Crisi

  • Zhongzhi Enterprise Group: China investigates major shadow bank for ‘crimes’

    Chinese officials have launched an investigation into one of the country’s biggest shadow banks, which has lent billions to real estate firms.

    Zhongzhi Enterprise Group (ZEG) has an asset management arm that at its peak reportedly handled more than a trillion yuan ($139bn; £110bn).

    Authorities said they are investigating “suspected illegal crimes” against the firm, in a statement on the weekend.

    This comes days after reports that ZEG had declared it was insolvent.

    The struggling firm reportedly told investors in a letter last week that its liabilities – up to $64bn – had outstripped its assets, now estimated at about $38bn.

    While authorities said they had taken “criminal coercive measures” against “many suspects” it’s still unclear who they are, and what role they play in the firm. The company’s founder, Xie Zhikun, died of a heart attack in 2021.

    ZEG is a major player in China’s shadow banking industry, a term for a system of lenders, brokers and other credit intermediaries who fall outside the realm of traditional regulated banking. Shadow banking, which is unregulated, is not subject to the same kinds of risk, liquidity and capital restrictions as traditional banks.

    China’s shadow banking industry is valued at around $3tn. It often provides a financial lifeline to the country’s property sector. The once-booming industry has been hit by a severe credit crunch, with some of the biggest firms now on the brink of financial collapse.

    “For several decades China been chasing this property bubble – and in order to create this bubble, or to fuel growth in China, they needed capital. So they started getting a lot of money from individual investors offering very, very high returns. And it worked for quite a while because the property prices were going up and it’s a win-win for everybody,” says Andrew Collier, a shadow banking expert at Orient Capital Research.

    Informal lending has always existed in China’s economy, but shadow banking really took off in the aftermath of the global financial crisis in 2008, when credit was scarce.

    Given China’s slowing economy and the crisis in the real estate sector, Mr Collier says the troubles at ZEG may just be the start of a bigger problem: “This is going to spread further into other forms of shadow banks and potentially into the actual real brick-and-mortar banks.”

    Embattled property developers currently owe Chinese banks money worth as much as 30% of the banks’ assets.

    “That is going to take a long time to unwind,” Mr Collier says.

    The latest developments at ZEG has raised concerns of further turmoil in the world’s second-largest economy, after the collapse of property developer Evergrande and more recently the financial woes at Country Garden.

    China’s property sector makes up a third of its economic output. That includes houses, rental and brokering services, as well as construction materials and industries producing goods that go into apartments.

    The latest figures show that China’s economy expanded by 4.9% in the three months between July and September. That is slower than the previous quarter, when the economy grew by 6.3%.

  • Child malnutrition ‘rises by 160% in parts of Nigeria’

    Cases of severe malnutrition among children aged under five years in north-eastern Nigeria are fast increasing, an non-governmental organisation has warned.

    FHI 360 said that a staggeringly high number of malnourished children – 15,781 – were admitted to its facilities between February and September for treatment, an increase of nearly 160% from last year.

    “The situation in north-east Nigeria is grave, and increased support is needed to address the critical health and nutritional needs of communities, especially women and children,” the organisation added.

    The UN children’s organisation (Unicef) has previously said that Nigeria has the second-highest rate of child stunting globally, which is caused by widespread malnutrition, particularly in the northern part of the country.

    Unicef estimates that two million children in Nigeria suffer from malnutrition, but only 20% of these receive treatment.

    Its data also shows that malnutrition contributes to 45% of the deaths of children aged under five years in Nigeria.

  • California in declino, tramonta l’American Dream

    Si appanna sempre di più il mito della California. Lo stato più ricco e popoloso degli Stati Uniti, da sempre l’incarnazione dell”American dream’, è in crisi. Il suo motore luccicante ed efficiente si è inceppato, per un cocktail esplosivo di fattori: la tassazione pesante, affitti e prezzi delle case stellari, il crollo demografico, le sempre più numerose calamità naturali, la crescita dei senzatetto e della criminalità. E ora anche quattro sparatorie di massa a gennaio, un fenomeno poco frequente nello stato che ha una delle leggi più restrittive della federazione in materia di armi.

