Democrazia

  • From freedom fighter to Namibia’s first female president

    Nicknamed NNN, Netumbo Nandi-Ndaitwah has made history by being elected as Namibia’s first female president.

    The 72-year-old won more than 57% of the vote, with her closest rival, Panduleni Itula, getting 26%, according to the electoral commission.

    It is just the latest episode in a life packed with striking events – Nandi-Ndaitwah has fought against occupying powers, fled into exile and established herself as one of the most prominent women in Namibian politics.

    However, Itula has rejected her victory. He said the election was “deeply flawed”, following logistical problems and a three-day extension to polling in some parts of the country.

    His Independent Patriots for Change (IPC) party said it would challenge the result in court.

    Nandi-Ndaitwah has been a loyal member of the governing party, Swapo, since she was a teenager and pledges to lead Namibia’s economic transformation.

    Nandi-Ndaitwah was born in 1952, in the northern village of Onamutai. She was the ninth of 13 children and her father was an Anglican clergyman.

    At the time, Namibia was known as South West Africa and its people were under occupation from South Africa.

    Nandi-Ndaitwah joined Swapo, then a liberation movement resisting South Africa’s white-minority rule, when she was only 14.

    A passionate activist, Nandi-Ndaitwah became a leader of Swapo’s Youth League.

    The role set her up for a successful political career, but at the time Nandi-Ndaitwah was simply interested in freeing South West Africa.

    “Politics came in just because of the circumstances. I should have become maybe a scientist,” she said in an interview this year.

    While still a high school student, Nandi-Ndaitwah was arrested and detained during a crackdown on Swapo activists.

    As a result of this persecution, she decided she could not stay in the country and joined several other Swapo members in exile.

    She continued to organise with the movement while in Zambia and Tanzania, before moving to the UK to undertake an International Relations degree.

    Then in 1988 – 14 years after Nandi-Ndaitwah fled her country – South Africa finally agreed to Namibian independence.

    Nandi-Ndaitwah returned home and subsequently joined the post-independence, Swapo-run government.

    In the years since, she has held a variety of posts, including ministerial roles in foreign affairs, tourism, child welfare and information.

    Nandi-Ndaitwah became known as an advocate for women’s rights. In one of her key achievements, she pushed the Combating of Domestic Violence Act through the National Assembly in 2002.

    According to Namibian media, Nandi-Ndaitwah criticised her male colleagues for trying to ridicule the draft law, sternly reminding them that the Swapo constitution condemns sexism.

    She continued to rise despite Namibia’s traditional and male-dominated political culture, and in February this year she became vice-president.

    She suceeded Nangolo Mbumba, who stepped up after the death of then-President Hage Geingob.

    In her personal life, Nandi-Ndaitwah is married to Epaphras Denga Ndaitwah, the former chief of Namibia’s defence forces. The couple has three sons.

    Throughout her career, Nandi-Ndaitwah has displayed a hands-on, pragmatic style of leadership.

    She once declared in a speech: “I am an implementer, not a storyteller.”

  • Tollerare certi autocrati comporta sempre gravi conseguenze

    Quando il diluvio ci minaccia, non bisogna temere di bagnarsi i piedi.

    Anton Čechov, Da “Il duello”; 1891

    La seconda guerra mondiale era finita da circa quindici anni, mentre il mondo, geopoliticamente parlando, risultava diviso in due campi avversari ed ostili. Quello democratico dei Paesi occidentali e il campo comunista, capeggiato dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, nota come l’Unione Sovietica. Era il tempo in cui gli Stati Uniti d’America avevano tentato di invadere, nell’aprile 1961 la Baia dei Porci in Cuba. Mentre in Italia ed in Turchia erano stati già installati missili a medio raggio PGM-19 Jupiter. Il che ha portato all’accordo segreto tra l’Unione Sovietica e Cuba per l’installazione sul territorio cubano dei missili, compresi anche quelli con testate nucleari. Dalle fotografie fatte da un aereo militare statunitense si vedevano chiaramente delle rampe con dei missili, situate a circa 140 chilometri dalle coste degli Stati Uniti d’America. Il che ha portato, nell’ottobre 1962, ad un blocco navale statunitense intorno alle coste cubane. Un blocco che venne tolto in seguito, il 20 novembre 1962, dopo lunghi e difficili negoziati tra i rappresentanti del presidente degli Stati Uniti e quelli del Segretario generale del Partito comunista sovietico.

    In una simile realtà geopolitica e geostrategica, per contrastare la crescente e preoccupante influenza di varie forme delle ideologie di sinistra, soprattutto quella comunista, nel 1961 si costituì a Santiago, la capitale del Cile, l’Unione Democratica Cristiana Mondiale. Si trattava di un raggruppamento di molti partiti di orientamento democristiano. Dopo aver cambiato alcuni nomi, dal 1999 l’organizzazione è finalmente nota come l’Internazionale Democratica Centrista (IDC – The Centrist Democrat International, CDI; n.d.a.). Attualmente in questa organizzazione si trovano raggruppati 109 partiti da 83 Paesi diversi, soprattutto dell’Europa e dell’America Latina. Durante questi quasi sei decenni a questa organizzazione hanno aderito altresì, altri partiti politici, sia di orientamento centrista che conservatore moderato. Parte integrante e attiva di questa organizzazione è anche il Partito Popolare europeo (PPE), il maggior partito dell’Unione europea. Un partito che è stato costituito nel luglio 1976. PPE rappresenta un vasto raggruppamento di partiti politici di centro-destra dei Paesi membri dell’Unione e di altri Paesi europei.

