accordi

  • Gli accordi commerciali dell’UE accelerano la crescita delle esportazioni e sostengono la diversificazione

    Secondo la quinta relazione annuale sull’attuazione e l’applicazione della politica commerciale dell’UE l’ampia rete di accordi commerciali dell’UE aiuta le imprese a trovare mercati alternativi per le loro esportazioni, riducendo allo stesso tempo le dipendenze in un contesto geopolitico difficile.

    La relazione, relativa al 2024 e al primo semestre del 2025, conclude che gli accordi commerciali dell’UE incentivano la resilienza e la competitività degli operatori economici dell’UE. Inoltre, gli accordi commerciali dell’UE sostengono la diversificazione e la stabilità della catena di approvvigionamento.

    L’UE sta attivamente ampliando la propria rete di accordi commerciali. Infatti, l’anno scorso sono entrati in vigore due nuovi accordi preferenziali dell’UE (un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda e un accordo di partenariato economico con il Kenya), portando a ben 44 il numero totale di accordi commerciali dell’UE attualmente in vigore, conclusi con 76 partner commerciali preferenziali.

  • Prevenzione e lotta al terrorismo e all’estremismo: la Commissione rafforza la cooperazione con i Balcani occidentali

    Il Commissario per gli Affari interni e la migrazione Magnus Brunner ha firmato un nuovo piano d’azione comune per la prevenzione e la lotta al terrorismo e all’estremismo violento tra l’UE e i suoi partner dei Balcani occidentali, a margine del forum ministeriale UE-Balcani occidentali su giustizia e affari interni che si tiene a Sarajevo, Bosnia-Erzegovina.

    La sicurezza dei Balcani occidentali è strettamente legata alla sicurezza interna dell’UE. Con questo nuovo piano d’azione l’UE e i Balcani occidentali saranno meglio attrezzati per affrontare le minacce nuove ed emergenti, tra cui la radicalizzazione online, nonché l’impatto delle nuove tecnologie sulle minacce terroristiche, quali i rischi associati all’uso improprio dei droni o all’uso di criptovalute per il finanziamento del terrorismo.

    Il nuovo piano d’azione comune rafforzerà la cooperazione e lo sviluppo di capacità in cinque settori principali: allineamento alla legislazione antiterrorismo dell’UE, prevenzione dell’estremismo, rafforzamento della cooperazione con Europol anche per quanto riguarda le indagini antiterrorismo, rafforzamento della capacità di indagare sul finanziamento del terrorismo e rafforzamento della protezione delle infrastrutture critiche e degli spazi pubblici.

  • Cortigiani d’America

    Sembra che finalmente sia finita la querelle mediatica sul termine “cortigiana” usato da Landini nei confronti della nostra Presidente del Consiglio e possiamo quindi ragionare più serenamente su ciò che Landini intendesse realmente dire. Dal contesto mi sembra evidente che la sua critica riguardasse un presunto atteggiamento di nostro “vassallaggio” verso le decisioni prese da Trump in politica internazionale. Soffermandoci, quindi, su questo concetto possiamo affermare senza tema di smentite che Landini ha avuto, contemporaneamente, ragione e torto.

    Ha avuto ragione perché è sotto gli occhi di tutti che Roma ha appoggiato e anche plaudito ogni scelta politica di Trump senza mai schierarsi apertamente contro e limitandosi ad invitare alla prudenza sulla minaccia (poi realizzatasi parzialmente) di dazi economici punitivi. Nello stesso tempo, il sindacalista ha anche torto lasciando intendere che il comportamento di Meloni fosse un qualcosa di nuovo, nonché disdicevole. La nostra Presidente del Consiglio non ha cambiato la nostra politica rispetto al passato poiché è da quando abbiamo perso la seconda guerra mondiale che ogni nuovo governo, e di qualunque maggioranza, ha costantemente accettato, accodandosi, le scelte fatte dagli americani in politica estera. Va aggiunto che anche tutti gli altri governi europei nelle scelte importanti hanno fatto esattamente la stessa cosa, salvo la Francia per il breve periodo di De Gaulle.

    La realtà è che, nonostante ci piaccia continuare a pensare di essere volontariamente alleati nella Nato e cioè degli Stati Uniti, non abbiamo mai avuto nemmeno la minima possibilità di fare scelte contrastanti a quelle decise dalla più grande potenza mondiale. Per dirla tutta, ogni politico di oggi e dei passati ottant’anni lo sapeva, ma ha capito che la cosa poteva anche farci comodo. Se anche volessimo limitarci a considerare soltanto l’aspetto puramente militare è evidente che i vari eserciti europei (anche qui con una leggerissima differenza di Francia e Gran Bretagna) non sono mai stati in grado di garantire da soli la difesa del proprio territorio e l’appartenere alla Nato, grazie al famoso articolo 5, ci ha permesso una tutela che non avremmo potuto permetterci altrimenti. È stato proprio grazie a questa condizione subordinata di tipo militare che ci siamo potuti permettere di dirottare gran parte delle nostre risorse dalle spese per la difesa verso la creazione di quello “stato sociale” che garantiva la nostra quotidianità e il nostro relativo benessere. Se, comunque, volessimo accantonare l’aspetto militare la nostra sudditanza politica verso gli Stati Uniti è stata ripagata, almeno fino all’arrivo di Trump, da un vantaggio economico fornitoci dalle nostre esportazioni che il sistema americano ha consentito. È pur vero che il maggior mercato di sbocco delle nostre merci è l’Europa ma il più grande cliente singolo dei nostri esportatori sono gli Stati Uniti. Basta ricordare che la nostra bilancia commerciale con quel Paese è arrivata nel 2024 a circa 95 miliardi di Euro con addirittura un surplus a nostro favore di più di 37 miliardi. Per la Germania è andata ancora meglio poiché su un interscambio di poco più di 271 miliardi il suo surplus è di ben 70 miliardi. Per dare un’idea, il nostro interscambio con la UE è di circa 476 miliardi di euro ma il nostro saldo è negativo per 7 miliardi. La Francia ha invece un attivo di soli 2 miliardi con gli USA e ciò spiega il loro atteggiamento più pretenzioso. Giusto per avere un quadro più completo, il nostro saldo con la Germania è negativo per circa 17 miliardi, con la Francia di -5 miliardi e con la Cina di meno 30miliardi. Quale governo potrebbe non tenerne conto? Per concludere, gli USA comandano e noi, in cambio, ci arricchiamo. L’interesse, fino ad ora è quindi stato reciproco.