    La legge finanziaria approvata a Sacramento è un segnale chiaro: dopo anni di bilanci record tutti in attivo, il piano del 2023 prevede invece un deficit di 22,5 miliardi di dollari. Un bel problema per il governatore dem Gavin Newsom, che ufficialmente nega le sue ambizioni presidenziali, ma resta senza dubbio un nome forte per il post Biden. Il suo secondo mandato alla guida della ‘locomotiva del Paese’ è appena cominciato. Sarà un banco di prova fondamentale per avvicinarlo o allontanarlo dalla corsa alla Casa Bianca. Il vento è cambiato in fretta a Sacramento. Sei mesi fa, Newsom e i suoi pronosticavano un avanzo di bilancio di 100 miliardi. Ma l’inflazione galoppante e la frenata delle grandi firme del tech hanno complicato la contabilità dello stato, fortemente dipendente dai guadagni dei suoi cittadini più ricchi. Quasi il 35% delle entrate fiscali del Golden State proviene dai contribuenti che guadagnano almeno 1 milione di dollari all’anno (mentre due terzi arrivano da chi supera i 200 mila dollari). Se uno di loro si trasferisce, lo stato può perdere miliardi. È quello che è successo quando Elon Musk, che nel 2022 ha venduto circa 23 miliardi di dollari di azioni Tesla, ha spostato la sua residenza e il suo quartier generale in Texas. Chi è così ricco in California paga più del 13% sulle plusvalenze. L’erario riceverà quest’anno 29,5 miliardi di dollari in tasse, quasi il 10% in meno di quanto pronosticato nel 2022.

    Non è tutta colpa di Musk, ovviamente. Lo stato perde abitanti in modo inarrestabile. Anche in questo caso, si tratta di una tendenza che ha cambiato di segno negli ultimi tempi. Gli abitanti della California non hanno fatto che crescere dall’annessione del 1850. Ma dal 2000 in poi, hanno cominciato ad andarsene. Prima in modo impercettibile; poi in modo drammatico negli ultimi due anni: la popolazione è diminuita di oltre 500.000 persone dal luglio 2020 al luglio 2022: una grande fuga. La pandemia non ha certo aiutato. Molti dirigenti dell’industria dello spettacolo e dell’high tech si sono trasferiti: ora che possono lavorare da casa, preferiscono vivere dove le tasse e gli affitti sono più bassi. I meno danarosi se ne sono andati in modo anche più massiccio, decidendo che non vale la pena restare schiacciati dai costi esorbitanti della casa mentre tutt’attorno aumentano – fenomeni non certo slegati – criminalità e ‘homeless’ (115mila nel 2015, 173 mila nel 2022). Come se non bastasse, negli ultimi anni il paradiso californiano e’ diventano un inferno flagellato da estati torridi, incendi, alluvioni, terremoti. Iniziato con la corsa all’oro, il grande sogno americano, che in California è proseguito prima con l’agricoltura fiorente e il petrolio, poi con l’industria dello spettacolo e l’alta tecnologia, rischia ora di diventare un miraggio. Resta da vedere se l’uomo al comando in questo momento di crisi riuscirà a risalire la china. Per il futuro del suo stato e per il suo personale.

  • Scomparsi 343mila lavoratori autonomi tra il 2018 e il 2021

    Lavoro autonomo in affanno nel nostro Paese, ancor prima dell’arrivo della pandemia da Covid-19: dal 2018 al 2021, infatti, sono andati in fumo 343.000 posti fra gli occupati indipendenti, un segmento che, tuttavia, continua ad investire nel personale, visto che al 31 dicembre dell’anno passato “si contano oltre 41.000 attivazioni nette negli studi professionali, contro le 29.000 rilevate nel 2019”.

