dal Paese e sanzioni nei confronti di alti funzionari della magistratura, in parte per la “caccia alle streghe” aperta contro Bolsonaro, in parte per le sentenze comminate a piattaforme come X e interpretate come azioni di “censura”. L’annunciato, forse imminente, dialogo tra Lula e Trump potrebbe svelare fino a che punto il braccio di ferro della Casa Bianca può piegare Brasilia. Ma rimane il fatto che sul Brasile, che intende usare la leva dei Brics anche per ridurre il ruolo del dollaro sulla scena commerciale globale, l’azione di contrasto degli Stati Uniti è molto più intensa di quella che aveva in un primo tempo permesso a Lula di ambire a un ruolo di protagonista regionale.

    Una pressione sempre più intensa viene oggi esercitata dall’amministrazione Trump sulla Colombia di Gustavo Petro, primo presidente di sinistra della storia del Paese. Petro, un passato da guerrigliere oggi rinegato, si era già misurato con Trump sulle manovre per il rimpatrio dei migranti e ha rincarato la dose nella fase più acuta della crisi di Gaza, arrivando a chiedere ai militari Usa, sulla piazza di New York, di non rispondere agli ordini della Casa Bianca. Senza contare la mancata condanna, se non il sostegno, al venezuelano Nicolas Maduro, di nuovo finito al centro delle attenzioni dell’amministrazione Usa. Negli ultimi mesi Trump ha aumentato la spinta su Bogotà annunciando prima lo stop ai finanziamenti nella lotta contro la droga, poi quelli allo sviluppo e promettendo da ultimo una tornata di dazi per punire la presunta inazione nel contrasto ai trafficanti attribuita al “peggior presidente” della storia della Colombia, egli stesso potenziale leader di un Cartello. A maggio del 2026 la Colombia tornerà a scegliere il presidente ed è ben possibile che il Paese torni a essere naturale alleato degli Stati Uniti, come lo è stato a lungo. Una contesa sulla quale si può riaffacciare a sorpresa l’ombra dell’ex presidente Alvaro Uribe (2000-2010): ieri, 21 ottobre, la Corte d’appello di Bogotà ha infatti cancellato la condanna a 12 anni inflitta a luglio in primo grado, dando forza ai numerosi seguaci del leader conservatore che guidava il Paese negli anni in cui la regione correva a sinistra.

    E sempre più difficile sembra essere la vita di Nicolas Maduro a Caracas. Da metà settembre, il Comando sud delle forze armate Usa ha inviato al largo delle coste venezuelane unità militari per intercettare le rotte del narcotraffico, dando conto di periodici, anche se non sempre documentati, affondamenti di barche dei “cartelli”. La scorsa settimana Trump ha anche svelato di aver autorizzato “operazioni di terra” della Cia, sempre per disinnescare il traffico di droga, ma gli analisti regionali concordano sul fatto che si tratti di una manovra di pressione per rendere sempre meno sicura la permanenza di Maduro al potere a Caracas. Più fonti stampa riferiscono di tentativi portati avanti dal governo venezuelano per accordi che puntino a un passaggio di poteri, consentendo all’attuale presidente di abbandonare la scena senza troppi danni. Negoziati, a cui lavorerebbe in qualità di mediatore anche il Qatar, che al momento non sembrano però aver effetto. Quel che è certo è che la fiducia concessa dal governo dell’ex presidente Joe Biden a Maduro – sanzioni sospese in cambio di elezioni libere – ha fatto il suo tempo e una eventuale fine del “chavismo”, con il ritorno a destra della Colombia, riporterebbe l’intera costa settentrionale del Sud America sulle frequenze della Casa Bianca.

    C’è poi il caso del Perù, Paese che nel 2024 ha inaugurato il Porto di Chancay, una imponente opera infrastrutturale che offre un nuovo terminale alle rotte del traffico marittimo sul Pacifico, tanto in direzione Asia quanto lungo le coste dell’America del nord. Si tratta del maggior investimento realizzato con capitale cinese nell’infrastruttura portuale dell’America latina. L’opera ha visto la luce sotto la presidenza di Dina Boluarte, destituita dal parlamento a metà mese per “l’incapacità morale” ad affrontare la crisi di sicurezza. Boluarte, ottavo capo dello Stato in meno di dieci anni, aveva rilevato il maestro elementare Pedro Castillo, di cui era vice, presentato come paladino dei peruviani storicamente meno rappresentati, quelli della periferia. Il potere “ad interim” è passato al presidente del Parlamento, José Enrique Jerì, fino alle elezioni generali di aprile 2026. L’uomo, da subito assediato da nuove proteste di piazza, ha presentato un governo di tecnici promettendo di congelare l’agenda politica fino al ritorno alle urne. C’è il Cile, Paese che dal ritorno alla democrazia ha mostrato solide basi istituzionali e una capacità di gestire senza particolari drammi l’alternanza di governi, come peraltro l’Uruguay e in parte il Paraguay. A Santiago, stando ai sondaggi, dopo il governo guidato dall’ex comunista Gabriel Boric, il potere dovrebbe tornare alla destra.

