accordi

  • Congo e Ruanda siglano la pace, ma sull’accordo non c’è la firma delle milizia M23

    Il segretario di Stato Usa, Marco Rubio, la sottosegretaria per gli Affari politici, Allison Hooker, e il consigliere senior Massad Boulos hanno ospitato, il 27 giugno a Washington, la firma ministeriale dell’accordo di pace tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda. La ministra degli Esteri Therese Kayikwamba Wagner ha firmato per conto della parte congolese e il ministro degli Esteri Olivier Nduhungirehe per la parte ruandese, con Rubio in qualità di testimone. Lo riferisce un comunicato del dipartimento di Stato statunitense, aggiungendo che alla cerimonia erano presenti anche il presidente dell’Unione africana, Mahmoud Ali Youssouf, il ministro degli Esteri del Togo, Robert Dussey, per conto dell’Ua, e il ministro di Stato del Qatar, Mohammed bin Abdulaziz al Khulaifi, in qualità di osservatori.

    L’accordo è entrato in vigore al momento della firma e gli Stati Uniti ribadiscono il loro impegno a sostenerne la piena e tempestiva attuazione, in stretto coordinamento con l’Unione africana, il Qatar e il Togo. “Nelle prossime settimane ci auguriamo di ospitare un vertice dei capi di Stato alla Casa Bianca per promuovere ulteriormente la pace, la stabilità e la prosperità economica reciproca”, si legge nella nota. La firma “segna una pietra miliare storica nel perseguimento della pace e della prosperità per la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e, più in generale, la regione africana dei Grandi Laghi”, sottolinea il dipartimento di Stato, ricordando che l’accordo è il frutto di mesi di negoziati, guidati dal consigliere Boulos.

    L’accordo presenta tuttavia alcuni problemi. Anzitutto, ufficialmente Repubblica Democratica del Congo e Ruanda non erano in guerra: il Ruanda è accusato di aver inviato i propri militari in Congo a sostegno dell’M23, un gruppo paramilitare che combatte contro l’esercito regolare congolese e che da gennaio controlla varie zone nell’est del paese. Il presidente ruandese Paul Kagame però ha sempre negato sia di aver inviato l’esercito in Congo, sia di appoggiare l’M23 in altri modi (per esempio finanziariamente o con addestramenti).

    L’altro problema riguarda il fatto che l’M23 non ha partecipato ai negoziati che hanno portato all’accordo (sebbene abbia partecipato ad altre trattative). Di fatto quindi la parte sul disarmo e sull’integrazione nell’esercito regolare, che lo riguarda direttamente, non è stata approvata dal gruppo, che infatti ha detto: «Qualsiasi [accordo] che ci riguarda e che è fatto senza di noi, è contro di noi». Non sembra quindi che l’M23 abbia intenzione di rispettarlo, e non è chiaro se si ritirerà dalle zone occupate e cosa ne sarà dei suoi miliziani (oltretutto l’M23 nacque nel 2009 proprio da una frangia dissidente di un precedente gruppo paramilitare, contraria all’epoca al patto col governo congolese che avrebbe previsto l’integrazione nell’esercito).

    Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno portato avanti anche delle trattative con il Congo per garantirsi l’accesso alle sue ingenti risorse minerarie, che sono concentrate soprattutto nelle regioni controllate dall’M23. Il Ruanda è accusato di sfruttarle in modo illecito, ossia usando i legami con l’M23 per importare illegalmente i minerali nel paese e poi esportarli in tutto il mondo. Non si sa cosa stiano concordando gli Stati Uniti, ma un eventuale ritiro dell’M23 dalla zona potrebbe facilitare l’accesso statunitense a queste risorse.

  • Il cambio di valore attribuito alla guerra

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    L’articolata situazione internazionale che vede coinvolte istituzioni politiche e militari dispiegate in scenari di guerra, non può essere spiegata e tanto meno semplificata nella solita infantile contrapposizione tra due schieramenti, cioè favorevoli e contrari alle forze in campo.

    Partendo dall’ultimo conflitto, in ordine di tempo, indipendentemente dal fatto che l’Iran abbia concluso o meno il ciclo di arricchimento dell’uranio (@bricsnews lo confermò trenta giorni addietro), andrebbe ricordato come  la sua attività di sostegno finanziario alle organizzazioni terroristiche di Hamas, Hezbollah e Fratelli musulmani abbia trovato nel 2021 un implicito sostegno da un errore ed una leggerezza politica senza precedenti concessa dall’amministrazione Biden alla teocrazia sciita ed ovviamente approvata dall’Unione Europea.

    Appena insediato il Presidente democratico azzerò l’alleanza con l’Arabia Saudita (sunnita), la quale aveva come terzo elemento di forza anche il consenso di Putin, ed aprì un nuovo fronte diplomatico con l’Iran, sottostimando clamorosamente il pericolo legato all’attività di arricchimento e al sostegno finanziario per le organizzazioni terroristiche della teocrazia iraniana.

    Fino a pochi giorni fa, Israele aveva risposto al concreto attacco alla sua stessa esistenza rappresentato dall’Iran con la preziosa attività dei propri servizi segreti, che avevano dimostrato di esprimere le capacità di colpire in profondità strutture e persone legate alla corsa nucleare proprio in nome della salvaguardia della propria integrità.

    L’attuale situazione, invece, e cioè il bombardamento sistematico del territorio iraniano e viceversa di quello israeliano da parte dell’Iran, cambia completamente il ruolo e lo scenario bellico anche per un possibile e diretto coinvolgimento degli Stati Uniti e persino della Germania.

    Il primo ministro tedesco Merz, infatti, ha dichiarato che “Israele sta facendo il lavoro sporco mentre non esclude un coinvolgimento diretto della Germania”.

    Questo delirio guerresco rappresenta senza ombra di dubbio il primo effetto, in ambito militare, della politica del ReArm europeo voluta dalla Commissione Europea presieduta da Ursula Von der Leyen che conferma ancora una volta la propria assoluta inadeguatezza nella valutazione delle proprie strategie. La Germania, infatti, ha già ratificato gli accordi europei creando le condizioni per conseguire l’obiettivo principale espresso sempre dal primo ministro tedesco, cioè di creare “il più grande esercito europeo”.

    Una volontà talmente radicata nella strategia germanica, tanto da portarla già ora a non escludere un coinvolgimento diretto della potenza tedesca negli scenari di guerra mediorientali.