    Il 18 novembre scorso, l’Internazionale Democratica Centrista ha approvato all’unanimità una risoluzione sulla situazione politica in Albania. Si tratta di un documento ufficiale molto critico nei confronti del governo albanese, che rispecchia l’ormai ben nota e molto preoccupante realtà albanese. Una realtà  vissuta e sofferta da anni per la maggior parte della popolazione del Paese. Una realtà che, come tale, ha costretto circa un terzo dell’intera popolazione a scappare all’estero, con la speranza di una vita migliore. Una realtà, quella albanese, che ormai, soprattutto durante gli ultimi mesi, è stata trattata con oggettività da molti noti media europei e statunitensi. Il nostro lettore è stato informato di questi sviluppi a più riprese, sempre fatti alla mano (Autocrati disponibili a tutto in cambio di favori, 11 marzo 2024; Clamorosi abusi rivelati da un programma televisivo investigativo, 23 aprile 2024; Altre verità rivelate da un programma televisivo investigativo, 7 maggio 2024; Nuove verità inquietanti da un programma televisivo investigativo, 3 giugno 2024; Riflessioni durante la Giornata internazionale della democrazia; 16 settembre 2024; Minacce ai giornalisti europei che denunciano una grave realtà, 7 ottobre 2024 ecc…).

    Ebbene, la risoluzione sulla situazione in Albania dell’Internazionale Democratica Centrista ha tra l’altro evidenziato che durante questi ultimi 11 anni “….tutti i poteri sono stati concentrati nelle mani di una sola persona”. E si riferiva al primo ministro. Poi sottolineava che “…Simile alle situazioni in Bielorussia ed in Tunisia, i dirigenti dell’opposizione, i deputati del Parlamento ed i funzionari del governo locale, rappresentanti scelti dell’opposizione si affrontano con persecuzioni politiche e con imprigionamenti”. Poi nella sopracitata risoluzione si afferma che preoccupa molto “….la sfrenata corruzione, così come i legami e le influenze problematiche della criminalità organizzata”.  Aggiungendo che “la criminalità organizzata, in stretta connivenza con i cartelli della droga dell’America Latina, che sono ben diffusi in molti Paesi europei, stanno usando l’economia e la situazione politica albanese per il riciclaggio del denaro, dimostrando così un preoccupante miscuglio dello Stato e delle imprese criminali”. In seguito la sopracitata risoluzione sull’Albania dell’Internazionale Democratica Centrista tratta anche il diretto coinvolgimento delle strutture del governo centrale e locale, della polizia di Stato e molto altro, spesso anche in stretta collaborazione con la criminalità organizzata locale, che vengono usate per condizionare il voto, intimidendo i cittadini, oppure comprare il loro voto, durante le elezioni politiche ed amministrative.

    Un capitolo di questa risoluzione è stato dedicato al sistema della giustizia in Albania, affermando che “….L’Internazionale Democratica Centrista sottolinea la necessità di un [sistema] giuridico imparziale ed indipendente […]. Ci sono delle preoccupazioni legittime che le istituzioni chiave [del sistema della giustizia], che si suppone funzionare in modo imparziale, come garanti della democrazia e dello Stato di diritto, nella loro maggior parte sono diventate dei potenti strumenti della maggioranza socialista per sopprimere gli avversari politici”. Poi la risoluzione sottolinea che il sistema della giustizia “…non si può usare come arma politica a preparare il terreno per le manipolazioni elettorali, ricordandoci le tattiche dei sistemi autoritari”. In seguito la risoluzione si riferisce agli arresti politici, agli imprigionamenti, in piena violazione delle leggi in vigore, dei massimi dirigenti dell’opposizione. Una realtà questa ormai nota anche per il nostro lettore (Inconfutabili testimonianze di una dittatura in azione, 23 ottobre 2023; Preoccupante ubbidienza delle istituzioni al regime dittatoriale, 7 novembre 2023; Un dittatore corrotto e disposto a tutto, 20 dicembre 2023; Preoccupanti e pericolose somiglianze; 16 gennaio 2024; Sostegno da Oltreoceano ad un autocrate corrotto, 20 febbraio 2024; Un regime che cerca di apparire come uno Stato di diritto, 28 Ottobre 2024).

    Un’altra risoluzione sulla preoccupante situazione in Albania è stata approvata all’unanimità il 22 novembre scorso anche dal Partito Popolare europeo. La risoluzione affermava che “…La realtà dell’integrità istituzionale si riflette come corruzione endemica e mancanza di libere ed oneste elezioni, secondo gli standard dell’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa; n.d.a.). La risoluzione condannava “Ogni supponibile persecuzione politica dei dirigenti dell’opposizione”. Condannava anche “…i legami della criminalità organizzata con l’élite politica e con i funzionari delle forze dell’ordine”.

    Chi scrive queste righe condivide quanto si afferma nelle due sopracitate risoluzioni. Egli è però convinto che il diretto responsabile di una simile e preoccupante situazione in Albania sia il primo ministro. Colui che, con la sua ben nota sfacciataggine, riesce a ingannare e/o diventare “utile” per alcuni dirigenti dei Paesi dell’Unione europea e dell’Unione stessa. Si, perchè loro, non di rado, sono più interessati alla stabilità regionale e ad altri “servizi garantiti” dal primo ministro albanese che al funzionamento dello Stato di diritto in Albania. Tollerare però un autocrate come lui comporta gravi conseguenze, non solo per gli albanesi. Ma siccome essi sono i diretti interessati, almeno gli albanesi si devono rendere conto che, come scriveva Anton Čechov, quando il diluvio ci minaccia, non bisogna temere di bagnarsi i piedi. Si devono perciò ribellare contro il primo ministro, nonostante la “tolleranza interessata” nei suoi confronti di alcuni dirigenti europei.

  • Somaliland opposition leader wins presidential election

    The opposition leader of the self-declared republic of Somaliland, Abdirahman Mohamed Abdullahi, has won the territory’s presidential election.

