Banca

  • Banca d’Italia al fianco della Banca mondiale nei progetti per l’Africa

    La Banca d’Italia è pronta a collaborare con la Banca mondiale, e intende farlo mettendo a disposizione la propria esperienza e le proprie competenze per promuovere lo sviluppo nei paesi emergenti, in particolare in Africa. Lo ha sottolineato con convinzione il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, in occasione dell’incontro “Italy and the World Bank Group: Partnering for Africa’s prosperity”, organizzato dalla Banca d’Italia in cooperazione con la Banca mondiale e il ministero dell’Economia e della Finanze, a Roma.

    Nel suo intervento di apertura, il governatore Panetta si è soffermato sullo sviluppo del Piano Mattei, un progetto che – ha detto – “riafferma l’impegno del nostro paese nel conseguire gli obiettivi di lotta alla povertà, riduzione delle disuguaglianze e promozione della crescita sostenibile, affrontando nel contempo le urgenti sfide che interessano il mondo intero: cambiamenti climatici, pandemie e migrazioni”. Per Panetta, il Piano Mattei rappresenta “un segno tangibile” dell’intenzione dell’Italia di realizzare progetti di vasta portata in partenariato con i Paesi africani, ed in quest’ottica è importante riaffermare il nostro impegno in favore dei principi fondamentali della cooperazione internazionale e del multilateralismo “che discendono dall’esperienza di Bretton Woods – accordi dai quali nacquero il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale – e sono cruciali per assicurare la pace in un mondo lacerato e diviso”.

    Il governatore ha ricordato che ricorrono quest’anno gli ottant’anni dalla conferenza di Bretton Woods, un anniversario in occasione del quale Panetta ritiene “essenziale che la comunità internazionale rafforzi il proprio impegno congiunto, superando le divergenze e trovando soluzioni condivise alle sfide che ci riguardano tutti”. I problemi dell’Africa “riguardano tutti noi, se vogliamo costruire un’economia internazionale più equilibrata, stabile e prospera”, ha ribadito il governatore, che ha esortato ad un “dialogo costruttivo” e a “una piena cooperazione”, strumenti che possono “contribuire a disegnare un futuro di pace e prosperità per l’Africa e per l’intera comunità internazionale”.

    Per Panetta, infatti, lo sviluppo dell’Africa è “fondamentale non solo per consentire alla Banca mondiale di conseguire gli obiettivi di sradicare la povertà e diffondere il benessere, ma anche per assicurare un’economia stabile in tutto il mondo”. E’ necessario, ha proseguito, al fine di “garantire un futuro alle centinaia di milioni di giovani che ogni anno entrano a far parte della forza lavoro africana”, permettendo al contempo di “attenuare l’inevitabile pressione migratoria che si profila per i prossimi anni”. Una sfida strettamente connessa al futuro dell’Italia, insomma, che – ricorda Panetta – si trova al crocevia del Mediterraneo, “una posizione unica che le consente di svolgere un ruolo importante nello sviluppo del continente africano”. Il dirigente ha quindi evidenziato come la globalizzazione, in passato considerata un processo inarrestabile, è ora messa a rischio dai conflitti geopolitici che minacciano gli scambi internazionali e la stabilità dell’economia mondiale.

    Sulla necessaria relazione con l’Africa si è soffermato anche il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, che ha definito il continente africano “una priorità geografica assoluta per l’Italia”. Il Piano Mattei – ha proseguito – “introduce un nuovo modello di partnership con i Paesi africani fondata su cooperazione, interessi condivisi e benefici reciproci”, coinvolgendo al momento nove Paesi pilota (Algeria, Repubblica del Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Mozambico e Tunisia) e sei “pilastri strategici, identificati come aree vitali di cooperazione: energia, infrastrutture digitali e fisiche, agricoltura, acqua, salute, educazione e formazione”, ha aggiunto. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che è stata assente al convegno ma ha inviato un messaggio al governatore Panetta, ha sottolineato che in questa fase è necessario “individuare insieme ai governi e ai popoli africani i progetti su cui collaborare e stabilire insieme le priorità da condividere”. Si tratta, ha aggiunto, di un obiettivo che l’Italia intende perseguire anche attraverso il potenziamento delle attività di raccordo tra il Piano Mattei e le iniziative strategiche a livello europeo e internazionale che hanno un focus sull’Africa. “Ciò al fine di massimizzare gli sforzi e gli investimenti nel Continente africano, e ottenere così maggiori benefici”, ha spiegato.

