accordo

  • Almasri

    Penso, sperando di non sbagliare, che tutti vorremmo vivere in un mondo giusto dove il male, l’ingiustizia, sono sconfitti, un mondo abitato da persone che non fanno torto agli altri e rispettano i diritti umani.

    Purtroppo non è così, terroristi, criminali, dittatori, individui violenti in vari modi prevalgono sugli altri e minacce, fisiche ed economiche, condizionano la nostra vita, la vita dei singoli e la vita degli Stati.

    Vi sono situazioni, alcuni li chiamano giochi, che neppure immaginiamo e che spesso rendono, a noi comuni mortali, difficilmente comprensibili certe decisioni.

    In un viaggio in Cina, come co-Presidente del mio gruppo, un ministro, alle mie rimostranze per le troppe merci contraffatte e per il dumping praticato dal governo cinese, mi disse, con imperturbabile calma asiatica, che se non ci andava bene non era un problema per loro mandarci in Europa centomila e più cinesi.

    Voleva ovviamente farmi comprendere di non insistere più di tanto sul problema contraffazione salvo ritorsioni conseguenti.

    Tra gli Stati ci sono a volte situazioni che potremmo definire ricattatorie.

    Racconto questa esperienza per collegarmi al caso Almasri.

    Piace a molti creare una gran kermesse politico giornalistica su quanto è avvenuto con la liberazione di un personaggio che, più che essere sottoposto al giudizio della Corte internazionale, starebbe bene in un cimitero, ma non siamo nel far west e a regolare i conti dovrebbe essere una magistratura indipendente, capace e libera da condizionamenti.

    Sul caso Almasri vi sono molte domande senza risposta.

    Cosa ha impedito alla Corte internazionale di emettere un mandato di cattura mentre Almasri era in altri paesi europei, Regno Unito, Belgio, Germania?

    Come mai la richiesta d’arresto, nonostante Almasri fosse già stato monitorato, identificato e poi fermato in Germania, è avvenuta solo quando è arrivato in Italia?

    I servizi di intelligence italiani sono stati avvertiti in tempo utile per comunicare al Presidente del Consiglio, ed ai ministri competenti, quanto poteva accadere e poi è accaduto?

    I servizi addetti alla intelligence, dei vari Stati dell’Unione, è noto che dialogano molto poco e sembra evidente che i nostri servizi non dialogano abbastanza anche con i referenti politici e con le forze di polizia.

    Piaccia o non piaccia ad alcuni magistrati o all’opposizione, che se governasse obbedirebbe alle stesse necessità di stato dell’attuale governo, esistono  ragioni imposte dalla politica per Almasri come nel caso di Cecilia Sala ed altri.

    In Libia noi abbiamo interessi vitali per vari motivi, dal gas, senza il quale, dopo la guerra tra Russia ed Ucraina, avremmo gravi difficoltà per l’approvvigionamento energetico e per le conseguenze economiche, all’immigrazione, la Libia può invaderci di immigrati irregolari ed anche di terroristi o criminali, ricordiamo la minaccia cinese, all’obiettivo di continuare, in Italia, a non avere attacchi terroristici.

    A fronte di queste considerazioni, lasciamo perdere il volo di Stato perché solo chi è in mala fede può pensare di rimpatriare un soggetto come Almasri su un volo di linea, non si comprende perché l’iscrizione nel registro degli indagati, per Meloni e gli altri ministri, sia arrivata il giorno prima dell’audizione in Parlamento impedendo così che si svolgesse regolarmente.

    Almasri o non lo si cercava e non lo si arrestava, o si era costretti a rimpatriarlo, o a rischiare seriamente di subire le conseguenze della sua detenzione, in un film forse sarebbe spartito, ma noi siamo nella realtà.

    Moralmente è stata un operazione giusta? La moralità non c’entra, Almasri è un assassino, un violentatore, un aguzzino, mi auguro che Allah lo fulmini, che un vendicatore solitario faccia giustizia, e la realtà è che, purtroppo, la Corte penale, che non impedisce a Putin di andare dove gli pare, non ha gli strumenti per fare giustizia ed è o troppo lenta nelle sue richieste di arresto o è anche essa legata a tempistiche e giochi politici che ci lasciano perplessi.

  • Il ritiro delle forze francesi dal Senegal sarà completato entro l’estate del 2025

    La Francia prevede di ritirare i suoi militari dal Senegal e da altri Paesi dell’Africa occidentale e centrale entro l’estate del 2025. È quanto riferiscono fonti militari francesi citate dall’agenzia di stampa senegalese “Aps”, secondo cui sarebbero in corso delle trattative per organizzare il ritiro. “Entro l’estate del 2025 non ci saranno più basi militari francesi permanenti in Senegal”, ha affermato la fonte, aggiungendo che Parigi favorirà la cooperazione con le autorità senegalesi in base alle loro esigenze. “La presenza militare francese è oggi percepita come un affronto alla sovranità. Ne siamo consapevoli”, ha aggiunto. La decisione, se confermata, rientra in un cambiamento strategico volto a rispondere alle aspirazioni di sovranità di recente espresse da diversi Paesi africani. Già lo scorso 31 dicembre il presidente senegalese Bassirou Diomaye Faye aveva già annunciato la fine di ogni presenza militare straniera sul territorio senegalese a partire dal 2025, propugnando una nuova dottrina di cooperazione militare.