    In generale, come certificato dall’Inps, i contratti di subordinazione hanno rialzato la testa, se si considera che “le assunzioni, nei primi nove mesi del 2022, sono state 6 milioni 227.000, con un aumento del 17% rispetto allo stesso periodo” dell’annualità precedente, perciò nei primi 3 trimestri dell’anno in corso “i flussi nel mercato del lavoro (assunzioni, trasformazioni, cessazioni) hanno completato la ripresa dei livelli pre-pandemici”. È contenuta in due diversi documenti, presentati oggi, la fotografia dell’occupazione autonoma e dipendente nazionale: da un lato c’è la rilevazione di Confprofessioni e, dall’altro, l’Osservatorio sul precariato dell’Istituto di previdenza pubblico. Nel primo si mette in luce come l’aggregato dei liberi professionisti “conti poco meno di un milione 402.000 soggetti, numeri che corrispondono al 6,2% degli occupati e al 28,5% del complesso del lavoro indipendente” della Penisola; la Confederazione presieduta da Gaetano Stella, a seguire, punta i fari sul reddito medio mensile netto dei liberi professionisti che, a cinque anni dalla laurea, è pari a 1.678 euro, mentre quello dei dipendenti si attesta sui 1.625 euro, con la variazione positiva che “appare particolarmente accentuata tra le professioniste donne (+58%), che “nel 2014 risultavano il gruppo a più basso reddito tra gli occupati” freschi di titolo di studio e oggi, invece, “hanno una remunerazione più elevata delle colleghe subordinate”.

    L’Inps, intanto, insieme alle assunzioni dei primi nove mesi del 2022, che hanno oltrepassato i 6,2 milioni, rileva pure che le trasformazioni di contratti da tempo determinato nei primi 3 trimestri dell’anno “sono risultate 553.000, in fortissimo continuo aumento, rispetto allo stesso periodo del 2021 (+61%)”, mentre le cessazioni, nei primi nove mesi del 2022, sono state 5 milioni 571.000. Una ‘galassia’, quella occupazionale, su cui s’è espresso il ministro del Lavoro Marina Calderone, al convegno di Confprofessioni, garantendo il suo impegno per dare “pari dignità” all’attività degli autonomi e dei dipendenti.

  • Ecco il vero significato del premio Nobel a Bernanke

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 220 ottobre 2022

    «Per la ricerca su banche e crisi finanziarie», il Premio Nobel per le scienze economiche quest’anno è stato dato a tre economisti americani, Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve dal 2006 al 2014, e i professori Douglas Diamond dell’Università di Chicago e Philip Dybving dell’Università di Saint Louis.

    Nelle motivazioni si legge che essi «hanno notevolmente migliorato la nostra comprensione del ruolo delle banche nell’economia, in particolare durante le crisi finanziarie. Una scoperta importante nella loro ricerca è il motivo per cui è fondamentale evitare i crolli delle banche».

    Il fatto che Bernanke sia stato il banchiere centrale prima e dopo la grande crisi finanziaria del 2008 getta qualche dubbio sulla bontà della scelta. E fa subito sorgere un’altra domanda: perché dare loro il Nobel proprio oggi, nel mezzo di una crisi economica e finanziaria che potrebbe essere peggiore di quella appena passata?

    Il Nobel è stato assegnato per due articoli scritti nel lontano 1983. Nella loro analisi, Diamond e Dybvig avevano spiegato che le banche operano come intermediari tra i risparmi depositati e i crediti a lungo termine per le imprese. Il sistema funzionerebbe bene in tempi normali, ma, ammettevano, rende le banche vulnerabili ai rumors, alle voci circa un loro imminente collasso, che possono provocare il run, cioè la corsa agli sportelli per ritirare i risparmi.

    Da parte sua, Bernanke aveva studiato la Great Depression americana e globale degli anni Trenta, dimostrando come le banche in dissesto avessero giocato un ruolo decisivo nella peggiore crisi della storia moderna. Il crollo del sistema bancario spiegherebbe perché la recessione non sia stata soltanto profonda, ma anche duratura.

    Infatti, tra il gennaio 1930 e il marzo 1933, la produzione industriale statunitense diminuì del 46% e la disoccupazione crebbe al 25%. La crisi si diffuse a macchia d’olio, provocando una profonda recessione economica in gran parte del mondo. In Gran Bretagna la disoccupazione salì al 25% e in Australia al 29%. In Germania la produzione industriale si dimezzò e più di un terzo della forza lavoro divenne disoccupata.

    La ricerca di Bernanke mostrava che le crisi bancarie possono avere conseguenze catastrofiche. Una giusta intuizione che, però, stranamente non fu applicata nella crisi finanziaria del 2008.