    Ciò che è cambiato con Trump è stato solo il modo in cui il loro predominio si manifesta. Il suo modo presuntuoso e ricattatorio di comportarsi ha spinto molti leader europei a porsi in modo adulatorio verso di lui, nella speranza di poter continuare a mantenere qualche beneficio economico a favore. En passant, non va dimenticato che, pur rimanendo noi formalmente proprietari, il 47% dell’oro della Banca d’Italia usato come riserva è custodito (guarda caso dalla fine della guerra che abbiamo perso) a New York. Avendo visto ciò che è successo ai beni russi custoditi all’estero quando i rapporti di quel Paese con l’Occidente si sono deteriorati, non si può fare finta che il fatto non conti. Nel passato tutti i Presidenti americani avevano fatto sì che l’apparenza di una nostra indipendenza fosse il più possibile credibile e che ogni decisione venisse presa fingendo di essere alleati quasi alla pari. Un certo spazio di manovra autonoma era comunque consentito, purché non si esagerasse e le linee strategiche decise oltreoceano fossero rispettate. Nonostante la Guerra Fredda, perfino il Partito Comunista Italiano aveva accettato questa logica, magari fingendo, ma solo in apparenza, di opporvisi. Con l’euro-comunismo, poi, anche il PCI ha sposato la NATO come garanzia per la nostra difesa.

    Le poche volte in cui scelte importanti italiane si sono trovate ad essere divergenti da quelle dei potentati economici e politici anglosassoni successe sempre qualcosa che riportava gli equilibri nell’alveo di quanto era considerato opportuno da parte di Washington (e per certi affari anche di Londra). Gli Stati Uniti consentirono, e addirittura favorirono, la nascita di una qualche forma di unità europea perché la cosa risultava più utile come contrapposizione verso l’Unione Sovietica. Tuttavia, ogni volta che qualche visionario sembrò immaginare l’ipotesi che quella unione potesse assumere un vero carattere politico unitario, ci si fece capire che non era il caso e che era meglio soprassedere. Cosa che regolarmente successe. Il primo atto politico ed economico veramente autonomo e contrapposto agli interessi anglosassoni furono le operazioni intraprese da Mattei nel settore petrolifero e, purtroppo, si è visto cosa gli capitò. Negli anni successivi ci fu permesso fare po’ di fronda in merito al rapporto con il mondo arabo e, in particolare, perfino con i palestinesi. Il “lodo Moro”, costruito dal politico italiano con l’aiuto in Libano del colonnello Giovannone ci garantì una quasi totale impunità dagli attentati di terroristi palestinesi, con grande dispiacere di Israele e delle lobby ebraiche negli Stati Uniti. Fu tuttavia sopportato, ma quando Moro forse esagerò pensando di guardare lontano e di disinnescare il pericolo comunista attraverso il “compromesso storico” senza avere le dovute autorizzazioni, sappiamo cosa successe. In tanti, sia a Mosca che a Washington, non piansero per il fallimento di quell’operazione (per motivi ben diversi anche il sottoscritto, laico convinto, era contrario a quel progetto). In tempi più recenti un altro pericoloso “amico” dei palestinesi fu Craxi il quale, oltre al coraggioso (e imprudente) atto di Sigonella, raccoglieva da anni fondi per l’OLP di Arafat e per i socialisti cileni. Anche lui, tuttavia, terminò in malo modo la sua attività politica. Parlare del caso Andreotti sarebbe ora troppo lungo e ci è sufficiente accennare a Berlusconi. Questo eccellente imprenditore diventato Presidente del Consiglio aveva intelligentemente capito che in Europa tra francesi e tedeschi si lasciava poco spazio all’Italia e seppe quindi scavalcarli creando ottimi rapporti, contemporaneamente, con russi, americani e perfino inglesi. Avrebbe voluto avere dalla sua anche gli spagnoli ma Aznar era troppo pavido per partecipare all’operazione. In quel periodo, il presidente degli Stati Uniti era Bush Junior e le cose funzionarono positivamente per noi fino a che altri centri di potere non riuscirono a condizionare diversamente il Presidente americano che gli succedette. I nuovi potenti statunitensi non gradivano affatto il legame economico tra il nostro Paese e la Russia e, soprattutto, giudicavano molto negativamente l’idea, sponsorizzata da Berlusconi e dall’Eni, dell’apertura del South Stream. Quel gasdotto avrebbe consentito all’Italia di diventare un nuovo hub europeo per il gas russo ma avrebbe legato ancora di più gli interessi russi all’Europa. Non a caso, pur a lavori già iniziati, il progetto fu cancellato e non certo per volontà italiana. Lo stesso Berlusconi, soprattutto dopo aver dimostrato la capacità di stringere rapporti economicamente molto produttivi per il nostro sistema economico con la Libia di Gheddafi, fu giudicato non più affidabile. Come finì la sua avventura politica lo sappiamo.