    In base all’attuale accordo di cooperazione militare tra Francia e Senegal, siglato nel 2012, le forze francesi hanno libero accesso a diverse infrastrutture strategiche, come il sito di Camp Ouakam e la base navale senegalese, nonché esenzioni fiscali per le attrezzature e i servizi necessari alle loro operazioni, oltre a beneficiare della libertà di movimento e dell’organizzazione di esercitazioni militari. In cambio, il Senegal beneficia di un sostegno rafforzato, in particolare attraverso l’accesso prioritario del suo personale militare alle scuole francesi, l’assistenza tecnica e il trasferimento di equipaggiamento militare. Sono agevolati anche gli scali marittimi e aerei senegalesi in Francia. In base a quanto prevede l’accordo, il contratto può essere risolto mediante comunicazione scritta con preavviso di sei mesi, con conseguente restituzione delle strutture senza indennizzo, salvo specifico accordo. L’eventuale ritiro delle forze francesi dal Senegal rientra in una più ampia riorganizzazione della presenza militare di Parigi nell’area del Sahel, iniziata nell’estate del 2023 con le partenze da Mali, Burkina Faso, Niger e, più recentemente, dal Ciad.

    Le autorità di N’Djamena hanno denunciato l’accordo di cooperazione militare con la Francia lo scorso 28 novembre e all’inizio di dicembre Parigi ha iniziato a rimpatriare la sua flotta aerea e a lasciare gradualmente le sue basi, in particolare quelle di Faya-Largeau e Abeché. La base Adji Kossey di N’Djamena, la più grande, sarà invece restituita entro il 31 gennaio 2025, termine ultimo fissato dal governo ciadiano. Il graduale ritiro militare francese avviene in un clima di forte tensione, reso incandescente dopo che il presidente Emmanuel Macron, nel suo discorso recente agli ambasciatori, ha accusato i Paesi africani di “irriconoscenza” nei confronti di Parigi. In risposta alle dichiarazioni di Macron, il primo ministro senegalese Ousmane Sonko ha contestato in particolare l’affermazione del capo dell’Eliseo secondo cui la partenza delle forze francesi è il risultato di precedenti negoziati con le autorità di Dakar, sostenendo al contrario che “la decisione del Senegal deriva dalla sua volontà, in quanto Paese libero e sovrano”. Anche il governo ciadiano ha esortato la Francia e i suoi partner a rispettare le aspirazioni all’autonomia dei popoli africani. “Invece di attaccare l’Africa, il presidente Macron dovrebbe concentrare i suoi sforzi sulla risoluzione dei problemi che preoccupano il popolo francese”, ha affermato un comunicato del governo di N’Djamena, definendo non più negoziabile il termine del 31 gennaio per il completo ritiro dei militari francesi.

  • Ok di Tunisia e Algeria: il corridoio del gas per rifornire Italia, Austria e Germania può partire

    Tunisia e Algeria si aggiungono al patto tra Italia, Austria e Germania per trasportare idrogeno tra le due sponde del Mediterraneo. Con la firma, il 21 gennaio a Roma, di una nuova dichiarazione comune di intenti tra i cinque paesi, il progetto del Corridoio Sud dell’Idrogeno inizia a fare qualche passo avanti concreto.

    L’intesa siglata a Villa Madama non aggiunge né modifica le linee fondamentali del progetto SouthH2 Corridor. Punta invece a rafforzare la cooperazione, soprattutto a livello tecnico, tra tutti iPpaesi interessati dai 3.300 chilometri di gasdotti adatti a trasportare anche idrogeno. Roma, Vienna e Berlino avevano già compiuto un passo del genere a fine maggio 2024. L’accordo prevedeva di trasformare il supporto politico in lavori tecnici e cooperazione tra gli stakeholder rilevanti dei 3 Paesi. La dichiarazione d’intenti firmata il 21 gennaio 2025 estende il perimetro dell’iniziativa a Tunisia e Algeria. Prevede per i 5 Paesi l’impegno di riunirsi semestralmente a livello di gruppo di lavoro tecnico per monitorare e sostenere l’attuazione del progetto.

    Finora, la tabella di marcia è rispettata. L’intesa allargata a Tunisia e Algeria era prevista nella prima metà del 2025. Entro fine 2025 dovrà avvenire lo sviluppo di un rapporto di definizione dell’ambito del SouthH2Corridor. E l’ok allo status di Progetti di reciproco interesse (PMI) nell’ambito del regolamento sulla rete transeuropea per l’energia (TEN-E) nel settimo elenco PCI/PMI europeo.