    Gli interventi di apertura sono stati seguiti da un panel dedicato ai cambiamenti necessari al sistema bancario africano. Alla tavola rotonda, intitolata “Un’Africa in digitalizzazione: il futuro dei sistemi di pagamento” e moderata da Piero Cipollone, componente del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, sono intervenuti Benedict Oramah, presidente e amministratore delegato della Afreximbank Export Import Bank; Denny Kalyalya, governatore della Banca centrale dello Zambia; Tara Rice, capo del segretariato del Committee on Payments and Market Infrastructures (Cpmi), e Pablo Saavedra, vicepresidente dell’Area prosperità della Banca mondiale. Al centro delle riflessioni, il necessario sviluppo digitale dei sistemi bancari, la richiesta di trasparenza ed interoperabilità nel settore, le difficoltà connesse all’incertezza economica vissuta da diversi Paesi del continente. Il governatore della Banca centrale dello Zambia, in particolare, ha messo al centro la necessità di promuovere un dialogo di settore sulle riforme e l’interoperabilità dei sistemi bancari africani, con uno scambio di informazioni possibile tramite una maggior digitalizzazione. “Spesso si tende a proteggere i propri dati ma è questa la via verso cui andare, di trasparenza e confronto”, ha detto Kalyalya. Da parte sua, Saavendra (Banca mondiale) ha sollevato il tema della gestione delle rimesse della diaspora africana, che rappresentano un volume importante di transazioni ed attualmente un costo dispendioso per gli istituti.

  • I proventi della droga viaggiano attraverso le banche fantasma cinesi

    La direzione distrettuale antimafia di Roma ha scoperto una banca fantasma cinese, che smistava in tutto il mondo i profitti del traffico di stupefacenti. In tutto gli indagati sono quaranta tra cittadini italiani e cinesi, per 19 sono scattate le misure cautelari, i reati contestati sono, a vario titolo, l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, il riciclaggio, l’estorsione, l’autoriciclaggio e la detenzione abusiva di armi.

    Si tratta peraltro dell’ultimo di una serie di episodi analoghi su cui sono in corso indagini da tempo.

    Nella prima relazione semestrale del 2020 della direzione antimafia, partendo dal crollo delle rimesse inviate dagli immigrati cinesi in Italia monitorato dalla Banca d’Italia. Nel 2017 la quota ammontava a 136 milioni di euro, nel 2019 a 11 milioni, nel 2022 la situazione non è migliorata molto: l’ammontare delle somme dirette a Pechino è risalito di poco, raggiungendo i 23 milioni di euro.

    Denominato flying money, soldi volanti, dal cinese feichien, il sistema informale di trasferimento di valore  è nato in Cina ai tempi dei Tang, la dinastia che ha regnato dal 618 al 907 dopo Cristo, ha portato l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia (Uif) a segnalare 62 operazioni sospette facenti capo a una rete di 1600 soggetti.

  • Tribunale russo mette sotto sequestro 239 milioni di euro investiti da Deutsche Bank

    Il tribunale arbitrale di San Pietroburgo e della regione di Leningrado, su richiesta della società RusChemAlliance, gestore del progetto per la costruzione di un complesso di trattamento e liquefazione del gas a Ust-Luga, ha sequestrato proprietà, conti e titoli di Deutsche Bank per un importo di 238,61 milioni di euro o l’importo equivalente in rubli. Lo si legge nel fascicolo dei casi arbitrali secondo quanto riporta il sito web dell’agenzia “Tass”. In precedenza, RusChemAlliance aveva intentato una causa contro Deutsche Bank per 22,2 miliardi di rubli (238,1 milioni di euro di pagamenti in garanzia e 479,51 mila euro di sanzioni) come parte delle richieste di garanzia bancaria e ha chiesto il pignoramento delle filiali al 100% di Deutsche Bank in Russia.

    Il sequestro per un importo di 238,61 milioni di euro o l’equivalente in rubli è stato imposto su titoli e beni di proprietà di Deutsche Bank e della controllata russa Deutsche Bank LLC, oltre che di Deutsche Bank Technology Center LLC. Il tribunale ha inoltre vietato a Deutsche Bank di cedere il 100 per cento delle azioni del capitale autorizzato di Deutsche Bank LLC e Deutsche Bank Technology Center LLC. Allo stesso tempo, il tribunale arbitrale ha rigettato la richiesta di RusChemAlliance di sequestrare il 100 per cento delle azioni di Deutsche Bank in Deutsche Bank LLC e Deutsche Bank Technology Center LLC. La Corte ha inoltre ritenuto che, “quando si adottano misure provvisorie sotto forma di sequestro”, è necessario indicare che esse non si applicano ai fondi dei clienti situati in tali conti.

    Nella giornata di ieri, lo stesso tribunale, sempre su richiesta della medesima società, ha disposto il sequestro di proprietà, conti e titoli di Unicredit Bank Jsc e di Unicredit Bank Ag, le controllate rispettivamente russa e tedesca di Unicredit. Il caso è legato all’emissione di un “performance bond” da parte di Unicredit e di altre banche su un contratto stipulato tra RusChemAlliance e il consorzio Linde per la costruzione di un impianto di trattamento del gas. Il consorzio Linde si è tirato indietro dall’impegno a causa del regime sanzionatorio Ue e la società russa ha preteso il pagamento delle garanzie da parte delle banche. Queste si sono rifiutate di effettuare il pagamento e la contesa viene affrontata adesso in tribunale, dove è stato disposto un sequestro conservativo di asset Unicredit per un valore di 463 milioni di euro.