    Secondo il Comitato Nobel «queste intuizioni costituiscono la base delle moderne regole bancarie». Tra cui elenca anche la garanzia governativa ai depositi dei risparmiatori, dimenticando che essa era già stata introdotta dal presidente Roosevelt negli anni Trenta, come parte della legge Glass-Steagall Act sulla separazione bancaria. Secondo il Comitato i risultati delle ricerche sono stati «la motivazione alla base di aspetti cruciali della politica economica durante la crisi finanziaria del 2008-2009», e che «Bernanke fu in grado di trasformare le conoscenze della ricerca in politiche», adottate anche durante la pandemia per evitare una crisi finanziaria globale.

    La storia ci dice che non è andata proprio così. Nel 2008 la Fed di Bernanke era più concentrata a fronteggiare il pericolo d’inflazione, che allora non era così grave, invece di capire che l’intera finanza era in tilt. I controlli non avevano funzionato, anzi, si era permessa la crescita del «sistema bancario ombra», insieme alla speculazione più aggressiva e alla creazione di titoli e di derivati a dir poco «opachi». La finanza era diventata egemone, in grado di influenzare le politiche nazionali e le scelte globali, istaurando anche un sistema di relazioni tossiche con la politica.

    Bernanke, già conosciuto per la sua teoria dei «dollari gettati dagli elicotteri», operò su tre linee: un gigantesco bail out delle banche «too big to fail» (troppo grandi per essere lasciate fallir); l’inizio dei

    quantitative easing; e la politica del tasso d’interesse zero. A ottobre 2009 il bilancio della Fed era già salito a 2.100 miliardi di dollari dagli 870 di prima della crisi.

    La tanta liquidità fu incanalata soprattutto verso Wall Street, che vide un’impennata del Dow Jones. Tale politica è stata continuata con più forza anche dopo l’uscita di Bernanke dalla Fed, fino ai drammatici cambiamenti recessivi e inflazionistici di oggi. In conclusione, dietro il Nobel ai tre economisti sembra ci sia un invito della finanza in crisi a continuare con i salvataggi e le stesse politiche «liquide» del passato.

    Absit iniuria verbis per i tre Nobel, a noi, più modestamente, sembra che la grande finanza sia ancora alla base delle crisi sistemiche.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • L’azzeramento patrimoniale degli investimenti

    Esiste un effetto non considerato in relazione alla crisi economica e industriale legata all’esplosione dei costi energetici e alle conseguenze dell’inflazione già presente nel 2021.

    Negli ultimi anni precedenti la pandemia, il sistema industriale era stato “invitato” ad un proprio aggiornamento in relazione alle sfide internazionale e alla concorrenza dei paesi a basso costo manodopera.

    Sicuramente l’innovazione tecnologica, che comporta una diminuzione dell’intensità di manodopera per milione di fatturato soprattutto nel settore manifatturiero, se da una parte diminuisce le opportunità lavorative, dall’altra attenua la differenza dei costi tra le diverse locazioni produttive basate esclusivamente sul confronto del costo del lavoro e conseguentemente rende di nuovo approcciabile l’investimento industriale.

    In altre parole la stessa innovazione, se supportata da una opportuna politica fiscale governativa, dovrebbe creare le condizioni finalizzate a riportare le filiere produttive, una volta all’estero, all’interno del nostro Paese (reshoring produttivo).

    In questo contesto la successiva crisi pandemica e delle filiere produttive, troppo allungate nel perimetro asiatico sempre a caccia del minore costo, rappresentava un’occasione ma soprattutto una conferma in più per dare vita ad una pur parziale reindustrializzazione del nostro Paese. Il supporto dei governi avrebbe dovuto assumere i connotati di una fiscalità di vantaggio che favorirebbe il sistema industriale italiano e soprattutto le fiere italiane.

    Tutti gli investimenti in questo senso, tanto del sistema industriale e finalizzati all’ottenimento di una maggiore produttività e quindi una maggiore competitività nel mercato globale, quanto gli interventi legislativi varati dai diversi governi, come industria 4.0, perdono ogni valore e vengono addirittura azzerati a causa dell’esplosione dei costi dell’approvvigionamento energetico.