    Nessun cambiamento è invece previsto per il Messico, la cui presidente, Claudia Sheinbaum, ha tutti i numeri per completare il sessennio di governo iniziato a metà 2024. Sheinbaum si presenta in perfetta continuità con il predecessore, Andrés Manuel Lopez Obrador, specie nella gestione dei rapporti con Washington: nessuno scontro frontale e disponibilità al dialogo su tutti i temi dell’agenda bilaterale, anche a fronte delle richieste più pressanti della Casa Bianca, dalla blindatura delle frontiere per contrastare il flusso dei migranti alla lotta ai Cartelli e al traffico di “precursori” del fentanyl in arrivo dalla Cina. Peraltro, il trattato dei Paesi dell’America del nord (Usmca) non solo certifica l’importanza del rapporto commerciale tra i suoi protagonisti, ma è – anche nella volontà di Città del Messico – lo strumento migliore per riportare nel continente le catene di produzione industriali, a partire da quella del settore automotive. Al tempo stesso, tanto Lopez Obrador quanto Sheinbaum ostentano una certa autonomia di giudizio sui temi regionali. In Messico, nel 2019, ha trovato rifugio Evo Morales in fuga dalla Bolivia per le contestazioni sulle ultime presidenziali vinte; l’ambasciata messicana a Quito ha ospitato l’ex vice presidente socialista dell’Ecuador Jorge Glas (fino a quando la polizia lo ha arrestato grazie a una inedita invasione che ha portato alla sospensione dei rapporti diplomatici). E il Messico è rimasto uno dei pochi Paesi a non denunciare, ad esempio, i pesanti brogli compiuti alle ultime elezioni in Venezuela.

  • Il PIA primo partito in Italia

    Ormai è chiaro a tutti: il primo partito italiano, che non usufruisce di nessun beneficio pubblico né di interviste nelle tante trasmissioni televisive è il Partito italiano Astenuti, il PIA.
    Ad ogni elezione aumenta i suoi sostenitori, senza bisogno di farsi propaganda con urla e minacce agli avversari nei comizi o con insulse battute e promesse sui social.
    E più il PIA aumenta più la democrazia si allontana perché comanda chi ha vinto con la maggioranza della minoranza, cioè con un numero di voti che non rappresentano effettivamente né il Paese o la regione od il comune, ormai le elezioni servono solo a rinsaldare il potere di una oligarchia avulsa dalla realtà.
    Commentiamo pure quello che è sotto gli occhi di tutti: in Toscana la Lega ed i Cinque Stelle fra un po’ non avranno neppure il quorum ma entrambi dettano spesso legge nelle loro coalizioni impedendo alle stesse di raggiungere credibilità rispetto all’elettorato.
    Come pensano i partiti di ritrovare allora la credibilità? Alcuni, ingenuamente, sperano, convinti che la democrazia si basi sulle elezioni, sul voto della maggior parte degli aventi diritto, e su un’alternanza possibile, che sproni ogni governo a lavorare meglio, che le forze politiche cambieranno registro e si adopereranno per far tornare alle urne i cittadini.

    Ma non è così, purtroppo ai partiti non interessa che voti la maggioranza, interessa solo che ci siano per loro i voti sufficienti a battere l’avversario, perciò continuano a tenere in vita una legge elettorale che espropria i cittadini dalla scelta dei parlamentari e continuano ad accusarsi a vicenda, ad insultarsi con toni violenti, ad occuparsi di molte cose che non hanno nulla a che vedere con le necessità reali del mondo reale.
    Così, parlando di gay pride e di ponti sullo Stretto di Messina e fomentando le piazze, l’astensionismo sarà sempre di più, la democrazia vera sempre più debole ed i problemi resteranno. Il PIA ringrazia ma noi siamo molto preoccupati.

  • Il campo stretto

    Occhiuto è stato riconfermato governatore della Calabria, la sua vittoria, di larga misura, era abbastanza scontata dopo una competizione elettorale con il candidato del “campo stretto” che farnetica promesse impossibili e non conosceva i problemi del territorio.

    Campo stretto, sempre più stretto, visti i risultati e le difficoltà, per le troppe differenze inconciliabili tra i diversi partiti, che incontrano i suoi rappresentanti per farsi accettare dagli elettori.

