accordi

  • Xi Jinping e Putin discutono di Trump

    All’indomani dell’insediamento del presidente Donald Trump alla Casa Bianca, l’omologo cinese Xi Jinping ha avuto una videocall con il leader russo Vladimir Putin. A riferirlo l’emittente cinese Cctv, senza aggiungere al momento dettagli sul colloquio. Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha confermato la notizia. “Il colloquio al momento è in corso”, ha dichiarato all’agenzia di stampa Tass.

    Se i contenuti del video-incontro ancora non sono noti, di certo, però, Pechino e Mosca non hanno nascosto nelle scorse ore i timori per alcune dichiarazioni e per gli ordini esecutivi firmati dal tycoon a poche ore dall’insediamento. A partire dagli accordi sul clima, passando per Oms e finendo con Panama.

    La Cina ha espresso ”preoccupazione” per l’annunciata uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima, decisa dal presidente americano con la firma di un ordine esecutivo, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun. “Il cambiamento climatico è una sfida comune a tutta l’umanità e nessun Paese può rimanere indenne o risolvere il problema da solo”, ha affermato Guo.

    E ancora: “Il ruolo dell’Oms dovrebbe essere solo rafforzato, non indebolito”, ha commentato sull’ordine esecutivo di Trump con cui il presidente americano ha dato il via al processo per ritirare gli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della Sanità. “La Cina, come sempre, sosterrà l’Oms nell’adempimento delle sue responsabilità e lavorerà per costruire una comunità sanitaria condivisa per l’umanità”, ha aggiunto Guo. Trump ha criticato l’Oms per la gestione della pandemia di Covid-19.

    Ed è considerato ”un atto di bullismo” l’inserimento di Cuba nella lista nera dei Paesi che sostengono il terrorismo da parte degli Stati Uniti. L’uso ripetuto della lista da parte di Washington “contraddice i fatti e rivela pienamente il volto egemonico, autoritario e prepotente degli Stati Uniti”, ha affermato Guo.

    Dal canto suo, la Russia si aspetta che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la leadership di Panama rispettino il regime giuridico internazionale di questa via navigabile. Lo ha affermato il direttore del dipartimento latinoamericano del ministero degli Esteri russo, Alexander Shchetinin, rispondendo a una domanda della Tass.

    ”Ci auguriamo che durante le previste discussioni tra la leadership di Panama e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulle questioni del controllo sul Canale di Panama che, ovviamente, rientrano nell’ambito delle loro relazioni bilaterali, le parti rispettino l’attuale regime giuridico internazionale di questa via navigabile fondamentale”, ha sottolineato.

    Shchetinin ha ricordato che il regime giuridico internazionale del Canale di Panama ”è chiaramente definito e registrato nel Trattato sulla neutralità permanente e sul funzionamento del Canale di Panama tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica di Panama, firmato dal presidente americano Jimmy Carter e il capo del governo panamense, il generale Omar Torrijos, il 7 settembre 1977 ed entrarono in vigore il primo ottobre 1979″. Il diplomatico ha aggiunto che ”il regime stabilito dal trattato è ulteriormente sancito dal protocollo, al quale hanno aderito circa 40 stati del mondo. La Russia partecipa al protocollo dal 1988 e conferma i suoi obblighi di mantenere la neutralità permanente del Canale di Panama, sostenendo la conservazione sicura e aperta di questa via d’acqua di transito internazionale”.

    ”A questo proposito sottolineiamo: secondo le modifiche apportate dagli Stati Uniti e da Panama al trattato nell’ottobre 1977, ciascuno dei due paesi deve proteggere il canale da qualsiasi minaccia al regime di neutralità. Il diritto specifico degli Stati Uniti alla difesa del Canale di Panama non significa e non deve essere interpretato come il diritto di intervenire negli affari interni di Panama, e qualsiasi azione della parte americana non sarà mai diretta contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di Panama”, ha concluso Shchetinin.

    Il Canale di Panama, inaugurato nel 1914, fu costruito e controllato dagli Stati Uniti. Nel 1977 il Trattato Torrijos-Carter determinò il trasferimento graduale del canale a Panama, completato nel 1999. L’accordo prevede la neutralità del canale e la sua accessibilità al commercio mondiale.

  • Accordo con un autocrate che è anche un buffone quando serve

    Talvolta il comportamento pragmatico è necessario; ma chi cerca di fare di necessità virtù, conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare.

    Ralf Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, 1987

    Le numerose favole di Esopo, un noto scrittore della Grecia antica, vissuto circa ventisei secoli fa, sono state e continuano ad essere una fonte di ispirazione. Favole che, per il loro valore educativo e morale, continano ad essere attuali e rappresentano una fonte di insegnamento per molti. Ebbene, dai tanti insegnamenti di Esopo ce n’è uno che si riferisce alle false amicizie. La sua saggezza ci insegna e ci ammonisce che un amico incerto è peggio di un nemico dichiarato. Un insegnamento, sempre attuale per il genere umano. Un insegnamento dal quale devono imparare anche tutti coloro che hanno delle responsabilità pubbliche ed istituzionali, sia a livello locale che internazionale.

    L’autore di queste righe ha pienamente condiviso l’articolo di Cristiana Muscardini “La sicurezza, i dati sensibili, Musk”, pubblicato su “Il Patto Sociale” l’8 gennaio scorso. Lei, dopo aver trattato il tema della sicurezza nazionale e quello delle “amicizie con i grandi del mondo”, logicamente si poneva la domanda: “È possibile che di fronte al potere, al miraggio di una tecnologia sempre più oltre, al desiderio di sentirsi amici ed apprezzati da chi, da uomo più ricco, si sta trasformando nell’uomo più potente del mondo, chi ci governa sia accecato, incapace di comprendere i pericoli immediati ed a lungo termine, vanificando le speranze che tanti avevano avuto, speranze di libertà, indipendenza, democrazia vera?”. Una domanda sulla quale si deve riflettere.