    In pochi mesi, quindi, si è passati dalla assoluta assenza di qualsiasi iniziativa diplomatica relativa al conflitto russo ucraino attribuibile all’Unione Europea, al volontario e diretto coinvolgimento militare della prima economia europea, e finanziata proprio dalla stessa Unione, nella crisi mediorientale.

    In questo contesto, che dimostra come la storia del secolo scorso non abbia insegnato nulla, dispiace vedere come, ancora una volta, gli Stati Uniti, detentori della supremazia militare nel mondo e della tecnologia ad essa collegata, anche se in parte condivisa con la Cina, continuino in politica estera ad esprimere quella presunzione che li illude della automatica trasformazione della supremazia militare nel controllo dello scenario di guerra. Con questo presupposto confermano di non avere ancora compreso nulla della disfatta in Vietnam e in Afghanistan.

    In altre parole, nella realtà non si può, né tantomeno si dovrebbe, contare su di una automatica conversione della supremazia militare statunitense in un controllo del territorio di guerra.

    L’analisi della complessità della situazione, quindi, non si può ridurre ad una banale contrapposizione prettamente politica e ideologica tra chi si dimostra favorevole sic et nunc all’azione bellica di Israele sia nei confronti dell’Iran e a Gaza, e chi invece intravede in Israele il nuovo nazismo, insultando così i milioni di vittime dell’Olocausto.

    Molti commentatori, in più, discutono se si sia stata oltrepassata o meno la linea rossa, la quale, a seconda delle interpretazioni, giustificherebbe l’intervento militare dello stato fino addirittura all’utilizzo di ordigni nucleari.

    La situazione attuale internazionale e le diverse strategie che emergono dimostrano, invece, con estrema chiarezza come ormai l’opzione bellica non rappresenti più un fattore deterrente da utilizzarsi come elemento di pressione e con essa l’armamento nucleare.

    Viceversa, in considerazione dell’escalation di conflitti la scelta del conflitto sul territorio diventa una vera e propria opzione operativa, dimostrando come anche nel democratico occidente sia cambiato decisamente il paradigma di interpretazione della scelta bellica.

    In un simile contesto, allora, si può constatare come siano risultati sufficienti poco più di 80 anni e neanche quattro generazioni per dimenticare gli effetti devastanti delle ultime due guerre mondiali avvenute nel secolo precedente.

    Proprio per questo motivo mai come ora risultano contemporanei i pensieri del poeta greco del 500 a.C. Pindaro “La guerra è dolce solo per chi non la conosce” oppure del teologo Erasmo da Rotterdam “Chi ama la guerra non l’ha mai vista in faccia”.

    Una “civiltà” senza memoria non può avere alcun futuro.

  • E’ l’anno del riso tricolore, Italia da primato

    L’Italia è il primo Paese produttore di riso in Europa, con oltre la metà dell’intera produzione continentale, e nel 2025 celebra l’ottantesimo anniversario del Carnaroli e il centenario del primo incrocio varietale di un’eccellenza celebrata anche all’estero, oltre che simbolo di biodiversità con quasi duecento tipologie coltivate. I primati delle risaie nazionali sono stati al centro dell’incontro “Celebriamo insieme l’anno del riso italiano”, organizzato in occasione dell’inaugurazione di Tuttofood alla Fiera di Milano Rho.

    Nel 2024, come si evince da Il Punto Coldiretti, le esportazioni di riso italiano hanno sfiorato i 720 milioni di chili, in aumento del 9% rispetto all’anno precedente, con la Germania primo mercato, seguita dalla Francia. In aumento anche le superfici coltivate, anche se gli effetti dei cambiamenti climatici hanno poi limitato il previsto incremento produttivo. Coldiretti è tornata perciò a rimarcare l’importanza di realizzare un piano invasi con sistemi di pompaggio per assicurare alle imprese la disponibilità di acqua, particolarmente importante proprio nel caso di una coltura come il riso. Un cambio di passo a livello infrastrutturale che limiterebbe i problemi causati da siccità e alluvioni e consentire, evitando una volta per tutte di dover continuare a inseguire le emergenze.

    A pesare sul futuro dei risicoltori italiani, si legge ancora, è però anche la concorrenza sleale delle importazioni dall’estero, che rischiano di essere ulteriormente favorite dalla stipula di accordi commerciali senza il rispetto del principio di reciprocità, a partire da quello con i Paesi del Mercosur. Nel dettaglio, l’Unione Europea prevede di concedere un contingente iniziale di 10.000 tonnellate di riso sudamericano a dazio zero, che crescerà progressivamente fino a 60.000 tonnellate.

    Una quantità che, sommata a quanto già entra con dazi agevolati (oltre il 60% dell’import), rischia di raddoppiare le attuali importazioni (circa 80.000 tonnellate l’anno). Ma a pesare è soprattutto l’assenza di reciprocità, consentendo l’ingresso agevolato di prodotti coltivati usando sostanze vietate nella Ue da decenni, come nel caso del triciclazolo. Si tratta di un pesticida bandito nell’Unione Europea nel 2016 ma ancora oggi largamente utilizzato in Brasile e in India che, assieme al Pakistan, detiene il primato europeo per notifiche su riso contaminato da fitofarmaci proibiti.

    La Commissione Europea ha peraltro recentemente annunciato l’intenzione di riaprire i negoziati per un accordo di libero scambio proprio con il Paese indiano, che è il maggior esportatore mondiale e che potrebbe così inondare il mercato Ue di prodotto a dazio zero, con il rischio di mettere all’angolo quello nazionale. Ma resta sospesa anche la richiesta del Pakistan del riconoscimento Igp per il riso basmati, che Coldiretti e Filiera Italia sono riuscite per il momento a bloccare. Un’eventualità che porterebbe a un crollo della valorizzazione del riso di tipo Indica europeo e all’abbandono della coltivazione del lungo B, senza che sia garantito anche qui il principio di reciprocità in termini di sostenibilità sociale ed ambientale nel processo di produzione del riso nel Paese asiatico.

  • Per capire meglio i risultati del colloquio Trump Putin

    Putin rifiuta la tregua di trenta giorni, in cielo e in mare, proposta da Trump e che l’Ucraina aveva invece accettato da giorni.

    Putin vuole solo una tregua per le centrali energetiche per due motivi: 1) qualche centrale ucraina spera di recuperarla annettendosi territori, 2) gli ucraini da giorni colpiscono siti strategici russi, perciò questa tipo di tregua serve principalmente alla Russia.