    More popularly known as Irro, he won with 64% of the vote to become Somaliland’s sixth president since it broke away from Somalia in 1991.

    The 69-year-old, a former speaker of Somaliland’s parliament, beat incumbent Musa Abdi Bihi, who took 35% of the vote.

    During campaigning, Irro said his party would review a controversial deal to lease landlocked Ethiopia a 20km (12-mile) section of its coastline for 50 years to set up a naval base – an agreement that has caused a diplomatic feud in the region.

    As part of the deal, announced on New Year’s Day, Somaliland expects to be recognised by Addis Ababa as an independent nation.

    This has upset Somalia, which regards Somaliland as part of its territory – and it has said it views the deal as an act of aggression.

    Irro has never rejected the deal out of hand, but when discussing it has used diplomatic language, which suggests a change of tack.

    Somaliland is located in a strategic part of the world, and is seen as a gateway to the Gulf of Aden and the Red Sea.

    Despite its relative stability and regular democratic elections, it has not been recognised internationally.

    “We are all winners, the Somaliland state won,” Irro said, commending everyone for the peaceful vote on 13 November that was witnessed by diplomats from nine European countries and the US.

    He also thanked outgoing President Bihi, who has led the breakaway region since 2017.

    Critics say Bihi lost support because of a paternalistic style – saying he had been dismissive of public opinion at a time when economic difficulties have undermined the value of the local currency.

    The president-elect, who will be sworn in on 14 December, is seen as a more unifying figure.

    But he has said he will continue Somaliland’s relations with Taiwan – over which China claims sovereignty.

    When the two established diplomatic relations in 2021 it angered both China and Somalia.

    Somaliland is a former British protectorate that joined the rest of Somalia on 1 July 1960.

    In a conflict leading up to the overthrow of President Siad Barre in 1991, tens of thousands of people were killed in Somaliland and its main city of Hargeisa was completely flattened in aerial bombardments.

    In the chaos that followed Barre’s departure, Somaliland declared its independence and has since rebuilt the city, created its own currency, institutions and security structures.

    This is often contrasted to Somalia, which collapsed into anarchy for decades and still faces many challenges, including from Islamist militants, and does not hold direct elections.

    Born in Hargeisa, Irro went to school in Somalia and later attended college in the US – graduating with a master’s degree in business administration.

    After university he pursued a diplomatic career, joining Somalia’s foreign service in 1981.

    He was posted to Moscow where he worked at Somalia’s embassy. During the civil war, he became the country’s acting ambassador to the former Soviet Union.

    Many people fled Somalia during the conflict, which tore the nation apart, including Irro’s family who went to live in Finland.

    He was able to be reunited with them there and obtained Finnish citizenship.

    Irro returned to Somaliland several years later, entering politics in 2002 as co-founder of the opposition Justice and Welfare party (UCID).

    He went on to serve as speaker of the parliament for 12 years.

    It was during this time that he established the Wadani Party, which has grown to be a powerful political force in Somaliland and on whose ticket he won this year’s election.

    Additional reporting by Bidhaan Dahir and BBC Monitoring.

  • World’s longest detained journalist wins rights prize

    A journalist detained in Eritrean prison without trial for 23 years has won a Swedish human rights prize for his commitment to freedom of expression.

    Dawit Isaak, who holds dual Eritrean-Swedish citizenship, was given the Edelstam Prize “for his… exceptional courage”, the foundation behind the award said in a statement.

    Dawit was one of the founders of Setit, Eritrea’s first independent newspaper.

    He was detained in 2001 after his paper published letters demanding democratic reforms.

    Dawit was among a group of about two dozen individuals, including senior cabinet ministers, members of parliament and independent journalists, arrested in a government purge.

    Over the years, the Eritrean government has provided no information on his whereabouts or health, and many who were jailed alongside him are presumed dead.

    The Edelstam Prize, awarded for exceptional courage in defending human rights, will be presented on 19 November in Stockholm.

    Dawit’s daughter, Betlehem Isaak, will accept the prize on his behalf as he remains imprisoned in Eritrea.

    His work with the Setit included criticism of the government and calls for democratic reform and free expression, actions that led to his arrest in a crackdown on dissent.

    The Edelstam Foundation has called for Dawit’s release, urging the Eritrean authorities to disclose his location and allow him legal representation.

    “Dawit Isaak is the longest detained journalist in the world. We are very concerned about his health and his whereabouts are unknown, he is not charged with a crime, and he has been denied access to his family, consular assistance, and the right to legal counsel – effectively, it is an enforced disappearance,” said Caroline Edelstam, the chair of the Edelstam Prize jury.

    His “indefatigable courage stands as a testament to the principle of freedom of expression.”

    The Edelstam Foundation also urged the international community to pressure Eritrea for Dawit’s release and to advocate for human rights reforms.

    The Edelstam Prize honours individuals who show exceptional bravery in defending human rights, in memory of Swedish diplomat Harald Edelstam.

    Eritrea is the only African country without privately owned media, having shut down its private press in 2001 under the pretext of “national security”.

    Dawit, who fled to Sweden in 1987 during Eritrea’s war for independence, returned after the country gained independence in 1993 after becoming a Swedish citizen.

    There have been no elections in Eritrea since its independence, and President Isaias Afwerki has held power for nearly 31 years.

  • Il vero vincitore delle elezioni statunitensi

    Ora che i risultati emergono nella loro evidenza si possono anche individuare i fattori del successo di Donald Trump.

    Di certo l’attenzione dimostrata verso il lavoro inteso come un fattore determinante nella progettualità di vita dal quale dipendono le vite delle famiglie ha sicuramente ottenuto il proprio e giusto riscontro elettorale. In questo contesto, e come naturale conseguenza logica, ha ottenuto maggior peso lo stesso mondo dell’industria e dell’agricoltura, che rappresentano il vero Deep State statunitense, in assoluta contrapposizione alle rendite di posizione legate ai flussi sia turistici che di semplice business delle città posizionate sulla costa (1).