    Il centro destra continua a confermarsi partito di governo anche nelle regioni ma, dopo la giusta soddisfazione, dovrà seriamente occuparsi del sempre maggior numero di astensioni, ogni volta che un cittadino non esercita il proprio diritto – dovere di votare è una sconfitta per la democrazia.

    Qualche dirigente di partito può anche accontentarsi di governare con la maggioranza di quella che, a volte, è la minoranza degli aventi diritto al voto, mentre a chi ha interesse vero per il futuro dell’Italia non possono sfuggire i pericoli che la sempre maggior astensione comporta.

    Riportare i cittadini al voto passa anche da una modifica della legge elettorale che deve tornare ad essere preferenziale e proporzionale, dal chiedersi se le Regioni, così come sono, rappresentano una realtà utile e vicina ai cittadini, se l’abolizione delle Province, come erano strutturate, sia stata una scelta saggia, se la politica, rappresentata sempre con toni conflittuali, non abbia stancato, se la mancanza sul territorio di punti di riferimento dei partiti non contribuisca, insieme all’uso eccessivo della rete, a distaccare sempre più i cittadini.

    Siamo purtroppo nella società dell’apparire, del mordi e fuggi, delle dichiarazioni non ponderate e lanciate sui social senza pensare alle conseguenze, della volubilità di leader che cambiano idea ogni momento, di guerre sanguinose e di odi antichi risvegliati dall’inconsistenza culturale di chi dovrebbe occuparsi del presente e dell’immediato futuro.

    Siamo nella società dell’indifferenza e dell’ignoranza e la politica sembra sempre più voler coltivare sentimenti negativi e distruttivi e l’astensione non è più solo la protesta di alcuni ma il disinteresse di troppi, così a rischio è proprio quella libertà e democrazia delle quali spesso si parla a sproposito mentre si agisce per azzerarle.

  • Ulteriore consolidamento di un regime

    Se vuoi avere successo a questo mondo, prometti tutto e non mantenere nulla.

    Napoleone Bonaparte

    L’8 novembre 2007 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottando la Risoluzione 62/7, ha proclamato la celebrazione della Giornata internazionale della Democrazia il 15 settembre di ogni anno. L’obiettivo di proclamare una simile occorrenza è stato ed è tuttora quello di evidenziare e ricordare a tutti che la democrazia sansisce anche tutti i diritti dei cittadini, diritti che devono essere rispettati e tutelati per legge.

    Quest’anno il tema della Giornata Internazionale della Democrazia è “Garantire una governance efficace dell’Intelligenza Artificiale a tutti i livelli”. Tutto in base a delle strategie ben studiate per beneficiare dell’Intelligenza artificiale, ma, allo stesso tempo, garantire la diminuzione dei rischi che si potrebbero verificare. Nel suo messaggio di quest’anno per la Giornata internazionale della Democrazia, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha però sottolineato, tra l’altro, che l’uso dell’Intelligenza Artificiale rappresenta anche delle sfide significative se lasciata senza controllo. Avvertendo, altresì, che l’uso non regolamentato dell’Intelligenza Artificiale “potrebbe avere serie implicazioni per la democrazia, la pace e la stabilità”.

    In uno Stato democratico i poteri devono essere separati ed indipendenti. Una convinzione trattata già nell’antichità da Platone, Aristotele, Polibio ecc, tenendo presente la realtà di quel periodo. Un tema che venne trattato in seguito anche da Henry de Bracton (XIII secolo) e da John Locke (XVII secolo). Ma il principio della separazione dei poteri è stato elaborato poi da Montesquieu (Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu; n.d.a.) che ormai viene considerato come il fondatore della teoria politica della separazione dei poteri. Nel 1748 Montesquieu pubblicò a Ginevra la sua importante opera molto nota a livello mondiale, De l’esprit des lois (Lo spirito delle leggi; n.d.a.), divisa in due volumi e composta da trentuno libri.

    Montesquieu era convinto che il potere esecutivo, quello legislativo ed il potere giuridico devono essere separati ed indipendenti. Lui era convinto che “chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti”. Lo testimonia la storia, riferendosi a tutti i dittatori in varie parti del mondo. E per evitare una simile situazione Montesquieu affermava convinto: “Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Bisogna sottolineare che nel periodo in cui Montesquieu scriveva la sua opera De l’esprit des lois, i media non erano ancora riconosciuti come un potere, mentre da alcuni decenni sono considerati come il quarto potere.

    Attualmente in varie parti del mondo ci sono dei Paesi in cui, purtroppo, sono stati stabiliti ed operano dei regimi totalitari, dittatoriali consolidati e/o in via di consolidamento. Ovviamente si tratta di regimi che, per vari motivi, si adattano alle realtà e riescono anche a camuffarsi dietro una parvenza di fasullo pluripartitismo. Quanto sta accadendo attualmente in alcuni Paesi dell’America Latina, dell’Asia, del Medio Oriente, ma anche in alcuni Paesi dell’Europa ne è una inconfutabile conferma. Una realtà che, da circa un decennio, si sta verificando anche in Albania.