    Putin continua a sostenere che i territori occupati dall’esercito russo e non solo, infatti non è esclusa la richiesta di Odessa unico sbocco al mare dell’Ucraina, devono rimanere alla Russia.

    Putin esige che non siano più dati aiuti militari e di intelligence all’Ucraina mentre continua a utilizzare lui le truppe ed i mezzi di un paese terzo, la Corea del Nord, ribadendo di fatto che lui è al di sopra di ogni regola.

    Putin chiede che l’Ucraina cessi un reclutamento militare, vuole che sia uno stato disarmato, mentre lui continua al fronte ad usare banditi, carcerati, ceceni, ex truppe Wagner e via dicendo.

    La cosa però più evidente è che da entrambe le parti, statunitense e russa, sparisce la parola “giusta” riferita alla Pace, si dice solo che deve essere stabile! Come si può avere una pace stabile se non è una pace giusta?

    Cosa porta a casa Trump oltre alla gran bagarre mediatica? Un nuovo rinnovato rapporto con Putin che serve al presidente americano per tentare di inserirsi, a pieno titolo, nel nuovo posizionamento degli equilibri internazionali dove Russia e Cina hanno già stretto da tempo solidi accordi e non dimentichiamoci India, mondo arabo e le questioni sempre aperte con l’Iran anche per l’appoggio ai terroristi che bersagliano principalmente le navi americane e israeliane.

    Il prezzo da pagare per Trump? L’allontanamento degli Stati Uniti dall’Europa e il sacrificio dell’integrità ucraina, non sono per lui sacrifici come abbiamo visto con le sue iniziative in queste ultime settimane.

    D’altra parte non è una novità che gli Stati Uniti abbiano un complesso rapporto con i paesi europei infatti, nonostante tutte le notizie note sul massacro degli ebrei, durante il nazismo, gli americani entrarono in Guerra solo l’8 dicembre 1941 quando furono attaccati dai giapponesi a Pearl Harbor.

    Cosa può accadere veramente all’Europa, la sua coesione e la sua sicurezza, non interessano a Trump, anzi! Più l’Europa è divisa e meno ci sono competitori economici e maggiore è la capacità di pressione che ognuna della grandi potenze può avere su un singolo stato europeo.

    Dopo questa nuova esibizione di testosterone da parte di Trump e di Putin risulta evidente che l’Europa ha estrema urgenza di realizzare l’Unione politica con un esercito ed un sistema di difesa e di intelligence comune.

    Come da molti anni ripetiamo non è possibile raggiungere questo risultato con gli attuali trattati e il voto all’unanimità, per questo è ormai necessario che un gruppo di paesi abbiano il coraggio di fare un passo avanti realizzando la politica e la difesa comune anche con un’Europa concentrica. In seguito anche gli altri stati, quando saranno pronti, aderiranno. Si tratta di realizzare in politica e per la difesa quanto è stato già fatto per la moneta unica.

    Ogni ulteriore indugio ci mette a rischio e ci lascia in balia delle mire espansionistiche di Putin e non in grado di essere credibili nel dialogo che comunque esisterà sul piano internazionale, non solo con gli Stati Uniti.

  • La Cina prova a sfruttare l’allontanamento degli Usa dall’Europa

    Mentre i nuovi Stati Uniti di Donald Trump sono in rotta di collisione con i tradizionali alleati, la Cina cerca d’inserirsi con un serrato corteggiamento nei confronti degli europei. Dal ritorno alla Casa bianca del miliardario, con le minacce di dazi sia contro Pechino sia contro l’Europa, persino più pesanti per gli alleati, gli aerei diretti dalla Repubblica popolare alle capitali del Vecchio Continente sono piuttosto affollati di funzionari cinesi.

    Donald Trump ha lanciato un negoziato diretto con la Russia per chiudere la guerra in Ucraina, senza inizialmente coinvolgere Kiev e gli alleati europei, puntando anzi il dito contro di loro. Inoltre ha annunciato dazi fino al 25% contro i paesi europei e al 20% totali contro la Cina. Con una retorica che, paradossalmente, appare più feroce verso i tradizionali amici che verso il dichiarato concorrente globale.

    Questa politica ha scosso notevolmente i partner europei, mentre l’apparente luna di miele di Trump con il presidente russo Vladimir Putin preoccupa la Cina, la quale si è molto avvicinata a Mosca dopo l’invasione russa dell’Ucraina, non condannata da Pechino.

    Mosca, nelle ultime settimane, ha tenuto a riequilibrare, attivando varie comunicazioni con Pechino, compresa una telefonata tra Putin e il presidente cinese Xi Jinping. Il numero uno del Consiglio di sicurezza russa Sergey Shoigu è volato a Pechino nei giorni scorsi per incontrare Xi e rassicurarlo sulla saldezza dell’amicizia russo-cinese.

    Tuttavia, dal punto di vista di Pechino, la possibilità che si riapra una relazione con l’Unione europea è da cogliere sia per creare un equilibrio e tentare di mettere un cuneo nell’alleanza Usa-Europa, come Trump vorrebbe fare in quella Russia-Cina, sia per garantirsi un mercato per le merci cinesi che sarà sempre più difficile vendere negli Usa, se Trump insisterà sulla guerra commerciale.

    Per quanto riguarda l’Europa, la strategia del “de-risking”, che finora è stata applicata nei confronti della Cina, sembra oggi essere più necessaria nei confronti egli Stati uniti, ha detto un diplomatico europeo al South China Morning Post (SCMP).

    A febbraio in diverse capitali europee si sono visti alti diplomatici cinesi, a partire dal ministro degli Esteri Wang Yi, che ha partecipato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, oltre che visitare Londra e Dublino.

    “Nel corso degli anni, alcuni hanno detto che la Cina sta cercando di cambiare l’ordine e che vuole avviare un nuovo sistema”, ha dichiarato Wang alla Conferenza. “Adesso non se ne parla più molto, perché c’è un paese che si sta ritirando da trattati e organizzazioni internazionali e, credo, in Europa si possono sentire brividi quasi ogni giorno”, ha aggiunto, facendo riferimento agli Stati uniti e sottolineando che, invece, la Cina “cresce all’interno dell’ordine esistente”.