    È impossibile poter affermare con sicurezza chi e come sia in grado di condizionare le scelte di un governo europeo e in particolare del nostro.  Sicuramente i centri e i soggetti coinvolti sono più di uno e di varia provenienza ma, forse, un qualche aiuto per capire di più le vere cause di alcuni fatti, lo si potrebbe ricavare dalla lettura del libro di un giornalista tedesco morto per infarto a soli 57 anni e subito cremato senza autopsia: Udo Ulfkotte. Il libro, scritto in tedesco fu pubblicato nel 2014 da un piccolo editore locale che riuscì a farlo tradurre e pubblicare anche in inglese. Purtroppo, appena apparsa, la versione inglese fu ritirata dalla circolazione in tutto il mondo anglosassone ed è ora irreperibile anche nel catalogo dell’editore britannico che lo aveva pubblicato. Il titolo è: “GIORNALISTI COMPRATI” e il sottotitolo recita: “Come i politici, i servizi segreti e l’alta finanza dirigono i mass media tedeschi” (la versione italiana, dell’editore Zambon, è disponibile solo via internet, spero a lungo). L’autore non era un giornalista qualunque: fu inviato all’estero per più di 15 anni per l’importante Frankfurter Allgemeine e aveva persino ricevuto la cittadinanza onoraria dell’Oklahoma, dimostrando così di non essere per principio un antiamericano. Purtroppo, la sua morte avvenne proprio poco dopo aver annunciato di voler scrivere un secondo volume con nuovi nomi e altri dettagli. Anche se il testo è focalizzato su quanto succede in Germania, ci stupiremmo se la situazione italiana dovesse dimostrarsi molto diversa.

    In conclusione, l’accusa per l’Onorevole Meloni di essere subordinata al volere della più grande potenza mondiale non è del tutto peregrina, ma ci sarebbe da domandarsi perché, e come, un qualunque altro governo a Roma che avesse a cuore gli interessi del nostro Paese dovrebbe comportarsi diversamente. Senza contare che, considerato che Francia e Germania continuano a non essere i nostri migliori sponsor, ci si potrebbe domandare quanto potrebbe durare un governo italiano qualora decidesse di schierarsi apertamente contro le volontà americane.

  • Londra prova a proporsi come alternativa a Mosca per i Paesi balcanici

    Il vertice del Processo di Berlino tenutosi mercoledì 22 ottobre a Londra ha confermato l’impegno del Regno Unito nei confronti della regione dei Balcani occidentali, non solo come spazio d’intervento diplomatico multilaterale per sostenere il percorso di integrazione europea dei Paesi candidati, ma anche come campo d’azione privilegiato per le strategie britanniche in materia di migrazione, sicurezza e contenimento delle influenze geopolitiche avversarie. Ospitando i capi dei governi di Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, il primo ministro britannico Keir Starmer ha rilanciato il ruolo di Londra come attore centrale nei Balcani. Durante l’apertura del summit, Starmer ha definito la regione come “il crogiolo dell’Europa”, sottolineando che qui si mettono alla prova la stabilità e la sicurezza del continente. Il premier ha posto l’accento su tre priorità: sicurezza, lotta alla migrazione irregolare e crescita economica, con particolare attenzione anche al contrasto “all’influenza maligna” della Russia.

    Il dossier migratorio rappresenta il nodo più sensibile per Londra. Con l’aumento degli arrivi attraverso la Manica e il moltiplicarsi delle pressioni sull’opinione pubblica interna, il governo britannico ha intensificato le trattative con diversi Paesi balcanici per ospitare i cosiddetti centri di rimpatrio: strutture dove collocare, in via temporanea, i richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta, prima della loro deportazione definitiva. Il Kosovo avrebbe espresso disponibilità a discutere la proposta, mentre di parere opposto – o quasi – sono le posizioni di Paesi come l’Albania e il Montenegro. Durante un evento ospitato a Chatham House, cui hanno partecipato anche i primi ministri di Tirana e Podgorica, Edi Rama e Milojko Spajic, sono emerse le posizioni dei due Paesi. In effetti, in più di un’occasione Rama ha ribadito all’omologo Starmer di non avere intenzione di “replicare” il modello di cooperazione siglato con l’Italia sul dossier migratorio. Dal Montenegro, invece, emerge una “parziale” contrarietà che potrebbe essere superata nel caso in cui dal Regno Unito giungano importanti investimenti, in particolare nel settore delle infrastrutture dei trasporti.

    Contestualmente allo svolgimento del vertice, il governo britannico ha annunciato nuove sanzioni contro reti criminali basate nei Balcani occidentali, accusate di agevolare il traffico di esseri umani lungo le rotte migratorie. Secondo i dati diffusi dal ministero degli Esteri, nel solo 2024 circa 22 mila persone sarebbero entrate illegalmente nel Regno Unito attraverso queste vie. Le misure varate colpiscono figure chiave del traffico: capi gang, falsari, finanziatori. Tra i soggetti sanzionati figura la rete criminale kosovara “Krasniqi”, responsabile della produzione di passaporti falsi, e la società Alpa Trading Fzco, sospettata di gestire fondi per conto dei trafficanti. “Non vogliamo vedere queste bande operare nel nostro territorio, e tutti noi soffriamo le conseguenze delle loro azioni”, ha dichiarato Starmer al summit, rivendicando anche il successo della cooperazione bilaterale con l’Albania, che ha portato – secondo Downing Street – a una riduzione del novantacinque per cento degli arrivi via piccole imbarcazioni provenienti da quel Paese.

    Ma la strategia britannica nei Balcani va oltre la sola questione migratoria. Londra continua a considerare la regione uno snodo geopolitico fondamentale per la sicurezza europea e per il contenimento delle ambizioni russe. La storica vicinanza tra Mosca e Belgrado, così come l’influenza economica crescente di Cina e Turchia, spingono il Regno Unito a mantenere una presenza attiva e multilivello. In questo senso si inquadra il rafforzamento del sostegno alla missione Nato in Kosovo Kfor, annunciato lo stesso giorno del vertice. Il ministero della Difesa britannico ha riaffermato l’impegno operativo e politico del Regno Unito nella forza internazionale, che resta un elemento di stabilizzazione cruciale nel contesto kosovaro, soprattutto dopo le recenti tensioni tra Pristina e Belgrado. Il comunicato diffuso da Londra sottolinea che la presenza militare britannica “contribuisce direttamente alla sicurezza regionale e alla deterrenza”, e che “la stabilità del Kosovo è fondamentale per l’intera regione dei Balcani occidentali”.