    Il Corridoio Sud dell’Idrogeno prevede la costruzione di nuove pipeline, o il riadattamento di condutture esistenti, per trasportare in Europa l’idrogeno prodotto in Nord Africa. Il SouthH2 Corridor rientra nella strategia europea per il vettore energetico, che prevede di importare dall’estero entro il 2030 almeno 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile.

    Da progetto, la pipeline di 3.300 km dovrebbe trasportare 4 milioni tonnellate di idrogeno l’anno, il 40% del target Ue. Idrogeno che dovrebbe essere generato in Algeria (manca però adeguata capacità rinnovabile affinché sia H2 verde) e trasportato via Tunisia fino a Mazara del Vallo, dove sarebbe immesso nella rete italiana per poi accedere ai mercati dell’Europa centrale attraverso Tarvisio. Con una possibile diramazione attraverso la Svizzera (Passo Gries), paese che ha il ruolo di osservatore nel progetto. Il segmento italiano sarà quello principale: lungo 2.300 chilometri, circa 70% dei quali da ottenere tramite riconversione delle condutture gas esistenti e 30% da costruire ex novo.

    A inizio dicembre 2024, il Corridoio Sud dell’Idrogeno è stato inserito nella lista dei progetti bandiera dell’Ue per il 2025 sotto l’iniziativa Global Gateway, che facilita finanziamenti e realizzazione dell’opera. In precedenza, era già stato inserito nella lista dei progetti di interesse europeo.

  • Accordo per la cooperazione nella difesa tra Turchia e Somalia

    Prosegue con un nuovo accordo, questa volta di cooperazione finanziaria in ambito di difesa, il rafforzamento delle relazioni di Somalia e Turchia. Lo ha riferito “Garowe online”, dando notizia dell’intesa firmata dal ministro della Difesa somalo Abdulkadir Nur e dalla controparte turca Yaşar Guler. In base al documento, la Turchia fornirà ora al Paese del Corno d’Africa assistenza finanziaria per progetti di sviluppo militare, venendo incontro alle esigenze di Mogadiscio di colmare le lacune in termini di nuove tecnologie e modernizzazione delle attrezzature. L’accordo prevede anche investimenti in infrastrutture critiche che sono essenziali per migliorare le prestazioni delle Forze armate nazionali somale. Il rafforzamento delle relazioni con la Turchia si inserisce per Mogadiscio nel delicato processo di ripristino delle competenze di sicurezza affidate negli anni alle missioni internazionali e all’evolversi di queste ultime nell’instabile contesto regionale. Il dispositivo militare messo in campo dalla Missione di transizione dell’Unione africana in Somalia (Atmis) è infatti in fase di ritiro e al suo posto subentrerà dal prossimo primo gennaio un’analoga missione denominata Aussom.

    Alle truppe di Gibuti, Kenya, Uganda e Burundi si aggiungeranno quelle egiziane, a discapito di quelle etiopi, invise a Mogadiscio per via del contenzioso in corso da mesi con Addis Abeba. La Somalia e la Turchia hanno firmato un patto di difesa a febbraio che ha dato ad Ankara l’autorità esplicita di sviluppare le capacità marittime di Mogadiscio “per combattere le attività illegali e irregolari nelle sue acque territoriali”. A luglio, il parlamento turco ha approvato l’impiego di navi militari sulla costa della Somalia, in vista di future attività di esplorazione petrolifera. La nave da ricerca turca Oruc Reis condurrà studi sismici nelle acque somale, raccogliendo dati per l’esplorazione di petrolio e gas naturale per circa sette mesi. La Turchia ha fatto enormi investimenti nella sicurezza e nello sviluppo della Somalia da quando il presidente Tayyip Erdogan ha fatto il suo primo viaggio nel Paese, nel 2011. Proprio nel Paese africano Ankara ha basato la sua più grande struttura di addestramento militare all’estero.

  • Nasce un asse Londra-Berlino per la difesa e la cooperazione militare

    In un momento di crescente incertezza geopolitica e di minacce sempre più pressanti sullo scenario internazionale, il Regno Unito e la Germania hanno siglato un accordo di difesa bilaterale destinato a rafforzare la sicurezza nazionale di entrambi i Paesi e, più in generale, dell’Europa. Il Trinity House Agreement – questo il nome dell’accordo – è stato firmato a Londra dal ministro della Difesa britannico John Healey e dal suo omologo tedesco Boris Pistorius. L’accordo rappresenta un passo significativo verso una maggiore cooperazione militare tra i due Paesi.