    A margine di quell’evento, Wang ha detto all’Alta rappresentante della politica estera Ue Kaja Kallas che Pechino sostiene che Europa e Ucraina debbano avere un posto a tavola nei negoziati di pace. Una posizione, questa, ribadita in ogni occasione dai funzionari del ministero degli Esteri cinese. Altre visite sono state effettuate da due infuenti vice di Wang Yi, cioè la direttrice dell’informazione del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying e il viceministro esecutivo agli Esteri Ma Zhaoxu, entrambi diplomatici di lungo corso. Il messaggio che hanno trasmesso – secondo SCMP – è che la Cina è un partner più affidabile e costante rispetto all’imprevidibilità dell’America di Trump. Pechino, nel suo corteggiamento, sembrerebbe disposta anche a fare alcune concessioni. Mentre in passato proponeva una revoca contestuale delle sanzioni reciproche – cioè quelle attivate dall’Ue per le presunte violazioni dei diritti umani contro gli uiguri del Xinjiang e quelle imposte da Pechino in rappresaglia – ora propongono di revocare quattro o cinque sanzioni per ognuna tolta dalla lista europea. Un altro aspetto è quello della questione ucraina. Dall’invasione russa, l’Europa ha puntato il dito contro Pechino per la mancata condanna di Mosca e per i rapporti stretti con la Russia. Ma ora sono cambiate diverse cose e la decisione degli Stati uniti di votare contro la risoluzione europea alll’Onu sull’Ucraina, assieme alla Russia, alla Bielorussia, alla Corea del Nord, all’Ungheria e Israele, marca una differenza: la Cina si è astenuta, non ha votato “no”. Siamo inoltre nel 50mo anniversario dell’apertura delle relazioni tra Europa e Cina, quindi l’occasione potrebbe essere quella giusta. Il prossimo mese, il commissario europeo al Commercio Maros Sefcovic, che in questo momento storico ha un ruolo particolarmente delicato, sarà in Cina, dove potrebbe presentare una lista di richieste, alle quali Pechino potrebbe a sua volta non opporre un rifiuto totale. In ballo ci sono questioni come la sovrapproduzione industriale cinese, il sostegno di Pechino alle sue imprese e le possibilità di accesso al mercato da parte delle imprese europee. Inoltre, diverse capitali europee sperano di attrarre investimenti cinesi Il corteggiamento cinese sta comunque avendo orecchie recettive in Europa. “L’Europa deve prendere le proprie decisioni in modo autonomo. E dobbiamo decidere quando la Cina può essere un partner e quando è un concorrente”, ha dichiarato recetentemente il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares al Financial Times. Un segnale potrebbe arrivare da eventuali contatti di vertice. L’ultimo summit Ue-Cina è stato nel 2023 a Pechino, ma al momento non c’è nulla di certo per un possibile vertice in Europa. Il presidente Xi Jinping non ha in programma viaggi in Europa – tranne Mosca a maggio – per tutto l’anno. Comunque sarebbero in corso sondaggi, mentre a dire del SCMP il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa dovrebbe recarsi a Pechino a luglio. Si sta ragionando sull’ipotesi che si unisca anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ma la questione è delicata, perché la numero uno dell’esecutivo europeo è stata finora uno dei “falchi” anti-cinesi in ambito Ue.

  • Xi Jinping e Putin discutono di Trump

    All’indomani dell’insediamento del presidente Donald Trump alla Casa Bianca, l’omologo cinese Xi Jinping ha avuto una videocall con il leader russo Vladimir Putin. A riferirlo l’emittente cinese Cctv, senza aggiungere al momento dettagli sul colloquio. Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha confermato la notizia. “Il colloquio al momento è in corso”, ha dichiarato all’agenzia di stampa Tass.

    Se i contenuti del video-incontro ancora non sono noti, di certo, però, Pechino e Mosca non hanno nascosto nelle scorse ore i timori per alcune dichiarazioni e per gli ordini esecutivi firmati dal tycoon a poche ore dall’insediamento. A partire dagli accordi sul clima, passando per Oms e finendo con Panama.

    La Cina ha espresso ”preoccupazione” per l’annunciata uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima, decisa dal presidente americano con la firma di un ordine esecutivo, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun. “Il cambiamento climatico è una sfida comune a tutta l’umanità e nessun Paese può rimanere indenne o risolvere il problema da solo”, ha affermato Guo.

    E ancora: “Il ruolo dell’Oms dovrebbe essere solo rafforzato, non indebolito”, ha commentato sull’ordine esecutivo di Trump con cui il presidente americano ha dato il via al processo per ritirare gli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della Sanità. “La Cina, come sempre, sosterrà l’Oms nell’adempimento delle sue responsabilità e lavorerà per costruire una comunità sanitaria condivisa per l’umanità”, ha aggiunto Guo. Trump ha criticato l’Oms per la gestione della pandemia di Covid-19.

    Ed è considerato ”un atto di bullismo” l’inserimento di Cuba nella lista nera dei Paesi che sostengono il terrorismo da parte degli Stati Uniti. L’uso ripetuto della lista da parte di Washington “contraddice i fatti e rivela pienamente il volto egemonico, autoritario e prepotente degli Stati Uniti”, ha affermato Guo.

    Dal canto suo, la Russia si aspetta che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la leadership di Panama rispettino il regime giuridico internazionale di questa via navigabile. Lo ha affermato il direttore del dipartimento latinoamericano del ministero degli Esteri russo, Alexander Shchetinin, rispondendo a una domanda della Tass.

    ”Ci auguriamo che durante le previste discussioni tra la leadership di Panama e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulle questioni del controllo sul Canale di Panama che, ovviamente, rientrano nell’ambito delle loro relazioni bilaterali, le parti rispettino l’attuale regime giuridico internazionale di questa via navigabile fondamentale”, ha sottolineato.

    Shchetinin ha ricordato che il regime giuridico internazionale del Canale di Panama ”è chiaramente definito e registrato nel Trattato sulla neutralità permanente e sul funzionamento del Canale di Panama tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica di Panama, firmato dal presidente americano Jimmy Carter e il capo del governo panamense, il generale Omar Torrijos, il 7 settembre 1977 ed entrarono in vigore il primo ottobre 1979″. Il diplomatico ha aggiunto che ”il regime stabilito dal trattato è ulteriormente sancito dal protocollo, al quale hanno aderito circa 40 stati del mondo. La Russia partecipa al protocollo dal 1988 e conferma i suoi obblighi di mantenere la neutralità permanente del Canale di Panama, sostenendo la conservazione sicura e aperta di questa via d’acqua di transito internazionale”.

