Elezioni

  • Biden precipita nei sondaggi, in un possibile testa a testa con Trump perderebbe di nove punti

    In un ipotetico testa a testa fra Joe Biden e Donald Trump alle elezioni del 2024, il presidente in carica otterrebbe il 42 per cento dei sostegni contro il 51 per cento del suo predecessore. Lo dice l’ultimo sondaggio elaborato insieme dall’emittente statunitense Abc e dal Washington Post, con un aumento di tre punti percentuali per Trump e in calo di due per Biden rispetto al precedente sondaggio di febbraio. Il presidente democratico perde punti sia sul fronte della gestione economica che dell’immigrazione, con il 44 per cento dei partecipanti al sondaggio che ritengono di vivere sotto il suo mandato in condizioni finanziarie peggiori rispetto a prima. Una cifra, osservano gli analisti delle due emittenti, mai così alta dal 1986 per un presidente in carica. Ad oggi, solo il 37 per cento degli intervistati afferma di approvare le prestazioni di Biden, mentre il 56 per cento le disapprova.

    Sulla gestione dell’immigrazione al confine tra Stati Uniti e Messico, la valutazione di Biden è ancora più bassa. Sono in linea con le scelte di Biden solo il 23 per cento degli intervistati, mentre sul fronte di una valutazione generale del suo operato ben il 74 per cento dei partecipanti al sondaggio sono convinti che Biden sia troppo vecchio per un eventuale secondo mandato, dato in aumento di sei punti percentuali rispetto allo scorso maggio. Anche Trump è ritenuto troppo vecchio per ricandidarsi da un 50 per cento degli intervistati. Dal sondaggio emerge tuttavia un deciso sentimento anti-Biden, al punto che in caso di caduta del governo il 40 per cento afferma che attribuirebbe la colpa principalmente a lui e ai democratici del Congresso, contro un 33 per cento che riterrebbe responsabili soprattutto i repubblicani. Gli intervistati che affermano di aver votato nel 2020 riferiscono di aver sostenuto Biden rispetto a Trump con una percentuale del 50-46 per cento, molto vicina al risultato effettivo, pari al 51-47 per cento.

    L’immagine di Trump appare migliorata. Il 48 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver approvato la sua performance quand’era presidente, sebbene all’epoca secondo i sondaggi a sostenerlo era appena il 38 per cento. Altrettanti (il 49 per cento), tuttavia, sostengono di disapprovarlo oggi, una cifra che appare in calo rispetto al 60 per cento delle voci che lo criticarono a gennaio del 2021, quando lasciò l’incarico. Secondo Abc è in ogni caso degno di nota il fatto che Trump continui ad animare un certo dibattito sulle sue prestazioni da presidente, nonostante ben il 60 per cento degli statunitensi intervistati respingano con decisione la convinzione del “tycoon” secondo cui le elezioni del 2020 gli sarebbero state rubate: solo il 29 per cento pensa che Biden non abbia vinto legittimamente ed un ulteriore 12 per cento non si esprime.

    In vista del 5 novembre 2024 – data delle 60sime elezioni presidenziali Usa – e prima ancora delle elezioni primarie attese all’inizio dell’anno, il 62 per cento degli intervistati democratici e degli indipendenti sono convinti che il partito dovrebbe scegliere un altro candidato alla presidenza, mentre solo un terzo rimane fedele a Biden. Malgrado però il desiderio elevato di un candidato diverso, il 56/58 per cento non dà risposte chiare su chi dovrebbe essere l’alternativa. In una domanda a risposta aperta, l’8 per cento degli intervistati ha espresso una preferenza per la vicepresidente Kamala Harris, uguale percentuale per il senatore Bernie Sanders e il 7 per cento per Robert F. Kennedy Jr., nipote dell’ex presidente John Fitzgerald Kennedy. Per quanto riguarda Trump, l’ex presidente gode di un sostegno intrapartitico molto più ampio: il 54 per cento dei repubblicani e degli indipendenti di orientamento repubblicano lo favoriscono per la nomina nel “Grand Old Party” (Gop), ancora una volta risultati simili ai risultati precedenti e ben davanti alla sua opposizione. Il suo principale rivale ed attuale governatore della Florida, Ron DeSantis, ha il 15 per cento di sostegno, in calo rispetto al 25 per cento di maggio.

  • Quale democrazia: dal Diritto alla pianificazione del Premio

    Molti credono che la democrazia sia caratterizzata soprattutto dal riconoscimento del diritto di voto e questa  semplice opportunità la renda la  garanzia dei diritto dei cittadini.

    All’interno, invece, di un sistema politico in cui il sistema elettorale non permette agli elettori di scegliere i propri rappresentanti, i quali vengono posizionati dalle segreterie di ogni partito, ecco che la semplice manifestazione elettorale non rappresenta più l’elemento determinante di una democrazia. Anche perché questi eletti, ma sconosciuti ai propri elettori, si fortificano con l’assenza di un minimo vincolo di mandato (*) e quindi la distanza con il corpo elettorale si amplifica. La nostra democrazia, in più, risulta delegata, lasciando quindi un minimo spazio di azione ai cittadini.

    Esattamente l’opposto di quanto avviene in Svizzera dove, in virtù di una democrazia diretta, i cittadini vengono chiamati ad esprimere il proprio parere in relazione alle più diverse questioni sia economiche o di semplice viabilità esprimendo il proprio voto per via  postale.

    Ma una democrazia, pur se perfettibile, si annulla quando il Diritto perde la propria definizione in favore del concetto di Premio.

    Ed è esattamente quanto sta avvenendo in Piemonte dove un diritto riconosciuto alla libera circolazione (per di più se per recarsi al lavoro) viene sostituito da una limitazione, alla quale si potrà in parte derogare se il comportamento dell’automobilista risultasse in linea con i precetti stabiliti dall’ente pubblico.

    Ecco come si passa da una sgangherata democrazia ad uno  STATO ETICO il quale limita, a seconda della propria convenienza ed ideologia, prima e, successivamente, premia il comportamento virtuoso dei propri sudditi.

    Questo rappresenta un esempio di pianificazione economica e sociale di chiara ispirazione socialista successiva a quella culturale  da anni già evidentemente in atto.

    In altre parole, il Diritto perde le caratteristiche di venire riconosciuto ad ogni cittadino in quanto tale, ma viene limitato e successivamente ampliato grazie alla aderenza ai precetti istituzionali assumendo le caratteristiche del Premio.

    Il nostro Paese è già da tempo uno stato etico nel quale il DIRITTO riconosciuto a tutti i cittadini diventa un PREMIO ai  comportamenti dei sudditi.

    (*) la possibilità di rispondere agli elettori della propria attività in Parlamento.

  • I tre asset istituzionali

    La maggioranza di governo persegue due obiettivi programmatici ambiziosi e considerati compatibili.

    Il primo è rappresentato dal riconoscimento di una maggiore autonomia per le regioni del Veneto(*),  Lombardia ed Emilia Romagna. Il secondo, viceversa, prevede una forte riforma istituzionale e contemporaneamente della divisione di poteri attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio o in subordine del Presidente della Repubblica

    Nel caso in cui queste due importanti riforme venissero entrambe approvate dai due rami del Parlamento ci troveremmo di fronte a un asset istituzionale caratterizzato da un insostenibile terzetto di istituzioni locali. in quanto alle cinque regioni a statuto autonomo si dovrebbero aggiungere altre tre dotate di una maggiore autonomia amministrativa sulle materie delegate ed infine una terza rappresentata dalle regioni a statuto ordinario.