    Healey ha descritto la firma come un “momento cruciale nelle relazioni tra Regno Unito e Germania” e un “importante passo avanti per la sicurezza europea”. “Questo accordo assicura livelli senza precedenti di nuova cooperazione con le Forze Armate e l’industria tedesca, portando benefici alla nostra sicurezza e prosperità condivise, proteggendo i nostri valori comuni e rafforzando le nostre basi industriali della difesa”, ha dichiarato Healey durante la cerimonia di firma presso la storica Trinity House a Londra.

    L’accordo, il primo di tale portata tra i due Paesi, mira a incrementare la collaborazione in aria, terra, mare, spazio e cyberspazio, rafforzando non solo le rispettive capacità militari ma anche il pilastro europeo della Nato. Alla luce delle tensioni crescenti nell’Europa orientale e dell’aggressione russa in Ucraina, il patto si configura infatti come una risposta alle sfide comuni che Londra e Berlino, insieme ai loro alleati, stanno affrontando per garantire la sicurezza europea. “Non dobbiamo dare per scontata la sicurezza in Europa”, ha commentato il ministro della Difesa tedesco. “La Russia sta conducendo una guerra contro l’Ucraina, sta aumentando enormemente la sua produzione di armi e ha lanciato ripetutamente attacchi ibridi contro i nostri partner nell’Europa orientale”, ha spiegato Pistorius. Per questo motivo, Pistorius ha evidenziato l’importanza di continuare a lavorare a stretto contatto con il Regno Unito per colmare le lacune critiche di capacità, soprattutto nel campo delle armi a lunga gittata.

    Uno degli obiettivi principali del Trinity House Agreement è infatti il rafforzamento delle capacità di difesa e deterrenza, soprattutto in relazione al fianco orientale della Nato, dove la minaccia russa continua a destare preoccupazioni. In particolare, Regno Unito e Germania lavoreranno insieme allo sviluppo di nuove armi di precisione a lungo raggio, capaci di viaggiare più lontano e con maggiore accuratezza rispetto ai sistemi attuali, come il missile da crociera Storm Shadow attualmente in uso dall’esercito britannico. La cooperazione tra i due Paesi includerà anche progetti di ricerca congiunta su droni terrestri e marittimi, oltre che lo sviluppo di nuovi sistemi marittimi senza equipaggio, un’area strategica fondamentale per la protezione delle acque territoriali e delle infrastrutture critiche sottomarine. Una parte dell’accordo prevede, infatti, la protezione delle infrastrutture sottomarine nel Mare del Nord, come i cavi di telecomunicazioni ed energia, considerati vulnerabili in un contesto di guerra ibrida e attacchi cibernetici.

    L’accordo non si limita a un semplice potenziamento della difesa nazionale, ma prevede anche un forte impatto sull’economia del Regno Unito. Grazie a una collaborazione con la società della difesa tedesca Rheinmetall verrà costruita una nuova fabbrica di canne per sistemi d’artiglieria nel Regno Unito, creando oltre 400 posti di lavoro e contribuendo con quasi mezzo miliardo di sterline all’economia britannica nel prossimo decennio.

  • Cosa potrebbe accadere in seguito e delle scelte pragmatiche

    Sì, ne era convinto John Maxwell Coetzee, noto scrittore sudafricano e vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 2003. Per lui “il pragmatismo vince sempre sui principi”. Aggiungendo anche che “è così che vanno le cose, l’universo si muove, la terra cambia sotto i nostri piedi; i principi sono sempre un passo indietro”. Una sua convinzione basata sulla sua lunga esperienza di vita sia in Sudafrica che in altri Paesi ed espressa nel suo libro Summertime (Tempo d’estate, n.d.a.), pubblicato nel 2009. Il sostantivo ‘pragmatismo’ ha le sue origini nella lingua greca antica. In quella lingua prâgma significava un ‘fatto, una cosa concreta’. Nei dizionari e nelle enciclopedie con la parola pragmatismo si intende una scelta, un comportamento che punta a far prevalere e preferire i risultati concreti e pratici più che i principi e/o i valori morali.

    Venerdì 18 ottobre è stata resa nota la decisione della sezione per i diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma sui primi profughi arrivati in Albania con la nave “Libra” della marina militare italiana due giorni prima, il 16 ottobre. Un trasferimento fatto in base all’Accordo, noto come il “Protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, firmato a Roma il 6 novembre 2023 dalla Presidente del Consiglio dei ministri italiano e dal primo ministro albanese. Un Protocollo ratificato in seguito, nel febbraio scorso, sia dal Parlamento italiano che da quello albanese.

    I giudici del Tribunale di Roma non hanno convalidato il trattenimento dei dodici profughi nei due Cpr (centri di permanenza per il rimpatrio; n.d.a.). La decisione sanciva che “…il diniego della convalida dei trattenimenti nelle strutture ed aree albanesi, equiparate alle zone di frontiera o di transito italiane, è dovuto all’impossibilità di riconoscere come ‘Paesi sicuri’ gli Stati di provenienza delle persone trattenute, con la conseguenza dell’inapplicabilità della procedura di frontiera e, come previsto dal Protocollo, del trasferimento al di fuori del territorio albanese delle persone migranti, che hanno quindi diritto ad essere condotte in Italia”. Per i giudici della sezione per i diritti della persona e immigrazione del Tribunale di Roma…“I due Paesi da cui provengono i migranti, Bangladesh ed Egitto, non sono sicuri, anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia.”.