    ”A questo proposito sottolineiamo: secondo le modifiche apportate dagli Stati Uniti e da Panama al trattato nell’ottobre 1977, ciascuno dei due paesi deve proteggere il canale da qualsiasi minaccia al regime di neutralità. Il diritto specifico degli Stati Uniti alla difesa del Canale di Panama non significa e non deve essere interpretato come il diritto di intervenire negli affari interni di Panama, e qualsiasi azione della parte americana non sarà mai diretta contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di Panama”, ha concluso Shchetinin.

    Il Canale di Panama, inaugurato nel 1914, fu costruito e controllato dagli Stati Uniti. Nel 1977 il Trattato Torrijos-Carter determinò il trasferimento graduale del canale a Panama, completato nel 1999. L’accordo prevede la neutralità del canale e la sua accessibilità al commercio mondiale.

  • Accordo con un autocrate che è anche un buffone quando serve

    Talvolta il comportamento pragmatico è necessario; ma chi cerca di fare di necessità virtù, conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare.

    Ralf Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, 1987

    Le numerose favole di Esopo, un noto scrittore della Grecia antica, vissuto circa ventisei secoli fa, sono state e continuano ad essere una fonte di ispirazione. Favole che, per il loro valore educativo e morale, continano ad essere attuali e rappresentano una fonte di insegnamento per molti. Ebbene, dai tanti insegnamenti di Esopo ce n’è uno che si riferisce alle false amicizie. La sua saggezza ci insegna e ci ammonisce che un amico incerto è peggio di un nemico dichiarato. Un insegnamento, sempre attuale per il genere umano. Un insegnamento dal quale devono imparare anche tutti coloro che hanno delle responsabilità pubbliche ed istituzionali, sia a livello locale che internazionale.

    L’autore di queste righe ha pienamente condiviso l’articolo di Cristiana Muscardini “La sicurezza, i dati sensibili, Musk”, pubblicato su “Il Patto Sociale” l’8 gennaio scorso. Lei, dopo aver trattato il tema della sicurezza nazionale e quello delle “amicizie con i grandi del mondo”, logicamente si poneva la domanda: “È possibile che di fronte al potere, al miraggio di una tecnologia sempre più oltre, al desiderio di sentirsi amici ed apprezzati da chi, da uomo più ricco, si sta trasformando nell’uomo più potente del mondo, chi ci governa sia accecato, incapace di comprendere i pericoli immediati ed a lungo termine, vanificando le speranze che tanti avevano avuto, speranze di libertà, indipendenza, democrazia vera?”. Una domanda sulla quale si deve riflettere.

    Dal 14 al 16 gennaio scorso ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, si è svolto il Vertice mondiale sull’Energia del futuro (World Future Energy Summit; n.d.a.). Durante quel vertice, il 15 gennaio, è stato firmato anche un’Accordo tra l’Italia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Albania. Si tratta di un accordo per la produzione di energia rinnovabile in Albania con impianti prodotti negli Emirati da esportare poi in Italia, tramite un elettrodotto sottomarino. L’accordo, che dovrebbe essere operativo tra tre anni, sarà valido per cinque anni ed avrà un costo di circa 1 miliardo di Euro. L’accordo prevede la produzione fino a 3 GW di energia elettrica da fonti rinnovabili. Fonti che, secondo un comunicato congiunto dei tre Paesi firmatari, sono “il fotovoltaico solare, l’eolico e delle soluzioni ibride con potenziale di accumulo tramite batterie”.

    Nella cerimonia della firma dell’accordo erano presenti l’anfitrione, il presidente degli Emirati Arabi Uniti, la presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia ed il primo ministro dell’Albania. L’accordo, per gli Emirati Arabi Uniti è stato firmato dal ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati il quale, allo stesso tempo, è anche il presidente di Masdar, una nota impresa privata a livello mondiale nel settore delle energie rinnovabili. Ma lui però è anche l’Amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company, la compagnia statale per l’estrazione del petrolio negli Emirati Arabi Uniti. Per l’Italia l’Accordo è stato firmato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, mentre per l’Albania dalla vice primo ministro e ministro delle Infrastrutture e dell’Energia. E dopo la firma dell’accordo hanno fatto le loro dichiarazioni sia la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ed il suo omologo albanese, sia il ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati Arabi Uniti. Dichiarazioni che sono state riportate dai media in Italia ed il nostro lettore ha avuto la possibilità di conoscerle.

    In Albania non si sapeva niente dell’accordo energetico firmato il 15 gennaio scorso ad Abu Dhabi. Ma ormai questo fatto da anni non è più una novità, Perciò questo modo di agire del Primo Ministro albanese non stupisce nessuno. Tutto si è saputo soltanto dopo che in Italia i media hanno parlato di questo accordo. Quanto è accaduto in Italia, riferendosi proprio al sopracitato accordo, comprese le reazioni critiche, soprattutto da parte dei rappresentanti dell’opposizione, ma anche dai media, ormai è di dominio pubblico anche in Albania. Invece nessuna reazione in difesa dell’accordo da parte del Primo Ministro, che non perde occasione, anche per delle cose futili, di reagire e di dire la sua. Purtroppo non c’è stata nessuna notizia e/o reazione neanche dai media controllati e vergognosamente ubbidienti.

    Appena è stata resa nota pubblicamente in Italia la firma dell’accordo sono state immediate anche le reazioni in Albania. Reazioni fatte da quei pochi media ancora non controllati dal primo ministro e/o da chi per lui. Reazioni che denunciavano la totale mancanza di trasparenza sull’accordo, sul suo contenuto ed altro. Ma sia i media che ne hanno parlato, sia i rappresentanti dell’opposizione politica, nelle loro reazioni critiche, hanno altresì sottolineato che in Albania questo “modo di procedere”, e cioè la totale mancanza di trasparenza in casi del genere, è ormai una consuetudine. Il primo ministro albanese, da autocrate onnipotente qual è diventato, calpesta consapevolmente gli obblighi costituzionali e quelli delle leggi in vigore. Lui ignora ormai da anni tutte le istituzioni e decide da solo e/o con quei pochi suoi stretti collaboratori ed alcuni oligarchi, suoi clienti. Ma nella memoria collettiva in Albania è ancora presente un altro caso simile, quello dell’accordo sui migranti firmato il 6 novembre 2023 a Roma. Anche in quel caso è stata verificata la stessa totale mancanza della dovuta ed obbligatoria trasparenza, come la scorsa settimana, dopo che si è saputo del sopracitato accordo energetico. Ragion per cui in quasi tutte le reazioni molto critiche fatte in Albania si faceva riferimento, oltre che all’accordo energetico firmato il 15 gennaio scorso, anche all’accordo sui migranti e al suo fallimento, almeno fino ad ora.