    In questo senso l’idea stessa di introdurre dei dazi, già anticipata dalla precedente amministrazione Biden, se venisse confermata nasce proprio dal principio di una maggiore tutela nei confronti dei prodotti made in USA rispetto soprattutto ai prodotti made in China, e in questo senso l’export italiano non dovrebbe temere dei grossi contraccolpi ai propri flussi commerciali verso il mercato statunitense. Va ricordato, infatti, come una ricerca della Bloomberg Investiment presso i consumatori statunitensi di Made in Italy avesse evidenziato, nel 2018, come tutti i consumatori si erano dichiarati disponibili a pagare anche un prezzo maggiorato del +30% purché questi prodotti rimanessero espressione della filiera italiana e del vero Made in Italy. Un vero monito ed opportunità nella complessa gestione delle filiere artigianali ed industriali portatrici dei valori legati al way of life che il Made in Italy esprime.

    La rinnovata centralità del sistema industriale come fattore di crescita rappresenta, quindi, la seconda motivazione che ha portato alla vittoria in quanto strettamente legato al valore del lavoro ed a quanto questo riesca ad assicurare in termini di qualità della vita (2).

    Sicuramente, poi, il successo parte anche dalla consapevolezza nell’adozione del principio di uguaglianza per tutti i lavoratori statunitensi di ogni origine e razza. Contrapposto, viceversa, a quello dell’inclusione all’interno di Stato etico come proposto dal delirio Woke ed abbracciato dalla candidata democratica ed espresso dall’intero mondo di Hollywood. Una deriva etica che esalta la folle centralità dell’IO ASSOLUTO da imporre alla società dalla quale si pretendono oltre i diritti riconosciuti, anche quelli specifici in relazione alla propria singola particolarità (3).

    La prospettiva di crescita economica, quindi, legata alla capacità di assicurare il benessere dei cittadini è stata premiata rispetto alla presunzione ideologica che voleva imporre un modello di inclusione per la cui realizzazione potevano venire addirittura negati quei diritti fondamentali, come quello di critica e di opinione, che il “politicamente corretto” ha cercato di limitare come una sorta di censura (4).

    A questo si aggiunga come di certo sia stato ridimensionato nella sua importanza e capacità di influenzare la masse di adoratori tutto il mondo di Hollywood, che si era dichiarato apertamente a favore della candidata Kamala Harris ed illuso di favorirla.

    Gli Stati Uniti esprimono una democrazia complessa ed articolata, più vicina nella sua grandezza a un continente che non ad un semplice stato federale, in questo favorito anche dalla indipendenza energetica che probabilmente favorirà il proprio progressivo isolazionismo.

    In questa articolata complessità emersa dai risultati delle ultime elezioni negli Stati Uniti si conferma, viceversa, l’incapacità di comprenderne le dinamiche con un approccio provinciale della stragrande maggioranza dei media e del corpo politico italiano ed europeo.

  • Un regime che cerca di apparire come uno Stato di diritto

    Più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti.

    Margaret Thatcher

    Spesso si parla e si dibatte sul concetto dello ‘Stato di diritto’. E spesso questo concetto si confonde con quello dello ‘Stato legale’, nonostante ci sia una significativa differenza tra di loro. Si tratta di concetti che in comune hanno solo il rispetto delle leggi da parte delle istituzioni dello Stato. Cosa che accade però anche nei sistemi autocratici e dittatoriali. Invece in uno ‘Stato di diritto’ vengono rispettati e garantiti per legge tutti i diritti e le libertà dell’essere umano. E si tratta di diritti e libertà innate. Mentre molti diritti e libertà dell’essere umano non sono riconosciuti per legge dai regimi autocratici e dittatoriali. Ragion per cui non si rispettano e neanche si garantiscono.

    Il concetto dello ‘Stato di diritto’ è stato trattato già nella Grecia antica. Aristotele, circa ventitre secoli fa affermava che “… È più opportuno che sia la legge a governare che uno qualsiasi dei cittadini; secondo lo stesso principio, se è vantaggioso porre il potere supremo in alcune persone particolari; queste dovrebbero essere nominate solo custodi e servitori delle leggi”. In seguito il concetto è stato ulteriormente elaborato, adattandolo alle realtà del periodo storico, sia nel Regno Unito che in altri Paesi europei. Il concetto dello ‘Stato di diritto’ ha molto in comune con quello che è noto come Rule of Law (Imperio del Diritto; n.d.a.), fino al punto che si identificano. Nell’Enciclopedia Britannica con Rule of Law si intende un “meccanismo, processo, istituzione, pratica o norma che sostiene l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, garantisce una forma di governo non arbitraria e, più in generale, impedisce l’uso arbitrario del potere”.

    “Tutti sono attori dello Stato di diritto”. È una frase che esprime la convinzione dei dirigenti del World Justice Project (WJP – Progetto della Giustizia nel mondo; n.d.a.), fondato nel 2006 negli Stati Uniti d’America. Proprio nello stesso anno in cui un’altra organizzazione, Jeunes Européens Fédéralistes (JEF – Giovani Federalisti Europei; n.d.a.), nell’ambito delle attività denominate Democracy Under Pressure (Democrazia sotto Pressione; n.d.a.), cominciò a denunciare la violazione dei diritti dell’uomo in Bielorussia. Un Paese che allora veniva considerato come “l’ultima dittatura in Europa”.

