Democrazia

  • Benefici e conseguenze di un’alleanza

    L’uomo non può prendere due sentieri alla volta.

    Proverbio africano

    I rapporti di amicizia, di collaborazione e di reciproco sostegno tra la Russia e la Serbia risalgono al medioevo. La Russia offrì rifugio ai tanti serbi che sono stati costretti a lasciare il loro paese dopo l’invasione dell’Impero ottomano nel XV secolo. Da documenti storici risulta che la nonna materna del primo zar di Russia, Ivan IV, noto anche come Ivan il Terribile (1530 – 1584), era la principesssa Anna di Serbia. I rapporti di comune amicizia tra la Russia e la Serbia sono stati in seguito ufficializzati più di due secoli fa, nel 1816, con la decisione di stabilire delle relazioni diplomatiche tra l’Impero russo ed il Principato di Serbia. I legami tra le due nazioni hanno avuto come fondamenta anche la comune appartenenza alle popolazioni slave e alle Chiese ortodosse orientali. Nonostante la forma dell’organizzazione statale, nel corso degli anni i due Paesi hanno firmato anche molti trattati e protocolli bilaterali. Ma nel corso degli anni, e soprattutto subito dopo la seconda guerra mondiale, i rapporti tra l’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia sono stati tutt’altro che buoni. Tutto dovuto alle scelte del maresciallo Tito, capo del governo jugoslavo. Lui, a partire dal 1948, scelse di allontanarsi dall’Unione Sovietica e di costituire, nel 1956, il Movimento dei Paesi non Allineati, insieme con l’India e l’Egitto. Ma dopo la morte di Tito, i rapporti tra i due Paesi ritornarono ad essere buoni ed amichevoli come prima. Dopo la disgregazione dell’ex Jugoslavia all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, la Serbia dal 1992, essendo diventata ufficialmente la Repubblica di Serbia, ristabilì quei rapporti con la Russia. Rapporti che da allora ad oggi sono stati consolidati nell’ambito di una ritrovata alleanza tra i due Paesi. Con i dovuti benefici e le derivanti conseguenze. Soprattutto per la Serbia.

    Il 17 dicembre 2023 in Serbia si sono state le elezioni per rinnovare l’Assemblea nazionale, il Parlamento serbo. Elezioni che sono state vinte, con una maggioranza assoluta, dalla coalizione capeggiata dal Partito Progressista Serbo dell’attuale presidente della Repubblica. Subito dopo le opposizioni hanno contestato il risultato delle elezioni, scendendo in piazza a protestare, accusando di brogli e manipolazioni. Ci sono voluti circa cinque mesi prima che il nuovo governo si potesse insediare il 1o maggio scorso. Tra i membri del nuovo governo figurano anche due persone molto note per gli ottimi rapporti con la Russia. Si tratta dell’ex capo dell’Agenzia per le Informazioni sulla Sicurezza della Serbia, attualmente vice primo ministro, ed un proprietario di diverse aziende serbe con sede in Russia. Tutti e due però, dal 2023, sono delle persone sanzionate dal Dipartimento di Stato statunitense. Il vice primo ministro è stato accusato di coinvolgimento nel traffico di armi e di sostanze narcotiche, di abuso d’ufficio durante la sua attività pubblica, nonché per il suo contributo alla diffusione dell’influenza della Russia nella regione dei Balcani.

    Ebbene, proprio l’attuale vice primo ministro della Serbia, il 4 settembre scorso, è andato in Russia e ha avuto un incontro molto cordiale con il presidente russo. L’incontro è avvenuto nella città porto di Vladivostok, che si trova nell’estremo oriente russo, vicino al confine sia con la Cina che con la Corea del Nord. L’occasione era lo svolgimento del Forum economico orientale, organizzato dal 3 al 6 settembre scorso presso il Campus dell’Università federale di Vladivostok. Era la seconda visita ufficiale del vice primo ministro serbo in Russia dal maggio scorso, quando lui ha avuto quell’incarico istituzionale. “È un grande onore per me che ho il privilegio di parlare con lei. […] La prego di credermi quando le dico che è un grande incoraggiamento per tutti i serbi, ovunque essi siano”, ha detto il vice primo ministro serbo al presidente russo all’inizio del loro incontro, come confermano le fonti ufficiali di stampa.