    L’approccio britannico si distingue anche per un’evidente proiezione autonoma rispetto all’Unione europea. Pur sostenendo il percorso d’integrazione dei Balcani nell’Ue – come previsto dallo stesso Processo di Berlino – il Regno Unito punta a rafforzare relazioni bilaterali dirette, svincolate dal quadro normativo di Bruxelles. Quest’approccio post Brexit si traduce in accordi mirati, investimenti strategici, scambi di intelligence e cooperazione sulle politiche di rimpatrio. Londra intende così rimanere un attore centrale in una regione che definisce “essenziale” per la sicurezza dell’intera Europa. In gioco ci sono non solo i flussi migratori, ma anche la tenuta dell’architettura euro-atlantica in una delle aree più fragili del continente, oggi contesa tra l’influenza occidentale e le interferenze esterne. In conclusione, il vertice di Londra ha offerto una fotografia chiara della strategia britannica nei Balcani: deterrenza migratoria, contenimento geopolitico della Russia, proiezione di soft power attraverso sanzioni mirate e strumenti di cooperazione. Mentre l’Unione europea resta il punto di riferimento per le aspirazioni di integrazione, il Regno Unito punta a essere il partner di sicurezza più reattivo e pragmatico dell’intera regione.

  • Un ex eurodeputato inglese ammette di essersi venduto a Putin

    Nathan Gill, ex europarlamentare e capo del partito di destra populista Reform UK (il partito dell’euroscettico Nigel Farage) in Galles, ha ammesso di avere accettato tangenti durante il suo mandato da parlamentare europeo, tra il 2014 e il 2020, per fare alcune dichiarazioni filorusse. Lo ha fatto durante un processo a suo carico in corso a Londra, nel Regno Secondo quanto emerso in tribunale, Gill ha preso soldi da Oleg Voloshyn, ex parlamentare ucraino definito dagli Stati Uniti “pedina” dei servizi segreti russi, in cambio di interventi a Strasburgo, dichiarazioni televisive e l’organizzazione di eventi con politici filorussi. Le autorità britanniche hanno sequestrato messaggi WhatsApp che documentano la collaborazione tra i due, trovati sul telefono di Gill dopo il suo fermo all’aeroporto di Manchester il 13 settembre 2021 in base alle leggi antiterrorismo. Tra le attività contestate, Gill difese in Parlamento i canali televisivi ucraini 112 Ukraine e NewsOne, sostenendo che fossero trattati ingiustamente dallo Stato ucraino. I canali erano legati a Viktor Medvedchuk, politico filorusso con stretti legami con il presidente Vladimir Putin, arrestato all’inizio dell’invasione dell’Ucraina e successivamente scambiato con prigionieri russi. Gill apparve anche sui canali stessi per sostenere Medvedchuk e organizzò incontri tra eurodeputati e rappresentanti filorussi, tutto in cambio di compensi economici.

    L’accusa ha sottolineato come l’ex eurodeputato fosse incaricato di presentare interrogazioni, contattare funzionari della Commissione europea e tenere eventi in favore di interessi russi, come confermano i messaggi WhatsApp intercettati. Dominic Murphy, capo dell’unità antiterrorismo della Metropolitan Police, ha dichiarato che Gill riceveva pagamenti per diffondere narrazioni favorevoli a Mosca. Padre di cinque figli, Gill sarà giudicato a novembre. Il suo avvocato ha anticipato che la condanna comporterà molto probabilmente il carcere. Durante il processo, la giudice Cheema-Grubb ha confermato che Gill ha ammesso di aver presentato interrogazioni, rilasciato dichiarazioni e svolto altre attività in Parlamento a favore di partiti filorussi in Ucraina. Il Labour gallese ha reagito criticando la vicinanza passata di Gill a Farage, sottolineando il rischio che interessi russi venissero anteposti a quelli del Galles. “Pensavamo che Nigel Farage avrebbe anteposto i propri interessi a quelli del Galles, ma ora sembra che anteporrà anche gli interessi della Russia a quelli del Galles”, sono le dichiarazioni riportate dalla BBC. Reform UK ha respinto le accuse: “Un gesto meschino dettato dalla pura disperazione da parte del Partito Laburista gallese, che viene respinto dall’opinione pubblica e sta perdendo terreno nei sondaggi”. Ora Gill non è più membro di Reform UK, ma la sua carriera politica in Galles lo aveva visto protagonista come leader di UKIP tra il 2014 e il 2016 e successivamente di Reform UK nel 2021, guidando la campagna elettorale per il Senedd, il Parlamento gallese.

    La sentenza è prevista a novembre: l’avvocato di Gill, Peter Wright, ha detto che probabilmente Gill passerà almeno un periodo in carcere.

  • Scherzo, pentimento e conseguenze

    Quanno se scherza, bisogna esse’ seri!

    Dal film “Il marchese del Grillo”

    Lunedì scorso, 13 ottobre, a Sharm el Sheikh in Egitto, si è svolto il vertice di pace tra Israele e Hamas, Il vertice, in cui hanno preso parte circa trenta massimi rappresentanti governativi e statali di altrettanti Paesi arabi ed europei, è stato presieduto dal presidente statunitense. Durante il vertice i partecipanti si sono impegnati a costruire un futuro di pace nel Medio Oriente, partendo dalla Striscia di Gaza. Ovviamente si tratta di un processo difficile, nonostante la volontà espressa.

    Durante il vertice però ha attirato l’attenzione mediatica una “strana” lunga stretta di mano tra il presidente statunitense ed il presidente francese. Quanto è accaduto durante quei minuti è stato commentato da diversi media internazionali, presenti al vertice di Sharm el Sheikh. Ma siccome non è stato possibile ascoltare quanto abbiano detto i due presidenti, i rapporti dei quali non sono tra i migliori, allora si è tentato di costruire tutto basandosi sulla lettura labiale. Una tecnica quella che, per identificare le parole dette, si basa sui movimenti delle labbra. Ebbene il quotidiano britannico “Daily Mail” ha pubblicato in seguito un articolo in cui, riferendosi alle conclusioni di una specialista della lettura labiale, commenta cosa avrebbero detto tra di loro i due presidenti.