    In Albania le reazioni critiche, legate all’accordo energetico firmato mercoledì scorso ad Abu Dhabi, si riferivano anche ad alcuni passaggi delle dichiarazioni del primo ministro albanese. Dopo la firma dell’accordo lui ha detto, tra l’altro, che “l’Albania è al 100% con l’energia rinnovabile. Ora stiamo diversificando con il solare”. Ma, come sempre, da innato bugiardo qual è, il primo ministro non ha detto tutta la verità. Sì perché la verità è che quasi tutta la produzione dell’energia elettrica in Albania, circa il 98%, è quella idroelettrica! Ovviamente non ha parlato neanche dei clamorosi ed evidenziati abusi legati alla vendita, sotto prezzo, dell’energia elettrica generata in Albania e l’acquisto, con prezzi non giustificabili dell’energia elettrica dal mercato energetico internazionale. Perché l’Albania non riesce a produrre tutto il suo fabbisogno energetico. Il primo ministro non ha neanche ammesso che l’Albania non ha una strategia nazionale approvata per l’energia.

    Dai media italiani si è saputo che durante il Vertice mondiale sull’Energia del futuro ad Abu Dhabi il primo ministro albanese ha approfittato dell’occasione per fare, come spesso accade in simili casi, anche il buffone. Si perché proprio il 15 gennaio era anche il 48o compleanno della presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia. Lui le aveva portato un regalo. Inginocchiandosi davanti alla sua “cara sorella”, l’ha chiamata “Her Majesty” e le ha presentato un foulard di seta bianco con delle strisce in grigio e nero. Questo e tutto il resto hanno messo in difficoltà la festeggiata. Ma lui ha molto bisogno di apparire a fianco di qualche “grande del mondo”, facendo anche il buffone, soprattutto adesso, prima delle elezioni politiche dell’11 maggio prossimo. E soprattutto in un così difficile momento per lui, dovuto agli innumerevoli scandali che coinvolgono, lui, alcuni suoi familiari molto stretti ed altri. Ragion per cui l’appoggio della sua “cara sorella” diventa vitale.

    Chi scrive queste righe trova però molto significativo l’insegnamento di Esopo, secondo cui un amico incerto è peggio di un nemico dichiarato. Egli trova altresì saggio quanto scriveva il noto sociologo, politologo e politico Ralf Dahrendorf. E cioè che talvolta il comportamento pragmatico è necessario; ma chi cerca di fare di necessità virtù conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare. Ad ognuno però la propria scelta. Ma anche le inevitabili conseguenze!

  • Nuove denunce ad un regime che cerca di camuffarsi

    Quando il demonio si traveste gli spuntano la coda, gli zoccoli o le corna.

    Proverbio

    La saggezza popolare ci offre sempre dei valorosi e molto utili insegnamenti. Ma non tutti ne fanno beneficio. La saggezza popolare, arricchita e maturata nell’arco dei secoli, da innumerevoli fatti accaduti, esperienze vissute e conseguenze sofferte, ci insegna, tra l’altro, che anche la verità, prima o poi, viene fuori.

    Nei paesi in cui sono stati restaurati dei regimi totalitari, alcune verità sconvenienti, che riguardano i gestori del regime, vengono camuffate e nascoste non solo dai diretti interessati, ma anche dalle strutture del regime, anche se nel periodo in cui viviamo non sempre ci si riesce. Grazie anche ai media. E proprio grazie ad alcuni noti media internazionali, durante gli ultimi mesi, si stanno denunciando delle realtà preoccupanti che prima non si conoscevano. Almeno fuori dai confini degli stessi paesi. Ed insieme con le problematiche si analizzano e si rendono note anche le pericolose conseguenze, che potrebbero coinvolgere molti altri, superando le frontiere statali.

    Un regime totalitario è stato restaurato durante questo ultimo decennio, non in uno sperduto Paese africano, asiatico o chissà dove, bensì in Europa. Si tratta, fatti alla mano, di una dittatura sui generis, che cerca di camuffarsi da una parvenza di pluripartitismo. Ma in realtà la sua pericolosità aumenta essendo un’alleanza del potere politico, con la criminalità organizzata ed alcuni raggruppamenti occulti internazionali, soprattutto di oltreoceano, molto potenti finanziariamente. E queste verità stanno venendo rese pubbliche ormai anche da alcuni noti media internazionali, sia europei che statunitensi. Verità che denunciano la preoccupante e pericolosa realtà in Albania. Si, in Albania, un Paese sulle coste del mar Adriatico e quello Ionio. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito e sempre con la dovuta e richiesta oggettività di una simile e preoccupante realtà (Autocrati disponibili a tutto in cambio di favori, 11 marzo 2024; Clamorosi abusi rivelati da un programma televisivo investigativo, 23 aprile 2024; Altre verità rivelate da un programma televisivo investigativo, 7 maggio 2024; Nuove verità inquietanti da un programma televisivo investigativo, 3 giugno 2024; Riflessioni durante la Giornata internazionale della democrazia; 16 settembre 2024; Minacce ai giornalisti europei che denunciano una grave realtà, 7 ottobre 2024; Un regime che cerca di apparire come uno Stato di diritto, 28 Ottobre 2024 ecc…).

    Il rappresentante, almeno istituzionalmente, di questo regime, è il primo ministro albanese. Proprio colui che, ogni giorno che passa, si trova sempre più impantanato in diverse faccende corruttive e abusive. Ed insieme con lui anche alcuni sui stretti famigliari e collaboratori. Ragion per cui lui, da innato bugiardo ingannatore senza scrupolo alcuno, quando serve, e soprattutto in presenza di alti rappresentanti governativi e istituzionali internazionali, fa anche il buffone, l’istrione, per attirare l’attenzione e se serve anche per spostarla da quelle verità molto scomode che lo riguardano personalmente. Ma adesso, viste le tante difficoltà che lo preoccupano direttamente, a lui non bastano solo i soliti “rappresentanti internazionali” accreditati in Albania. E neanche determinati funzionari della Commissione europea, come fino a pochi anni fa. Da qualche tempo il primo ministro albanese sta cercando di essere “utile, disponibile e collaborativo” per alcuni suoi parigrado europei. Ed in alcuni casi anche ci riesce. Lo testimoniano certi accordi internazionali, molto discussi negli ultimi mesi. Così come lo testimoniano alcuni supporti pubblici a lui dati da determinati alti rappresentanti governativi e dell’Unione europea.