    In questo contesto la stessa elezione diretta del Presidente del Consiglio rappresenterebbe per gli abitanti delle tre tipologie di regioni prerogative ed aspettative decisamente differenti proprio in rapporto al livello di autonomia conseguito dalla propria regione di residenza.

    Uno stato federale, infatti, non si può reggere su tre diversi asset istituzionali la cui differenza si basa sul riconoscimento di tre tipologie di autonomia amministrativa e fiscale.  Viceversa, tutti gli asset istituzionali basati sul riconoscimento del federalismo trovano la propria ragione costitutiva quando esprimono un stato centrale più o meno titolare di prerogative, in aggiunta al riconoscimento dei poteri locali demandati ai singoli Stati o alle regioni.

    Al di là, quindi, delle dichiarazioni formali della maggioranza, emerge evidente come molto probabilmente verranno disattese le legittime aspettative di maggiore autonomia amministrativa da parte dei veneti  e  contemporaneamente si abbandonerà una qualsiasi riforma verso un presidenzialismo anche se spurio.

    La realtà politica attuale dimostra come nessuno di questi obiettivi di “riforme istituzionali” sia nella realtà raggiungibile in quanto il vero l’obiettivo di queste “visioni istituzionali” rimane quello di sostenere un alto interesse che rappresenta la molla per mantenere il proprio consenso elettorale.

    (*) A fronte anche di un referendum dall’esito plebiscitario

  • Il Sud Sudan terrà le prime elezioni dall’indipendenza

    Il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha dichiarato che le elezioni del Paese, a lungo rimandate e le prime da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza, si terranno il prossimo anno, come previsto, e lui si candiderà.

    Nessun altro ha parlato finora di candidatura, ma tra i possibili candidati potrebbe esserci anche il primo vicepresidente Riek Machar.

    Kiir è presidente dall’indipendenza, nel 2011, raggiunta dopo una lunga guerra civile, anche se il conflitto in realtà è ripreso nel 2013. Nell’agosto 2018 è stato firmato un accordo di condivisione del potere tra le parti in conflitto nel tentativo di porre fine alla guerra civile quinquennale.

    Il mandato del governo di transizione, che avrebbe dovuto concludersi nel 2022, è stato prorogato per consentire ai leader di affrontare le sfide con l’attuazione dell’accordo di pace.

    Martedì, Kiir ha affermato che queste sfide saranno affrontate “prima delle elezioni” fissate per dicembre del prossimo anno.

  • Non c’è pace nei Balcani

    I Balcani producono più storia di quanta ne possano consumare

    Winston Churchill

    Nel 1950 uscì nelle sale cinematografiche in Italia un film del neorealismo italiano che si intitolava Non c’è pace tra gli ulivi. Un film che anche l’autore di queste righe ha visto con piacere diverse volte nel corso degli anni. I due protagonisti del film, maestosamente interpretati da Raf Vallone e Lucia Bosé, sono Francesco, un pastore, e Lucia, la ragazza che lui amava. Francesco, dopo aver combattuto per tre anni al fronte e dopo essere stato, in seguito, per tre anni in prigione, era tornato finalmente a casa. Ma nel frattempo un suo compaesano e pastore, Agostino, aveva rubato quasi tutte le pecore che possedeva la famiglia di Francesco. Convinto però del detto popolare che ‘chi ruba quello che gli appartiene non è un ladro’, decise di riavere le sue pecore. In quel suo piano vengono coinvolti altri suoi famigliari e Lucia che, nonostante amasse Francesco, era promessa sposa ad Agostino. E, guarda caso, Lucia era l’unica che aveva visto Agostino rubare le pecore. Ebbene, Francesco rubò non solo le pecore sottratte alla sua famiglia, ma tutte le pecore che possedeva il vero ladro. Accortosi della perdita delle pecore, Agostino si mise a seguire i ladri. Strada facendo trovò la sorella di Francesco, che non teneva il ritmo degli altri, e la stuprò. Poi, non riuscendo a raggiungerli, denunciò tutto alle autorità. Francesco è stato arrestato e condannato a quattro anni di prigione. Anche perché i compaesani hanno testimoniato a favore di Agostino. Lucia stessa, durante il processo, non ammette di aver visto Agostino rubare le pecore di Francesco. Nel frattempo però Lucia doveva sposare Agostino, ma il giorno del matrimonio la sorella di Francesco, stuprata da Agostino, incontra Lucia e in mezzo a tutti racconta a lei la verità su tutto ciò che era accaduto. Allora Lucia torna nella sua casa paterna; il matrimonio perciò viene annullato. Nel frattempo gli altri pastori si mettono tutti contro Agostino per delle ingiustizie da lui fatte nei loro confronti. Francesco riusce ad evadere dal carcere. Lucia la raggiunge. Francesco insieme con Lucia e anche con l’aiuto ed il pieno supporto dei pastori va a trovare Agostino. Adesso è lui che scappa, trascinando nella sua fuga anche la sorella di Francesco. Ma poco dopo la uccide perché lei, debole di nervi, impediva la fuga. Fuggendo Agostino spara molti colpi contro quelli che lo stavano inseguendo e non si accorge che i proiettili erano finiti. Raggiunto da Francesco, ma senza più colpi in canna, Agostino si getta in un precipizio e muore. Nel frattempo arrivano anche i carabinieri avvertiti di quello che stava accadendo. Il maresciallo dei carabinieri, dopo aver visto e sentito tutto, aveva capito chi era il vero colpevole. Perciò promette e garantisce che avrebbe fatto di tutto per riaprire il processo e fare finalmente giustizia. Una promessa, quella del maresciallo dei carabinieri, che ha riempito di gioia e di speranza per il loro comune futuro anche i due protagonisti del film Non c’è pace tra gli ulivi, Francesco e Lucia.