    World Justice Project è un’organizzazione che secondo molti specialisti ed opinionisti risulta essere una delle più note organizzazioni, a livello internazionale, nel campo degli studi dettagliati e dell’informazione sullo Stato di diritto e della sua promozione. World Justice Project prepara e pubblica ogni anno anche un rapporto, il Rule of Law Index (Indice sullo Stato di diritto; n.d.a.). Un rapporto che raccoglie, elabora ed analizza molti dati che riguardano il rispetto della legge, attualmente in 142 Paesi del mondo. Sono dati raccolti direttamente, intervistando i cittadini e che servono a evidenziare il rispetto delle leggi e dei diritti fondamentali dell’essere umano. Il rapporto annuale Rule of Law Index viene redatto come una classifica di tutti i Paesi sotto analisi e che si basa sul rispetto delle libertà e dei diritti dei cittadini, sanciti dalla legge. Vengono perciò analizzati le cosiddette otto macro dimensioni dello Stato di diritto. E cioè la limitazione dei poteri governativi, l’assenza di corruzione, l’open government, i diritti fondamentali, l’ordine e la sicurezza, l’applicazione della legge, la giustizia civile e la giustizia penale.

    Mercoledì scorso, 23 ottobre, è stato pubblicato il rapporto Rule of Law Index per il 2024. In quel rapporto sono stati presentati i risultati delle analisi multidimensionali, fatte dagli specialisti del World Justice Project, per  tutti i 142 Paesi presi in considerazione. L’Albania era uno di loro. Ebbene, per il settimo anno consecutivo l’Albania registra solo dei continui regressi. Soprattutto per quando riguarda la corruzione. Riferendosi  all’indice “Assenza di corruzione” l’Albania si classifica alla 107a posizione tra i 142 Paesi analizzati. Dai dati elaborati risulta che l’Albania si percepisce come il Paese più corrotto dell’Europa. Ragion per cui entra nella “zona rosa” della corruzione, dova l’applicazione ed il rispetto delle leggi in vigore lasciano molto a desiderare.

    La corruzione, partendo dai più alti livelli delle istituzioni pubbliche in Albania, è analizzata e trattata in questi ultimi mesi anche da molti media internazionali. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò a tempo debito (Autocrati disponibili a tutto in cambio di favori, 11 marzo 2024; Clamorosi abusi rivelati da un programma televisivo investigativo, 23 aprile 2024; Altre verità rivelate da un programma televisivo investigativo, 7 maggio 2024; Nuove verità inquietanti da un programma televisivo investigativo, 3 giugno 2024; Riflessioni durante la Giornata internazionale della democrazia; 16 settembre 2024; Minacce ai giornalisti europei che denunciano una grave realtà, 7 ottobre 2024 ecc…). In un articolo pubblicato il 24 ottobre scorso dal noto quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, riferendosi alla corruzione in Albania si sottolinea che molti funzionari delle istituzioni dell’Unione europea affermano privatamente che “…la corruzione esiste in tutti i campi ed è ben presente nella vita pubblica”. Nello stesso articolo si fa riferimento anche al rapporto per il 2023 del Dipartimento di Stato statunitense, in cui si afferma che “…la corruzione esiste in tutte le diramazioni e in tutti i livelli del governo”. Mentre un altro media statunitense, il Fox News Digital, parte integrante della ben nota catena televisiva Fox News, sempre il 24 ottobre scorso sottolineava che “…La corruzione, soprattutto nel sistema giudiziario, è molto diffusa in Albania e i tribunali sono spesso sotto pressione e influenza politica”.

    Anche il noto settimanale francese Nouvel Obs, lo stesso giorno, il 24 ottobre scorso, affermava che dopo undici anni che il primo ministro è al potere “…l’Albania è ancora uno dei Paesi più corrotti dell’Europa […]. Un narcostato che si sta svuotando dei suoi abitanti”.

    I media internazionali la scorsa settimana si riferivano anche al sistema “riformato” della giustizia.

    Radio France Internationale, una ben nota emittente radiofonica pubblica francese, sottolineava che “…In Albania la riforma del sistema della giustizia si presenta come un successo dalla comunità internazionale, sembra che serve molto a rafforzare l’attuale potere [politico], invece di assicurare la vera trasparenza”. Un fatto questo che “…aumenta le preoccupazioni sull’indipendenza delle istituzioni del sistema della giustizia”. Il nostro lettore da anni ormai è stato informato, sempre con la dovuta e richiesta oggettività, del controllo delle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia in Albania da parte del primo ministro e/o di chi per lui. Soprattutto della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata che ormai, fatti accaduti anche in questi giorni alla mano, è diventata un’arma nelle mani del primo ministro per eliminare gli avversari politici. Lo testimoniano gli arresti domiciliari da dieci mesi ormai e senza prove del capo dell’opposizione, ex presidente della Repubblica ed ex primo ministro. Così come lo testimonia l’arresto brutale lunedì scorso, 21 ottobre, di un altro ex presidente della Repubblica, ex presidente del Parlamento ed ex primo ministro. Quest’ultimo è stato precedentemente alleato con l’attuale primo ministro (2013-2017), per poi diventare un suo avversario politico. Anche di questi arresti hanno scritto i media internazionali la scorsa settimana.

    Chi scrive queste righe è convinto che in Albania dal 2013 è stato restaurato un regime autocratico. Si tratta di una nuova dittatura sui generis, di un regime che cerca di apparire come uno Stato di diritto. Ma non lo è per niente. Spetta ai cittadini albanesi reagire, perché, come affermava Margaret Thatcher, più grande è la fetta presa dallo Stato, più piccola sarà la torta a disposizione di tutti. E lo Stato in Albania non è uno Stato di diritto ma, bensì, uno Stato corrotto e che abusa.

  • Bolivian ex-leader’s looming arrest warrant triggers protests

    Supporters of former Bolivian president Evo Morales have clashed with police after a prosecutor said she would order his arrest.