    Dal 14 al 16 gennaio scorso ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, si è svolto il Vertice mondiale sull’Energia del futuro (World Future Energy Summit; n.d.a.). Durante quel vertice, il 15 gennaio, è stato firmato anche un’Accordo tra l’Italia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Albania. Si tratta di un accordo per la produzione di energia rinnovabile in Albania con impianti prodotti negli Emirati da esportare poi in Italia, tramite un elettrodotto sottomarino. L’accordo, che dovrebbe essere operativo tra tre anni, sarà valido per cinque anni ed avrà un costo di circa 1 miliardo di Euro. L’accordo prevede la produzione fino a 3 GW di energia elettrica da fonti rinnovabili. Fonti che, secondo un comunicato congiunto dei tre Paesi firmatari, sono “il fotovoltaico solare, l’eolico e delle soluzioni ibride con potenziale di accumulo tramite batterie”.

    Nella cerimonia della firma dell’accordo erano presenti l’anfitrione, il presidente degli Emirati Arabi Uniti, la presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia ed il primo ministro dell’Albania. L’accordo, per gli Emirati Arabi Uniti è stato firmato dal ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati il quale, allo stesso tempo, è anche il presidente di Masdar, una nota impresa privata a livello mondiale nel settore delle energie rinnovabili. Ma lui però è anche l’Amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company, la compagnia statale per l’estrazione del petrolio negli Emirati Arabi Uniti. Per l’Italia l’Accordo è stato firmato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, mentre per l’Albania dalla vice primo ministro e ministro delle Infrastrutture e dell’Energia. E dopo la firma dell’accordo hanno fatto le loro dichiarazioni sia la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ed il suo omologo albanese, sia il ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate degli Emirati Arabi Uniti. Dichiarazioni che sono state riportate dai media in Italia ed il nostro lettore ha avuto la possibilità di conoscerle.

    In Albania non si sapeva niente dell’accordo energetico firmato il 15 gennaio scorso ad Abu Dhabi. Ma ormai questo fatto da anni non è più una novità, Perciò questo modo di agire del Primo Ministro albanese non stupisce nessuno. Tutto si è saputo soltanto dopo che in Italia i media hanno parlato di questo accordo. Quanto è accaduto in Italia, riferendosi proprio al sopracitato accordo, comprese le reazioni critiche, soprattutto da parte dei rappresentanti dell’opposizione, ma anche dai media, ormai è di dominio pubblico anche in Albania. Invece nessuna reazione in difesa dell’accordo da parte del Primo Ministro, che non perde occasione, anche per delle cose futili, di reagire e di dire la sua. Purtroppo non c’è stata nessuna notizia e/o reazione neanche dai media controllati e vergognosamente ubbidienti.

    Appena è stata resa nota pubblicamente in Italia la firma dell’accordo sono state immediate anche le reazioni in Albania. Reazioni fatte da quei pochi media ancora non controllati dal primo ministro e/o da chi per lui. Reazioni che denunciavano la totale mancanza di trasparenza sull’accordo, sul suo contenuto ed altro. Ma sia i media che ne hanno parlato, sia i rappresentanti dell’opposizione politica, nelle loro reazioni critiche, hanno altresì sottolineato che in Albania questo “modo di procedere”, e cioè la totale mancanza di trasparenza in casi del genere, è ormai una consuetudine. Il primo ministro albanese, da autocrate onnipotente qual è diventato, calpesta consapevolmente gli obblighi costituzionali e quelli delle leggi in vigore. Lui ignora ormai da anni tutte le istituzioni e decide da solo e/o con quei pochi suoi stretti collaboratori ed alcuni oligarchi, suoi clienti. Ma nella memoria collettiva in Albania è ancora presente un altro caso simile, quello dell’accordo sui migranti firmato il 6 novembre 2023 a Roma. Anche in quel caso è stata verificata la stessa totale mancanza della dovuta ed obbligatoria trasparenza, come la scorsa settimana, dopo che si è saputo del sopracitato accordo energetico. Ragion per cui in quasi tutte le reazioni molto critiche fatte in Albania si faceva riferimento, oltre che all’accordo energetico firmato il 15 gennaio scorso, anche all’accordo sui migranti e al suo fallimento, almeno fino ad ora.

    In Albania le reazioni critiche, legate all’accordo energetico firmato mercoledì scorso ad Abu Dhabi, si riferivano anche ad alcuni passaggi delle dichiarazioni del primo ministro albanese. Dopo la firma dell’accordo lui ha detto, tra l’altro, che “l’Albania è al 100% con l’energia rinnovabile. Ora stiamo diversificando con il solare”. Ma, come sempre, da innato bugiardo qual è, il primo ministro non ha detto tutta la verità. Sì perché la verità è che quasi tutta la produzione dell’energia elettrica in Albania, circa il 98%, è quella idroelettrica! Ovviamente non ha parlato neanche dei clamorosi ed evidenziati abusi legati alla vendita, sotto prezzo, dell’energia elettrica generata in Albania e l’acquisto, con prezzi non giustificabili dell’energia elettrica dal mercato energetico internazionale. Perché l’Albania non riesce a produrre tutto il suo fabbisogno energetico. Il primo ministro non ha neanche ammesso che l’Albania non ha una strategia nazionale approvata per l’energia.

    Dai media italiani si è saputo che durante il Vertice mondiale sull’Energia del futuro ad Abu Dhabi il primo ministro albanese ha approfittato dell’occasione per fare, come spesso accade in simili casi, anche il buffone. Si perché proprio il 15 gennaio era anche il 48o compleanno della presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia. Lui le aveva portato un regalo. Inginocchiandosi davanti alla sua “cara sorella”, l’ha chiamata “Her Majesty” e le ha presentato un foulard di seta bianco con delle strisce in grigio e nero. Questo e tutto il resto hanno messo in difficoltà la festeggiata. Ma lui ha molto bisogno di apparire a fianco di qualche “grande del mondo”, facendo anche il buffone, soprattutto adesso, prima delle elezioni politiche dell’11 maggio prossimo. E soprattutto in un così difficile momento per lui, dovuto agli innumerevoli scandali che coinvolgono, lui, alcuni suoi familiari molto stretti ed altri. Ragion per cui l’appoggio della sua “cara sorella” diventa vitale.