    Fonti della Farnesina riferiscono che il ministero degli Affari esteri sta seguendo il caso dell’azione giudiziaria intrapresa nei confronti di Unicredit. Anche questa disputa verrà affrontata nella riunione immediatamente convocata lunedì prossimo del “Tavolo Russia”, attivato dal ministro Antonio Tajani alla Farnesina con le aziende e le istituzioni impegnate nel mercato russo.

  • Dove c’è Banca di Piacenza non c’è desertificazione

    Sono diverse le indagini che indicano come il processo di desertificazione bancaria stia assumendo proporzioni sempre più preoccupanti. A farne le spese è, soprattutto, chi vive e lavora nei comuni più piccoli (anche se il fenomeno coinvolge ormai anche le grandi città). Un’analisi della Fondazione Fiba di First Cisl segnala che il 41% dei comuni italiani è rimasto privo di una presenza bancaria con – nel 2023 – 826 sportelli chiusi rispetto ai 677 dell’anno precedente. I comuni privi di dipendenze sono ora 3.300, con oltre 4 milioni di cittadini rimasti senza sportello. E le previsioni per il 2024 fanno temere una ulteriore accelerazione con altre chiusure, visti i piani d’impresa di molti istituti di credito.

    Il forte sviluppo degli strumenti digitali potrebbe far pensare che gli sportelli bancari siano sempre meno necessari. Ma non è così.

    E’ noto che il fenomeno della desertificazione bancaria costituisce un fattore di marginalizzazione e un impulso indiretto allo spopolamento. Non solo. Una ricerca presentata dal sindacato Uilca è arrivata alla conclusione che la presenza di una filiale in un comune non è importante solo per facilitare il prelievo del contante, ma incide anche sulla propensione agli investimenti.

    In questo scenario meglio si comprende, allora, l’importanza delle banche di territorio. Piacenza, per esempio, rappresenta un’oasi che resiste al “deserto”. Per quale ragione? Come ha più volte sottolineato Cristiana Muscardini dalle colonne di questo settimanale (e la ringraziamo delle citazioni), nella provincia emiliana ormai da 88 anni opera una banca (l’unica veramente locale rimasta) che gli sportelli non li chiude ma li apre.

    La banca di territorio è come la salute – amava ricordare il nostro compianto presidente Sforza Fogliani -, la si apprezza quando non c’è più. La presenza fisica delle banche nei territori facilita l’attività di supporto a famiglie e imprese e ben sappiamo che una delle caratteristiche più apprezzate dai nostri clienti, è quella di non essere considerati dei numeri ma delle persone con le quali ci si conosce e ci si guarda negli occhi. La Banca di Piacenza dimostra di essere vicina a imprese e famiglie con gesti concreti. Per riaffermare il legame con il territorio ha inaugurato nuove filiali in immobili di cui ha acquisito la proprietà, a significare che in un luogo ci va per restarci. E le piccole cerimonie che ogni anno facciamo per ricordare gli anniversari delle aperture delle filiali nei vari comuni (vuoi 50 ma anche 80 anni), sono l’esempio più tangibile del nostro legame con il territorio.

    Le altre chiudono e noi apriamo, dicevamo. Lo abbiamo fatto recentemente a Voghera, Modena, Pavia e Reggio Emilia. Qualcuno potrebbe pensare che queste scelte allentino il nostro legame con Piacenza. Non è così. E’ esattamente il contrario. Abbiamo necessità di migliorare la qualità dei nostri impieghi, e queste nuove piazze ci consentono di raggiungere lo scopo aumentando i profitti a beneficio dei territori di riferimento.

    Il nostro modo di fare banca – con la presenza fisica nei territori – ha positivi riflessi di immagine e reputazione e dà anche buoni ritorni, consentendo all’Istituto di credito di ottenere ottimi risultati. Il Bilancio 2023 approvato di recente dal Consiglio di amministrazione ha chiuso con un utile che ha sfiorato i 30 milioni di euro (29,9), contro i 20,6 dell’anno precedente.

  • Il governo accelera sulla privatizzazione di Mps

    Il governo accelera sulla vendita della quota del 64% detenuta dal Mef in Banca Monte dei Paschi di Siena. Dal Forum Ambrosetti di Cernobbio, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani e quello delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso auspicano una uscita dal capitale della banca dello Stato. “L’esecutivo potrebbe accelerare rispetto ai tempi previsti”, ha osservato il vice presidente del Consiglio, Antonio Tajani, intervistato da Bloomberg Tv a margine del Forum di Cernobbio.