    Morales, who governed Bolivia from 2006 to 2019, is under investigation for alleged statutory rape and human trafficking, which he denies.

    The accusations against the 64-year-old have resurfaced ahead of presidential elections next year, in which he plans to run.

    The prosecutor announced she would issue an arrest warrant after Morales failed to attend a hearing in the case last week.

    Tension has been high in Bolivia for months, with supporters of Morales clashing with those of the current president, Luis Arce.

    Both men belong to the governing Mas party and are battling over who will be the party’s candidate in the presidential election scheduled for August 2025.

    Three weeks ago, the two rival groups of supporters came to blows in the city of El Alto.

    The investigation into Morales has further heightened the already volatile atmosphere.

    On Monday, Morales’s followers erected blockades on two major roads, which police tried to lift. At least 12 people were arrested and one police officer was injured.

    Morales supporters have said they will keep the blockade up “indefinitely” and could extend it to affect major roads across the country should he be arrested.

    The allegations against Morales are not new.

    In 2020, the ministry of justice filed a criminal complaint against the ex-president, accusing him of rape and human trafficking.

    In the complaint, prosecutors argued that sexual encounters Morales allegedly had in 2015 with a girl who was reportedly under age at the time constituted statutory rape.

    They said he had taken the girl on trips abroad, which they said amounted to human trafficking.

    Morales argued the accusations were part of a right-wing vendetta against him by the interim president who replaced him in office after his resignation in 2019 following allegations of vote-rigging.

    Morales, who was living in exile at the time, was also accused of sedition and terrorism and an arrest warrant for him was issued.

    However, the arrest warrant was annulled after his lawyers argued successfully that due process had not been followed.

    Morales returned to Bolivia a day after Luis Arce from Morales’s Mas party was sworn in as president in November 2020.

    But the two erstwhile allies have since fallen out and their relations have become even more acrimonious since both announced their intentions to run as the Mas party’s candidate in the 2025 presidential election.

    Both politicians have groups of loyal supporters willing to take to the streets – and in some cases engage in street brawls – to show their backing for their candidate.

    Followers of Morales have threatened to paralyse the country should he be arrested.

    Sandra Gutiérrez, the prosecutor in the case against Morales, said on Thursday that a warrant for his arrest would be issued after he failed to appear at a hearing.

    On Monday, the chief of police said he had not yet been issued with orders to detain the former president.

    But the police chief stressed that, once he received the order to arrest Morales, he would carry it out.

  • Pyongyang medita di far saltare le strade verso la Corea del Sud

    La Corea del Nord ha posto le forze militari schierate al confine con la Corea del Sud in stato di massima allerta, dopo aver accusato Seul di aver inviato droni sui cieli di Pyongyang. Lo stato maggiore dell’esercito nordcoreano ha ordinato ai reparti di artiglieria al confine di “prepararsi ad aprire il fuoco” nell’eventualità di nuove violazioni dello spazio aereo nazionale, secondo quanto riferito ieri dall’agenzia d’informazione ufficiale del Nord, “Korean Central News Agency” (“Kcna”). Pyongyang, che accusa la Corea del Sud di “provocazioni belliche”, sostiene che Seul abbia inviato droni sui cieli di Pyongyang per tre volte dall’inizio di ottobre, e che questi ultimi abbiano sganciato sulla capitale nordcoreana volantini di denuncia del governo guidato da Kim Jong-un. Lo stato maggiore congiunto delle Forze armate sudcoreane ha affermato in una nota di essere a conoscenza delle attività militari nordcoreane oltreconfine, e di essere pronto a rispondere a qualunque provocazione.

    Le Forze armate della Corea del Nord hanno annunciato la scorsa settimana ulteriori lavori di fortificazione del confine tra le due Coree, e l’interruzione fisica di tutti i collegamenti stradali e ferroviari transfrontalieri tra i due Paesi, già in disuso a causa delle tensioni in atto nella Penisola coreana. L’annuncio, rilanciato dall’agenzia di stampa ufficiale “Korean Central News Agency” (“Kcna”), presenta le misure come una risposta alle esercitazioni militari congiunte intraprese da Corea del Sud e Stati Uniti in prossimità del confine, e alla decisione degli Usa di schierare “assetti nucleari strategici” nella Penisola coreana. Nella nota dello Stato maggiore dell’Armata del popolo coreano in cui si annuncia il taglio totale delle vie di collegamento tra i due Paesi, le forze armate affermano che le misure hanno carattere esclusivamente difensivo, e accusano la Corea del Sud di aver causato “una situazione critica nella quale il rischio di innescare un conflitto è in continuo aumento”.

    Il leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, ha dichiarato nei giorni scorsi che il Paese accelererà ulteriormente gli sforzi tesi ad affermarsi come “superpotenza militare dotata di armi nucleari”, e ha ribadito che la dottrina di Pyongyang non esclude l’uso delle armi atomiche in caso di aggressione. Lo ha riferito ieri l’agenzia di stampa ufficiale “Korean Central News Agency” (“Kcna”), che ha rilanciato parti di un discorso tenuto dal leader nordcoreano presso l’Università nazionale della difesa a lui intitolata. Kim ha nominato espressamente il presidente della Corea del Sud, Yoon Suk Yeol, accusandolo di essere “in combutta con gli Stati Uniti per destabilizzare la regione”: “Yoon Suk Yeol ha pronunciato commenti privi di gusto e volgari in merito alla fine della Repubblica (Popolare Democratica di Corea, la Corea del Nord) in un suo recente discorso, e questo dimostra che è del tutto consumato dalla sua cieca fiducia nella forza dei suoi padroni”, ha dichiarato il leader nordcoreano riferendosi agli Stati Uniti.