    Chi scrive queste righe trova però molto significativo l’insegnamento di Esopo, secondo cui un amico incerto è peggio di un nemico dichiarato. Egli trova altresì saggio quanto scriveva il noto sociologo, politologo e politico Ralf Dahrendorf. E cioè che talvolta il comportamento pragmatico è necessario; ma chi cerca di fare di necessità virtù conclude poco, anzi spesso peggiora quello che è chiamato a riparare. Ad ognuno però la propria scelta. Ma anche le inevitabili conseguenze!

  • Nuove denunce ad un regime che cerca di camuffarsi

    Quando il demonio si traveste gli spuntano la coda, gli zoccoli o le corna.

    Proverbio

    La saggezza popolare ci offre sempre dei valorosi e molto utili insegnamenti. Ma non tutti ne fanno beneficio. La saggezza popolare, arricchita e maturata nell’arco dei secoli, da innumerevoli fatti accaduti, esperienze vissute e conseguenze sofferte, ci insegna, tra l’altro, che anche la verità, prima o poi, viene fuori.

    Nei paesi in cui sono stati restaurati dei regimi totalitari, alcune verità sconvenienti, che riguardano i gestori del regime, vengono camuffate e nascoste non solo dai diretti interessati, ma anche dalle strutture del regime, anche se nel periodo in cui viviamo non sempre ci si riesce. Grazie anche ai media. E proprio grazie ad alcuni noti media internazionali, durante gli ultimi mesi, si stanno denunciando delle realtà preoccupanti che prima non si conoscevano. Almeno fuori dai confini degli stessi paesi. Ed insieme con le problematiche si analizzano e si rendono note anche le pericolose conseguenze, che potrebbero coinvolgere molti altri, superando le frontiere statali.

    Un regime totalitario è stato restaurato durante questo ultimo decennio, non in uno sperduto Paese africano, asiatico o chissà dove, bensì in Europa. Si tratta, fatti alla mano, di una dittatura sui generis, che cerca di camuffarsi da una parvenza di pluripartitismo. Ma in realtà la sua pericolosità aumenta essendo un’alleanza del potere politico, con la criminalità organizzata ed alcuni raggruppamenti occulti internazionali, soprattutto di oltreoceano, molto potenti finanziariamente. E queste verità stanno venendo rese pubbliche ormai anche da alcuni noti media internazionali, sia europei che statunitensi. Verità che denunciano la preoccupante e pericolosa realtà in Albania. Si, in Albania, un Paese sulle coste del mar Adriatico e quello Ionio. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito e sempre con la dovuta e richiesta oggettività di una simile e preoccupante realtà (Autocrati disponibili a tutto in cambio di favori, 11 marzo 2024; Clamorosi abusi rivelati da un programma televisivo investigativo, 23 aprile 2024; Altre verità rivelate da un programma televisivo investigativo, 7 maggio 2024; Nuove verità inquietanti da un programma televisivo investigativo, 3 giugno 2024; Riflessioni durante la Giornata internazionale della democrazia; 16 settembre 2024; Minacce ai giornalisti europei che denunciano una grave realtà, 7 ottobre 2024; Un regime che cerca di apparire come uno Stato di diritto, 28 Ottobre 2024 ecc…).

    Il rappresentante, almeno istituzionalmente, di questo regime, è il primo ministro albanese. Proprio colui che, ogni giorno che passa, si trova sempre più impantanato in diverse faccende corruttive e abusive. Ed insieme con lui anche alcuni sui stretti famigliari e collaboratori. Ragion per cui lui, da innato bugiardo ingannatore senza scrupolo alcuno, quando serve, e soprattutto in presenza di alti rappresentanti governativi e istituzionali internazionali, fa anche il buffone, l’istrione, per attirare l’attenzione e se serve anche per spostarla da quelle verità molto scomode che lo riguardano personalmente. Ma adesso, viste le tante difficoltà che lo preoccupano direttamente, a lui non bastano solo i soliti “rappresentanti internazionali” accreditati in Albania. E neanche determinati funzionari della Commissione europea, come fino a pochi anni fa. Da qualche tempo il primo ministro albanese sta cercando di essere “utile, disponibile e collaborativo” per alcuni suoi parigrado europei. Ed in alcuni casi anche ci riesce. Lo testimoniano certi accordi internazionali, molto discussi negli ultimi mesi. Così come lo testimoniano alcuni supporti pubblici a lui dati da determinati alti rappresentanti governativi e dell’Unione europea.

    Uno di quei “supporti” il primo ministro albanese lo ha avuto quasi un anno fa, il 15 febbraio 2024. E quel “supporto” glielo ha dato proprio il segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, arrivato appositamente e per pochissime ore in Albania. Durante una conferenza stampa comune, il segretario di Stato statunitense ha considerato il primo ministro albanese come “un illustre dirigente e un ottimo primo ministro”. Chissà cosa sapeva il segretario di Stato che sfuggiva alla maggior parte dei cittadini albanesi?! Ma di certo non rappresentava la vera, vissuta e sofferta realtà albanese. Si, perché se il segretario di Stato avesse letto solo l’ultimo rapporto pubblicato proprio dal Dipartimento di Stato che lui dirige, doveva avere avuto dei “buoni motivi” per dire quelle parole. In quel rapporto sull’Albania, tra l’altro, si affermava chiaramente e senza equivoci, che “…la corruzione esiste in tutte le diramazioni e in tutti i livelli del governo”. Un’affermazione quella che non escludeva neanche il più alto livello governativo, e cioè proprio quello del primo ministro. Le cattive lingue dissero allora che quella visita di poche ore in Albania del segretario di Stato degli Stati Uniti d’America era stata organizzata dalla stessa lobby che supporta il primo ministro albanese e che, allo stesso tempo, vede attivamente coinvolti famigliari molto stretti del segretario di Stato statunitense che lascerà l’incarica tra pochissimi giorni.