    “Su Mps si deve procedere alla privatizzazione”, in quanto “lo Stato non deve fare il banchiere” e quindi “credo che sia giusto procedere”, ha aggiunto Tajani. Poi, ha proseguito, «sarà il ministro Giorgetti a fare le proposte”, ma “prima si fa e meglio è, ma la proposta deve venire dal ministro Giorgetti, vedremo quale sarà». In linea col collega, Adolfo Urso secondo il quale è giusto privatizzare la banca senese. “Credo che sia giusto andare su questa strada”, ha detto, aggiungendo che “su tempi e modalità” della vendita deciderà il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Sulla privatizzazione, ha proseguito Urso, “mi trovo d’accordo con quello che Tajani ha detto sul fatto che si possa e si debba procedere alla privatizzazione di Mps nelle tempistiche che riterrà opportune il ministro dell’Economia, anche al fine di avere il massimo dei riscontri. Noi non abbiamo una visione ideologica ma molto pratica della nostra economia. Facciamo – ha concluso – quello che interessa alle nostre imprese e famiglie per affrontare al meglio la transizione tecnologica digitale e green ed essere sempre più competitivi a livello europeo e a livello globale”.  Non tutta la maggioranza di governo, tuttavia, è d’accordo con la proposta. “Così come la privatizzazione dei porti, già opportunamente smentita dalla premier, anche la vendita della quota di Monte dei Paschi non è all’ordine del giorno. Il governo ha il dovere di approfondire i dossier e discuterne attentamente e riservatamente”, ha sottolineato il deputato della Lega, vicepresidente della commissione Finanze e responsabile del dipartimento Economia del partito, Alberto Bagnai.

    L’istituto guidato da Giuseppe Castagna ha dichiarato di non essere “interessato a operazioni di M&A e ha ribadito la strategia stand alone, già più volte comunicata e che sarà il presupposto del piano industriale di fine anno”. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti non ha escluso la possibilità di nuove privatizzazioni di aziende partecipate dallo Stato. Dopo aver avviato la vendita di Ita Airways a Lufthansa ora il governo potrebbe alienare altri asset. Per Mps era stato disegnato un percorso di uscita del socio pubblico dopo il salvataggio del 2017 ma la pandemia ha frenato l’iter. “Certamente ci sono delle situazioni che potrebbero originare una riallocazione delle partecipazioni dello Stato, può darsi che ci siano delle realtà in cui è possibile disinvestire”, ha affermato Giorgetti al termine del Cdm interpellato su nuove possibili privatizzazioni di partecipazioni statali.

  • Anche Deutsche Bank e i suoi azionisti vittime della Russia

    Deutsche Bank, una delle più grandi banche tedesche, ha recentemente avvertito i suoi clienti che alcune delle azioni detenute in Russia sono misteriosamente scomparse. L’annuncio ha causato preoccupazione tra gli investitori e ha sollevato diverse domande sulle implicazioni di questa scomparsa e sul ruolo della banca in questo evento. Anche perché non sono state fornite molte informazioni sulle circostanze precise di questa scomparsa o sul numero esatto di azioni coinvolte.

    E’ comunque emerso che le azioni in questione sono diminuite notevolmente di valore nel corso degli ultimi mese e la scomparsa delle azioni russe è particolarmente preoccupante considerando il contesto economico e politico in cui si verifica. Le tensioni tra Russia e Occidente, in particolare con l’Unione Europea e gli Stati Uniti, si sono intensificate nell’ultimo anno a causa di dispute territoriali, accuse di interferenze nelle elezioni e violazioni dei diritti umani. Questo scenario ha portato a sanzioni economiche e restrizioni sugli investimenti in Russia da parte di diversi paesi occidentali.

    La situazione economica in Russia è stata influenzata negativamente da queste misure, con l’impatto visibile sui mercati finanziari. Le azioni russe hanno subito una notevole volatilità, con fluttuazioni significative nel valore. Pertanto, la scomparsa delle azioni russe detenute da Deutsche Bank potrebbe essere collegata a questo contesto sfavorevole, anche se è necessaria un’indagine approfondita per confermarlo.

    La banca ha dichiarato di essere al corrente di questa situazione e di essere al lavoro per risolvere il problema. È stata avviata un’indagine interna per determinare le cause della scomparsa delle azioni e individuare eventuali responsabilità interne o esterne. Deutsche Bank ha assicurato i clienti che sta adottando tutte le misure necessarie per proteggere i loro interessi e risolvere la questione nel minor tempo possibile.

    In risposta alle preoccupazioni che la vicenda ha suscitato sui mercati, Deutsche Bank ha sottolineato l’importanza della trasparenza e della comunicazione aperta con gli investitori e si è impegnata a fornire ulteriori informazioni sulla scomparsa delle azioni russe non appena saranno disponibili e a comunicare tempestivamente gli sviluppi riguardanti l’indagine in corso.