    Secondo il quotidiano “Daily Mail”, il presidente statunitense ha stretto fortemente e per un bel po’ di tempo la mano al presidente francese. Una stretta di mano che somiglia a quella del 2017, che ormai è nota come “il famoso duello”, durata per ben 29 secondi, sempre tra loro due. Anche quella del 13 ottobre scorso a Sharm el Sheikh non era per niente amichevole, anzi!

    Dalle immagini trasmesse dai media si vede il presidente statunitense che, stringendoli fortemente la mano al suo omologo francese, gli impedisce di allontanarsi. Basandosi poi sull’interpretazione della specialista della lettura labiale, secondo il quotidiano “Daily Mail” risulterebbe che, tra l’altro, dopo aver chiesto al presidente francese “sei sincero?” ed avendo ricevuta la conferma del suo omologo, il presidente statunitense, stringendogli di più la mano, ha fatto la domanda: “…Bene, allora voglio sapere perché ….. mi hai fatto del male. Io adesso lo so il perché”. E nel frattempo dalle immagini si vede il presidente francese che abbassa gli occhi, mentre quello statunitense continua lentamente e con un tono grave: “Io sto facendo la pace”. “Ma dai”, risponde il presidente francese, sorridendo leggermente. Dopo di che il presidente statunitense dice: “Vedrai cosa accadrà! Avrei voluto vederti mentre lo fai…. fallo! Ci vedremo presto”.

    L’autore del sopracitato articolo apparso su “Daily Mail” afferma che non si sa con certezza cosa abbiano detto i due presidenti, ma tutto accade dopo che, meno di due settimane fa, altre immagini facevano vedere il presidente francese mentre rideva durante un’altro vertice con una battuta che riguardava proprio il presidente statunitense.

    Si fa riferimento ad un episodio accaduto durante il settimo vertice della Comunità Politica Europa, che si è svolto a Copenaghen il 2 ottobre scorso. Era proprio il primo ministro albanese il quale, in presenza anche del presidente dell’Azerbaigian, rivolgendosi al presidente francese, aveva detto a lui: “Dovrebbe scusarsi con noi, visto che non ci ha neppure fatto i complimenti per l’accordo di pace che avrebbe firmato tra Albania e Azerbaigian”. E si riferiva ad un errore ripetuto per ben tre volte, in tre occasioni diverse, dal presidente degli Stati Uniti d’America. Dopo quella battuta, tutti coloro che si trovavano lì si sono messi a ridere.

    Il presidente statunitense aveva sbagliato, confondendo l’Armenia con l’Albania. Lo ha fatto la prima volta durante un’intervista, il 19 agosto scorso, rilasciata ad un noto programma radiofonico, “The Mark Levin Show”. Lo ha fatto di nuovo un mese dopo, durante un’altra intervista televisiva al programma “Fox and Friends”. Per poi, ripetere lo stesso errore, e cioè scambiando l’Armenia con l’Albania, durante la conferenza stampa tenuta a Londra il 28 settembre scorso, con il premier britannico. Il presidente statunitense, oltre ad aver sbagliato, scambiando l’Armenia con l’Albania, aveva anche pronunciato “Aberbayjan”, invece di “Azerbaigian”.

    Durante la congiunta conferenza stampa a Londra con il premier britannico, il presidente degli Stati Uniti ha detto: “Ho messo fine alla guerra tra Azerbaigian e Albania”. E vantandosi di questi suoi meriti ha aggiunto: “Pensate che abbiamo messo d’accordo Azerbaigian e Albania…, andavano avanti da anni”. Mentre durante “The Mark Levin Show” ha dichiarato: “Un sacco di cose incredibili. Hai visto Aberbaixhan. È stato un grande conflitto che è durato 34, 35 anni con, uh, l’Albania. Pensaci. Voglio dire, è andato avanti per anni, e ho avuto modo di conoscere i leader, li ho conosciuti attraverso il commercio. Ho avuto a che fare un po’ con loro, e ho detto: “Perché state combattendo?”. Poi ho detto: “Non farò un accordo commerciale se voi combattete. È una follia””. Simili errori ha fatto anche durante l’intervista al programma “Fox and Friends”.

    Subito dopo lo “scherzo” del primo ministro albanese con gli errori del presidente degli Stati Uniti d’America, in presenza del presidente della Francia e quello dell’Azerbaigian, le immagini sono state trasmesse da numerosi media in diverse parti del mondo, facendoli diventare virali. E secondo il Paese, anche il contesto si adattava ai rapporti con gli Stati Uniti. I media in Russia hanno fatto eco a quello “scherzo” e con i loro commenti ridicolizzavano il presidente statunitense. Sono stati molti anche i media europei, quelli italiani compresi, che hanno dato spazio allo “scherzo” del primo ministro albanese. Mentre negli Stati Uniti i media contro la politica del presidente statunitense hanno ironizzato lui. Lo ha fatto anche un suo dichiarato rivale, il governatore della California, un potenziale candidato del partito democratico per le prossime elezioni presidenziali. Approfittando del caso, il governatore della California ha dichiarato: “Sotto la presidenza di Trump, l’America si sta deridendo”.

    Ma l’autore dello “scherzo”, che si riferiva agli “errori geografici” del presidente statunitense, forse non aveva pensato che il suo “scherzo” avrebbe avuto quella grande diffusione mediatica e, perciò, anche tutte le derivate conseguenze. Soprattutto quelle dovute alla reazione del presidente statunitense. Ragion per cui solo poche ore dopo aver fatto quello “scherzo”, il primo ministro albanese, pentito di tutto ciò e, per alcune note ragioni anche impaurito, ha cercato subito di “giustificarsi” e di spiegare che si trattava di un semplice malinteso.