    L’11 maggio scorso in Albania si sono svolte le “elezioni” politiche. Ma che però in realtà, fatti accaduti, documentati, testimoniati e ufficialmente denunciati alla mano, risulta che siano state un vero e proprio massacro elettorale. Tutto ben ideato e programmato dagli “strateghi” del primo ministro albanese ed attuato, partendo alcuni mesi prima dell’11 maggio scorso, da alcuni noti clan della criminalità organizzata, da migliaia di funzionari di vario livello dell’amministrazione pubblica, sia centrale che locale, dalle strutture della polizia di Stato ed altri. Si tratta sempre non di opinioni, bensì di fatti accaduti, documentati, testimoniati e ufficialmente denunciati alla mano. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito di tutto ciò (In attesa di altri abusi elettorali, 6 maggio 2025; Un autocrate che ottiene il quarto mandato con abusi elettorali, 12 maggioAppoggiano un autocrate corrotto in cambio di proficui accordi, 19 maggio 2025; Preoccupanti ed ipocriti atteggiamenti dei ‘grandi dell’Europa’, 27 maggio 2025 ecc.).

    E di fronte ad una simile preoccupante e molto pericolosa realtà, le varie strutture specializzate del sistema “riformato” della giustizia non hanno fatto però niente, nonostante siano state tantissime le denunce pubblicate e depositate ufficialmente presso le apposite strutture di quel sistema. Denunce che evidenziavano, registrazioni audio e video comprese, quel massacro elettorale, finalizzato l’11 maggio scorso. E non poteva essere altrimenti perché essendo quello della giustizia un sistema controllato personalmente dal primo ministro, non poteva fare niente che non fosse un suo ordine. Il che dimostra e testimonia che in Albania, volutamente, non funziona più il principio della separazione dei poteri di Montesquieu.

    Dal ben ideato, programmato ed altrettanto ben attuato massacro elettorale dell’11 maggio scorso, il primo ministro ormai ha 83 deputati dei complessivi 140, oltre ad altri che possono mettersi al suo servizio, quando sarà necessario. Il che significa che il primo ministro, ormai diventato l’Ayatollah dell’Albania, può fare tutto, approvando leggi che gli permetteranno di consolidare ulteriormente il suo regime e avere tutto quello che gli serve.

    Giovedì scorso il primo ministro ha presentato i nomi dei ministri del suo nuovo governo. E come sempre si tratta di persone a lui devote e vergognosamente ubbidienti. Ma questa ormai non è più una novità. La “novità” era la presenza nel governo di un “ministro digitale”, generato e gestito dall’intelligenza artificiale. E guarda caso, quella ministra, che si chiama “Diella” (significa Sole in femminile, in un dialetto albanese; n.d.a.), gestirà tutte le gare d’appalto che ormai, secondo il primo ministrosaranno spostate dai ministeri e affidate a Diella, che è la servitrice degli appalti pubblici” (Sic!). Giovedì scorso il primo ministro albanese, oltre a presentare la novità “Diella” e gli altri ministri, ha altresì affermato che sarà un obbligo quello di vedere il suo partito al potere fino agli anni ’50. In una vera democrazia questo obiettivo non può essere mai realizzato.

    In Albania da anni ormai si abusa del potere conferito e/o usurpato, mentre la corruzione parte dai più alti livelli istituzionali, quella del primo ministro in primis. Ma il potere giudiziario ubbidisce ai sui ordini e non può combattere l’abuso del potere e neanche la corruzione ben radicata. E anche questa non è un’opinione, bensì una realtà confermata anche dalle istituzioni e dai media internazionali. Perciò la “ministra digitale” serve a concentrare tutti gli appalti nelle mani del primo ministro e di chi per lui. Ma anche a scaricare tutte le colpe su un essere non esistente. Un giorno dopo, il 12 settembre scorso, il presidente della Repubblica, nonostante per legge sia la più alta istituzione del Paese, mentre in realtà, fatti accaduti alla mano, è un ubbidiente notaio del primo ministro, ha approvato con un decreto, oltre all’incarico del primo ministro di presentare il suo nuovo governo, anche la nomina della “ministra digitale”. Il che rappresenta una palese violazione degli articoli 102 e 103 della Costituzione della Repubblica d’Albania.