    Il 4 ottobre scorso la Corte di giustizia dell’Unione europea si è espressa in seguito ad una richiesta presentata dalla Repubblica Ceca, in base ad una domanda di protezione presentata da un cittadino moldavo. Una domanda rifiutata perché le autorità ceche avevano ritenuto la Moldavia come un Paese sicuro, ad eccezione di una sua parte, la Transnistria. Bisogna sottolineare che il diritto dell’Unione europea riconosce come sicuro tutto il territorio di un Paese terzo in questione, e non solo una sua parte. Ebbene, proprio in base a quella norma di diritto, il 4 ottobre scorso la Corte di giustizia dell’Unione europea ha deciso che “…i criteri che consentono di designare un Paese terzo come di origine sicura devono essere rispettati in tutto il suo territorio”. Bisogna tenere presente che le decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea condizionano anche le sentenze dei sistemi giudiziari di tutti i Paesi dell’Unione, Italia compresa.

    Ovviamente le reazioni in Italia dei massimi rappresentanti sia dell’opposizione che della maggioranza, per ovvi motivi diversi, sono state molto dure.

    Le reazioni sono state tante, forti e motivate anche in Albania, criticando l’Accordo e mettendo in evidenza il suo fallimento. Reazioni fatte però solo dai rappresentati dell’opposizione, da quei pochi media che il primo ministro non riesce a controllare, da noti analisti e dagli abitanti delle aree dove sono stati costruiti i due Cpr. Delle forti reazioni, come quelle fatte dopo la firma dell’Accordo il 6 novembre scorso. Reazioni che allora erano molto critiche soprattutto nei confronti del primo ministro, che aveva fatto tutto senza la ben che minima trasparenza, in piena violazione della Costituzione. Allora il primo ministro albanese, alcuni suoi ministri e tutti i media da lui controllati hanno difeso con entusiasmo l’Accordo. Le cattive lingue dicevano allora che lo facevano per avere il supporto della presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia, nonché degli alti rappresentanti italiani nel Consiglio europeo e nelle altre istituzioni dell’Unione. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito di tutto ciò (Un autocrate irresponsabile e altri che seguono i propri interessi, 14 novembre 2023; Un autocrate irresponsabile ed altri che ne approfittano, 21 novembre 2023; Mai accordarsi con individui inaffidabili, 27 maggio 2024; ecc…). Ma in seguito “l’entusiasmo” del primo ministro albanese sull’Accordo” cominciò a svanire. Lui cominciò a “liberarsi” dalle sue responsabilità già da alcuni mesi fa. Durante un’intervista rilasciata ad un giornalista de La Repubblica nel maggio scorso lui, riferendosi proprio all’Accordo, ha dichiarato che “Ci saranno ricorsi, verrà bloccato dalla burocrazia italiana e dalle regole Ue”. Invece adesso, dopo la sopracitata decisione del Tribunale di Roma il primo ministro non ha detto una sola parola. Si nasconde come fa sempre quando si trova in difficoltà. Chissà perché?!

    Nel frattempo il primo ministro albanese continua vigliaccamente a tacere. Fa male perciò la sua “cara amica Giorgia” a fidarsi di lui. Lei che con l’Accordo del 6 novembre 2023 sui migranti con l’Albania, tra il pragmatismo ed i principi ha scelto il primo. “Il pragmatismo vince sempre sui principi; è così che vanno le cose”, scriveva John Maxwell Coetzee nel suo libro “Tempo d’estate”. Chissà se funzionerà anche questa volta? Di una cosa però la presidente italiana deve essere attenta, dell’infedeltà del suo “caro amico”, il primo ministro albanese.

  • India and China agree to de-escalate border tensions

    India and China have agreed on patrolling arrangements to de-escalate tensions along a disputed Himalayan border which has seen deadly hand-to-hand clashes in recent years, India’s top diplomat has said.

    Vikram Misri said on Monday the two sides have agreed on “disengagement and resolution of issues in these [border] areas that had arisen in 2020”.

    He was referring to the Galwan Valley clashes – the first fatal confrontation between the two sides since 1975, in which both sides suffered casualties.

    Relations between the neighbours have been strained since then.

    “An agreement has been arrived at on patrolling arrangements along the Line of Actual Control (LAC) in the India-China border areas, leading to disengagement and a resolution of the issues that had arisen in these areas in 2020,” Mr Misri said.

    Mr Misri, however, did not give any details about the disengagement process and whether it would cover all points of conflict along the disputed border.