    Rappresenterebbe, ora, un errore ingiustificabile non inserire nella valutazione degli effetti della attuale pre-recessione gli effetti finanziari ed economici di questo azzeramento patrimoniale e relativo agli investimenti degli ultimi anni nel sistema industriale e manifatturiero in quanto il loro effetto di “efficientamento” del complesso sistema produttivo viene sostanzialmente azzerato dall’esplosione dei costi energetici il quale da solo determina la perdita di ogni fattore competitivo da parte delle aziende italiane nel contesto internazionale.

    Un azzeramento patrimoniale degli investimenti, in aggiunta agli effetti già evidenti della crisi, che dovrebbe spingere qualsiasi forza di governo ad una valutazione e ad una conseguente elaborazione di un strategia complessiva, abbandonando finalmente la politica dei Bonus fiscali, per la loro stessa definizione discriminanti, e verso l’elaborazione di una visione generale che affronti il problema nella sua complessità, invece di tentare di attenuarne gli effetti favorendo questa o quella categoria.

  • Haiti in a humanitarian catastrophe – UN envoy

    A chronic gang, economic and political crisis has led to a humanitarian catastrophe in Haiti, the country’s UN envoy has said.

    Weeks of violence and attacks on food aid warehouses have rocked the nation’s food security, Helen La Lime told an emergency UN Security Council meeting.

    In protest of the dire situation, businesses have closed and transport services are not running.

    Thousands are calling for Prime Minister Ariel Henry’s resignation.

    Civil unrest across the island escalated after he announced an end to government fuel subsidies on 11 September, which caused petrol and diesel prices to skyrocket.

    Since then, protests and looting have intensified, with the capital, Port-au-Prince, at the heart of it.

    Ms La Lime told the UN Security Council on Monday that an estimated 2,000 tonnes of food aid, valued at close to $5m (£4.6m), were lost following repeated attacks on local warehouses of the UN Food Programme.

    “That would have collectively supported up to 200,000 of the most vulnerable Haitians over the next month”, she said.

    World Food Program’s (WFP) executive director Valerie Guarnieri, who was also at the meeting, said: “The situation in Haiti has sadly reached new levels of desperation”.

    Inflation has risen to its highest level in a decade, and 40% of the country is relying on food assistance to survive, she said.

    And Ms Guarnieri added that she expects food security to deteriorate further this year, with 1.3 million people in a state of emergency due to the crisis.

    Criminal gangs are at the centre of Haiti’s problems, and chronic gang violence has left hundreds dead and thousands displaced.

    Rates of gang violence, which had already shot up since the assassination of President Jovenel Moïse by mercenaries a year ago, have reached shocking new levels since a battle erupted on 8 July between two criminal alliances, known as G9 and G-Pèp.

    But Haiti’s Foreign Minister Jean Victor Geneus told the UN Security Council that apart from some “isolated cases”, violence in his country was “generally under control” and calm had returned to parts of the island.

    At the meeting, Mr Geneus called on the international community to provide Haiti with “robust support” to ensure the police can fight against armed gangs.

  • La tempesta lmperfetta

    Dall’inizio della pandemia il nostro sistema economico e sociale è sottoposto ad una serie di problematiche  per le quali nessun governo precedentemente aveva pensato e tanto meno posto in essere delle strategie di contrasto. Ogni governo degli ultimi 30 anni ha, infatti, continuato ad aumentare la spesa pubblica corrente ed il debito come se questi fattori fossero assolutamente ininfluenti all’interno di una strategia di sviluppo economico.

    Successivamente la pandemia con l’inflazione e contemporaneamente la carenza di materia prime per la nostra industria di trasformazione hanno posto ancor più sotto stress il nostro sistema industriale ed economico e di conseguenza anche quello occupazionale e sociale.

    Mentre il governo Draghi parlava, nel 2021,  di un nuovo boom economico simile a quello degli anni sessanta, il nostro Paese è arrivato all’esplosione inaspettata della guerra in Ucraina già con il prezzo del gas a +537% e da questo primato si sono poi succedute le terribili conseguenze della crisi economica ed energetica all’interno di un’economia di guerra.