    Il 20 novembre scorso la rivista indipendente francese “XXI”, specializzata in articoli approfonditi, pubblicava un lungo articolo sulla realtà albanese, focalizzandosi sul primo ministro del Paese. L’articolo era intitolato “Crimine e business. Rama, un cane da guardia utile per l’Europa”. L’autore dell’articolo, uno studioso di storia ed un buon conoscitore dei Balcani, avendo analizzato per anni la realtà albanese, è convinto che il nuovo regime restaurato in Albania si basa su una “combinazione dell’autoritarismo, della corruzione, del clientelismo, della criminalità organizzata, [ma] con un orientamento pro europeo”. All’inizio dell’articolo, l’autore, descrivendo il primo ministro, evidenzia che lui lascia aspettare gli ospiti prima di riceverli e una volta incontrati, dice: ”’Ero al telefono con Angela Merkel’ – oppure con qualche altro potente personaggio mondiale”. Sempre riferendosi al primo ministro albanese, l’autore del sopracitato articolo scrive che lui “sa di essere utile per gli occidentali, i quali sono più interessati alla stabilità regionale che allo Stato di diritto”. Si perché gli occidentali “sono consapevoli che il sistema monolitico del potere che lui [il primo ministro] ha reso operativo ha poco in comune con le richieste democratiche ad un Paese candidato per aderire all’Unione europea”. Nel suo dettagliato articolo, l’autore tratta molti aspetti della preoccupante realtà albanese. Una basata denuncia contro il nuovo regime totalitario che si sta pericolosamente consolidando in Albania.

    Un’altra denuncia contro lo stesso regime è stata pubblicata dalla rivista New Eastern Europe” il 18 dicembre scorso. L’autore dell’articolo è un buon conoscitore dei Balcani ed uno studioso della politica dell’allargamento dell’Unione europea. Lui afferma tra l’altro, che in Albania il sistema della giustizia “è soggetto della pressione e delle influenze politiche, i media hanno un’indipendenza limitata, la corruzione è ben diffusa…”. E poi convinto afferma che un simile degrado è dovuto proprio all’operato del primo ministro. L’autore dell’articolo è altresì convinto che il primo ministro albanese “…ha anche tollerato la presenza della criminalità organizzata, con la quale lui è stato accusato di condividere progetti molto redditizi”.

    Chi scrive queste righe condivide quanto è stato scritto nei due sopracitati articoli e considera il loro contenuto come delle nuove denunce ad un regime che cerca faticosamente e a tutti i costi di camuffarsi. Tutto in seguito ad altre denunce fatte soprattutto negli ultimi mesi, da altri giornalisti che scrivono per dei noti media e giornali europei e statunitensi. Il primo ministro albanese deve perciò sapere che quando il demonio si traveste gli spuntano la coda, gli zoccoli o le corna.

  • In attesa di Giustizia: il ponte delle spie

    E’ bastato che Giorgia Meloni andasse a prendersi un cafferino con Trump e, come per caso o per magia, gli Ayatollah hanno rilasciato la giornalista Cecilia Sala fino ad allora trattenuta in un carcere di massima sicurezza senza accuse precise ed in realtà senza colpe diverse dall’essere donna, occidentale e soprattutto cittadina di quel Paese che aveva in custodia l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini, colpito da provvedimento di arresto internazionale ed in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti con l’accusa di aver fornito componenti elettronici impiegati per un attentato a militari in Giordania.

    Cosa si siano detti e cosa abbiano condiviso la Premier e il Presidente eletto non è dato sapere ma la triangolazione giudiziaria tra USA, Italia ed Iran sembra ora avviarsi ad un lieto fine tutto sommato prevedibile: liberata l’italiana, il difensore del persiano ha subito chiesto alla Corte d’Appello di Milano (competente per decidere sulla consegna agli americani) di concedere al suo assistito gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico e, guarda caso, lo stesso giorno del rientro in Italia di Cecilia Sala c’è stato un vertice a Palazzo Chigi con la partecipazione di Carlo Nordio e Alfredo Mantovano.

    Per una serie di coincidenze, dopo tale incontro e prima della decisione della Corte d’Appello di Milano, è pervenuta una richiesta del Ministro della Giustizia che, facendo leva su prerogative che gli sono proprie, ha chiesto di revocare la misura di arresto a carico di Abedini perché mancherebbe il requisito della doppia incriminazione posto alla base delle procedure di estradizione, e cioè a dire che i fatti attribuiti all’accusato siano considerati reato sia nel paese che richiede la consegna che in quello in cui è stato arrestato. Detta tutta, questa è una decisione che spetterebbe alla Corte d’Appello contro il cui provvedimento è possibile fare ricorso per Cassazione e solo l’ultima parola spetta al Ministro della Giustizia ed è, diciamo così, insolito che quest’ultimo intervenga mentre è in corso il giudizio, così come è piuttosto strano che – con atteggiamento ed interpretazione della legge di senso opposto – avesse dato seguito alla richiesta di estradizione quando era pervenuta dagli Stati Uniti meno di un mese prima.

    La sostanza è che non sapremo mai cosa si sono detti Giorgia e Don ed è giusto così: la diplomazia ad alti livelli deve conservare i suoi margini di riservatezza come la elasticità nella gestione dei rapporti tra Paesi alleati e non: ma che nessuno ci venga a raccontare che quella è stata una visita di cortesia o che il vertice Nordio-Mantovano, come da loro stessi affermato, non aveva nulla a che vedere con questo caso e mano che mai che qualche giudice Iraniano abbia subito la moral suasion dell’ambasciatore italiano (visto che la Sala non aveva neppure un difensore) e si sia convinto che non c’erano ragioni per trattenerla ad Evin o meno che mai lo abbia fatto per un sussulto di coscienza.

    Le coincidenze esistono ma quando sono troppe non possono considerarsi più tali e se c’è stata qualche forzatura nelle procedure, in fondo, nessuno se ne lamenti posto che l’ingegnere Abedini è da considerarsi comunque presunto innocente che ha già fatto ritorno al suo Paese con il primo volo e Cecilia Sala una innocente tout court.

    Scambi di questo tipo – perché di ciò si tratta in ultima analisi – se ne sono fatti a decine durante la guerra fredda ed in quei casi si trattava quasi sempre di vere e proprie spie e se ne sono fatti anche in tempi recenti coinvolgendo Paesi come Francia, Gran Bretagna e, naturalmente, USA; uno degli ultimi è stato un giocatore di basket americano che Putin ha restituito in cambio di Viktor Bout che non era proprio un galantuomo ma uno dei trafficanti di armi più ricercati del pianeta: nulla di tutto ciò si può dire ancora di uno dei protagonisti né lo si potrà mai neppure ipotizzare dell’altra tranne a voler considerare che la redazione del Foglio ospiti un’antenna della CIA.