    Per il primo ministro albanese “…è veramente straordinario il modo in cui funzionano oggi i media e come la cosiddetta “viralità” possa distorcere così facilmente la realtà”. Lui non “riusciva a capire” come “…una frase detta con umorismo, in spirito di amicizia, diventa improvvisamente un titolo mondiale di un vertice con decine di Paesi, mentre il resto – la vera essenza – diventa irrilevante”. Si trattava di “…un momento di umorismo tra persone che in realtà sono tra i più grandi ammiratori del presidente Trump” (Sic!). Come mai sono diventati tali lui ed il presidente francese?! Poi lui stesso ha cercato di elogiare il presidente statunitense, scrivendo che è colui che ha “…ripristinato la parola ‘pace’ nel dizionario dell’Occidente dopo molti anni”.

    Chi scrive queste righe è convinto che, tantissimi fatti accaduti e pubblicamente noti alla mano, il primo ministro albanese è un innato voltagabbana. In più non è consapevole che il primo ministro non rappresenta solo se stesso, ma anche i cittadini che stanno patendo il suo modo di gestire tutto, compresi anche i rapporti internazionali. “Quando se scherza, bisogna esse’ seri”, diceva Alberto Sordi nel film “Il marchese del Grillo”. Ma il primo ministro albanese, si sa, non è per niente serio.

  • Ogni cosa ha un prezzo

    Ogni cosa ha un prezzo e più l’obiettivo è importante più il prezzo sale.

    Se pace veramente sarà a Gaza, quando e come vedremo, il prezzo è stato per tutti altissimo sia per i civili palestinesi, morti a decine di migliaia per le bombe di Israele e per essere stati usati da Hamas come scudi umani, che per gli israeliani, sia quelli massacrati il 7 ottobre che gli altri, tenuti prigionieri e molti morti od uccisi durante la detenzione.

    Una pace che pesa per le condizioni che vedranno i pochi ostaggi israeliani rimasti, alcuni vivi ed altri cadaveri, restituiti a Israele mentre in cambio centinaia e centinaia di terroristi di Hamas saranno liberati, queste sono le condizioni, e facilmente questi torneranno, prima o poi, al loro turpe mestiere.

    Chi darà la garanzia che i tunnel saranno tutti distrutti, che saranno identificati tutti i depositi di armi, che i finanziamenti iraniani non continueranno a finanziare gli islamisti, che Hamas non continui ad arruolare nuove leve e a ricattare e terrorizzare la popolazione?

    Certamente il presidente Trump, e chi ha collaborato con lui nel difficile percorso che ha portato al cessate il fuoco ed aperto la strada al percorso di pace, ha dimostrato una volontà ed una capacità di mediazione ed intervento, con coprotagonisti i paesi arabi, che ci consente di sperare.

    Mentre a Gaza riprendono gli aiuti umanitari, per la popolazione allo stremo, non possiamo nascondere una realtà antica e sempre nuova, Hamas sarà veramente sconfitto, e messo in grado di non nuocere più, solo se il popolo palestinese saprà, nel suo insieme e singolarmente, riconoscere il diritto all’esistenza ed alla vita di Israele e costruirà un percorso di vita democratica mettendo al bando ogni terrorista.

    Una strada che per ora è un sentiero pieno di incognite ma che bisogna avere il coraggio di intraprendere, tutti, abbandonando quegli atteggiamenti che, anche in Europa ed in Italia, danno fiato all’antisemitismo.

  • Pace a Gaza: durerà?

    Mentre sembra che un accordo tra Hamas e Israele sia stato raggiunto tra le parti, l’intero mondo sta tirando un sospiro di sollievo. La carneficina in atto a Gaza potrebbe essere definitivamente finita e tutto lascerebbe pensare che si possa aprire una nuova era per il Medio Oriente. Purtroppo le cose non sono così semplici come si vorrebbe far apparire. L’attenzione internazionale è stata, comprensibilmente, focalizzata sui tragici avvenimenti di Gaza ma il problema dei rapporti tra israeliani e palestinesi è ben lontana dall’aver trovata una soluzione conclusiva. Trump ha tutto l’interesse ad annunciare come ha fatto nella conferenza stampa con Netanyahu che nell’area si aprirà una nuova situazione di pace ma, nonostante ognuno di noi lo auspichi, le difficoltà su quel cammino sono ancora tante ed è molto difficile intravedere un punto di arrivo sicuro, visto che le questioni più spinose restano irrisolte. Meglio poco che niente, dirà qualcuno, e certamente una pace a Gaza era indispensabile per poter pensare al futuro e dare sollievo alle popolazioni vittime di morti e distruzioni. Tuttavia, sarà davvero pace per lungo tempo?

    Cominciamo dai contenuti dell’accordo: Hamas restituirà gli ostaggi e, in cambio, gli israeliani libereranno più di un migliaio di prigionieri palestinesi. L’esercito di Israele comincerà il ritiro dalla Striscia e Hamas dovrà contemporaneamente disarmarsi completamente. Un futuro Governo sarà “tecnocratico” e controllato da un’equipe coordinata dallo stesso Trump con l’aiuto di Blair. La sicurezza sarà garantita dagli USA ma sarà gestita da una forza arabo-internazionale. In un futuro non precisato si terranno locali elezioni e saranno allora gli stessi palestinesi a gestire quel territorio. Vediamo come e perché si è arrivati a questa intesa condivisa da tutti gli Stati della zona.