    “Ad essere sinceri, non abbiamo assolutamente alcuna intenzione di attaccare la Corea del Sud”, ha aggiunto Kim. “Ogni qual volta ho enunciato la nostra posizione sull’uso della forza militare, mi sono espresso al condizionale: se i nemici proveranno ad usare la forza contro il nostro Paese, le Forze armate della Repubblica utilizzeranno tutta la forza offensiva (di cui dispongono) senza alcuna esitazione. Questo non preclude l’utilizzo di armi nucleari”, ha ribadito il leader della Corea del Nord, aggiungendo che “i nostri passi per affermarci come superpotenza militare e nucleare accelereranno”.

  • 7 ottobre: troppi

    Troppi gli Stati, le persone che non hanno mai condannato la strage del 7 ottobre, denunciato il terrorismo di Hamas

    Troppi gli ostaggi uccisi e troppi quelli ancora nelle mani dei terroristi

    Troppi i tunnel che anche dal Libano mettono in pericolo la vita degli israeliani

    Troppi i morti, troppi gli sfollati di una guerra che non solo Israele porta avanti in modo sempre più violento e che ormai colpisce nel mucchio i civili

    Troppi i terroristi ancora attivi e capaci di altre stragi oggi e domani

    Troppi finti santoni in Iran alimentati dall’odio verso Israele e verso qualunque concetto di pace e libertà

    Troppi gli armamenti in possesso di Hezbollah, degli Houthi, di Hamas e troppi gli aiuti ufficiali ed ufficiosi sui quali possono contare

    Troppi i proclami, gli inviti al cessate il fuoco, dei leader di tante nazioni, fatti con la consapevolezza della loro inutilità, dell’estrema debolezza che hanno di fronte al reale pericolo, per lo Stato di Israele, di essere attaccato e distrutto se lascia ancora spazio ai suoi nemici, da sempre decisi ad annientarlo

    Troppi i silenzi che ci sono stati nel passato di fronte ad una situazione che ogni giorno peggiorava, che ci sono stati prima e dopo il 7 ottobre da parte di tanti occidentali, per non parlare di dittatori, come russi e cinesi, che con l’Iran hanno interessi comuni specie in tema di armi, di violenza, di libertà negate

    Troppi gli attacchi agli ebrei che anche in Europa rendono lo stato di allerta sempre più alto

    Troppi i violenti, fiancheggiatori di fatto dei terroristi, che sfilano nei cortei delle nostre democrazie sempre più deboli e confuse

    Troppi gli esponenti del mondo musulmano ed orientale che si nascondono dietro il silenzio nell’attesa di capire come andrà a finire

    La parola Pace è una delle più belle parole quando significa dignità nei fatti, convivenza civile, giustizia, rispetto delle regole internazionali, libertà e sicurezza

    La parola Pace è una delle più inutili quando è pronunciata senza programmi seri, volontà sincere per raggiungerla

    La parola Pace è una delle più abusate quando non si sa cosa altro dire, cosa proporre e la si usa strumentalmente

    La parola Pace diventa una presa in giro, un vilipendio proprio alla pace quando si vuole ottenere la sconfitta dell’aggredito ed il trionfo dell’aggressore

  • Proposta delirante di un autocrate in gravi difficoltà

    L’uomo non è spiegabile e, in ogni caso, bisogna indagare i suoi segreti

    non nelle sue ragioni ma piuttosto nei suoi sogni e deliri.

    Ernesto Sabato

    Fino al 1815 era noto come lo Stato Pontificio. Organizzato e funzionante come una monarchia assoluta, aveva come suo massimo rappresentante, con i pieni poteri, il Pontefice. Fino ad allora era anche uno degli Stati italiani, come il Regno di Sicilia, il Regno di Napoli, il Granducato di Toscana ed altre entità statali. Ma il 20 settembre 1870 il Regno d’Italia conquistò Roma. In seguito, dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870, anche i territori della Santa Sede sono stati annessi al Regno d’Italia. Alcuni mesi dopo, nel maggio 1871 il Parlamento stabilì anche i diritti della Santa Sede come parte integrante del Regno d’Italia. Il Papa veniva riconosciuto ancora come la massima autorità, ma alla Santa Sede è stato riconosciuto solo il possesso e non la proprietà degli edifici a Roma e dintorni. Il papa di allora, Pio IX, non riconobbe la decisione del Parlamento e si dichiarò prigioniero in Vaticano. Una simile situazione tesa tra il Regno d’Italia e la Santa Sede durò fino al 1929, quando, dopo lunghe trattative, l’11 febbraio 1929 si firmarono i Patti Lateranensi. Dal concordato tra l’Italia e la Santa Sede il 7 giugno 1929 è stato costituito e riconosciuto lo Stato sovrano della Città del Vaticano, esteso su un territorio molto limitato, entro le mura leonine, compresa anche la piazza San Pietro. I Patti Lateranensi, sono ormai sanciti dall’articolo 7 della Costituzione della Repubblica italiana.

    Quest’anno si è svolta la 79ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dal 22 e al 23 settembre 2024, l’Assemblea ha ospitato il Vertice del futuro. In quel vertice sono stati trattati diversi temi. Per il Segretario generale delle Nazioni Unite quel vertice dovrebbe rappresentare “…un’opportunità unica per ricostruire la fiducia e riallineare le istituzioni multilaterali obsolete con il mondo di oggi, basandosi su equità e solidarietà”.