    Con buona pace di Corrado Augias, Michele Santoro e persino Rosy Bindi – resuscitati dai rispettivi sepolcri per l’occasione – che avevano preconizzato l’inutilità della missione della Premier a Palm Beach e l’inerzia del Governo di fronte al dramma di una concittadina ingiustamente detenuta in un paese canaglia, la differenza rispetto al passato è che certi scambi possono concordarsi e realizzarsi di fatto davanti a un cafferino e un vassoio di cookies e non a Berlino sul Ponte delle Spie. E Giustizia, in fondo, è fatta.

  • Gli scenari di guerra

    La Cina, in risposta al divieto statunitense di esportatore tecnologia verso centoquaranta aziende operanti in Cina ed in particolare con azionariato cinese in vigore dal 31.12.2024, ha deciso di fermare le esportazioni di terre rare (gallio germanio ed antimonio) le quali soni fondamentali per la realizzazione di semiconduttori.

    Questo ennesimo episodio di “rappresaglia commerciale” rappresenta l’ultimo atto di un conflitto politico e strategico che sta definendo lo scenario bellico che vedrà sempre più contrapposte le due vere superpotenze mondiali: Stati Uniti e Cina.

    Proprio questo conflitto dalle dimensioni e ripercussioni simili ad un conflitto nucleare riduce ogni altro scenario di guerra in corso a semplici fattori strutturali e specifici ma soprattutto funzionali alla strategia bellica complessiva.

    In particolare lo scenario del conflitto russo ucraino acquisisce all’interno della nuova strategia statunitense un valore strategico fondamentale. Le prime bozze del piano di pace che sembra l’amministrazione Trump proporrà ai due contendenti si potrebbero sintetizzare in un congelamento delle posizioni attuali, la nascita di una zona cuscinetto ed il divieto per l’Ucraina di aderire alla Nato valevole per i prossimi vent’anni. L’obiettivo dell’amministrazione americana, quindi, risulta quello di concedere a Putin, in considerazione anche dell’impossibilità dell’Ucraina di resistere a lungo, un parziale riconoscimento delle proprie ambizioni territoriali.  Una concessione che ovviamente non terrebbe in alcuna considerazione le responsabilità dello stesso conflitto, ma avrebbe l’importante funzione di allontanare la Russa dall’alleanza dell’ultimo periodo imbastita con la Cina.

    Sul fronte opposto, ma non meno importante, la scelta di rinominare il medesimo mediatore che riuscì a creare le condizioni per un incontro tra i leader della Corea del Nord ed il presidente Trump va intesa nella medesima ottica in quanto la sua nomina risulta funzionale ad una volontà di creare un progressivo, anche se solo parziale, isolamento della Cina sul versante coreano.

    Nel sentiment statunitense, infatti, viene considerata molto probabile l’apertura di un nuovo scenario bellico, e non solo commerciale, che dovrebbe coinvolgere la Cina e Taiwan. Quest’ultima rappresenta una realtà fondamentale nell’economia mondiale per la propria produzione di microchip, molto spesso con capitali statunitensi.

    Tornando al divieto di export delle terre rare, deciso appunto in risposta dalle autorità cinesi alla politica statunitense, sarebbe allora interessante capire se esista una minima percezione e consapevolezza da parte delle autorità istituzionali, politiche, strategiche ed economiche dell’Unione Europea in relazione alle conseguenze che si potrebbero determinare con il mantenimento delle posizioni europee in uno scenario strategico e politico nuovamente polarizzato da Stati Uniti e Cina. In altre parole, se sia “possibile e sostenibile” il mantenimento delle strategie ideologiche ambientaliste completamente svincolate dal contesto internazionale verso una elettrificazione della mobilità, e quindi una diretta dipendenza dall’export cinese, che sicuramente determinerà una riduzione dell’indipendenza politica ed economica, quindi democratica, dell’Unione europea.

    I termini del nuovo confronto, o meglio del nuovo conflitto mondiale, non saranno più determinati, come in passato, da una divisione tra due blocchi, occidentale ed orientale, ma tra due complesse articolazioni economiche ed istituzionali: quella statunitense e la rivale cinese.

    L’idea, quindi, di agevolare attraverso l’adozione di facilitazioni politiche e normative una “transumanza elettrica” made in China non solo rappresenta la condizione per il suicidio politico, economico ed occupazionale della stessa Unione Europea, in più potrebbe essere interpretata come una scellerata scelta di campo da parte di entrambi i contendenti.

  • Putin tra debolezza e reale isolamento

    Per quanto Putin si sforzi di apparire un leader il cui prestigio internazionale, almeno in quella parte del mondo che pensa di pilotare intorno ai suoi interessi, sia in continua ascesa per le sue  nuove e sempre più pericolose alleanze, la realtà è un po’ diversa.

    Dopo aver mal digerito l’assenza dell’Armenia dall’incontro  dei vertici dell’alleanza militare, tra i sei paesi ex sovietici, ora è il presidente del Kazakistan, Kassym Tokayev, che non ha mai sostenuto l’operazione militare speciale e cioè l’invasione dell’Ucraina in sprezzo di ogni regola internazionale, a dargli qualche nuovo mal di  pancia.

    Il presidente kazako, che si è spesso espresso per un dialogo di pace, ora si è spinto anche più in là dichiarando, in un articolo pubblicato sul quotidiano russo Izvestia, che le Nazioni Unite sono un’organizzazione internazionale insostituibile.

    Da tempo tra Putin e il presidente kazako si assommano i motivi di frizione e il rifiuto di Tokayev di unire il Kazakistan ai paesi Brics ha portato lo zar russo a vietare l’importazione dei  prodotti agricoli del Kazakistan

    Per Putin la spina nel fianco non è da poco considerato che il Kazakistan è un grande paese, ricco di immensi giacimenti petroliferi,ha la più importante economia tra gli  stati ex sovietici e intrattiene ottime relazioni commerciali e politiche con l’Occidente.

    Putin che pensava, nel rapporto con la Cina,di controbilanciare il peso ed il potere cinese con altre sue importanti aree di ingerenza si trova ora sguarnito sui confini kazaki dove non ha gli amici succubi che si illudeva  di avere ed è sminuito, nel contesto internazionale, dal filo doppio che ha stretto con Kim Jong-Un.