    The Indian foreign secretary’s statement comes just a day before Indian Prime Minister Narendra Modi travels to Russia for a meeting of Brics nations which includes Brazil, Russia, India, China and South Africa.

    Mr Misri didn’t confirm if a bilateral meeting between Mr Modi and Chinese President Xi Jinping was on the agenda.

    His remarks on Monday mark a major development between the two nuclear-armed nations since the Galwan clashes.

    Troops in the Galwan Valley fought with clubs and sticks because of 1996 agreement between the two countries that prohibited the use of guns and explosives near the border.

    Several rounds of talks between their diplomats and military leaders in the last four years had not resulted in a major breakthrough.

    Troops from the two sides clashed in the northern Sikkim area in 2021 and again in the Tawang sector of the border in 2022.

    Border tensions have cast a long shadow on India-China relations for decades. The two countries fought a war in 1962 in which India suffered a heavy defeat.

    Business relations between the two Asian giants have also suffered due to the tensions.

    The root cause is an ill-defined, 3,440km (2,100-mile)-long disputed border. Rivers, lakes and snowcaps along the frontier mean the line often shifts, bringing soldiers face to face at many points, sparking a confrontation.

    The two nations have been also competing to build infrastructure along the border, which has sparked further tensions.

  • Accordo tra Italia e Islanda sull’energia geotermica

    Italia e Islanda firmano accordo di cooperazione sull’energia geotermica a margine dell’Assemblea annuale dell’Arctic Circle. Il ministro dell’Ambiente, Energia e Clima islandese, Guðlaugur Þór Þórðarson e l’ambasciatore d’Italia in Norvegia e Islanda, Stefano Nicoletti – delegato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin –, hanno firmato a Reykjavik un memorandum d’Intesa sulla Cooperazione nel Settore dell’Energia Geotermica tra Italia e Islanda. La cerimonia di firma ha avuto luogo presso la sede del ministero dell’Ambiente islandese, a margine dell’Assemblea annuale dell’Arctic Circle, il principale forum di dialogo e cooperazione internazionale sul futuro dell’Artico. Frutto di un lungo negoziato tra i ministeri dell’Ambiente ed Energia dei due Paesi, il MoU mira a stabilire e intensificare la cooperazione tra enti italiani e islandesi attivi nel settore dell’energia geotermica, tra cui istituzioni pubbliche, il settore privato e gli enti di ricerca e sviluppo nel campo dell’energia. Le aree di cooperazione includono, tra gli altri, l’esplorazione e l’utilizzo delle risorse geotermiche per la produzione di elettricità e il trasferimento di calore, il teleriscaldamento e le attività relative allo sviluppo e gestione di centrali geotermiche.

    Secondo l’ambasciatore Nicoletti, “l’Intesa predispone la cornice giuridica affinché Italia e Islanda, i due principali player europei del settore geotermico, possano avviare una collaborazione strutturata che faccia leva sulla lunga tradizione e le altissime competenze maturate dai due Paesi in questo ambito. L’Islanda, da questo punto di vista, rappresenta il partner ideale per un Paese all’avanguardia nel geotermico come l’Italia. Ciò in virtù delle immense risorse che si celano nel sottosuolo islandese, che contribuiscono per il 60 per cento alla produzione destinata al consumo interno di energia primaria e per il 30 per cento alla generazione elettrica a livello nazionale, e alla partecipazione a diverse iniziative di ricerca a livello europeo ed extra europeo. L’elevato know-how islandese, unito alle avanzate competenze industriali e scientifiche italiane sia in ambito geologico che per quanto attiene la conversione dell’energia, possono fornire un importante contributo agli sforzi legati alla transizione energetica tramite la geotermia”. Il capo di Gabinetto del Mur, Marcella Panucci, presente a Reykjavik per partecipare alla Arctic Circle Assembly 2024, ha sottolineato l’importanza di dare seguito a quanto concordato coinvolgendo il nostro settore privato, valorizzando la eccellente collaborazione con il ministro Pichetto Fratin, confermata anche questo frangente.

  • Una pericolosa sudditanza

    Finché possiamo dire ‘quest’è il peggio’, vuol dir che il peggio ancora può venire.

    William Shakespeare; da “Re Lear”

    “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati…”. Sono dei versi di uno scrittore turco. Versi che sono stati pronunciati nel 1998 anche dall’allora sindaco di Istanbul (1994 – 1998), attualmente presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan. E proprio per aver recitato questi versi in pubblico, lui è stato condannato, nel novembre 1998, con la pena di dieci mesi ed il divieto di ricoprire cariche pubbliche a vita. Per i giudici il suo discorso pubblico è stato “un’attacco allo Stato ed incitamento all’odio religioso”. Una condanna della quale scontò soltanto quattro mesi di prigione. In più è stata annullata, dopo circa tre anni ed in seguito ad un emendamento costituzionale, anche quella parte della condanna che riguardava il divieto di ricoprire delle cariche pubbliche a vita.