    L’episodio delle azioni russe scomparse potrebbe rappresentare un problema per Deutsche Bank, che già negli ultimi anni ha affrontato diverse controversie, scandali finanziari e, non per ultimo, a marzo scorso, un importante crollo in borsa. La banca ha lavorato duramente per ripristinare la sua immagine e riconquistare la fiducia dei clienti, ma questa situazione potrebbe mettere a rischio tali sforzi.

    Gli investitori e gli analisti del settore finanziario stanno ora seguendo da vicino gli sviluppi di questa vicenda e chiedono ulteriori informazioni da parte di Deutsche Bank. È fondamentale che la banca fornisca una spiegazione dettagliata di quanto accaduto, rassicurando gli investitori sulle azioni intraprese per risolvere il problema e garantire la protezione dei loro investimenti.

  • La colpa secondo la Bce

    Secondo la massima autorità finanziaria europea la responsabilità dell’inflazione è attribuibile alle imprese (*). Queste, per la presidente della Bce, hanno scaricato l’aumento dei costi energetici e delle materie prime interamente sul prezzo finale al consumatore. Una analisi francamente imbarazzante in quanto non prende in alcuna considerazione il ruolo della sempre maggiore tassazione dei singoli stati calcolata molto in percentuale su valori nominali dei prezzi finali in costante crescita. Basti ricordare come lo Stato italiano abbia incassato oltre 60 miliardi di Fiscal Drag grazie alla crescita dei prezzi (**).

    In più andrebbe ricordato come, operando all’interno di un mercato globale, una istituzione finanziaria adeguata richiamerebbe alla propria responsabilità anche lo Stato.

    L’istituzione statale, infatti, attraverso una compensazione fiscale avrebbe dovuto bilanciare l’aumento dei costi energetici e delle materie prime cercando di impattare l’effetto inflattivo sulle capacità d’acquisto dei singoli consumatori, invece di continuare ad accrescere la spesa pubblica e, di conseguenza, il debito (2970 miliardi).

    Viceversa, l’attuale presidente della BCE, che rappresenta semplicemente una figura politica prestata al mercato finanziario, esclude ogni responsabilità e ruolo all’interno del complesso dedalo finanziario internazionale attribuendo semplicisticamente ogni responsabilità alle imprese le quali, a loro volta, sono soggette agli effetti delle politiche fiscali dei singoli Stati.

    In più, si dimentica come il prezzo finale di un prodotto rappresenti la sintesi di un network di terzisti i quali devono adeguare i propri prezzi ai maggiori costi energetici e delle materie prime. In questo contesto si genera un effetto moltiplicatore sul prezzo finale non attribuibile alla singola impresa ma piuttosto alla struttura produttiva complessa…

    Queste sono considerazioni che ovviamente sfuggono ad una presidente della BCE che già in passato ha dimostrato di non conoscere neppure la differenza nella genesi dell’inflazione confermata dall’attribuzione attuale di unica responsabilità alle imprese (***).

    In altre parole, la BCE sta giocando un ruolo espressamente politico e non certo tecnico e competente, arrivando ad individuare un responsabile di un fenomeno (inflazione) quando dovrebbe operare per compensare la spirale inflattiva, dimostrando in più di non conoscere neppure i dati macroeconomici: -7,2% produzione industriale, -5,3% export in valore, -10% in volumi, -5% consumi.

    Mai come ora ignorare l’economia reale evidenzia l’insufficienza dello spessore professionale della presidente della BCE.

    (*) https://www.avvenire.it/economia/pagine/lagarde-inflazione-qualunque-cosa-accada

    (**) https://www.ilpattosociale.it/attualita/fiscal-drag/

    (***) https://www.ilpattosociale.it/attualita/le-due-diverse-genesi-inflattive/

  • Il Credit Suisse e i derivati

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 22 marzo 2023

    Il credito di salvataggio di ben 54 miliardi di dollari da parte della Banca centrale svizzera non è bastato a stabilizzare il Credit Suisse. Anche la fusione con la più grande banca elvetica, l’Ubs, non sembra calmare le acque turbolente dei mercati finanziari internazionali. La ragione, di cui si tende a non parlare, è una e semplice: l’esposizione in derivati finanziari speculativi otc, quelli non regolamentati e tenuti fuori bilancio, del Credit Suisse e delle banche too big to fail. In particolare quelle americane.

    L’ultimo rapporto sui derivati dell’Office of the Comptroller of the Currency, l’agenzia Usa di controllo bancario, ha rilevato che, al 30 settembre 2022, quattro banche statunitensi detenevano ben 195 mila miliardi di dollari di derivati finanziari, pari all’88,6% del valore nozionale di quelli presenti nel sistema bancario nazionale. JPMorgan Chase ne deteneva 54.300 miliardi di dollari, Goldman Sachs 50.970, Citibank 46.000 e Bank of America 21.600. Sebbene la legislazione Dodd-Frank promulgata dopo la grande crisi del 2008 richiedesse che i derivati passassero attraverso la compensazione centrale, il 58,3% di essi non lo fa, rimanendo nella totale opacità.