    Le pressioni di Trump su Netanyahu erano diventate sempre più forti e, soprattutto dopo la fallita operazione del bombardamento israeliano a Doha, gli americani non potevano più permettersi una destabilizzazione ancora più grave dell’area medio-orientale. Da parte sua, Hamas era devastata militarmente, sentiva crescere un’ostilità popolare nei confronti del suo comportamento ed era ormai evidente che anche il possesso di ostaggi non avrebbe portato Israele alla cessazione delle ostilità o a un compromesso. Nel frattempo, stavano aumentando le pressioni di Qatar, Egitto e Turchia sulla stessa Hamas affinché si andasse verso una qualche soluzione soprattutto per non rovinare i buoni rapporti che questi Stati vorrebbero mantenere con gli USA. Per Israele la continuazione del conflitto stava diventando un onere economico insostenibile, una delegittimazione mondiale sempre più diffusa e la popolazione israeliana maggiormente ostile al Governo e alla guerra. Senza contare che anche nell’IDF la contrarietà al proseguimento delle operazioni cresceva in modo evidente. Oltre a tutto ciò, accettando il patto Netanyahu avrebbe potuto, durante le prossime elezioni, vantare di aver raggiunto tutti (o quasi) i suoi obiettivi: Hamas disarmata e fuori da ogni futuro Governo locale, ostaggi liberati, un Governo tecnocratico internazionale, una zona cuscinetto a Gaza, Hezbollah praticamente eliminata e armamento nucleare (ipotetico) dell’Iran fuori gioco. Inoltre, le pressioni americane cui non era più possibile sottarsi, davano al Primo Ministro la possibilità di giustificarsi con gli alleati estremisti nel suo Governo per “dover” rinunciare a una occupazione e ai futuri insediamenti ebraici nella Striscia.

    Ecco però nascere gli interrogativi e la possibilità che, pur avendo concordato le linee generali, si cominci ora a contrattare sugli aspetti applicativi.

    Hamas potrà impegnarsi a una qualche forma di disarmo ma la sua ragion d’essere fondamentalmente integralista e anti israeliana, il suo permanente desiderio di influenzare il futuro di Gaza e la permanenza dell’IDF, seppur parziale e ufficialmente temporanea, daranno ai terroristi le scusanti per non rinunciare del tutto alle armi. Se così sarà anche l’IDF avrà un motivo in più per rallentare o rinunciare al ritiro delle truppe. Da parte dei governi arabi che dovrebbero prendersi carico della sicurezza ci potranno allora essere ragioni per non inviare i loro militari, almeno fino a che ogni forma di ostilità armata non sarà del tutto scongiurata nella Striscia. Di certo nessun Governo arabo vorrebbe trovare i propri soldati in mezzo a un fuoco incrociato se il conflitto dovesse riaprirsi.

    Il problema più grave rimane però quello del futuro Stato Palestinese contro cui Netanyahu si è dichiarato apertamente. Se tale Stato non nascerà come realtà autonoma e indipendente il conflitto tra le due popolazioni, israeliana e palestinese, non sarà certo sopito e la tensione continuerà, ridando fiato agli estremisti di entrambe le parti. Ma quale Stato Palestinese sarà mai possibile vista l’attuale situazione? In Israele, anche chi vi era favorevole fino alla strage del 7 ottobre oggi non lo vuole più accettare perché teme che possa diventare un luogo di partenza per futuri terroristi e, pur contestando l’attuale maggioranza per tanti altri motivi, si trova d’accordo con Netanyahu nel non volerlo. Inoltre, gli insediamenti di coloni israeliani abusivi in Cisgiordania sono diventati così numerosi (e violenti) e si sono espansi a macchia di leopardo anche, e volutamente, per rendere quasi impossibile la costituzione di una qualunque organizzazione statale. Nel 2024 Israele si è appropriato di più terra in Cisgiordania che nei precedenti 20 anni messi insieme. Non si può dimenticare che dopo gli eventi del 2003 Trump non ha fatto nulla per impedire l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e, anzi, ha persino revocato le sanzioni che Biden aveva imposto contro la violenza dei coloni, di fatto legittimandole. Tutti gli osservatori sono ora convinti che la soluzione dei Due Stati sia praticamente impossibile, almeno nel breve periodo. Purtroppo, anche la soluzione di un unico Stato ove convivano con uguali diritti ebrei e arabi sembra fuori portata. Di là dalla reciproca sfiducia, un ostacolo non minore è la Legge Fondamentale (in Israele, come in Gran Bretagna, non esiste una Costituzione) votata nel 2018 dalla Knesset che definisce Israele quale Stato degli ebrei (“casa nazionale del popolo ebraico”) e quindi riduce chi non lo è a cittadino di serie B.

    Siamo ben lungi, quindi, dall’avere raggiunta la “pace definitiva” in Medio oriente che Trump aveva annunciato. Eppure, la speranza è sempre l’ultima a morire e, almeno per ora, dobbiamo accontentarci di una tregua che consentirà per un qualche tempo che gli abitanti della Striscia non soffrano più la fame, che troveranno ancora una qualche possibile residenza stabile e che non dovranno, ce lo auguriamo, temere di essere seppelliti dalle bombe.

  • L’Egitto contesta davanti all’Onu gli accordi marittimi tra Libia e Turchia

    L’Egitto ha presentato un memorandum ufficiale alle Nazioni Unite per rigettare una serie di misure e accordi marittimi adottati dalla Libia, incluso l’ultimo memorandum d’intesa con la Turchia. Come riferiscono media greci, Il Cairo definisce queste intese una “violazione della sovranità egiziana” e una lesione dei propri diritti nel Mediterraneo orientale. Il documento, datato 8 settembre, rifiuta espressamente l’accordo firmato il 25 giugno tra la compagnia libica Noc e la Turkish Petroleum Corporation (Tpao) per studi sismici in quattro aree offshore. Una di esse, la cosiddetta “Area 4”, ricadrebbe – secondo le autorità egiziane – entro i limiti della zona economica esclusiva (Zee) e della piattaforma continentale egiziana. Di conseguenza, Il Cairo respinge “qualsiasi misura, condotta o conseguenza giuridica derivante da questo accordo”.