    Nel 2001 Erdogan è stato uno dei fondatori del partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP; n.d.a.). Un partito che nel 2002 vinse con il 34,3% dei consensi, diventando il primo partito del Paese. Erdogan nel 2003 divenne il 59° primo ministro della Turchia. Incarico che ha mantenuto fino al 2014. Mentre il 28 agosto del 2014, è stato eletto 12o presidente della Turchia. Dopo quella sua elezione, Erdogan si è dimesso dalla guida del partito. In seguito al fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016, lui ha deciso di rafforzare i propri poteri. Perciò, come presidente della Repubblica, ha decretato lo svolgimento del referendum costituzionale il 16 aprile 2017. Referendum che gli ha permesso, tra l’altro, di diventare di nuovo anche il dirigente del partito AKP. Bisogna sottolineare che Erdogan non ha mai nascosto anche la sua propensione per la religione islamica. E durante la sua lunga carriera politica ha contribuito attivamente ad un continuo e progressivo aumento del ruolo della religione islamica nella vita del Paese. E così facendo, Erdogan ha rinnovato il rapporto tra lo Stato e la religione islamica in Turchia. Invece, con un apposito emendamento della Costituzione del 1924, nel 1928 la Turchia si proclamava Stato laico. Un emendamento che non riconosceva più l’Islam come la religione dello Stato turco.

    La Turchia, negli ultimi decenni, oltre ad aver attuato una crescita economica, ha avuto anche un ruolo non trascurabile negli sviluppi geopolitici regionali. Il che ha permesso ad Erdogan, sia come primo ministro che in seguito come presidente, di mettere attivamente in pratica quella che ormai viene riconosciuta come la “Dottrina Davutoğlu”. Una dottrina presentata in un libro di un professore di relazioni internazionali all’università di Istanbul. Il libro, intitolato Profondità Strategica. La Posizione Internazionale della Turchia, è stato pubblicato nel 2001. L’autore, Ahmet Davutoğlu, trattava nel suo libro quello che il presidente turco ai primi anni ’90 del secolo passato, Turgut Özal, considerava un obiettivo strategico della Turchia. Secondo il presidente “Il 21o secolo sarà il secolo dei turchi”. Il che poteva garantire una “… giusta posizione della Turchia nel mondo”. L’autore del sopracitato libro era convinto che “…era venuto il tempo di attuare un nuovo approccio proattivo e multidimensionale nella politica estera, cominciando con tutta l’area d’influenza dell’ex Impero ottomano”. Per lui erano “… molto importanti anche l’eredità storica e i legami etnico-religiosi e culturali stabiliti, intessuti e consolidati durante secoli dall’Impero Ottomano”. In seguito Ahmet Davutoğlu, per i suoi contributi, è stato consigliere di Erdogan, poi ministro degli Esteri (2009-2014) e anche primo ministro (2014-2016).

    L’Albania è stata parte integrante dell’Impero ottomano dal 1385 fino al 1912. Perciò, come tale, rappresenta uno dei Paesi ai quali si riferisce la “Dottrina Davutoğlu”. E i rapporti tra la Turchia e l’Albania durante questi ultimi anni lo confermano. Ma oltre ai rapporti istituzionali tra i due Paesi, soprattutto dal 2013 ad oggi, bisogna evidenziare anche i rapporti di “amicizia” tra il presidente turco ed il primo ministro albanese. Rapporti che, fatti accaduti e pubblicamente noti alla mano, dimostrano e testimoniano che più che rapporti tra due massimi rappresentanti istituzionali, sono rapporti personali, basati su degli “interessi” spesso non trasparenti. Rapporti che presentano il primo ministro albanese come un “ubbidiente sostenitore” delle volontà del presidente turco. L’autore di queste righe ha informato il nostro lettore a tempo debito, sia di questi rapporti che del contenuto della “Dottrina Davutoğlu” (Erdogan come espressione di totalitarismo, 28 marzo 2017; Relazioni occulte e accordi peccaminosi, 11 gennaio 2021; Diabolici demagoghi, disposti a tutto per il potere, 18 gennaio 2021; Amicizie occulte e sudditanze pericolose, 24 gennaio 2022; Autocrati che usano gli stessi metodi non a caso si somigliano, 24 ottobre 2022; Come si può credere ad un ciarlatano?, 29 agosto 2023 ecc…).

    Nell’ambito di questi rapporti è stata anche la visita del presidente turco giovedì scorso, 10 ottobre, nella capitale albanese. Una visita che formalmente era dovuta all’inaugurazione della più grande moschea nei Balcani, costruita con dei finanziamenti turchi. Un’inaugurazione che, nonostante la costruzione della moschea fosse terminata da alcuni anni, è stata rimandata proprio per volontà del presidente turco. Sì, perché lui condizionava l’inaugurazione della moschea con la condanna dei sostenitori di Fethullah Gülen, un suo amico che poi è diventato un odiato nemico. Compresi anche alcuni dirigenti della Comunità musulmana albanese. Comunità che doveva prendere possesso della sopracitata moschea. Anche di questi fatti il nostro lettore è stato informato.