    Anche un recente studio della Banca dei regolamenti internazionali analizza le gravi complicazioni nella gestione dei derivati ed evidenzia che «le banche estere con sede al di fuori degli Stati Uniti hanno un debito in derivati otc di 39 mila miliardi. Più del doppio del loro debito registrato in bilancio e più di 10 volte il loro capitale». Un’esposizione ritenuta «sbalorditiva» e foriera di nuovi sconvolgimenti.

    Il Tesoro Usa sta esaminando l’esposizione delle banche statunitensi verso il Credit Suisse. Non si scopre adesso che il sistema bancario internazionale è strettamente interconnesso e che la crisi di un componente importante può diventare sistemica. Perciò, non regge la giustificazione secondo cui il problema sarebbe di origine estera, come le autorità americane hanno più volte sostenuto.

    Negli Usa il quadro normativo distingue le banche con sede sul territorio nazionale da quelle con sedi estere. Queste ultime non sono sottoposte agli stessi standard, come i requisiti patrimoniali e una liquidità più stringente. Conoscendo bene i rischi, l’hanno fatto per attirare negli Usa capitali, anche speculativi, per restare, a tutti i costi, il mercato dominante.

    La storia delle crisi del Credit Suisse è stata bellamente ignorata per anni e consapevolmente sottovalutata. D’altra parte, rivelava la malattia dell’intero sistema che non s’intendeva affrontare drasticamente e curare.

    Nel 2021 la banca aveva perso 5,5 miliardi di dollari a seguito di derivati pericolosi con l’hedge fund speculativo americano Archegos Capital Management, poi fallito. I segnali di allarme furono ignorati da tutti, non solo dal Credit Suisse. Quest’ultimo era già stato coinvolto, con forti perdite, anche nello scandalo e nel fallimento di Greensill Capital, la società di servizi finanziari britannica, che aveva lasciato un buco di 10 miliardi. In precedenza aveva pagato una multa di 5,3 miliardi di dollari alle autorità americane per aver ingannato gli investitori sul rischio dei titoli subprime legati alle ipoteche immobiliari.

    Credit Suisse, quindi, ha sempre operato sul mercato Usa. Da anni controlla la First Boston. Tra i suoi azionisti vi sono gli arabi, Arabia Saudita e Qatar, con il 20% e, poi, come sempre c’è l’onnipresente fondo americano BlackRock con circa il 5% delle azioni. Ben sapendo che si mettono in difficoltà le banche che hanno ingenti investimenti in titoli di Stato a lunga scadenza e a basso rendimento, l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali sembra essere una scelta obbligata. Nelle loro intenzioni mettere un freno all’inflazione resta la priorità, per evitare sconquassi economici e sociali. Per gli istituti finanziari in crisi metteranno a disposizione decine, centinaia di miliardi.

    È chiaro, però, che simili salvataggi pubblici non sono la soluzione. A ogni crisi il problema si ripresenta in dimensioni maggiori e peggiori. Perciò non ci si dovrebbe mai stancare di ripetere che una riforma globale della finanza è necessaria e ineludibile. Per riportare un po’ di sanità nel sistema finanziario, sarebbe opportuno ritornare alla separazione bancaria, alla legge Glass Steagall Act del presidente Franklin Delano Roosevelt, e battere la speculazione attraverso l’accantonamento dei derivati otc e il divieto della cosiddetta leva finanziaria.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Fallimento Silicon Valley Bank

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ‘ItaliaOggi’ il 15 marzo 2023

    Quando il sistema finanziario è schiacciato dalle bolle causate dai debiti è da irresponsabili portare le banche sulle montagne russe. Ciò che ha fatto la Federal Reserve ieri e sta facendo oggi. Il risultato più evidente è il fallimento della Silicon Valley Bank (Svb) di Santa Clara in California. Tutti ci auguriamo che non diventi l’inizio di un nuovo collasso finanziario globale come nel 2008.

    Durante il periodo del tasso d’interesse zero e dei quantitative easing molte imprese, anche quelle zombie, come la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea definisce quelle in condizione quasi fallimentari, hanno ottenuto notevoli volumi di nuovi crediti dalle banche, anche di medie dimensioni. Adesso hanno grandi difficoltà nel pagamento del servizio sul debito.