    Durante il sopracitato vertice, il 22 settembre scorso ha preso la parola anche il primo ministro albanese. Nel frattempo i suoi clamorosi abusi di potere, i continui scandali che lo coinvolgono direttamente, insieme con alcuni suoi stretti famigliari e collaboratori, il controllo da lui personalmente e/o da chi per lui del sistema “riformato” della giustizia, la galoppante corruzione partendo dai più alti livelli, sono stati trattati ed evidenziati anche dai giornali e dalle televisioni di vari Paesi europei ed di oltreoceano. Il nostro lettore è stato informato, a tempo debito, di tutto ciò. Così come è stato spesso informato, durante questi ultimi anni, della restaurazione e del continuo consolidamento di una nuova dittatura sui generis in Albania. Una dittatura camuffata da una facciata di pluripartitismo, ma che arresta e tiene tuttora isolato in casa, senza nessuna prova, il capo dell’opposizione. E tutti lo sanno che è stato il primo ministro a chiederlo. Come fanno anche altri suoi simili, in Russia, in Turchia, in Bielorussia, in Venezuela ed altrove nel mondo. Una dittatura, quella restaurata in Albania, espressione della pericolosa alleanza tra il potere politico, rappresentato proprio dal primo ministro, la criminalità organizzata locale ed internazionale e determinati raggruppamenti occulti molto potenti finanziariamente.

    Una grave e molto preoccupante realtà questa vissuta e sofferta in Albania. Una realtà che ha costretto durante questi ultimi anni circa un terzo della popolazione, soprattutto i giovani, a lasciare la madrepatria per cercare un futuro migliore all’estero. Una realtà questa che non riesce più a nascondere neanche la ben organizzata e potente propaganda governativa. Una realtà che ha vistosamente messo in serie difficoltà anche il diretto responsabile, il primo ministro albanese.

    Ebbene, il 22 settembre scorso, lui ha preso la parola al Vertice del futuro, organizzato nell’ambito della 79ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. E come fa sempre quando si trova in gravi difficoltà, l’autocrata albanese ha cercato, anche questa volta, di spostare l’attenzione, sia dell’aula che dell’opinione pubblica in Albania, con delle “stranezze”. E questa volta ha scelto di proclamare la costituzione di uno Stato sovrano della comunità religiosa bektashì dentro il territorio della capitale albanese. Come la Città del Vaticano a Roma. Bisogna sottolineare che in Albania coesistono pacificamente alcune comunità religiose, le più note delle quali sono la comunità musulmana sunnita, che rappresenta la maggior parte della popolazione, la comunità cristiana ortodossa, quella cattolica e la comunità bektashì, che sono dei musulmani sciiti della confessione islamica sufi. Ci sono anche altre comunità religiose minori. Risulterebbe che la comunità dei bektashì rappresenta meno del 10% dell’intera popolazione albanese. E riferendosi a quella comunità il primo ministro albanese ha dichiarato il 22 settembre scorso che avrebbe in mente di “…trasformare il centro dell’Ordine [comunità] dei bektashì, al centro di Tirana, in un centro di tolleranza e di coesistenza”. Ed intendeva quelle tra le varie religioni. Ma è un fatto storicamente e pubblicamente noto che in Albania le diverse comunità religiose hanno sempre coesistito e convissuto in armonia tra di loro. Perciò solo questo importante fatto contrasta con le dichiarazioni del primo ministro. Uno strano e, per molti, delirante annuncio quello suo, che è stato anticipato da un articolo pubblicato il 21 settembre scorso, dal noto quotidiano statunitense The New York Times. In quell’articolo era stato citato il primo ministro per aver confidato al giornalista che voleva portare avanti una sua idea: quella di costituire un piccolo Stato, un’enclave, seguendo il modello del Vaticano. Un’enclave che verrebbe governata dai bektashì. Ma già solo con questa affermazione dimostra che o non conosce la storia, oppure sta ingannando. Sì perché si tratta di due realtà e modelli ben differenti per varie ragioni; storiche, culturali, demografiche ed altro.

    Il primo ministro ha dichiarato al The New York Times che “L’Albania cerca di trasformare in uno Stato sovrano con la propria amministrazione, i propri passaporti e le proprie frontiere” la comunità dei bektashì. E conferma che nel prossimo futuro “…presenterà i piani per l’entità che sarà chiamata lo Stato Sovrano dell’Ordine dei Bektashì”. Lui ha altresì affermato al giornalista che si trattava di un piano che lo sapevano solo pochissimi suoi stretti collaboratori. Ma lui, prima di tutto, doveva informare e poi consultare i rappresentanti delle comunità religiose in Albania ed altri gruppi di interesse. Doveva informare soprattutto il diretto interessato, il dirigente della comunità bektashì in Albania. E proprio quest’ultimo ha confermato subito dopo la pubblicazione dell’articolo che “La notizia che l’Albania potrebbe dare la sovranità all’Ordine dei Bektashì … ci ha stupiti. Noi non abbiamo richiesto e non pretendiamo di creare uno Stato musulmano. L’iniziativa è totalmente del primo ministro”. Ma il primo ministro doveva, sempre obbligatoriamente, discutere questo suo “strano piano” in parlamento. Si perché per portare avanti questa sua proposta, questo piano, dovrebbe fare anche degli emendamenti costituzionali. Il comma 2 del primo articolo della Costituzione sancisce che “La Repubblica d’Albania è uno Stato unitario ed indivisibile”. Proprio così! Costituire uno Stato sovrano dentro lo Stato albanese significa violare la Costituzione. Ed il primo ministro, con la sua delirante proposta, lo ha fatto.

    Chi scrive queste righe informa il nostro lettore che in seguito alle sopracitate dichiarazioni del primo ministro le reazioni sono state immediate. Reazioni che si oppongono fortemente alla sua proposta delirante. Reazioni fatte dai vertici della comunità musulmana in Albania, da molti noti analisti, storici e religiosi. Aveva ragione Ernesto Sabato, l’uomo non è spiegabile e, in ogni caso, bisogna indagare i suoi segreti non nelle sue ragioni ma piuttosto nei suoi sogni e deliri.

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