    I nuovi scenari siriani, che si sono aperti  nelle ultime ore, per altro preoccupanti per tutti, con molti aspetti nei quali il peso dell’Iran e degli integralisti islamici non sono certo parte secondaria, creano anche per Putin un nuovo fronte.

    Il despota russo sta intensificando a dismisura le azioni contro l’Ucraina, le minacce nucleari e le azioni di sabotaggio contro i paesi dell’alleanza dimostrando che, nel giocare il tutto per tutto, ha una sempre maggior debolezza e reale isolamento.

    Quanti gli stanno intorno si dividono in due categorie: quelli, come parte dei paesi Brics, che cercano di portare a casa qualche personale beneficio e quelli, come la Corea del Nord o l’Iran che non possono allearsi altro che con dei dittatori e assassini come loro.

    Intanto la Cina sta a guardare, il dragone infatti è sempre pronto a incenerire chi gli dà fastidio.

  • Il Ciad revoca gli accordi militari con la Francia, Parigi guarda alla Nigeria per restare nel Sahel

    Evocando “una svolta storica”, il governo del Ciad ha annunciato la revoca degli accordi di difesa e sicurezza in vigore con la Francia, Paese di cui ospita sul suo territorio circa mille militari. “È ora per il Ciad di affermare la sua piena sovranità e di ridefinire i suoi partenariati strategici, sulla base delle sue priorità nazionali”, ha dichiarato in un comunicato il ministro degli Esteri, Abderaman Koulamallah, precisando che la decisione non rimette in questione “le relazioni storiche e il legame di amicizia fra i due Paesi”. Il capo della diplomazia di N’Djamena sottolinea che la scelta è frutto di “un’analisi approfondita” e che il Ciad si impegna a collaborare con le autorità francesi ad assicurare “una transizione armoniosa”, senza tuttavia precisare una data per il ritiro delle forze straniere. Il governo del Ciad – prosegue il testo – “rimane determinato a mantenere relazioni costruttive con la Francia in altri ambiti di interesse comune”, esprime “la sua gratitudine alla Repubblica francese per la cooperazione condotta nel quadro dell’accordo” e “rimane aperto ad un dialogo costruttivo per esplorare nuove forme di partenariato”.

    Non è forse un caso se le autorità di N’Djamena hanno deciso di “smarcarsi” dall’ex potenza coloniale nell’anniversario dell’indipendenza, avvenuta nel 1958, con un annuncio che segue di poche ore la partenza dal Paese del ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot, ricevuto ieri dal presidente Mahamat Idriss Deby. Una missione ufficialmente destinata – secondo Parigi – a rafforzare la richiesta regionale di un cessate il fuoco nel vicino Sudan, ma che in ogni caso non è servita a dissuadere i militari al potere in Ciad dal rompere i rapporti bilaterali di difesa. Lunedì scorso, inoltre, l’inviato speciale per l’Africa del presidente Emmanuel Macron, Jean-Marie Bockel, ha consegnato al capo dell’Eliseo il suo rapporto sulla presenza militare francese in Africa, con all’interno proposte dettagliate su come ridurre gli effettivi in Ciad, Gabon e Costa d’Avorio. In quest’ottica la decisione ciadiana non sembra essere un evento del tutto inatteso per Parigi. L’annuncio di N’Djamena, peraltro, segue quello con cui il governo ciadiano ha minacciato di ritirare il suo fondamentale sostegno dalla Forza multinazionale congiunta (Mmf), missione regionale cui contribuiscono dal 1994 anche Nigeria, Benin, Camerun e Niger allo scopo di fronteggiare il terrorismo jihadista. Dopo la Nigeria, con i suoi 3 mila uomini, il Ciad ne è il principale contributore. Il presidente Mahamat Deby Itno – al potere dall’aprile 2021, quando subentrò a suo padre Idriss Deby Itno, ucciso in battaglia rai ribelli – ha lamentato uno sforzo eccessivo da parte del suo esercito per la stabilità regionale, in un momento in cui lo stesso Ciad deve far fronte a continue offensive sul suo territorio: l’ultima, lo scorso 28 ottobre, ha visto cadere 40 militari ciadiani in un violento attacco contro la base militare di Barkaram, nella regione frontaliera del lago Ciad.

    Con la rottura annunciata da N’Djamena, cade dunque l’ultimo baluardo francese nel Sahel, e per Parigi all’orizzonte si prospettano altre difficoltà. Il presidente del Senegal, Bassirou Faye Diomaye, è infatti tornato a chiedere la chiusura nel Paese di tutte le basi francesi, nel nome della sovranità nazionale. “Il Senegal è un Paese indipendente, è un Paese sovrano e la sovranità non accetta la presenza di basi militari”, ha dichiarato in un’intervista a “France 2”. Faye ha precisato che non è nelle sue intenzioni tagliare le relazioni con Parigi come fatto da altri nella regione, e che l’argomento vale per tutti, nessuno escluso: “Oggi la Cina è il nostro più grande partner commerciale in termini di investimenti e scambi. La Cina ha una presenza militare in Senegal? No. Ciò significa che le nostre relazioni sono interrotte? No”, ha specificato. Poche ore prima dell’intervista Macron ammetteva in una lettera a Faye le responsabilità coloniali francesi in quello che ha definito il “massacro” di fucilieri senegalesi nel 1944 nel campo militare di Thiaroye (Dakar), quando i militari africani chiesero di essere pagati per il servizio prestato al fianco di Parigi durante la Seconda guerra mondiale. Il gesto di Macron è stato riconosciuto come “un passo coerente” dal capo di Stato senegalese, che tuttavia rimane fermo sulla posizione militare già espressa durante la campagna elettorale.