    A loro volta, le banche hanno convenientemente acquistato grandi quantità di titoli di Stato, in particolare Treasury bond della durata di 10 anni, che pur con un rendimento modesto, rappresentavano una garanzia di stabilità, senza rischi e un interessante profitto rispetto allo zero assoluto. Il repentino e continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, combinato con gli annunci di nuovi rialzi dei tassi per lunghi periodi futuri, sta stravolgendo i meccanismi finanziari. Per esempio, le obbligazioni del Tesoro a scadenza 1 e 2 anni offrono adesso interessi maggiori di quelle della durata di 10 anni emesse in passato. Una cosa irragionevole e destabilizzante.

    Il problema è sistemico, poiché il settore bancario ha in pancia una montagna di asset a basso rendimento, e sta peggiorando con l’aumento del tasso d’interesse della Fed.

    La Svb è la banca in cui la maggior parte dei clienti sono società tecnologiche start up che depositano i prestiti ottenuti dal cosiddetto venture capital, cioè quei gruppi che finanziano i loro lavori in cambio di un ritorno futuro, quando i risultati e le nuove tecnologie saranno realizzati. I loro investimenti sono delle scommesse. L’aumento dei tassi d’interesse ha, tra l’altro, ridotto i flussi finanziari da parte del venture capital. Di conseguenza le start up hanno usato sempre più i loro depositi presso la Svb. Quest’ultima, già sotto pressione, ha aumentato notevolmente la vendita dei titoli in perdita. Caso emblematico è quello delle obbligazioni decennali che rendono meno di quelle annuali.

    Quando la Svb ha annunciato l’intenzione di mettere sul mercato 2,25 miliardi di dollari in nuove azioni per sostenere il proprio bilancio, la «bomba» è esplosa, provocando una corsa agli sportelli, sia in forma telematica sia fisica. Per evitare il panico, la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia governativa indipendente che assicura i depositi bancari e sovrintende alle istituzioni finanziarie, è subito intervenuta garantendo i depositi fino a 250 mila dollari e altre misure di sostegno per le parti non assicurate.

    La Svb non è una too big to fail, troppo grossa per poter essere lasciata fallire, ma nemmeno una «banchetta». È la 16sima del sistema bancario americano. Ha un patrimonio pari a 212 miliardi di dollari. Si tratta del secondo più grande fallimento bancario nella storia degli Usa, dopo la bancarotta della Washington Mutual, con asset pari a 318 miliardi, avvenuto nel settembre 2008, all’inizio della grande crisi finanziaria.

    È da tener presente che questo default non avviene in un mare calmo ma nelle tempeste provocate anche dal collasso del mercato delle cripto valute. Infatti, un’altra banca, la Signature Bank di New York, che conta molti depositi in cripto valute, e un patrimonio di 110 miliardi di dollari, è fallita dopo aver subito un crollo nel valore delle sue azioni e delle sue obbligazioni. Si tratta della terza bancarotta bancaria più grande nella storia americana.

    All’inizio di marzo anche la Silvergate Capital Corp., una piccola banca di San Diego legatissima alle cripto valute e con un patrimonio di 14 miliardi di dollari, è fallita. Le decisioni della Fed stanno spingendo i mercati a muoversi nel breve e nel brevissimo periodo. Ciò rende il sistema instabile, imprevedibile e ad alto rischio. Le parole che circolano con timore sono «rischio di contagio» e «effetto domino». Infatti, la fibrillazione provocata dalle azioni Svb in caduta libera, è stata grande, tanto che altri titoli bancari sono stati sospesi per evitare una slavina.

    L’andamento dei tassi d’interesse sarà la spada di Damocle sui mercati e sul sistema finanziario e bancario internazionale. D’altra parte, non è un caso che i derivati finanziari over the counter siano concentrati per l’80% del loro valore nozionale totale (630 mila miliardi di dollari) sui tassi d’interesse. Per fortuna c’è Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, che ha espresso fiducia nella resilienza del settore bancario americano. La cosa, però, rassicura solo chi ci vuole credere.

    Nel frattempo la Fed ha iniziato un programma di crediti di emergenza alle banche in difficoltà, come la First Republic Bank, per evitare che vendano i Treasury bond in loro possesso e che abbiano dei fondi extra per far fronte a eventuali ritiri dei depositi da parte dei clienti.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il sistema italiano degli istituti di credito