    Non c’è pace anche nei Balcani. E soprattutto tra la Serbia ed il Kosovo. Nel settembre del 2021 si è riattivato il contenzioso delle targhe automobilistiche. Il governo del Kosovo, rivendicando il principio di reciprocità, facendo riferimento all’Accordo di Bruxelles del 2013 tra i due Paesi, ha imposto il cambio provvisorio delle targhe per i veicoli serbi entrati in Kosovo. Una prassi che la Serbia applica per i veicoli del Kosovo, una volta entrati nel suo territorio. Un conflitto, quello, che ha direttamente coinvolto anche le istituzioni dell’Unione europea, soprattutto la Commissione. Dopo lunghe e non facili trattative la questione fu soltanto posticipata di alcuni mesi. Ma già dal luglio del 2022 altre manifestazioni di protesta si verificarono nel nord del Kosovo. Erano sempre dei protestanti serbi che si opponevano alla decisione del governo del Kosovo sulle targhe. Delle frange estremiste serbe hanno messo in atto blocchi stradali con dei camion ed altri mezzi pesanti. Non ha risolto il contenzioso sulle targhe neanche la mediazione dei massimi rappresentanti della Commissione europea. La situazione si è aggravata ulteriormente il 5 novembre 2022. E questa volta, oltre al contenzioso sulle targhe e le modalità d’applicazione, la parte serba ha aggiunto anche l’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, come prestabilito nell’Accordo di Bruxelles del 2013. Ma anche nel caso delle Associazioni delle municipalità, quell’Accordo non prevedeva e garantiva il principio di reciprocità per i comuni con maggioranza di abitanti di etnia albanese nel sud della Serbia. Ebbene, il 5 novembre 2022, la protesta dei serbi etnici nel nord del Kosovo portò alle dimissioni di massa dei sindaci, dei consiglieri comunali, dei giudici e dei procuratori, del personale giudiziario e degli agenti di polizia di etnia serba da tutte le istituzioni del Kosovo. La situazione continuò ad aggravarsi anche nei mesi successivi, soprattutto dopo le decisioni di sostituire gli agenti di polizia dimessi e il dimesso ministro per le Comunità con un altro serbo etnico, non gradito però alla Serbia. Per ripristinare la mancata normalità istituzionale dopo le dimissioni di massa nel novembre 2022, era stato deciso di svolgere nuove elezioni in quei quattro comuni il 18 dicembre 2022. Ma l’aggravarsi della situazione, dovuto alle proteste e ai blocchi stradali, non poteva permettere un normale processo. Perciò, dopo diverse consultazioni con i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America, è stata decisa una nuova data, il 23 aprile 2023, per quelle elezioni comunali. Elezioni nelle quali si sono registrati come candidati sindaci soltanto rappresentanti dei partiti albanesi. Di fronte ad una simile realtà però sono stati proprio i rappresentanti dell’Unione europea e degli Stati Uniti d’America ad insistere perchè le elezioni si svolgessero. Nel frattempo gli elettori di etnia serba, che sono la maggioranza in quei quattro comuni, “consigliati” anche da chi di dovere in Serbia, hanno boicottato in massa le elezioni. Una “scelta” quella che ha permesso ai quattro candidati di etnia albanese ad essere eletti come sindaci, ma con una veramente bassa affluenza degli elettori ai seggi, che non superava i 4% degli aventi diritto al voto. Nonostante ciò le elezioni sono state regolari e secondo le leggi in vigore nel Kosovo i sindaci dovevano insediarsi ufficialmente il 26 maggio scorso.

    Ebbene, da venerdì, 26 maggio scorso, si sono aggravati di nuovo i rapporti tra il Kosovo e la Serbia. Questa volta il casus belli è stato proprio l’insediamento dei nuovi sindaci di etnia albanese in quattro comuni nel nord del Kosovo. Sono stati molti i contestatori serbi che il 26 maggio scorso avevano circondato gli edifici dei comuni per impedire ai nuovi sindaci di entrare nei propri uffici. Protestavano esponenti ed aderenti di un partito dei serbi etnici del Kosovo, molto vicino al presidente della Serbia. Le proteste cominciate il 26 maggio scorso sono proseguite poi per tutta la successiva settimana. Da fonti di informazione credibili risulterebbe che in quelle proteste c’erano anche molti “violenti” arrivati dalla Serbia, tra paramilitari e persone con precedenti penali. Lunedì scorso, il 29 maggio, il governo del Kosovo ha deciso di intervenire e di permettere ai nuovi sindaci di cominciare ad esercitare il loro mandato. E siccome gli edifici comunali erano circondati dai “contestatori”, è dovuta intervenire anche la polizia del Kosovo. Ma i “contestatori” hanno aggredito i poliziotti. Poi, dopo l’intervento dei militari della KFOR (acronimo di Kosovo Force; n.d.a.), i “contestatori” serbi hanno aggredito anche loro. Risulta che sono stati 30 i militari della KFOR, 11 soldati italiani e 19 ungheresi, feriti durante gli scontri il 29 maggio scorso. Gli scontri sono continuati per tutta la settimana scorsa, anche se non più violenti come quelli del 29 maggio. Bisogna però sottolineare che la KFOR è un contingente militare internazionale a guida NATO, attivo in Kosovo dal 12 giugno 1999, due giorni dopo l’adozione della Risoluzione 1244 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

    Subito dopo l’inizio degli scontri dei “contestatori” serbi” con le forze di polizia del Kosovo e i militari della KFOR, hanno reagito le massime autorità del Kosovo e della Serbia. Hanno reagito anche i massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quelli della Commisione, nonché il segretario di Stato statunitense ed il responsabile per i Balcani del Dipartimento di Stato. Però alcuni di loro hanno dovuto “correggere” le loro dichiarazioni dopo le reazioni del primo ministro e della presidente del Kosovo. E purtroppo anche durante la scorsa settimana si è verificato il solito atteggiamento ambiguo di non pochi alti rappresentanti istituzionali e statali europei e statunitensi per delle situazioni e realtà chiare e per niente ambigue. Già da lunedì scorso quasi tutti loro hanno cercato di incolpare non l’aggressore, bensì l’aggredito. Hanno cercato di fare pressione sulle autorità del Kosovo, le quali hanno semplicemente cercato di rispettare le leggi in vigore. Leggi fatte con la sempre presente ed attiva consulenza delle istituzioni specializzate sia dell’Unione europea che altre. Sono stati gli stessi rappresentanti che nell’aprile scorso sono stati determinati ad avere elezioni in quei quattro comuni nel nord del Kosovo che, un mese dopo, hanno “dimenticato” tutto ed hanno incolpato le autorità del Kosovo. Così facendo davano un “appoggio” al presidente della Serbia, nonostante tutti sanno che è lui e/o chi per lui ad aver “consigliato” gli aventi diritto al voto di etnia serba in quei quattro comuni a boicottare le elezioni il 23 aprile scorso. Bisogna sottolineare che il presidente della Serbia la scorsa settimana ha avuto il pieno e dichiarato sostegno della Russia. E per coloro che non lo sanno, o che lo hanno dimenticato, l’attuale presidente della Serbia è stato, dal marzo del 1998 fino all’ottobre del 2000 il ministro dell’Informazione della Repubblica Federale di Jugoslavia (Repubblica costituita allora solo dalla Serbia ed il Montenegro; n.d.r.). Ed in quel periodo il Presidente della Repubblica era Slobodan Milošević, accusato di crimini contro l’umanità per le operazioni di pulizia etnica dell’esercito jugoslavo in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo e processato poi dal Tribunale penale internazionale. In più l’attuale presidente della Serbia, durante la guerra del Kosovo (1998-1999) ha presentato una legge sull’informazione, poi approvata ed attuata, che penalzzava tutti i media che si opponevano al regime di Milošević. Ragion per cui allora lui, l’attuale presidente della Serbia, fu inserito nella Black List (Lista nera; n.d.a.) dell’Unione europea. Ed e proprio lui che non ha aderito neanche alle sanzioni poste dall’Unione europea alla Russia, dopo l’aggressione in Ucraina. Chissà perché da alcuni anni i massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quegli della Commissione, cercano però di “prendere con le buone” il presidente della Serbia?!