    Uno di quei “supporti” il primo ministro albanese lo ha avuto quasi un anno fa, il 15 febbraio 2024. E quel “supporto” glielo ha dato proprio il segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, arrivato appositamente e per pochissime ore in Albania. Durante una conferenza stampa comune, il segretario di Stato statunitense ha considerato il primo ministro albanese come “un illustre dirigente e un ottimo primo ministro”. Chissà cosa sapeva il segretario di Stato che sfuggiva alla maggior parte dei cittadini albanesi?! Ma di certo non rappresentava la vera, vissuta e sofferta realtà albanese. Si, perché se il segretario di Stato avesse letto solo l’ultimo rapporto pubblicato proprio dal Dipartimento di Stato che lui dirige, doveva avere avuto dei “buoni motivi” per dire quelle parole. In quel rapporto sull’Albania, tra l’altro, si affermava chiaramente e senza equivoci, che “…la corruzione esiste in tutte le diramazioni e in tutti i livelli del governo”. Un’affermazione quella che non escludeva neanche il più alto livello governativo, e cioè proprio quello del primo ministro. Le cattive lingue dissero allora che quella visita di poche ore in Albania del segretario di Stato degli Stati Uniti d’America era stata organizzata dalla stessa lobby che supporta il primo ministro albanese e che, allo stesso tempo, vede attivamente coinvolti famigliari molto stretti del segretario di Stato statunitense che lascerà l’incarica tra pochissimi giorni.

    Il 20 novembre scorso la rivista indipendente francese “XXI”, specializzata in articoli approfonditi, pubblicava un lungo articolo sulla realtà albanese, focalizzandosi sul primo ministro del Paese. L’articolo era intitolato “Crimine e business. Rama, un cane da guardia utile per l’Europa”. L’autore dell’articolo, uno studioso di storia ed un buon conoscitore dei Balcani, avendo analizzato per anni la realtà albanese, è convinto che il nuovo regime restaurato in Albania si basa su una “combinazione dell’autoritarismo, della corruzione, del clientelismo, della criminalità organizzata, [ma] con un orientamento pro europeo”. All’inizio dell’articolo, l’autore, descrivendo il primo ministro, evidenzia che lui lascia aspettare gli ospiti prima di riceverli e una volta incontrati, dice: ”’Ero al telefono con Angela Merkel’ – oppure con qualche altro potente personaggio mondiale”. Sempre riferendosi al primo ministro albanese, l’autore del sopracitato articolo scrive che lui “sa di essere utile per gli occidentali, i quali sono più interessati alla stabilità regionale che allo Stato di diritto”. Si perché gli occidentali “sono consapevoli che il sistema monolitico del potere che lui [il primo ministro] ha reso operativo ha poco in comune con le richieste democratiche ad un Paese candidato per aderire all’Unione europea”. Nel suo dettagliato articolo, l’autore tratta molti aspetti della preoccupante realtà albanese. Una basata denuncia contro il nuovo regime totalitario che si sta pericolosamente consolidando in Albania.

    Un’altra denuncia contro lo stesso regime è stata pubblicata dalla rivista New Eastern Europe” il 18 dicembre scorso. L’autore dell’articolo è un buon conoscitore dei Balcani ed uno studioso della politica dell’allargamento dell’Unione europea. Lui afferma tra l’altro, che in Albania il sistema della giustizia “è soggetto della pressione e delle influenze politiche, i media hanno un’indipendenza limitata, la corruzione è ben diffusa…”. E poi convinto afferma che un simile degrado è dovuto proprio all’operato del primo ministro. L’autore dell’articolo è altresì convinto che il primo ministro albanese “…ha anche tollerato la presenza della criminalità organizzata, con la quale lui è stato accusato di condividere progetti molto redditizi”.

    Chi scrive queste righe condivide quanto è stato scritto nei due sopracitati articoli e considera il loro contenuto come delle nuove denunce ad un regime che cerca faticosamente e a tutti i costi di camuffarsi. Tutto in seguito ad altre denunce fatte soprattutto negli ultimi mesi, da altri giornalisti che scrivono per dei noti media e giornali europei e statunitensi. Il primo ministro albanese deve perciò sapere che quando il demonio si traveste gli spuntano la coda, gli zoccoli o le corna.

  • In attesa di Giustizia: il ponte delle spie

    E’ bastato che Giorgia Meloni andasse a prendersi un cafferino con Trump e, come per caso o per magia, gli Ayatollah hanno rilasciato la giornalista Cecilia Sala fino ad allora trattenuta in un carcere di massima sicurezza senza accuse precise ed in realtà senza colpe diverse dall’essere donna, occidentale e soprattutto cittadina di quel Paese che aveva in custodia l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini, colpito da provvedimento di arresto internazionale ed in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti con l’accusa di aver fornito componenti elettronici impiegati per un attentato a militari in Giordania.

    Cosa si siano detti e cosa abbiano condiviso la Premier e il Presidente eletto non è dato sapere ma la triangolazione giudiziaria tra USA, Italia ed Iran sembra ora avviarsi ad un lieto fine tutto sommato prevedibile: liberata l’italiana, il difensore del persiano ha subito chiesto alla Corte d’Appello di Milano (competente per decidere sulla consegna agli americani) di concedere al suo assistito gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico e, guarda caso, lo stesso giorno del rientro in Italia di Cecilia Sala c’è stato un vertice a Palazzo Chigi con la partecipazione di Carlo Nordio e Alfredo Mantovano.

    Per una serie di coincidenze, dopo tale incontro e prima della decisione della Corte d’Appello di Milano, è pervenuta una richiesta del Ministro della Giustizia che, facendo leva su prerogative che gli sono proprie, ha chiesto di revocare la misura di arresto a carico di Abedini perché mancherebbe il requisito della doppia incriminazione posto alla base delle procedure di estradizione, e cioè a dire che i fatti attribuiti all’accusato siano considerati reato sia nel paese che richiede la consegna che in quello in cui è stato arrestato. Detta tutta, questa è una decisione che spetterebbe alla Corte d’Appello contro il cui provvedimento è possibile fare ricorso per Cassazione e solo l’ultima parola spetta al Ministro della Giustizia ed è, diciamo così, insolito che quest’ultimo intervenga mentre è in corso il giudizio, così come è piuttosto strano che – con atteggiamento ed interpretazione della legge di senso opposto – avesse dato seguito alla richiesta di estradizione quando era pervenuta dagli Stati Uniti meno di un mese prima.