    Una delle motivazioni che portò la politica ed il governo Andreotti, con l’appoggio della classe dirigente ed accademica italiana, ad indicare nella privatizzazione del sistema bancario (legge Carli Amato) la soluzione per evitare crisi furono le tristi vicende del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia il cui dissesto finanziario costò complessivamente circa 22.000 miliardi di lire, quindi circa 13 miliardi di euro al valore attuale. Alla luce delle dinamiche delle crisi, succedutesi negli ultimi anni nel nostro Paese, di troppi istituti di credito legittimamente, anche in considerazione dei costi sociali ed economici, nascono dei dubbi così come emergono i limiti di una soluzione ad un problema molto complesso come la gestione del sistema bancario. La sola crisi del Monte dei Paschi di Siena è costata alle finanze pubbliche, fino a questo momento, oltre 11 miliardi di euro (6.9 miliardi di capitale investito dal ministro Padoan in un istituto di credito risultato ultimo in Europa  negli stress test il cui valore attuale è di 750 mln), (https://www.ticinolive.ch/2021/08/03/il-monte-dei-paschi-sottoposto-a-uno-stress-test-risultato-inquietante/). A questi andranno aggiunti i prossimi tre (3) miliardi aggiuntivi per il finanziamento degli ammortizzatori sociali come “pretesa contropartita” voluta da Unicredit (il presidente di Unicredit è lo stesso Padoan, ex ministro). E’ paradossale poi come, per assorbire e mitigare gli effetti della drastica riduzione degli occupati in seguito alla “fusione” tra due istituti bancari, se ne debba fare carico sempre lo Stato al fine di rendere finanziariamente sostenibile l’acquisizione della banca senese dal gruppo privato UniCredit: il soggetto pubblico (come azionista di maggioranza) garantisce quindi la sostenibilità finanziaria dell’operazione all’istituto privato acquirente. Se poi lo stesso acquirente, cioè l’amministratore delegato di Unicredit, è anche uno dei responsabili in qualità di consulente del dissesto finanziario di MPS, nata dall’acquisizione di Antonveneta ad un valore 3,2 superiore alla valutazione del mercato, si delinea ancora più chiaramente “la partita di giro” tra istituti. Entrambe le operazione, quindi, risultano finalizzatale non a crescite strutturali per competere nel mercato finanziario internazionale, l’unica vera motivazione di queste operazioni è semplicemente la creazione di plusvalenze finanziarie da distribuire agli azionisti. Tornando, poi, al quadro generale, se si volesse integrare a questi costi anche quelli della crisi finanziaria di Veneto Banca e Popolare di Vicenza in termini di azzeramento del risparmio privato pari ad undici (11) miliardi più 1,7 miliardi di euro di risorse pubbliche per un ridicolo risarcimento pari al 30% degli investimenti ma solo fino a 100.000 euro di investimenti, il conto dei costi pubblici a sostegno di un sistema privato diventa imbarazzante. Anche perché il default delle banche venete va inteso come la sintesi di una scellerata gestione i cui costi si sono riversati sui sottoscrittori delle quote di risparmio e successivamente diventati azionisti a causa di una disgraziata decisione politica del governo Renzi di trasformare le quote di risparmio in capitale di rischio attraverso la trasformazione in Spa. Una scelta imputabile alla intera classe ministeriale del governo, quindi, ancora una volta, al ministro Padoan con il suo vice Calenda. A questi costi economici e sociali vanno aggiunti anche gli oltre due (2) miliardi della crisi di Banca Etruria e di istituti minori. Risulta evidente come la semplice privatizzazione del sistema bancario sia costata in termini di risorse pubbliche ed azzeramento di risorse private molto più di sistema pubblico degli istituti di credito. La soluzione alla pessima gestione degli istituti di credito da parte della classe politica e dirigente, quando questi erano pubblici, non poteva venire indicata nella semplice privatizzazione che avrebbe bypassato ogni responsabilità dei dirigenti e dei politici del passato ma soprattutto del futuro prossimo. In questo senso va ricordato come competenza e capacità risultino verificabili sia all’interno di un azionariato pubblico che di quello privato. In questo contesto, poi, NON va dimenticata la sciagurata riforma coniata dall’Unione Europea con l’introduzione del “bail in” la quale, di fatto, ha trasformato nel 2016 ogni deposito oltre i 100.000 euro in capitale di rischio ma senza riconoscere alcun diritto per i titolari dei c\c o partecipazione agli eventuali dividendi ma anzi subendo, anno dopo anno, la crescita dei costi di gestione. Tantomeno la riforma del bail-in che coinvolge i risparmiatori nei rischi gestionali e di impresa dell’Istituto di credito riconosce agli stessi la possibilità di intervenire all’interno della complessa gestione dell’istituto. Ennesima riprova della inconsistenza politica dell’Unione Europea, in questo assolutamente simile a quella dimostrata dalla classe politica italiana. Il comprendere come le semplici proprietà pubbliche o private non garantiscano dall’incompetenza pubblica e tantomeno dalla avidità privata (come la gestione di autostrade, tanto per fare un altro esempio di scellerata privatizzazione che ha portato alla riduzione del 98% delle spese di manutenzione) è stato ampiamente dimostrato. Troppo spesso la politica per propria incompetenza o per ambigua vicinanza a gruppi di interesse ha indicato come soluzioni di complesse problematiche reali le strategie più semplici lasciando di fatto inalterato il problema, ponendo magari anche le basi di uno scenario ancor più disastroso considerate le possibili occasioni di speculazioni venutasi a creare.  Ovviamente con il consenso disinteressato dell’Unione Europea.

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