    I rapporti tra la Serbia ed il Kosovo sono stati sempre molto difficili e problematici. E quanto è accaduto la scorsa settimana lo dimostra. I massimi rappresentanti dell’Unione europea, soprattutto quelli della Commissione, hanno cercato di fare da mediatori nei negoziati tra le parti. Nel passato ci sono stati degli accordi (2013 e 2015) e quest’anno altri due: quello di Bruxelles del 27 febbraio e poi l’Accordo di Ohrid del 18 marzo. Questi due ultimi accordi però sono stati soltanto verbali, ma non ufficialmente firmati, sia dal presidente della Serbia che dal primo ministro del Kosovo, anche se quest’ultimo aveva dichiarato la sua disponibilità a firmare. Accordi che però sono stati presentanti come un “successo” dai massimi rappresentanti della Commissione europea! L’autore di queste righe già allora era convinto che “…l’accordo non firmato di Ohrid, raggiunto dopo le lunghe e difficili mediazioni europee, soprattutto dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, purtroppo non sarà rispettato. Non a caso è stata rifiutata la firma finale.” (Lunghe mediazioni europee e solo un accordo verbale; 27 marzo 2023).

    Chi scrive queste righe, come molte altre persone, purtroppo constata che ancora non c’è pace nei Balcani. Come non c’era pace tra gli ulivi, nell’omonimo film del regista Giuseppe de Santis. Ma alla fine del film il maresciallo dei carabinieri capì chi era il vero colpevole e promise che avrebbe fatto di tutto per fare finalmente giustizia. Chissà se accadrà lo stesso anche nei Balcani che, come diceva Churchill, producono più storia di quanta ne possano consumare.

  • A mali estremi, estremi rimedi

    Maggiore è il potere, più pericoloso è l’abuso.

    Edmund Burke

    “Gli Stati partecipanti dichiarano che la volontà del popolo, liberamente e correttamente espressa mediante elezioni periodiche e oneste, costituisce la base dell’autorità e della legittimità di ogni governo”. Così comincia l’articolo 6 del Documento di Copenaghen. Si tratta di un importante documento, approvato durante la riunione svolta a Copenaghen dal 5 al 29 giugno 1990 dell’allora CSCE (Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa; n.d.a.). Il contenuto di quel documento si basava su quanto era stato concordato alla Conferenza sulla Dimensione Umana della CSCE e contenute nel Documento conclusivo della Riunione dei Seguiti della CSCE di Vienna nel 1989. Sullo stesso articolo 6 del Documento di Copenaghen si stabilisce che “Gli Stati partecipanti rispetteranno, di conseguenza, il diritto dei propri cittadini di partecipare al governo del proprio paese sia direttamente sia tramite rappresentanti da essi liberamente eletti mediante procedure elettorali corrette”. In più, sempre riferendosi all’articolo 6 del Documento di Copenaghen, gli Stati si devono impegnare a riconoscere “…la responsabilità di garantire e proteggere, conformemente alle proprie leggi, agli obblighi internazionali relativi ai diritti dell’uomo e agli impegni internazionali assunti, l’ordinamento democratico liberamente stabilito attraverso la volontà del popolo contro le attività di persone, gruppi od organizzazioni impegnati in azioni terroristiche o che rifiutano di rinunciare al terrorismo o alla violenza miranti a rovesciare tale ordinamento o quello di un altro Stato partecipante”. Nell’ambito del Documento di Copenaghen, l’articolo 6 rappresenta una parte molto importante con il quale si stabiliscono diritti e doveri per garantire il reale funzionamento di uno Stato democratico.

    La Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa era stata convocata per la prima volta a Helsinki il 3 luglio 1973. Poi ha proseguito i lavori a Ginevra. L’obiettivo di quelle riunioni era l’elaborazione di un testo che doveva diventare un documento base ad essere approvato da tutti gli Stati aderenti. Un atto quello ufficializzato di nuovo a Helsinki durante la Conferenza iniziata il 21 luglio 1975 dai rappresentanti dei 35 Stati partecipanti. L’Atto finale è stato approvato e firmato a Helsinki il 1° agosto 1975 dai capi di Stato e di governo dei Paesi partecipanti. L’Atto finale della Conferenza di Helsinki si compone da tre sezioni, nelle quali si raggruppano le principali questioni trattate e concordate durante i tre anni di negoziati. Si tratta della sezione della sicurezza, quella della cooperazione economica, scientifica, tecnica e ambientale e la sezione dei diritti umani. Bisogna sottolineare che l’Atto finale, approvato durante la riunione di Helsinki nel 1975, non essendo un vero e proprio accordo internazionale, non è stato perciò neanche soggetto di ratifica dai parlamenti dei singoli Stati membri. In seguito, proprio quando il blocco comunista dell’Europa orientale si stava sgretolando, è stata organizzata e convocata la riunione della Conferenza a Parigi, dal 30 maggio al 23 giungo 1989. Poi, dopo le due sopracitate riunioni della CSCE, quelle di Vienna e di Copenaghen, si è tenuta anche la riunione di Mosca dal 10 settembre al 4 ottobre 1991. Dopo la fine del lungo e problematico periodo storico della guerra fredda, anche la CSCE ha modificato i suoi programmi e obiettivi. Tutto stabilito dal Documento di Helsinki del 1992, intitolato “Le sfide del cambiamento”. Poi in seguito, durante il vertice di Budapest nel dicembre 1994, i capi di Stato e di governo dei Paesi membri della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa hanno deciso di cambiare anche il nome della stessa Conferenza, perciò a partire dal 1° gennaio 1995 diventò attiva l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) con 57 Paesi membri del Nord America, dell’Europa e dell’Asia. Si tratta della più grande organizzazione di sicurezza regionale al mondo. L’obbligo dell’OSCE è, tra l’altro, quello di garantire la stabilità, la pace e la democrazia attraverso il dialogo politico. Riferendosi agli Atti ufficiali, l’attività dell’OSCE si svolge in tre settori fondamentali: il settore politico-militare, che tratta gli aspetti militari della sicurezza, quello economico ambientale, che affronta soprattutto argomenti dell’energia, dell’ambiente e dello sviluppo economico ed il settore della dimensione umana, dedicata alle tematiche dello Stato di diritto ed alla tutela dei diritti umani. Elezioni libere e democratiche comprese.