    Chi scrive queste righe considera quanto sta accadendo durante questi ultimi mesi in Albania come un ulteriore e pericoloso consolidamento di un regime sui generis. Mentre il primo ministro continua a ingannare. Come con la “ministra digitale”. Ma il Segretario Generale delle Nazioni Unite affermava che l’uso dell’Intelligenza artificiale rappresenta anche delle sfide significative, se lasciata senza controllo. Invece il primo ministro albanese ha fatto suo il consiglio di Napoleone Bonaparte. E cioè “Se vuoi avere successo a questo mondo, prometti tutto e non mantenere nulla”.

  • Arroganza di un autocrate che si sente e agisce come onnipotente

    L’uomo nella sua arroganza si crede un’opera grande, meritevole di una creazione divina.

    Charles Darwin; da “L’origine dell’uomo”, 1871

    La vera, vissuta e spesso sofferta realtà albanese durante quest’ultimo decennio ha testimoniato, tra l’altro, che tutte le promesse pubbliche del primo ministro, da quando ha ottenuto l’incarico nel settembre 2013, non sono state mai mantenute. Perciò adesso, dopo il massacro elettorale dell’11 maggio scorso, di cui il nostro lettore è stato informato a tempo debito, lui sta cercando di scaricare tutte le sue responsabilità sia sui suoi collaboratori, sia sui funzionari di tutti i livelli. Sta cercando adesso di apparire come vittima dell’abuso, da parte degli altri, con la sua fiducia. Una nota messinscena ingannatrice, questa, attuata da lui sempre, quando si trova in difficoltà.

    Il primo ministro ha “ammesso” in questi ultimi giorni che le riforme da lui promesse durante questi tredici anni, “non hanno dato i risultati attesi”. Un eufemismo per non ammettere i suoi continui fallimenti. Infatti tutte le riforme da lui avviate hanno fallito a raggiungere gli obiettivi dichiarati e tanto sbandierati. Si tratta della riforma del sistema sanitario con la promessa per una “sanità gratis” per tutti i cittadini. Si tratta della riforma del sistema dell’istruzione pubblica e delle università, che è stato un altro palese fallimento, tant’è vero che, la scorsa settimana, il primo ministro è stato finalmente costretto di “ammetterlo”. Senza ammettere però le sue responsabilità istituzionali. Un altro fallimento, “ammesso” dal primo ministro durante queste ultime settimane, è stato anche quello della riforma del territorio e dell’amministrazione locale. Ed insieme con il fallimento di questa riforma non sono state mantenute neanche le promesse per i basilari e vitali servizi pubblici, come la fornitura di acqua potabile, dell’energia elettrica ecc… Ovviamente la colpa non è stata mai sua, ma di coloro che hanno abusato della sua fiducia.

    Il primo ministro però non ha mai ammesso il fallimento della riforma del sistema della giustizia! Anzi, quella “riforma” rappresenta per lui un vero e proprio “successo” (Sic!). E purtroppo della stessa opinione sono anche alcuni alti rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea ed, altresì, qualche suo “amico/amica” tra i “grandi dell’Europa”. Ma da innumerevoli fatti accaduti e documentati alla mano, dopo il 22 luglio 2016, quando il Parlamento approvò all’unanimità la riforma del sistema della giustizia in Albania, risulta che quella “riforma” è stata proprio un clamoroso ed inconfutabile fallimento. Sì perché quel “riformato” sistema, sempre fatti alla mano, risulta essere messo sotto il diretto e personale controllo del primo ministro e serve a lui per coprire il suo diretto coinvolgimento, sia come ideatore, sia come beneficiario, in tanti scandali clamorosi pubblicamente noti. Il nostro lettore è stato ampiamente e continuamente informato di tutto ciò.

    Nonostante tutte le ingannevoli “strategie” ed i tentativi per “convincere” l’opinione pubblica che i responsabili sono i suoi collaboratori, il vero e diretto responsabile dei fallimenti di tutte le riforme avviate, sia istituzionalmente che moralmente, è proprio lui, il primo ministro albanese. Mentre coloro che lui adesso sta cercando di incolpare sono stati soltanto e semplicemente delle marionette che ubbidivano ai suoi ordini. Mentre adesso, per apparire come il vero “salvatore della patria”, sta cercando di nuovo di ingannare e di guadagnare altro tempo. Adesso il primo ministro, cercando di “tranquillizzare” l’opinione pubblica, “garantisce” il funzionamento normale delle istituzioni, sia centrali che locali, perché lui stesso, il primo ministro, controllerà, d’ora in poi, la situazione e troverà le soluzioni migliori e durature (Sic!).