    Gli altri governi della stessa Unione europea stanno optando per sostanziali e complessive politiche fiscali finalizzate alla riduzioni delle tasse, viceversa quello italiano continua con la  discriminante, ed  anche  umiliante, politica dei Bonus per la necessaria presentazione del certificato ISEE.

    In un simile contesto emerge l’incapacità di elaborare una politica fiscale complessiva che abbia la doppia funzione di attutire per i consumatori l’impatto dell’inflazione esogena (1), cioè  determinata da fattori esterni (carenza e aumento dei costi delle materie prime e dei prodotti energetici), alla quale si aggiungono  i terribili effetti (2) di una politica monetaria della Bce incapace di comprendere perfino la diversa  genesi inflattiva europea e la conseguente politica monetaria (infatti la Cina ha abbassato i tassi d’interesse).

    Molti commentatori indicano questa sintesi di fattori economici, monetari e sociali come la “tempesta perfetta” sottintendendo la sostanziale irresponsabilità delle classi politiche e governative nazionali.

    Una definizione calzante, forse, per i vertici Istituzionali, governativi e politici, degli altri paesi ma non certamente per il nostro.

    Non va dimenticato, infatti, come la percezione di questa crisi non venga assolutamente dimostrata da determinate autorità politiche, anche  locali, le quali continuano nella propria gestione ideologica delle città come se questi terribili eventi, come la crisi economica ed energetica, rappresentassero un’occasione più che una disgrazia.

    Andrebbe ribadito ancora una volta come all’interno di un periodo di una complessa  crisi  come l’attuale, ogni risorsa economica umana e professionale dovrebbe essere lasciata libera  con l’obiettivo di creare le condizioni favorevoli ad una ripresa il più possibile veloce ed immediata eliminando ogni vincolo burocratico di ogni tipo e sorta.

    La scellerata scelta, invece, del sindaco di Milano, Sala, di impedire l’ingresso nella città alle autovetture euro 5 diesel va esattamente nella direzione opposta , confermando da una parte di non essere in grado di comprendere gli effetti devastanti per il tessuto industriale economico ed occupazionale derivanti dalla guerra come della pandemie e dall’inflazione. In più lo stesso sindaco dimostra di essere vittima di un narcisismo ideologico che pone la sua figura come le proprie decisioni al di sopra del problematico contesto storico.

    Un’unica persona come il  sindaco  mette così a rischio, o quanto meno in difficoltà, la complessa movimentazione di persone e  cose, e quindi di idee ed iniziative per oltre trecentomila (300.000) persone, nella sola area di Milano. Per cui il nostro Paese non si trova a subire solo i terribili effetti di  una tempesta derivante da fattori indipendenti dal controllo governativo, politico ed istituzionale, ma ne aggrava le conseguenze con l’opera irresponsabile di autorità governative anche locali.

    In questo periodo, sempre a causa di una sostanziale incompetenza e soprattutto di un approccio ideologico considerato superiore, alla stessa tragica unicità del momento storico economico,  le diverse classi politiche anche locali continuano per la propria strategia ideologica, prive di ogni collegamento con il contesto storico ed economico.

    Emergere chiaro perciò per quale motivo il nostro Paese subisca gli  effetti più disastrosi legati al succedersi della pandemia e della guerra.

    In quanto alla tempesta perfetta si aggiunge l’imperfetto operato dal governo e dei sindaci, i quali  si rivelano di una  assoluta impermeabilità alle difficoltà espresse, anche dai propri concittadini , Introducendo vincoli alla movimentazione urbana (Milano stop euro 5) o magari aumentandosi i propri emolumenti (Padova), e soprattutto non ponendosi neppure il dubbio  se, in un contesto di eccezionale gravità, non sarebbe il caso di riporre nella fondina i propri obiettivi ideologici,e dare la massima priorità ad una ripresa economica sostenuta anche dalla eliminazione di quanti più possibili vincoli burocratici e normativi anche nella semplice movimentazione urbana.