    Quando si costituì ed, in seguito, quando si riuniva la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, la dittatura comunista in Albania, la più crudele e sanguinosa in tutta l’Europa orientale, criticava e ridicolizzava le decisioni prese dalla Conferenza. Dovevano passare quindici anni prima che il regime comunista albanese, pochi mesi prima del crollo, decise finalmente di presentare la richiesta per aderire alla Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Una richiesta che è stata accettata. Durante la riunione della CSCE di Copenaghen del 1990 il rappresentante dell’Albania ha assistito in veste di osservatore. L’Albania è diventata membro della CSCE il 19 giugno 1991, durante la riunione di Berlino dei ministri degli affari Esteri dei Paesi membri della Conferenza. Perciò, durante la seguente ed importante riunione della CSCE di Mosca, l’Albania ha partecipato come un Paese membro a pieni diritti. Da allora in poi tutti i governi albanesi hanno avuto l’obbligo di rispettare gli accordi presi e quanto sancito dai Documenti e dagli Atti finali, della CSCE prima e dell’OSCE in seguito. Ma purtroppo, durante questi ultimi anni, dal 2013 ad oggi, fatti accaduti, documentati e denunciati alla mano, i tre governi albanesi, capeggiati dallo stesso primo ministro, quello attuale, hanno violato e spesso anche consapevolmente calpestato quanto sanciscono quei Documenti. Compreso anche l’articolo 6 del Documento di Copenaghen del 1990. Durante le cinque elezioni generali, quelle parlamentari e locali ed altre elezioni parziali locali, i tre governi dell’attuale primo ministro, sempre fatti accaduti, documentati ed ufficialmente denunciati alla mano, compresi anche i rapporti finali dell’OSCE, risulta purtroppo che si è passato dal male al peggio. Risulta che l’esito finale delle elezioni è condizionato e controllato dal governo, in connivenza con la criminalità organizzata. E, durante questi ultimi anni, risulta che al controllo e al condizionamento del risultato finale delle elezioni in Albania stanno contribuendo attivamente anche alcuni noti oligarchi e imprenditori, clienti del primo ministro, che con lui dividono anche i milioni assicurati tramite tanti appalti illeciti. Ma siccome in Albania anche le istituzioni del sistema “riformato” della giustizia sono direttamente controllate dal primo ministro e/o da chi per lui, tutto passa senza nessuna obbligatoria conseguenza penale, come se niente fosse.

    La scorsa settimana il nostro lettore è stato informato del preannunciato massacro elettorale prima e durante le elezioni generali amministrative del 14 maggio scorso. “Infatti, tutto quello che si è verificato e successo, sia prima delle elezioni amministrative di domenica scorsa, sia durante il giorno stesso delle elezioni, fatti accaduti, documentati e denunciati pubblicamente alla mano, risulta essere stata semplicemente la cronaca di un massacro elettorale preannunciato. È la cronaca di tutto quello che è ormai accaduto e noto al pubblico, di tutte quelle violazioni della Costituzione e delle leggi in vigore, che hanno garantito la tanto voluta “vittoria” personale del primo ministro”. Così scriveva il 15 maggio scorso l’autore di queste righe. E poi elencava diversi fatti accaduti, Dal pauroso crollo dell’euro nei cambi con la moneta locale, “…condizionato da ingenti somme di denaro illecito, entrato in Albania per ‘scopi elettorali’”, ai “patrocinatori” e agli “attivisti’, molto attivi prima e durante le elezioni. Faceva riferimento ai vari modi per condizionare il voto e all’attivo coinvolgimento della criminalità organizzata. Il nostro lettore veniva informato che “La cronaca del massacro elettorale preannunciato comprende il sistema “riformato” della giustizia, i cui rappresentanti “non vedono e non sentono”, perciò non reagiscono in seguito alle tante denunce pubblicamente fatte dall’opposizione. Comprende anche la Polizia di Stato che da anni funziona ormai come polizia del primo ministro”. In più lo scorso lunedì 15 maggio, l’autore di queste righe scriveva che “…Il risultato diretto di un simile massacro elettorale permette un ulteriore, preoccupante e molto pericoloso consolidamento della nuova dittatura in Albania” (Cronaca di un massacro elettorale preannunciato; 15 maggio 2023).

    Ebbene, durante questi giorni, ad elezioni finite, sono stati tanti i fatti accaduti, documentati e denunciati, fatti che testimoniano inconfutabilmente la ben ideata, programmata ed, in seguito, attuata strategia per avere uno “spettacolare risultato elettorale”, come si vanta il primo ministro. Ma per elencare tutti quei fatti sarebbero necessarie molte, ma veramente molte pagine. E non poteva essere diversamente. Perché la diabolica “strategia” del primo ministro albanese per avere “una vittoria spettacolare” prevedeva il coinvolgimento attivo, su tutto il territorio, della criminalità organizzata. Prevedeva, in palese violazione della Costituzione e delle leggi in vigore, il diretto ed attivo coinvolgimento, nolens volens, dell’amministrazione pubblica a tutti i livelli. Prevedeva l’uso delle istituzioni per “offrire” sostegno finanziario ai cittadini bisognosi. Prevedeva anche il diretto coinvolgimento di noti oligarchi e tanti imprenditori, “amici e clienti” del primo ministro, per offrire denaro in cambio del voto a favore. O, per lo meno, in cambio a non andare a votare a tutti quegli che potevano votare contro. Lo aveva chiesto spesso durante la campagna elettorale, in piena violazione della legge, anche il primo ministro, consigliando alle donne di “chiudere a chiave in casa gli uomini che non votavano per lui”! La diabolica “strategia” del primo ministro albanese per avere “una vittoria spettacolare”, costi quel che costi, prevedeva anche molto altro. Ragion per cui sono tanti, ma veramente tanti i fatti accaduti, le violazioni della legge elettorale da parte di istituzioni ed individui che sono obbligati a rispettare proprio quella legge.

    Tra le tante “novità” delle elezioni generali amministrative del 14 maggio scorso c’è anche il risultato di un partito che alcuni anni fa è passato alle mani di un grosso imprenditore, “amico e cliente” del primo ministro. Un partito che, da quando è stato costituito negli anni ’90, non ha mai avuto dei risultati elettorali come quelli di queste elezioni. Anzi, è stato sempre un partito che a malapena riusciva a portare in parlamento qualche deputato. Ebbene quel partito, a livello nazionale, adesso ha avuto un “sorprendente risultato”: è diventato uno dei tre o quattro più importanti partiti politici. E quello che è ancora più sorprendente è che il partito dell’imprenditore, “amico cliente” del primo ministro durante la campagna per le elezioni del 14 maggio scorso, non ha fatto nessuna attività elettorale, non ha presentato in pubblico nessun programma. Il capo di quel partito però, da tante denunce fatte pubblicamente e depositate ufficialmente nelle apposite istituzioni del sistema “riformato” della giustizia, risulta avere speso tanti milioni, sia per comprare voti, sia per garantire di non subire il “voto contrario” per i candidati sindaci del primo ministro e per le liste del suo partito. Questo “attivo imprenditore” è solo uno dei tanti contribuenti per lo “spettacolare risultato elettorale”, costi quel che costi, del primo ministro albanese.

    Chi scrive queste righe continuerà a trattare per il nostro lettore quanto è successo prima, durante e dopo le elezioni del 14 maggio scorso. Egli è convinto che le violazioni sono state veramente tante e hanno coinvolto direttamente il primo ministro, i suoi ministri e stretti collaboratori. Hanno coinvolto la criminalità organizzata e tanti imprenditori. Quello accaduto prima, durante e dopo le elezioni del 14 maggio scorso è un male grave, un male estremo. E come ci insegna da tanti secoli la saggezza popolare, per contrastare i mali estremi bisogna trovare e attuare estremi rimedi. Perché, come scriveva Edmund Burke, maggiore è il potere, più pericoloso è l’abuso.

  • Cronaca di un massacro elettorale preannunciato

    Elezione. Semplice artificio mediante il quale una maggioranza

    dimostra a una minoranza che sarebbe follia tentare di resistere.