    Quello che è pubblicamente accaduto giovedì scorso ha testimoniato che il primo ministro albanese ha pienamente soddisfatto le richieste del presidente turco. La cerimonia dell’inaugurazione della moschea, vista la presenza del presidente turco, non è stata organizzata però dal protocollo dello Stato albanese, bensì da quello turco. I veri organizzatori della cerimonia non hanno invitato il dirigente della Comunità musulmana albanese e anche la maggior parte degli altri rappresentanti istituzionali della stessa Comunità. Senz’altro un’espressa condizione del presidente turco. Non solo, ma anche la cerimonia religiosa è stata presieduta da un imam turco, il quale è stato nominato dalle autorità del suo Paese come l’imam della nuova moschea. Da fonti ben informate risulterebbe che dentro la moschea erano non pochi i partecipanti non albanesi, ma che conoscevano molto bene la lingua turca. Lingua con la quale sono stati svolti tutti i riti religiosi durante la cerimonia, e non più quella araba, come di consueto. Tutto quanto è accaduto giovedì scorso, 10 ottobre, durante la cerimonia d’inaugurazione della nuova moschea a Tirana, ha riconfermato che la “Dottrina Davutoğlu” sta funzionando in Albania ed il primo ministro albanese ubbidisce ed acconsente. Quanto è accaduto giovedì scorso testimonia anche una sua pericolosa sudditanza, la quale potrebbe avere delle conseguenze non auspicabili e non solo per la stessa comunità musulmana albanese. Bisogna sottolineare che durante la sua visita il presidente turco ha annunciato anche un accordo per fornire dei droni kamikaze da combattimento “TB2 Bayraktar” all’esercito albanese. Droni che, guarda caso, si producono nelle fabbriche del genero di Erdogan. Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe considera come una vile e pericolosa sudditanza quella del primo ministro albanese nei confronti del presidente turco. Un autocrate con i cittadini albanesi, ma che ubbidisce vergognosamente però a colui che è ormai noto come il nuovo “sultano turco”. E con quell’autocrate, che ubbidisce al “sultano”, ma anche alla criminalità organizzata e ai clan occulti, il peggio non è finito per gli albanesi e non solo. Perché, come scriveva William Shakespeare, finché possiamo dire ‘quest’è il peggio’, vuol dir che il peggio ancora può venire.

  • Il re è nudo

    L’articolato studio che Mario Draghi ha presentato alla Commissione e a tutta l’Europa, frutto di studi ed analisi approfonditi senza linguaggi politically correct, dimostra ancora una volta che non c’è più tempo da perdere per correggere le storture ed inadempienze di questi anni.

    Draghi, sintetizzando, parla chiaro della necessità della Difesa comune, intesa a largo raggio, e cioè difesa non solo militare ma di intelligence, tecnologia, valori, economia, cultura, e chiede meno burocrazia e più attenzione ai grandi temi ed alle necessità comuni rinunciando, a favore della sussidiarietà, a quell’Europa elefante burocratico, e talvolta superficiale, che imponeva scelte e decisioni che gli Stati membri avrebbero potuto e voluto risolvere autonomamente.

    Un’Europa, capace di affrontare i temi del terzo millennio, dall’immigrazione alle terre rare, dalla ricerca tecnologica al rispetto dell’industria ma anche delle piccole imprese, dalla dimensione umana alla visione del futuro, deve essere decisa ad affrontare uno sforzo economico e politico come fino ad ora non ha saputo o voluto fare, anche per colpa del voto a maggioranza.

    L’abbiamo scritto e riscritto, non certo per primi ma altrettanto certamente non tra gli ultimi, visto gli anni che sono passati dalla prima volta, che l’Europa, e Draghi al proposito è stato molto chiaro, deve, senza paure, procedere su strade simili a quelle già applicate per l’euro. Draghi parla di trattati intergovernativi, di cooperazioni rafforzate, di un più esteso voto a maggioranza qualificata, noi ricordiamo che per arrivare alla moneta unica si decise, e fu accettato, che alcuni paesi potessero rimandare l’ingresso fino al momento nel quale si sarebbero sentiti pronti perciò non è il caso di spaventarsi di fronte all’ipotesi di un gruppo di paesi che per primi diano vita a quella Unione politica, di difesa comune, di comune politica economica, agricola  ed industriale, che non possono attendere ulteriormente, gli altri seguiranno via via.

    Un’Europa concentrica che sia aperta ad ogni collaborazione ma consapevole che a rischio non è più soltanto il nostro benessere ma la stessa libertà e democrazia.

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