    Da più di due mesi ormai il primo ministro si trova in grosse difficoltà, dopo la pubblicazione da parte dell’opposizione politica di innumerevoli scandali ed abusi, prima e durante il vero e proprio massacro elettorale dell’11 maggio scorso, in palese violazione della legislazione in vigore sulle elezioni. Abusi e violazioni che non potevano mai essere attuate senza l’ordine e/o il beneplacito del “comandante supremo ed indiscusso”. Ragion per cui adesso lui sta tentando di ingannare di nuovo, cercando di  tergiversare l’attenzione dell’opinione pubblica con le sue “sincere e sentite confessioni”. Adesso si sta presentando, senza batter ciglio e come se nulla fosse accaduto, da innato ingannatore e bugiardo qual è, come l’unico ed il vero salvatore  da quella grave situazione, generata a sua insaputa e dietro le sue spalle dai suoi collaboratori “incapaci e disonesti”.

    Parte di quella “strategia” sono anche l’uso, durante queste ultime settimane, delle ruspe e dell’esplosivo, per demolire delle costruzioni “illegali”, licenziati però in precedenza da lui stesso e/o dai suoi collaboratori. Adesso però, fatti accaduti, documentai e pubblicamente noti alla mano, ha ufficialmente usurpato anche i poteri che, sia la Costituzione e sia le leggi in vigore non gli riconoscono. Come quello sull’amministrazione locale. Il nostro lettore è stato informato di tutti questi “sviluppi” durante queste due ultime settimane (Abusi scandalosi di un dittatore camuffato con i poteri usurpati, 14 luglio 2025; Ingannevoli promesse non mantenute e drammatiche conseguenze, 22 luglio 2025). Proprio come se lui fosse il vero e l’unico proprietario del Paese. Perciò agisce con l’arroganza di un autocrate, che si sente onnipotente.

    Il 21 luglio scorso il primo ministro albanese ha fatto una delle sue “sincere e sentite confessioni”, cercando proprio di giustificare quanto ha ordinato dall’inizio di questo mese, senza specificare però con chi avesse discusso. Forse con nessuno, o forse con i suoi consiglieri personali. “Pochi giorni dopo che le elezioni (dell’11 maggio scorso, n.d.a.) siano state concluse con un risultato straordinario, con un record assoluto, ma che comporta una responsabilità molto grande, abbiamo discusso sull’indispensabilità di ritornare sul territorio e di guardare quali siano le preoccupazioni delle comunità”. Così ha affermato il primo ministro il 21 luglio scorso!

    In questa sua affermazione lui ha di nuovo mentito spudoratamente. Sì, perché le “elezioni” dell’11 maggio scorso sono state un massacro elettorale, ma mai e poi mai un “risultato straordinario”. Sì, quelle elezioni sono state veramente, fatti accaduti, dettagliatamente documentati ed ufficialmente denunciati alla mano, “un record assoluto”. Ma un record assoluto di abusi elettorali però!

    Adesso, dopo aver usurpato anche il potere dell’amministrazione locale, diventando così il sindaco di 54 municipi da lui controllati, per un totale di 61, la scorsa settimana, 21 luglio, il primo ministro ha incaricato alcuni ministri di dirigere il funzionamento del municipio della capitale, dopo che il sindaco eletto si trova in prigione dal 12 febbraio scorso. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito di quanto è accaduto. Una decisione quella sopracitata, in piena ed evidente violazione della Costituzione e delle leggio in vigore. Durante la riunione con quei ministri e con gli alti funzionari del municipio della capitale, il primo ministro ha “ammesso” anche il fallimento della riforma del territorio e dell’amministrazione locale. Lui ha fatto sapere che adesso sta dirigendo un gruppo di specialisti che devono preparare il “nuovo Pacchetto” della nuova riforma del territorio.

    Chi scrive queste righe da alcuni anni sta informando il nostro lettore, fatti accaduti, documentati e pubblicamente noti alla mano, che in Albania è stata restaurata e si sta consolidando, ogni giorno che passa, una nuova dittatura sui generis, rappresentata istituzionalmente proprio dal primo ministro. Si tratta di una pericolosa dittatura come alleanza tra il potere politico, la criminalità organizzata e determinati raggruppamenti occulti internazionali, molto potenti finanziariamente. Perciò il comportamento del primo ministro è contraddistinto dall’arroganza di un autocrate che si sente e agisce come onnipotente, come una “creazione divina”. Aveva ragione Charles Darwin: l’uomo nella sua arroganza si crede un’opera grande, meritevole di una creazione divina.

  • La Commissione accoglie con favore l’accordo volto a facilitare il voto alle elezioni europee e comunali dall’estero

    La Commissione accoglie con favore l’adozione delle nuove norme sul diritto di voto alle elezioni europee e comunali per gli europei che vivono in un altro Stato membro. Tali norme, proposte dalla Commissione nel novembre 2021, impongono agli Stati membri di fornire informazioni tempestive e chiare sulla registrazione degli elettori, sulla data delle elezioni e sulle procedure di voto, garantendo che tali informazioni siano fornite in una lingua ampiamente compresa dagli elettori. Per rafforzare ulteriormente i diritti dei cittadini mobili dell’UE, gli europei residenti in un altro Stato membro avranno ora lo stesso accesso al voto anticipato e, se disponibile, al voto per corrispondenza o online alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato membro in questione. Nuovi modelli semplificheranno il processo di registrazione sia per gli elettori sia per i candidati, e un nuovo sistema sicuro, fornito dalla Commissione, aiuterà i paesi a condividere i dati per evitare il voto multiplo.