    Nel tentativo di mantenere una presa sul Sahel, da dove la Francia è stata negli ultimi quattro anni progressivamente estromessa (prima del Ciad, era stata la volta delle giunte golpiste di Mali, Burkina Faso e Niger), Macron tenta ora di rafforzare le relazioni con la Nigeria, il cui presidente Bola Tinubu è in visita ufficiale a Parigi proprio in questi giorni. Accolto personalmente dal presidente francese e ospitato prima al Consiglio d’affari franco-nigeriano poi alla riunione dell’influente Medef (la Confindustria locale), Tinubu è il primo capo dello Stato nigeriano a visitare la Francia da 20 anni a questa parte. Per Parigi, che per necessità si trova a dover guardare con maggior interesse all’area anglofona saheliana, la Nigeria può giocare un ruolo – se non militare, certamente economico – strategico. Principale partner commerciale di Parigi nell’Africa sub-sahariana davanti a Sudafrica, Costa d’Avorio e Angola, Abuja rappresenta oltre il 20 per cento del commercio francese nella regione, concentrato per l’export in settori come la farmaceutica, le attrezzature meccaniche, i veicoli e i prodotti chimici, per l’import sugli idrocarburi. Rafforzare le relazioni con la Nigeria, primo motore dell’Africa occidentale e seconda del continente, è per Parigi un’occasione vitale per non perdere del tutto presa su una regione che guarda ormai alla Francia in modo diffidente e spesso ostile.

  • Accordo tra società europee ed algerine per produrre idrogeno verde

    Sonatrach (Algeria), Sonelgaz (Algeria), Vng (Germania), Snam (Italia), SeaCorridor (partnership tra Eni e Snam) e Verbund Green Hydrogen (Austria) hanno firmato il 14 ottobre un memorandum d’intesa per condurre gli studi necessari e valutare la fattibilità e la redditività di un progetto integrato per la produzione di idrogeno verde in Algeria al fine di rifornire il mercato europeo attraverso il SoutH2 Corridor. Lo si apprende da un comunicato stampa di Sonatrach. La cerimonia di firma si è svolta presso il Centro congressi di Orano ed è stata presieduta dal ministro dell’Energia e delle Miniere algerino, Mohamed Arkab, alla presenza del presidente e amministratore delegato del Gruppo Sonatrach, Rachid Hachichi, del presidente e amministratore delegato di Sonelgaz, Mourad Adjal, del Chief International Officer di Snam, Sergio Molisani, del presidente e amministratore delegato di SeaCorridor, Francesco Caria, dell’amministratore delegato di Verbund Green Hydrogen, Franz Helm, e di Hans-Joachim Polk, membro del Consiglio di amministrazione di Vng.

    Il memorandum d’intesa consentirà alle parti di esaminare congiuntamente l’opportunità di realizzare un progetto integrato multi-stakeholder lungo la catena del valore dell’idrogeno verde utilizzando il SoutH2 Corridor, si legge nella stessa nota. Il corridoio “svolgerà un ruolo fondamentale nella riduzione della dipendenza energetica dalle energie fossili e nella promozione di una transizione energetica verso un’economia sostenibile e a basse emissioni di carbonio. La realizzazione di questo ambizioso progetto ha il potenziale per soddisfare il fabbisogno europeo di energia verde e permetterà di rafforzare la posizione dell’Algeria come importante fornitore di energia all’Europa”, conclude la nota.

  • L’applicazione della politica commerciale garantisce prosperità e crescita alle imprese dell’UE

    Secondo la relazione annuale sull’attuazione e l’applicazione della politica commerciale dell’UE appena pubblicata, nel 2023 il valore degli scambi commerciali dell’UE coperti dalla vasta rete europea di 42 accordi con 74 partner è stato superiore a 2,3 miliardi di €, con un aumento di oltre il 30% negli ultimi cinque anni.

    Le esportazioni dell’UE verso i partner commerciali preferenziali registrano un aumento più costante rispetto alle esportazioni complessive – gli accordi preferenziali con Corea del Sud e Canada, ad esempio, generano ciascuno una crescita media delle esportazioni del 7% all’anno – e hanno reso l’UE più resiliente di fronte alle sfide globali, fornendo fonti di approvvigionamento più sicure e diversificate per le importazioni e mercati per le esportazioni.

    Tra il 2018 e il 2022 la Commissione europea ha inoltre eliminato 140 ostacoli alle esportazioni dell’UE in oltre 40 paesi, il che ha sbloccato ulteriori 6,2 miliardi di € di esportazioni dell’UE nel solo 2023.

  • Benefici e conseguenze di un’alleanza

    L’uomo non può prendere due sentieri alla volta.

    Proverbio africano

    I rapporti di amicizia, di collaborazione e di reciproco sostegno tra la Russia e la Serbia risalgono al medioevo. La Russia offrì rifugio ai tanti serbi che sono stati costretti a lasciare il loro paese dopo l’invasione dell’Impero ottomano nel XV secolo. Da documenti storici risulta che la nonna materna del primo zar di Russia, Ivan IV, noto anche come Ivan il Terribile (1530 – 1584), era la principesssa Anna di Serbia. I rapporti di comune amicizia tra la Russia e la Serbia sono stati in seguito ufficializzati più di due secoli fa, nel 1816, con la decisione di stabilire delle relazioni diplomatiche tra l’Impero russo ed il Principato di Serbia. I legami tra le due nazioni hanno avuto come fondamenta anche la comune appartenenza alle popolazioni slave e alle Chiese ortodosse orientali. Nonostante la forma dell’organizzazione statale, nel corso degli anni i due Paesi hanno firmato anche molti trattati e protocolli bilaterali. Ma nel corso degli anni, e soprattutto subito dopo la seconda guerra mondiale, i rapporti tra l’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia sono stati tutt’altro che buoni. Tutto dovuto alle scelte del maresciallo Tito, capo del governo jugoslavo. Lui, a partire dal 1948, scelse di allontanarsi dall’Unione Sovietica e di costituire, nel 1956, il Movimento dei Paesi non Allineati, insieme con l’India e l’Egitto. Ma dopo la morte di Tito, i rapporti tra i due Paesi ritornarono ad essere buoni ed amichevoli come prima. Dopo la disgregazione dell’ex Jugoslavia all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, la Serbia dal 1992, essendo diventata ufficialmente la Repubblica di Serbia, ristabilì quei rapporti con la Russia. Rapporti che da allora ad oggi sono stati consolidati nell’ambito di una ritrovata alleanza tra i due Paesi. Con i dovuti benefici e le derivanti conseguenze. Soprattutto per la Serbia.