    P.S. In relazione, poi, all’impatto delle auto: 11.08.2022 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-colpevole-immaginaria-lautomobile/

  • Le medie imprese battono la crisi e corrono più del Pil

    Le imprese industriali di medie dimensioni si confermano la spina dorsale del capitalismo familiare italiano: hanno risultati decisamente migliori di quelle di grandi dimensioni, sono al passo (se non migliori) delle loro omologhe straniere, e dal 1996 hanno performato decisamente meglio del Pil. Oggi poi, pur avendo di fronte importanti sfide in termini di governance e correlate con gli effetti delle guerra in Ucraina, si stanno aprendo sempre di più al mondo del green e del digitale. E’ quanto emerge dal XXI Rapporto di Unioncamere, Area Studi Mediobanca e Centro Studi Tagliacarne, secondo cui dopo il rimbalzo del fatturato dello scorso anno le prospettive per il giro d’affari delle medie imprese italiane nel 2022 sono molto favorevoli.

    Secondo un indicatore di performance, dal 1996 le medie imprese italiane hanno maturato rispetto al Pil un vantaggio del 34,1%, la maggior parte del quale sviluppato dal 2009. Nel confronto con le grandi imprese manifatturiere, nello stesso periodo, le medie hanno ottenuto una crescita dei ricavi più che doppia (+108,8% contro un +64,4%), centrato un maggiore aumento della produttività (+53% rispetto al +38,6%) e garantito una migliore remunerazione del lavoro (+62,4% le medie, +57% le grandi). Inoltre, i successi sono stati ottenuti con un significativo ampliamento della base occupazionale (+39,8% contro un -12,5%) che ne ha fatto un modello capitalistico inclusivo e partecipativo attraente anche per gli stranieri. La loro produttività è superiore del 21,5% anche a quella delle omologhe tedesche e francesi, un risultato fuori dall’ordinario se si pensa che la nostra manifattura nella sua interezza accusa invece un ritardo del 17,9% rispetto agli stessi Paesi. Non è quindi un caso che negli ultimi 10 anni 210 medie aziende italiane sono state comprate da stranieri.

    Il rapporto osserva che le migliori performance delle imprese medie rispetto alle grandi sono state conseguite anche in un contesto non particolarmente favorevole. Basti pensare al nodo fiscale: il tax rate effettivo delle medie imprese è oggi attorno al 21,5% contro il 17,5% delle grandi e si valuta che se nell’ultimo decennio le medie imprese avessero avuto la medesima pressione fiscale delle grandi avrebbero ottenuto maggiori risorse per 6,5 miliardi di euro.

    Per quello che riguarda i risultati, lo scorso anno hanno conseguito un rimbalzo del fatturato pari al 19% e si attendono prospettive di crescita anche per il 2022 (+6,3%). Più del 60% delle medie imprese, inoltre, intende investire entro il prossimo triennio nelle tecnologie 4.0 e nel green e quel 52% che l’ha già fatto conto di superare i livelli produttivi pre-Covid entro quest’anno. Si tratta nel complesso di un universo di 3.174 imprese leader del cambiamento che, sottolinea lo studio, è pronto a cogliere anche le opportunità di crescita derivanti dal PNRR: il 59% delle medie imprese si è già attivato o si appresta a farlo. Altro aspetto rilevante da tenere in considerazione è che ricchezza e occupazione delle medie imprese sono prodotte prevalentemente in Italia. L’88,2%, infatti, non ha una sede produttiva all’estero e solo il 3% realizza in stabilimenti stranieri oltre il 50% dell’output. Il tema del re-shoring appare quindi di poca rilevanza per queste aziende che, invece, partecipano attivamente alle catene globali del valore: l’88,8% si avvale infatti di fornitori stranieri, ottenendo in media il 25% delle proprie forniture. Inoltre, la quota di vendite destinata all’estero è pari al 43,2% del fatturato.

    Guardando al futuro, tuttavia, le sfide non mancano e una tra tutte, la staffetta generazionale, rischia di rallentarne il cammino: per 1 impresa su 4 infatti il passaggio o non è perfezionato o rappresenta un vero ostacolo.

  • Le vere ragioni dell’inflazione. Il bilancio della Fed è più che raddoppiato in due anni

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 10 giugno 2022

    Che la pandemia e la guerra in Ucraina abbiano causato grandi turbolenze economiche globali non è in discussione. Non è vero, però, che siano le sole cause dell’inflazione nel mondo e dell’incipiente recessione economica. Non si può nascondere sotto il «tappeto» della pandemia e della guerra tutta «l’immondizia speculativa finanziaria» che ci trasciniamo da decenni.