    La posizione egiziana non riguarda solo l’intesa energetica, ma anche la definizione unilaterale da parte libica dei limiti della propria piattaforma continentale. Il Cairo richiama la propria legislazione nazionale, in particolare il decreto presidenziale 595/2022, e afferma che le rivendicazioni di Tripoli sono “incompatibili con la Convenzione Onu sul diritto del mare e con il diritto internazionale”. La disputa si inserisce in un contesto già segnato dal rafforzamento della cooperazione tra Tripoli e Ankara. Come già riportato da “Agenzia Nova”, il 27 giugno scorso il ministro del Petrolio del governo libico di unità nazionale, Khalifa Abdul Sadiq, ha incontrato a Tripoli l’omologo turco Alparslan Bayraktar per consolidare il partenariato energetico, con particolare attenzione all’esplorazione congiunta di giacimenti offshore. Un’intesa che ha subito inasprito le tensioni con la Grecia, impegnata in nuove gare internazionali per l’esplorazione di idrocarburi al largo di Creta. Atene ha risposto inviando due fregate e una nave militare nelle acque internazionali davanti alla Libia, ufficialmente per controllare i flussi migratori, una mossa percepita da Tripoli come “provocazione militare”.

    La Grecia, insieme a Cipro e all’Unione europea, si richiama alla Convenzione Unclos del 1982, che riconosce alle isole la capacità di generare zone economiche esclusive. Libia e Turchia, invece, si basano sulla Convenzione di Ginevra del 1958 e considerano sproporzionato che piccoli lembi di terra – come l’isola greca di Kastellorizo, a soli due chilometri dalla costa turca – possano estendere ampie Zee. Per Atene, le mosse di Tripoli e Ankara rappresentano un affronto giuridico e geopolitico. Per Il Cairo, un rischio diretto ai propri interessi energetici nel Mediterraneo levantino. Secondo osservatori, un’ulteriore destabilizzazione dell’EastMed metterebbe in pericolo rotte commerciali vitali per l’Italia e l’Europa, aprendo scenari di tensione anche con l’Unione europea, che in base all’articolo 42 del Trattato di Lisbona sarebbe tenuta a fornire assistenza a un Paese membro aggredito.

    Alcuni giorni prima dell’iniziativa egiziana il gruppo di lavoro congiunto libico-turco ha tenuto una riunione ad Ankara per affrontare la regolamentazione dei contratti firmati prima del 2011, la revisione degli accordi del 2024 e del 2025, e l’elaborazione di un piano operativo per riattivare i progetti di sviluppo rimasti bloccati. Secondo quanto riferito dal sito di informazione libico “Al Wasat”, l’obiettivo è stato quello di rafforzare la stabilità e la continuità delle iniziative comuni tra i due Paesi.  Durante l’incontro, le parti hanno evidenziato la crescita del 31% degli scambi commerciali tra Libia e Turchia nei primi otto mesi del 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024. Entrambe hanno ribadito la necessità di consolidare questo slancio per rafforzare la cooperazione economica, sostenere nuovi progetti di investimento e sviluppare un partenariato strategico più solido, con particolare attenzione ai settori prioritari di infrastrutture, costruzioni, commercio e industria. La delegazione libica era guidata dal ministro dei Trasporti e consigliere finanziario del primo ministro, Mohamed al Shehaby, affiancato dal capo del Team per l’attuazione delle iniziative presidenziali e dei progetti strategici, Mustafa al Manie, dal sottosegretario del ministero dell’Economia e del Commercio, Suheil Abu Shaiha, dall’ambasciatore libico in Turchia, Mustafa al Qleib, oltre a rappresentanti di diverse agenzie governative. La delegazione turca, invece, era guidata dal ministro del Commercio, Omer Bolat, con il suo vice Ozgur Volkan Agar, il presidente dell’Associazione degli imprenditori turchi e direttori di vari ministeri e istituzioni.

  • Swiss chocolates set to become cheaper in India under a new trade deal

    Swiss wines and chocolates are set to become cheaper in India after a new trade agreement it signed with a bloc of four European nations came into effect on Wednesday.

    India signed the Trade and Economic Partnership Agreement (TEPA) with the European Free Trade Association (EFTA) – which includes Switzerland, Norway, Iceland and Liechtenstein – in March 2024.

    Under the agreement, India will cut tariffs on 80–85% of goods coming from these countries to zero, while Indian exporters will get duty-free access to 99% of goods in EFTA markets.

    The two sides have also committed to invest $100bn (£74bn) and create a million direct jobs over the next 15 years as part of the deal.

    This is India’s first trade agreement where market access is directly tied to these investment pledges.

    Experts say it signals a strategic shift in the way trade agreements are being negotiated, with investment commitments and not just tariff reductions becoming part of the deal.

    For India, goods like Swiss chocolates and wines are expected to get cheaper, while EFTA countries will benefit from India’s zero tariffs on many medicines, dyes, textiles and iron and steel products over the next five to 10 years.

    India’s imports from EFTA countries last year were at $32.4bn – most of which were from Switzerland, which accounted for a third of that number.

    Of this, gold imports accounted for approximately $18bn. Under the trade deal, duties on gold remain unchanged.

    India’s exports to EFTA countries in the same year were $2bn of which 98% were in industrial goods.

    But industrial goods are already at zero duty, so India will not see any incremental benefits, according to Ajay Srivastava from Global Trade Research Initiative (GTRI), a Delhi-based think tank.

    “If there are any gains, it may not be because of tariffs but because of perception building, since this is the first trade deal by India with any European country,” Srivastava said. This will send a signal to the world that “India is willing to liberalise”.

    The deal comes into effect in the backdrop of steep 50% tariffs imposed by the US on India. Trade talks between the two countries are ongoing.

    India is also negotiating several trade deals in a bid to offset the effect of the US tariffs.

    In July, it signed a Free Trade Agreement (FTA) with the UK, which is set to come into effect by 2026.

    India is also in the process of negotiating an FTA with the European Union.

    Some 6,000 EU companies operate in India and the EU bloc is India’s largest trading partner in goods, with bilateral trade reaching $135bn in 2022-23 and nearly doubling in the last decade.

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