    Ambrose Bierce

    Gabriel Garzia Márquez è un noto scrittore colombiano che nel 1982 è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura. Un anno prima veniva pubblicato un suo romanzo intitolato “Cronaca di una morte annunciata”. Una storia vera, accaduta una trentina di anni prima nel suo paese natale, quella che lo scrittore ha portato nel suo romanzo. Ovviamente cambiando i nomi dei suoi personaggi. Il romanzo racconta la storia di un giovane ucciso dai due fratelli gemelli di una ragazza con la quale lui aveva avuto una relazione. Durante quella relazione durata poco, la ragazza aveva persa la sua verginità. Tutto accade l’indomani del giorno in cui la ragazza si sposa con un altro uomo. Lo sposo però scopre che la sposa non era più illibata e la ripudia. Tornata a casa lei racconta tutto ai suoi due fratelli i quali decidono subito di vendicarsi. Escono di casa e fanno sapere a tutti quello che volevano fare. Saputa l’intenzione dei due fratelli di uccidere colui che aveva disonorato la sorella, alcuni compaesani hanno pensato che loro non sarebbero stati capaci di compiere un simile atto crudele. Altri speravano che la vittima fosse stata avvisata in tempo da potersi mettere in salvo. Altri ancora credevano che era tutta una storia inventata dai fratelli sotto l’effetto dell’alcol bevuto in abbondanza durante i festeggiamenti di poche ore prima. Ragion per cui nessuno si era mosso a trovare ed avvisare il ragazzo ed impedire la tragedia. Il caso ha voluto che il ragazzo, l’unico nel paese che ancora non sapeva niente, tornando a casa, li trova di fronte, coltelli alla mano. Il ragazzo ha cominciato a correre per mettersi in salvo, dirigendosi verso casa sua che si trovava proprio lì vicino. Il caso però ha voluto che sua madre, vedendo il figlio correre verso la porta e credendo che fosse riuscito, scese giù e chiuse la porta, ignara di aver lasciato il figlio nelle mani dei suoi assassini. I due fratelli raggiunsero ed uccisero il ragazzo, accoltellandolo

    Alla fine del romanzo il lettore apprende che i due fratelli, dopo essere stati condannati per omicidio, vengono lasciati liberi perché era stato riconosciuto il “motivo d’onore”. Mentre la loro sorella, dopo diciassette anni incontra di nuovo il suo ex marito che l’aveva ripudiata la prima notte del loro matrimonio. Lui si presenta alla sua porta portando una valigia piena di lettere da lei scritte nella speranza che venisse perdonata. Lettere che lui non aveva mai aperto. Questa è la storia che lo scrittore racconta nel suo noto romanzo “Cronaca di una morte annunciata”. Il caso ha voluto che proprio un anno prima che il romanzo fosse pubblicato, sua madre comunicò a Gabriel Garzia Márquez la morte della madre del ragazzo ucciso trentanni prima. Era un ragazzo di origini italiane che a quel tempo viveva e studiava a Bogotà, in Colombia. Lo scrittore è stato informato anche che la madre della vittima morì senza mai essersi ripresa dalla tragedia del suo giovane figlio. Sua madre, conoscendo l’intenzione del figlio Gabriel Garzia Márquez di scrivere e raccontare quella storia, lo supplicò di trattare tutto come se la giovane vittima di trentanni prima fosse stato suo figlio, perciò fratello dello scrittore. Un anno dopo, nel 1981 veniva pubblicato il romanzo con, all’inizio, la nota dell’autore: “Una cosa risolta così male nella vita non può risolversi bene in un libro”.

    La scorsa settimana il nostro lettore è stato informato dall’autore di queste righe anche sulle ultime giornate della campagna elettorale in Albania, prima delle elezioni amministrative del 14 maggio.  “La prossima domenica in Albania si svolgeranno le elezioni amministrative per eleggere 61 sindaci di altrettanti municipi. Il primo ministro però, fatti accaduti durante queste ultime settimane, fatti documentati ed ufficialmente denunciati alla mano, sta facendo di tutto per annientare il diritto di voto libero dei cittadini”. Aggiungendo in seguito, riferendosi al primo ministro albanese, che “…Lui sta minacciando pubblicamente e in palese violazione delle leggi in vigore, tutti coloro che potrebbero votare per i suoi avversari. E come lui lo stanno facendo anche altri sindaci che si ricandidano, nonché molti rappresentanti istituzionali della maggioranza governativa, nonostante atti del genere siano vietati e condannabili per legge.. Inoltre, il nostro lettore veniva informato che “…Tutto fa pensare che anche le elezioni amministrative della prossima domenica, come tutte quelle precedenti dal 2013 in poi, non saranno elezioni, ma semplicemente votazioni, come durante la dittatura comunista”. Sottolineando che “…Sempre fatti accaduti alla mano, risulta che il primo ministro, oltre a controllare tutti e tre i poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) e quello dei media, controlla anche le istituzioni che gestiscono le elezioni come la Commissione Centrale Elettorale, la Commissione delle Rivendicazioni e delle Sanzioni ed il Collegio Elettorale. Lo testimoniano tutte le illecite decisioni prese da queste istituzioni dallo scorso marzo”. In seguito il nostro lettore veniva informato che “…Il primo ministro sta facendo di tutto per vincere le elezioni, costi quel che costi. Veramente di tutto. Lo sta facendo per proteggere se stesso. La posta in gioco è molto alta. Perché se perdesse, allora per lui potrebbero cominciare seri, veramente seri problemi” (Autocrati che stanno facendo di tutto per mantenere il potere; 8 maggio 2023).

    Infatti, tutto quello che si è verificato e successo, sia prima delle elezioni amministrative di domenica scorsa, sia durante il giorno stesso delle elezioni, fatti accaduti, documentati e denunciati pubblicamente alla mano, risulta essere stata semplicemente la cronaca di un massacro elettorale preannunciato. È la cronaca di tutto quello che è ormai accaduto e noto al pubblico, di tutte quelle violazioni della Costituzione e delle leggi in vigore e che hanno garantito la tanto voluta “vittoria” personale del primo ministro. Anche se fino ad adesso, lunedì 15 maggio, i dati ufficiali sono parziali, essendo stati conclusi i conteggi solo in una parte dei municipi, si capisce che il primo ministro ha raggiunto il suo tanto ambito e vitale obiettivo. Ma sono state tante le violazioni, cominciate molto prima delle elezioni stesse. Il nostro lettore è stato informato del sistema ben organizzato di coloro che vengono chiamati come i patrocinatori. Sono tanti, migliaia e migliaia, reclutati e direttamente coinvolti per avere informazioni riguardanti i cittadini che possono votare, i loro famigliari, i loro bisogni, i loro “punti deboli”, per poi poterli minacciare e costringere a votare per il raggruppamento politico del primo ministro (Si sa di chi è la colpa, 7 novembre 2022; Uso scandaloso di dati personali, 31 gennaio 2022; Sono semplicemente seguaci del modello abusivo dei superiori, 16 gennaio 2023 ecc.). Per raggiungere il suo obiettivo, il primo ministro e i suoi “strateghi” hanno attivato anche un’applicazione informatica chiamata “l’Attivista”. Con quell’applicazione, installata dagli impiegati dell’amministrazione pubblica si possono tenere sotto pressione e controllo tutti. L’applicazione costringe quelli che l’hanno installata a dare il loro sostegno in rete al primo ministro, ai ministri e ad altri dirigenti dell’amministrazione pubblica. L’applicazione elenca tutti gli utenti in base alla loro “attività” in rete, prevedendo anche benefici e castighi a seconda dei casi.