    Anche i recenti avvisi di crisi fatti da alcuni esponenti della finanza non devono trarre in inganno. Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, si aspetta «un uragano economico» provocato dalla riduzione del bilancio della Fed e dalla guerra in Ucraina.

    Lorsignori sono preoccupati della bolla finanziaria che hanno creato più che delle sorti dell’economia. È come il grido di un drogato che non ha più accesso alla droga.

    Basta analizzare il bilancio della Federal Reserve per comprendere meglio il problema. Dai 900 miliardi di dollari precrollo della Lehman Brothers, esso era arrivato a 4.500 miliardi nel 2014. C’è stata un’imponente immissione di liquidità per salvare il sistema. Poi, dall’inizio della pandemia si è passati da 4.100 agli attuali 9.000 miliardi di dollari. Più del doppio in due anni!

    Questo comportamento è stato replicato dalla Bce e dalle altre banche centrali.

    Negli Usa una parte rilevante è andata a sostenere «artificialmente» le quotazioni di Wall Street e i corporate debt, cioè i debiti delle imprese spesso vicini ai livelli «spazzatura».

    A ciò si aggiunga la politica del tasso zero e negativo che ha favorito l’accensione spregiudicata di nuovi debiti, con il rischioso allargamento del cosiddetto «effetto leva», e ha generato titoli, pubblici e privati, per decine di migliaia di miliardi a tasso d’interesse negativo.

    Di fatto la Fed, e in misura minore le altre banche centrali, è diventata una vera «bad bank». L’impennata dell’inflazione ha reso il loro accomodante modus operandi non più sostenibile.

    L’aumento del tasso d’interesse e la riduzione dei quantitative easing stanno facendo saltare il banco.

    Anche la narrazione della crescita dell’inflazione non regge. Non basta sostenere che sia l’effetto degli squilibri generati dalla ripresa economica e dalla guerra. Sarebbe stupido negarne l’effetto. La narrazione, però, fa sempre perno sul meccanismo «imparziale e oggettivo» della domanda e dell’offerta. Cosa che però non si è pienamente manifestata con la diminuzione dei prezzi quando la domanda era scesa all’inizio del Covid.

    Nei mesi della pandemia non c’è stata una smobilitazione industriale mondiale tanto grande da giustificare le forti pulsioni inflattive generate da una modesta ripresa economica e dei consumi. Anche il rallentamento delle «catene di approvvigionamento» è stato esagerato da una certa propaganda interessata.

    Occorre mettere in conto l’effetto dell’enorme liquidità in circolazione e la necessità per il sistema finanziario di generare a tutti i costi dei profitti, anche con la speculazione. Ecco alcuni dati per una più corretta valutazione dell’inflazione.

    Riguardo all’indice dei Global Prices of Agriculture Raw Materials, le derrate alimentari, la Fed di St Louis riporta che mediamente era di 91 punti ad aprile 2020, 114 un anno dopo e 123 ad aprile 2022. Il prezzo del petrolio Wti, che era 18 $ al barile ad aprile 2020, aveva già raggiunto i 65 $ un anno dopo. A maggio 2022 superava i 114 dollari.

    Simili andamenti sono riportati dal Fmi per l’indice delle commodity primarie che sale progressivamente dai 60 punti del 2020 per poi crescere vertiginosamente negli ultimi mesi fino a raggiungere i 150 punti. Evidentemente gli effetti della guerra e delle sanzioni incidono non poco sull’impennata dei prezzi di detti prodotti.

    L’indice dei prezzi dei fertilizzanti della Banca mondiale, che nell’aprile 2020 era 66,24 a dicembre 2021 era esploso a 208,01. L’aumento del 60% negli ultimi due mesi del 2021 ha devastato gli agricoltori di tutto il mondo.

    Ancora una volta la fa da padrone la speculazione. È singolare che si chieda l’immediata sospensione delle attività belliche e non s’intervenga contro la speculazione i cui effetti devastanti si riverberano a livello globale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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