    La sostanza è che non sapremo mai cosa si sono detti Giorgia e Don ed è giusto così: la diplomazia ad alti livelli deve conservare i suoi margini di riservatezza come la elasticità nella gestione dei rapporti tra Paesi alleati e non: ma che nessuno ci venga a raccontare che quella è stata una visita di cortesia o che il vertice Nordio-Mantovano, come da loro stessi affermato, non aveva nulla a che vedere con questo caso e mano che mai che qualche giudice Iraniano abbia subito la moral suasion dell’ambasciatore italiano (visto che la Sala non aveva neppure un difensore) e si sia convinto che non c’erano ragioni per trattenerla ad Evin o meno che mai lo abbia fatto per un sussulto di coscienza.

    Le coincidenze esistono ma quando sono troppe non possono considerarsi più tali e se c’è stata qualche forzatura nelle procedure, in fondo, nessuno se ne lamenti posto che l’ingegnere Abedini è da considerarsi comunque presunto innocente che ha già fatto ritorno al suo Paese con il primo volo e Cecilia Sala una innocente tout court.

    Scambi di questo tipo – perché di ciò si tratta in ultima analisi – se ne sono fatti a decine durante la guerra fredda ed in quei casi si trattava quasi sempre di vere e proprie spie e se ne sono fatti anche in tempi recenti coinvolgendo Paesi come Francia, Gran Bretagna e, naturalmente, USA; uno degli ultimi è stato un giocatore di basket americano che Putin ha restituito in cambio di Viktor Bout che non era proprio un galantuomo ma uno dei trafficanti di armi più ricercati del pianeta: nulla di tutto ciò si può dire ancora di uno dei protagonisti né lo si potrà mai neppure ipotizzare dell’altra tranne a voler considerare che la redazione del Foglio ospiti un’antenna della CIA.

    Con buona pace di Corrado Augias, Michele Santoro e persino Rosy Bindi – resuscitati dai rispettivi sepolcri per l’occasione – che avevano preconizzato l’inutilità della missione della Premier a Palm Beach e l’inerzia del Governo di fronte al dramma di una concittadina ingiustamente detenuta in un paese canaglia, la differenza rispetto al passato è che certi scambi possono concordarsi e realizzarsi di fatto davanti a un cafferino e un vassoio di cookies e non a Berlino sul Ponte delle Spie. E Giustizia, in fondo, è fatta.

  • Gli scenari di guerra

    La Cina, in risposta al divieto statunitense di esportatore tecnologia verso centoquaranta aziende operanti in Cina ed in particolare con azionariato cinese in vigore dal 31.12.2024, ha deciso di fermare le esportazioni di terre rare (gallio germanio ed antimonio) le quali soni fondamentali per la realizzazione di semiconduttori.

    Questo ennesimo episodio di “rappresaglia commerciale” rappresenta l’ultimo atto di un conflitto politico e strategico che sta definendo lo scenario bellico che vedrà sempre più contrapposte le due vere superpotenze mondiali: Stati Uniti e Cina.

    Proprio questo conflitto dalle dimensioni e ripercussioni simili ad un conflitto nucleare riduce ogni altro scenario di guerra in corso a semplici fattori strutturali e specifici ma soprattutto funzionali alla strategia bellica complessiva.

    In particolare lo scenario del conflitto russo ucraino acquisisce all’interno della nuova strategia statunitense un valore strategico fondamentale. Le prime bozze del piano di pace che sembra l’amministrazione Trump proporrà ai due contendenti si potrebbero sintetizzare in un congelamento delle posizioni attuali, la nascita di una zona cuscinetto ed il divieto per l’Ucraina di aderire alla Nato valevole per i prossimi vent’anni. L’obiettivo dell’amministrazione americana, quindi, risulta quello di concedere a Putin, in considerazione anche dell’impossibilità dell’Ucraina di resistere a lungo, un parziale riconoscimento delle proprie ambizioni territoriali.  Una concessione che ovviamente non terrebbe in alcuna considerazione le responsabilità dello stesso conflitto, ma avrebbe l’importante funzione di allontanare la Russa dall’alleanza dell’ultimo periodo imbastita con la Cina.

    Sul fronte opposto, ma non meno importante, la scelta di rinominare il medesimo mediatore che riuscì a creare le condizioni per un incontro tra i leader della Corea del Nord ed il presidente Trump va intesa nella medesima ottica in quanto la sua nomina risulta funzionale ad una volontà di creare un progressivo, anche se solo parziale, isolamento della Cina sul versante coreano.

    Nel sentiment statunitense, infatti, viene considerata molto probabile l’apertura di un nuovo scenario bellico, e non solo commerciale, che dovrebbe coinvolgere la Cina e Taiwan. Quest’ultima rappresenta una realtà fondamentale nell’economia mondiale per la propria produzione di microchip, molto spesso con capitali statunitensi.

    Tornando al divieto di export delle terre rare, deciso appunto in risposta dalle autorità cinesi alla politica statunitense, sarebbe allora interessante capire se esista una minima percezione e consapevolezza da parte delle autorità istituzionali, politiche, strategiche ed economiche dell’Unione Europea in relazione alle conseguenze che si potrebbero determinare con il mantenimento delle posizioni europee in uno scenario strategico e politico nuovamente polarizzato da Stati Uniti e Cina. In altre parole, se sia “possibile e sostenibile” il mantenimento delle strategie ideologiche ambientaliste completamente svincolate dal contesto internazionale verso una elettrificazione della mobilità, e quindi una diretta dipendenza dall’export cinese, che sicuramente determinerà una riduzione dell’indipendenza politica ed economica, quindi democratica, dell’Unione europea.

    I termini del nuovo confronto, o meglio del nuovo conflitto mondiale, non saranno più determinati, come in passato, da una divisione tra due blocchi, occidentale ed orientale, ma tra due complesse articolazioni economiche ed istituzionali: quella statunitense e la rivale cinese.

    L’idea, quindi, di agevolare attraverso l’adozione di facilitazioni politiche e normative una “transumanza elettrica” made in China non solo rappresenta la condizione per il suicidio politico, economico ed occupazionale della stessa Unione Europea, in più potrebbe essere interpretata come una scellerata scelta di campo da parte di entrambi i contendenti.

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