    Una recente relazione sulle elezioni del Parlamento europeo del 2024 ha rivelato che, sebbene vi siano circa 14 milioni di cosiddetti cittadini mobili, pochissimi votano effettivamente alle elezioni europee. Le nuove norme contribuiranno a garantire che il voto sia facile e accessibile a tutti. Gli Stati membri dispongono ora di due anni per recepire le norme, fino al giugno 2027.

  • La farsa continua, ma anche le gravi conseguenze

    Questo austero filosofo sa bene che la vita è una misera farsa; ma questo buffone non dubita di interpretare una grandiosa avventura.

    Jean Rostand; da Pensieri di un biologo, 1939

    La saggezza secolare del genere umano, dovuta anche alle tante, tantissime esperienze vissute e spesso sofferte, è stata conservata e tramandata da generazione in generazione fino ai giorni nostri. E si tratta di un’eredità di valore inestimabile. Una saggezza quella, che viene trasmessa anche dalle favole. Ogni popolo ha le sue, oltre a quelle che oltrepassano i confini nazionali. Tali sono le favole scritte dal noto scrittore francese del ‘600, Jean de La Fontaine.

    “La mucca, la Capra e la Pecora in società col Leone” è una di quelle favole, parte integrante della voluminosa raccolta intitolata Les fables (Favole; n.d.a.), pubblicata nel 1668. “Si narra che una volta stringesser comunella/ la Pecora, la Mucca, la Capra lor sorella,/ col gran signor del luogo che detto era Leone”. Così cominciava la favola. E la condizione in base alla “comunella” tra i quattro soci era “…che ognun insieme i danni e gli utili mettesse”. Dopo che fu stabilito quel patto, accade che un cervo rimase intrappolato in una fossa. Subito tutti andarono lì, avvisati dalla capra. Appena arrivato, il leone avverte che il cervo sara diviso in quattro parti. Con le sue unghie squartò la preda. E prese il primo pezzo “per la ragione ch’egli è Messer Leone”. E poi disse che un’altra parte “ancor spettami in sorte perché sono il più forte”. Prese le prime due parti, il leone aggiunse perentorio: “…La terza me la piglio perché sono il Leone,/ e se la quarta qualcuno osasse contrastarmi/ lo mangio in un boccone”.

    Attualmente alcuni tra i “grandi del mondo”, figurativamente parlando, purtroppo si stanno comportando come il leone della favola. Nonostante le convenzioni e gli accordi internazionali tra gli Stati e nonostante le dichiarazioni ufficiali di collaborazione e di rispetto reciproco, alcuni di loro vogliono predominare e prendere tutto. Con il loro noto comportamento arrogante e spesso irresponsabile, ma anche con il loro narcisismo, alcuni “grandi del mondo” pretendono, costi quel che costi, di realizzare le loro ambizioni riguardanti delle convenienze economiche a vasta scala, nonché gli obiettivi geostrategici e geopolitici. Un’inconfutabile testimonianza sono le pretese e le ambizioni, comprese anche quelle territoriali, del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Così come quelle del dittatore russo e di altri suoi simili.

    Purtroppo attualmente, come dirette o indirette conseguenze delle mire espansionistiche di alcuni dei “grandi del mondo”, in diverse parti del pianeta si stanno combattendo guerre e conflitti armati. Guerre e conflitti che stanno causando decine di miglia di vittime innocenti, compresi bambini ed anziani. Quanto sta accadendo in Ucraina, nella Striscia di Gaza, anche durante le ultime settimane, ne è una chiara e orrenda testimonianza. Da qualche giorno, purtroppo, è cominciato un nuovo conflitto armato con dei pesanti bombardamenti aerei; quello tra Israele e Iran. Un conflitto che potrebbe aggravarsi ed avere delle drammatiche ripercussioni. Un conflitto che sta coinvolgendo non solo i diretti interessati, ma anche alcuni dei “leoni del mondo”.