    La cronaca di quello che ormai risulta essere stato, fatti accaduti alla mano, un vero e proprio massacro elettorale preannunciato, comprende anche tutto quello che riguarda la diffusa povertà, dovuta alle “politiche governative” e tanto altro. Una vissuta e sofferta realtà quella che, inevitabilmente, ha portato al massiccio e preoccupante spopolamento dell’Albania. Ma gli “strateghi” del primo ministro, come quelli della dittatura comunista poco prima del crollo del regime nel 1991, sanno che la maggior parte di quelli che lasciano la madre patria non avrebbero votato per loro. La cronaca del massacro elettorale preannunciato in Albania riguarda anche le “assunzioni elettorali” di questi ultimi mesi, soprattutto nelle istituzioni dell’amministrazione pubblica. Riguarda il mai verificato, spaventoso, pericoloso e preoccupante “crollo” dell’Euro, soprattutto durante questo ultimo mese, prima delle elezioni di domenica scorsa. “Crollo” condizionato da ingenti somme di denaro illecito, entrato in Albania per “scopi elettorali”. Con tutte le ripercussioni gravi per il prossimo futuro. Ma al primo ministro poco importa. A lui importa solo e soltanto vincere a tutti i costi. La cronaca riguarda le violazioni delle leggi in vigore durante la campagna elettorale, sia da parte del primo ministro e dei suoi candidati sindaci, che di tutti i suoi “rappresentanti” politici. La cronaca del massacro elettorale riguarda anche l’evidenziato ritiro delle carte d’identità a molti cittadini, soprattutto parenti degli impiegati dell’amministrazione pubblica, per impedire loro la votazione a favore degli avversari del primo ministro.

    La cronaca di quello che ormai risulta essere stato, fatti accaduti, documentati e denunciati alla mano, un vero e proprio massacro elettorale preannunciato comprende tutte le “bizzarrie” del primo ministro durante la campagna elettorale. Sono delle violazioni legali, per non parlare poi dei codici morali e della buona condotta, l’uso in pubblico durante la campagna elettorale, delle offese personali e delle minacce, rivolgendosi ai suoi avversari, sia i dirigenti dei partiti dell’opposizione, che i loro candidati sindaci. La cronaca di quello che è successo prima delle elezioni comprende tutte le violazioni legali compiute dal primo ministro con le sue “richieste” dirette fatte alle donne di “chiudere a chiave” gli uomini il giorno delle votazioni se non votavano per lui. Comprende anche le minacce di non avere supporto governativo per tutti i municipi che potevano essere gestiti da sindaci dell’opposizione. La cronaca di quello che è successo prima delle elezioni comprende, altresì i tanti e voluti comportamenti da coatto, i balli “popolari” del primo ministro con le donne per spostare l’attenzione pubblica dai veri problemi da lui causati. La cronaca di quello che ormai risulta essere stato un massacro elettorale preannunciato comprende la campagna elettorale “semplice e senza spese” del raggruppamento politico (leggi occulto) del primo ministro. Ma, allo stesso tempo, comprende anche e soprattutto l’intenso e continuo lavoro dietro le quinte per condizionare il risultato delle “votazioni” con la compravendita dei voti, le assunzioni e l’uso dell’amministazione pubblica durante la campagna elettorale, in palese violazione delle leggi.

    La cronaca del massacro elettorale preannunciato comprende il sistema “riformato” della giustizia, i cui rappresentanti “non vedono e non sentono”, perciò non reagiscono in seguito alle tante denunce pubblicamente fatte dall’opposizione. Comprende anche la Polizia di Stato che da anni funziona ormai come polizia del primo ministro. Comprende le decisioni dei tribunali e della Commissione Centrale Elettorale, della Commissione delle Rivendicazioni e delle Sanzioni e del Collegio Elettorale per sgretolare il maggior partito dell’opposizione. La cronaca del massacro elettorale preannunciato in Albania comprende anche tanti altri fatti accaduti prima e durante il giorno delle elezioni amministrative. Ma grazie a quel massacro elettorale il primo ministro è riuscito a vincere, fino ad adesso, pomeriggio di lunedì 15 maggio, nella maggior parte dei municipi, capitale compresa. Il risultato diretto di un simile massacro elettorale permette un ulteriore, preoccupante e molto pericoloso consolidamento della nuova dittatura in Albania.

    Chi scrive queste righe seguirà ed informerà anche la prossima settimana il nostro lettore delle gravi ed inevitabili conseguenze di quel massacro elettorale ideato, programmato ed attuato da mesi in Albania. Nel frattempo egli potrà fare riferimento alle tante violazioni legali che si stanno denunciando, alle testimonianze documentate e a tanto altro, per informare il nostro lettore con la dovuta e richiesta oggettività. Chi scrive queste righe condivide però il pensiero di Ambrose Bierce sulle elezioni che “…sono un semplice artificio mediante il quale una maggioranza dimostra a una minoranza che sarebbe follia tentare di resistere”. Come sta accadendo adesso in Albania.

  • Elezioni regionali: 2010/2023

    Se venisse, come sembra, confermato il trend relativo all’affluenza inferiore di oltre il 50% rispetto alle precedenti Elezioni Regionali, allora saremo di fronte alla evidente rottura del “giocattolo democratico” nel nostro Paese.

    Questa percentuale, infatti, nasce senza ombra di dubbio dalla percezione per i cittadini della sostanziale inutilità del proprio voto, anche se all’interno di una istituzione regionale e quindi nella visione del federalisti italiani intesa come più “vicina” alle legittime aspettative degli elettori e perciò in grado di risolvere le complesse problematiche dei cittadini.

    Adesso arriva l’ennesima conferma della disaffezione verso le istituzioni, e regionali in particolare, le quali vengono invece percepite come lontane ed espressione di un ulteriore blocco normativo burocratico esattamente come lo stato centrale.

    In secondo luogo, la sostanziale diserzione delle urne azzera il valore anche solo a livello propagandistico e relativo ad una facile ricetta la quale individua ogni possibile ripartenza del nostro Paese semplicemente Introducendo maggiore autonomia delle regioni, pur mantenendo invariata la classe politica e dirigente.

    Questa risibile affluenza, poi, dimostra, senza possibilità di equivoci, la stanchezza degli elettori i quali, dopo tre anni caratterizzati dalle conseguenze disastrose della pandemia alle quali si aggiungono quelle legate alla guerra in Ucraina, si ritrovano con il disarmante risultato di avere, unici in Europea, il tasso di inflazione a doppia cifra e contemporaneamente l’aumento della pressione fiscale.

    In altre parole, quando all’interno di un periodo così difficile come quello dal 2020 ad oggi si reca alle urne meno di un elettore su tre allora, differentemente da quanto sostenuto da accademici aderenti alla deriva del sistema, viene meno la stessa legittimazione del mandato elettorale sulla base del quale un parlamento o un governo credono di potere esercitare la propria funzione istituzionale.

    Il paradosso, poi, di questa rottura democratica raggiunge la sua massima espressione, trasformandosi in farsa, quando con queste minime percentuali di affluenza il potere dei partiti viceversa aumenta, grazie al maggiore peso dei propri iscritti e simpatizzanti sull’esito elettorale finale.