    Il 17 dicembre 2023 in Serbia si sono state le elezioni per rinnovare l’Assemblea nazionale, il Parlamento serbo. Elezioni che sono state vinte, con una maggioranza assoluta, dalla coalizione capeggiata dal Partito Progressista Serbo dell’attuale presidente della Repubblica. Subito dopo le opposizioni hanno contestato il risultato delle elezioni, scendendo in piazza a protestare, accusando di brogli e manipolazioni. Ci sono voluti circa cinque mesi prima che il nuovo governo si potesse insediare il 1o maggio scorso. Tra i membri del nuovo governo figurano anche due persone molto note per gli ottimi rapporti con la Russia. Si tratta dell’ex capo dell’Agenzia per le Informazioni sulla Sicurezza della Serbia, attualmente vice primo ministro, ed un proprietario di diverse aziende serbe con sede in Russia. Tutti e due però, dal 2023, sono delle persone sanzionate dal Dipartimento di Stato statunitense. Il vice primo ministro è stato accusato di coinvolgimento nel traffico di armi e di sostanze narcotiche, di abuso d’ufficio durante la sua attività pubblica, nonché per il suo contributo alla diffusione dell’influenza della Russia nella regione dei Balcani.

    Ebbene, proprio l’attuale vice primo ministro della Serbia, il 4 settembre scorso, è andato in Russia e ha avuto un incontro molto cordiale con il presidente russo. L’incontro è avvenuto nella città porto di Vladivostok, che si trova nell’estremo oriente russo, vicino al confine sia con la Cina che con la Corea del Nord. L’occasione era lo svolgimento del Forum economico orientale, organizzato dal 3 al 6 settembre scorso presso il Campus dell’Università federale di Vladivostok. Era la seconda visita ufficiale del vice primo ministro serbo in Russia dal maggio scorso, quando lui ha avuto quell’incarico istituzionale. “È un grande onore per me che ho il privilegio di parlare con lei. […] La prego di credermi quando le dico che è un grande incoraggiamento per tutti i serbi, ovunque essi siano”, ha detto il vice primo ministro serbo al presidente russo all’inizio del loro incontro, come confermano le fonti ufficiali di stampa.

    Sempre riferendosi alle fonti ufficiali di stampa, risulta che durante il loro incontro il vice primo ministro serbo abbia assicurato il presidente russo sull’amicizia che lega i due Paesi e sulla loro alleanza multidimensionale. Bisogna sottolineare però che il 29 aprile 2008 la Serbia ha firmato l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione europea. Un Accordo, quello, che è entrato in vigore il 1° settembre 2013. Il 1° marzo 2012 il Consiglio europeo ha deciso di dare alla Serbia lo status del Paese candidato all’adesione all’Unione. Mentre, durante la riunione del 28 giugno 2013, il Consiglio europeo ha approvato l’inizio dei negoziati d’adesione della Serbia all’Unione europea. Negoziati che sono stati avviati il 21 gennaio 2014. Ragion per cui la Serbia ha assunto ufficialmente, tra l’altro, anche l’obbligo di aderire alle sanzioni poste ad un determinato Paese da parte dell’Unione europea. Come nel caso della Russia dopo l’inizio, il 24 febbraio 2022, dell’aggressione contro l’Ucraina. Bisogna sottolineare che tutti i Paesi membri dell’Unione europea, compresi anche i Paesi che sono in fase di adesione all’Unione, hanno aderito a tutte le sanzioni poste alla Russia da parte dell’Unione europea. Tutti, tranne la Serbia.

    Durante il sopracitato incontro tra il vice primo ministro serbo e il presidente russo il 4 settembre  scorso a Vladivostok, l’ospite ha garantito, tra l’altro, all’anfitrione che “…la Serbia guidata da Aleksandar Vučić (presidente della Serbia; n.d.a.) è una Serbia la quale non diventerà mai un membro della NATO, non imporrà mai sanzioni alla Federazione Russa e non permetterà mai che il suo territorio venga usato per qualsiasi azione anti-russa”. Il vice primo ministro serbo ha confermato al presidente russo che lui, come il presidente serbo, è convinto che “…le sanzioni contro la Russia danneggerebbero gli interessi  nazionali della Serbia”. In più l’ospite serbo ha confermato al presidente russo che “…la Serbia non è solo un partner strategico della Russia. La Serbia è anche un alleato della Russia. E questa è la ragione per cui la pressione dell’Occidente contro di noi è [così] grande”.

    Subito dopo l’incontro tra il vice primo ministro serbo e il presidente russo, il 4 settembre scorso a Vladivostok in Russia, sono arrivate anche le reazioni ufficiali dall’Unione europea. Il portavoce del Servizio europeo d’azione esterna ha dichiarato: “Ci aspettiamo che la Serbia si astenga dall’intensificare i rapporti e i contatti con la Russia. […]. Tutti i membri del governo serbo rispettino gli impegni che la Serbia si è assunta volontariamente nel processo di adesione all’Ue, compreso l’allineamento con le decisioni e le azioni di politica estera dell’Unione. Mantenere relazioni forti o, addirittura, rafforzarle con la Russia durante la sua aggressione illegale contro il popolo ucraino non è compatibile con i valori dell’Unione europea e con il processo di adesione all’Unione”. Il portavoce ha aggiunto che le istituzioni dell’Unione notano con preoccupazione le azioni e le dichiarazioni del vice primo ministro serbo. In più lui ha definito “…abbastanza indicativo quanto spesso [il vice primo ministro serbo] sia a Mosca e quanto raramente sia invitato nell’Unione Europea”. Un fatto quello che “…va contro l’obiettivo dichiarato della Serbia di aderire all’Unione”.

    Chi scrive queste righe trova veramente incoerente e contraddittorio l’atteggiamento della Serbia. Un paese che, firmando l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione europea, ha assunto volontariamente anche tutti i derivanti obblighi. Obblighi però che consapevolmente ha ignorato quando si tratta dei rapporti con la Russia. Ma anche dei suoi interessi. Si tratta proprio di benefici e di conseguenze di un’alleanza. L’uomo non può prendere due sentieri alla volta. Così recita un proverbio africano. E neanche un Paese può farlo. Come cerca di fare la Serbia.

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