    Ma non sono solo loro che cercano di essere presenti, di decidere e, magari, di approfittare a livello internazionale. Ci sono anche dei “leoncini” che hanno una zona d’azione molto più limitata. Però anche loro sono arroganti, irresponsabili, ingannatori, narcisisti e, quando serve, anche buffoni. Il che genera serie preoccupazioni a livello locale, nonché gravi e drammatiche conseguenze per le rispettive popolazioni. Uno di quei “leoncini” da tredici anni ormai governa indisturbato in Albania grazie anche al “supporto internazionale”. Un “supporto” quello, in cambio di una “incondizionata disponibilità” garantita sia per alcuni dei “grandi dell’Europa”, sia per altri, da oltreoceano. E purtroppo il “leoncino” albanese ha accaparrato, l’11 maggio scorso, il suo quarto mandato consecutivo come primo ministro dell’Albania. Con tutte le derivanti conseguenze.

    Lo ha fatto con il supporto della criminalità organizzata, come risulta da moltissimi fatti accaduti, documentati, registrati, pubblicamente ed ufficialmente denunciati alla mano, lo ha fatto, abusando dei fondi pubblici. Lo ha fatto con l’uso, vietato dalla legge, dell’amministrazione pubblica sia in campagna elettorale e sia il giorno delle “elezioni”. Lo ha fatto, avendo sotto il suo pieno controllo il sistema “riformato” della giustizia che ubbidiva ai suoi ordini. Lo ha fatto in tutti i modi. L’autore di queste righe considera un vero e proprio massacro elettorale quanto è accaduto sia durante la campagna elettorale che l’11 maggio scorso, il giorno delle “elezioni”.  Alcuni capi di Stato e di governo europei ed i più alti rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea, hanno subito fatto gli auguri al “leoncino”, il primo ministro albanese per la sua “meritata vittoria elettorale”. E lo hanno fatto prima che uscissero i risultati ufficiali. Chissà perché tutto quell’appoggio e quella fretta?! Ma le cattive lingue ne hanno parlato tanto, elencando molti favori ottenuti ed interessi realizzati e/o da realizzare, in cambio del tanto necessario “sostegno dei grandi dell’Europa” per il “leoncino” albanese. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò (Appoggiano un autocrate corrotto in cambio di proficui accordi; 19 maggio 2025).

    Il “leoncino” albanese, figurativamente parlando, durante questi ultimi tredici anni al potere come primo ministro, ha fatto suoi tutti i quattro poteri che controllano il funzionamento di uno Stato. E cioè il potere legislativo, il potere esecutivo, il potere giuridico e quello mediatico. I primi tre poteri sono stati maestosamente trattati da Montesquieu nella sua opera Lo spirito delle leggi (De l’esprit des lois; n.d.a.) pubblicata nel 1748. Mentre il quarto potere, quello mediatico, non era tale nel periodo in cui Montesquieu scriveva e pubblicava “Lo spirito delle leggi”. Adesso il “leoncino” albanese ha tutto il diritto di essere arrogante, di comportarsi e di gestire in modo irresponsabile il bene pubblico, di ingannare, cosa che lui fa molto bene e di continuo, senza batter ciglio. Lui adesso ha tutto il diritto di sfoggiare il suo ben noto narcisismo. Ma quando ci vuole lui può fare anche il buffone, soprattutto quando si trova in compagnia dei “grandi dell’Europa”. Come ha fatto esattamente un messe fa. Proprio un mese fa pioveva a Tirana, dopo giorni di bel tempo. Era il 16 maggio, il giorno durante il quale nella capitale dell’Albania si svolgeva il vertice della Comunità politica europea. E mentre pioveva, il primo ministro albanese si inginocchiava davanti alla presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia. Lo ha fatto in tal modo da mettere in imbarazzo la sua “carissima sorella”. Il nostro lettore è stato informato anche di quell’evento internazionale (Preoccupanti ed ipocriti atteggiamenti dei ‘grandi dell’Europa’; 27 maggio 2025). Ma fare il buffone alcune volte serve, e lui, il “leoncino”, il primo ministro albanese lo sa molto bene, per sua personale esperienza con i “grandi dell’Europa e del mondo”.

    Chi scrive queste righe è convinto che la farsa dei “leoni e leoncini” continua, ma anche le gravi conseguenze per milioni di esseri umani innocenti. Egli giudica molto preoccupante che i “grandi dell’Europa” continuino ad appoggiare il primo ministro albanese, rappresentante istituzionale della nuova dittatura sui generis restaurata ormai in Albania e che, grazie anche al loro appoggio, si sta consolidando continuamente. E come il leone della favola di La Fontaine “La mucca, la Capra e la Pecora in società col Leone”, che ha avuto tutti i quattro pezzi del cervo, anche il “leoncino” albanese ha fatto suoi i quattro poteri che controllano il funzionamento di uno Stato. E, parafrasando Jean Rostand, il buffone che gestisce la nuova dittatura sui generis in Albania “….non dubita di interpretare una grandiosa avventura”. E continua a farlo, nonostante tutto.

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