    Un sistema politico trae la propria legittimazione dal consenso elettorale, attraverso il quale si esprime la volontà degli elettori.

    Quando, invece, in soli tredici anni, dal 2010 al 2023, esistenti tra i due appuntamenti elettorali regionali non abbinati alle elezioni politiche, si perde oltre il 30% del rapporto fiduciario degli aventi diritto – nel 2010 l’affluenza fu del 58,76% a fronte del 37% della odierna tornata elettorale –  allora viene meno la stessa rappresentanza elettorale democratica: un quadro ormai evidente nel nostro Paese.

  • A botta calda

    A botta calda il risultato elettorale premia, giustamente, Giorgia Meloni per come ha saputo crescere politicamente portando avanti il suo partito ma anche aprendosi alla società e dimostra, non solo con le incredibili esternazioni di Berlusconi, che il pericolo maggiore per il governo sono proprio gli alleati di Fratelli d’Italia.

    Il meritato successo non deve distrarre i vincitori, e neppure i vinti, dall’analisi approfondita della sempre maggior disaffezione al voto di tanta parte degli italiani.

    Qualcuno può anche sostenere che lo stesso astensionismo si è verificato in altre democrazie ma in questo periodo storico, nel quale proprio il concetto di democrazia è messo in discussione dai vari presidenti dittatori che governano in troppi paesi, è necessario che chi governa e chi è all’opposizione analizzi e comprenda come l’astensionismo, nato dalla mancanza di credibilità dei partiti, sia un grave pericolo in e per l’Italia.

    Salvini può anche dirsi soddisfatto di aver preso più o meno il 16% ma è il 16% del misero 41% che è andato a votare!

    Se poi vogliamo parlare del peso dell’Italia in Europa le dichiarazioni di Berlusconi non incoraggiano certo le istituzioni europee a fidarsi del nostro Paese nonostante i lodevoli sforzi della Presidente del Consiglio.

    Finita la conta dei voti bisognerà cominciare a fare altri conti e nuove riflessioni.

  • Cultura e turismo

    E’ auspicabile che ogni amministrazione pubblica (naturalmente anche quella privata) si valga di persone competenti. Talvolta non è così perché si fanno prevalere interessi particolari che giovano a chi viene nominato, non a coloro che vengono amministrati. Nella speranza di esprimere della competenza, farò qualche riflessione su ciò che significa cultura nel contesto della pubblica amministrazione.

    Il primo compito è quello di sostenere e incentivare le energie presenti in un’istituzione culturale, dal teatro alla musica, dai musei alle biblioteche e alle altre iniziative che si sviluppano sul territorio. L’amministratore, più precisamente si dovrebbe parlare di assessore alla cultura, non dovrebbe mettere il suo cappello sulla direzione di queste istituzioni imponendo la propria visione, ma neppure essere un passivo erogatore di sussidi a pioggia per evitare di esprimere un proprio giudizio sulla qualità delle prestazioni. L’assessore è da considerarsi come un interlocutore che valuti il più oggettivamente possibile il cammino fatto dall’istituzione culturale, suggerendo qualche miglioramento, rilevando qualche criticità.

    La cultura lombarda dovrebbe essere sempre più internazionalizzata, soprattutto stabilendo degli scambi con le regioni straniere confinanti (Austria, Svizzera, Baviera, Slovenia, Francia del sud) attraverso protocolli di collaborazione scientifica, a cui far partecipare le nostre Accademie e i centri di ricerca. Ma ciò richiede di confrontarsi con le nostre attitudini e specificità culturali, quelle che affondano le loro radici nelle tradizioni Lombarde, tutelando e promuovendo con questa consapevolezza dell’origine, il nostro patrimonio culturale, artistico, archeologico, materiale e immateriale. In questa direzione, particolare attenzione dovrebbe essere dedicata al potenziamento e sviluppo del Vittoriale degli Italiani e del Parco della Reggia di Monza.

    Ma accanto a tali celebri strutture, ci sono tante piccole e medie realtà culturali, create dal volontariato, da un associazionismo che si sviluppa a diversi livelli, che vanno assolutamente sostenute perché sono luci vitali che illuminano la vita delle città, da quelle capoluogo di provincia a quelle di paese. Spesso queste realtà culturali rappresentano luoghi importanti di aggregazione, che, nell’affiancarsi opportunamente alle scuole, danno una originale testimonianza degli interessi dei giovani (in particolare) che dedicano il loro tempo ad approfondimenti scientifici attraverso presentazioni di libri, mostre, eventi pubblici.

    Amministrare la cultura significa anche prestare attenzione alla filiera turistica conferendo incentivi per una valorizzazione integrata dell’offerta culturale, in cui, in primo piano, si colloca la valorizzazione e diffusione comunicativa del nostro artigianato, da quello funzionale alla vita quotidiana (penso all’artigianato del legno, del mobile, che rappresenta un’altissima tradizione lombarda) all’artigianato del lusso, da quello orafo ai tessuti, all’abbigliamento.

    Cultura e turismo entrano in una relazione virtuosa: il turista viene a conoscere le bellezze dei luoghi non solo attraversando strade e piazze, ammirando chiese, palazzi, monumenti, ma anche osservando il lavoro che quella terra ha espresso con le proprie tradizioni nell’artigianato, nel cibo, nello sport. La bellezza monumentale è generata dalle realtà sociali che si sviluppano nel tempo e che lasciano, con il loro lavoro, opere belle alle generazioni future. Questo è il senso più profondo per stabilire un rapporto non arbitrario tra cultura e turismo, a cui va aggiunto anche un’altra necessaria considerazione. La formazione.

    E’ doveroso sostenere la cultura delle tradizioni e del lavoro attraverso la scuola o, nel complesso,  con altre forme pubbliche e private di educazione.

    La cultura, soprattutto il valore che noi siamo in grado di dare alla cultura, non scende dal cielo, ma dalla nostra istruzione, dalla nostra sensibilità che si forma nella scuola e in famiglia. Non ci può essere vera cultura se non c’è una scuola che funzioni bene, che sia all’altezza della nostra grande storia di civiltà e che dia l’opportunità di camminare con il passo della modernità. Un amministratore che abbia la responsabilità di gestire la cultura della regione deve continuamente relazionarsi con le scuole del territorio per favorire una formazione che non solo sia in grado di dare ai nostri giovani conoscenze che consentano loro di misurarsi e competere con i loro coetanei europei, ma anche permetta loro di non dimenticare o rinunciare a quell’apprendimento di tradizioni che caratterizzano la terra in cui essi vivono. Tanti artigiani non sono più in grado di trasmettere il loro sapere alle giovani generazioni, perché il lavoro dà poche soddisfazioni economiche: la conseguenza è perdere la storia delle nostre popolazioni, la storia della bellezza creata dal lavoro. Cultura significa anche difendere con opportuni interventi economici e fiscali questa trasmissione di saperi di generazione in generazione.

    Si delinea così il campo d’intervento di un assessore alla cultura della regione Lombardia, che con semplice profondità deve fondarsi sulla stretta relazione sia con il turismo che con la formazione, per favorire progettualità capaci di realizzare una convergenza fra cultura/spettacolo, turismo e scuola con benefici e ricadute a favore del territorio, dei suoi abitanti, dei suoi visitatori.

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