    Sempre riferendosi alle fonti ufficiali di stampa, risulta che durante il loro incontro il vice primo ministro serbo abbia assicurato il presidente russo sull’amicizia che lega i due Paesi e sulla loro alleanza multidimensionale. Bisogna sottolineare però che il 29 aprile 2008 la Serbia ha firmato l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione europea. Un Accordo, quello, che è entrato in vigore il 1° settembre 2013. Il 1° marzo 2012 il Consiglio europeo ha deciso di dare alla Serbia lo status del Paese candidato all’adesione all’Unione. Mentre, durante la riunione del 28 giugno 2013, il Consiglio europeo ha approvato l’inizio dei negoziati d’adesione della Serbia all’Unione europea. Negoziati che sono stati avviati il 21 gennaio 2014. Ragion per cui la Serbia ha assunto ufficialmente, tra l’altro, anche l’obbligo di aderire alle sanzioni poste ad un determinato Paese da parte dell’Unione europea. Come nel caso della Russia dopo l’inizio, il 24 febbraio 2022, dell’aggressione contro l’Ucraina. Bisogna sottolineare che tutti i Paesi membri dell’Unione europea, compresi anche i Paesi che sono in fase di adesione all’Unione, hanno aderito a tutte le sanzioni poste alla Russia da parte dell’Unione europea. Tutti, tranne la Serbia.

    Durante il sopracitato incontro tra il vice primo ministro serbo e il presidente russo il 4 settembre  scorso a Vladivostok, l’ospite ha garantito, tra l’altro, all’anfitrione che “…la Serbia guidata da Aleksandar Vučić (presidente della Serbia; n.d.a.) è una Serbia la quale non diventerà mai un membro della NATO, non imporrà mai sanzioni alla Federazione Russa e non permetterà mai che il suo territorio venga usato per qualsiasi azione anti-russa”. Il vice primo ministro serbo ha confermato al presidente russo che lui, come il presidente serbo, è convinto che “…le sanzioni contro la Russia danneggerebbero gli interessi  nazionali della Serbia”. In più l’ospite serbo ha confermato al presidente russo che “…la Serbia non è solo un partner strategico della Russia. La Serbia è anche un alleato della Russia. E questa è la ragione per cui la pressione dell’Occidente contro di noi è [così] grande”.

    Subito dopo l’incontro tra il vice primo ministro serbo e il presidente russo, il 4 settembre scorso a Vladivostok in Russia, sono arrivate anche le reazioni ufficiali dall’Unione europea. Il portavoce del Servizio europeo d’azione esterna ha dichiarato: “Ci aspettiamo che la Serbia si astenga dall’intensificare i rapporti e i contatti con la Russia. […]. Tutti i membri del governo serbo rispettino gli impegni che la Serbia si è assunta volontariamente nel processo di adesione all’Ue, compreso l’allineamento con le decisioni e le azioni di politica estera dell’Unione. Mantenere relazioni forti o, addirittura, rafforzarle con la Russia durante la sua aggressione illegale contro il popolo ucraino non è compatibile con i valori dell’Unione europea e con il processo di adesione all’Unione”. Il portavoce ha aggiunto che le istituzioni dell’Unione notano con preoccupazione le azioni e le dichiarazioni del vice primo ministro serbo. In più lui ha definito “…abbastanza indicativo quanto spesso [il vice primo ministro serbo] sia a Mosca e quanto raramente sia invitato nell’Unione Europea”. Un fatto quello che “…va contro l’obiettivo dichiarato della Serbia di aderire all’Unione”.

    Chi scrive queste righe trova veramente incoerente e contraddittorio l’atteggiamento della Serbia. Un paese che, firmando l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione europea, ha assunto volontariamente anche tutti i derivanti obblighi. Obblighi però che consapevolmente ha ignorato quando si tratta dei rapporti con la Russia. Ma anche dei suoi interessi. Si tratta proprio di benefici e di conseguenze di un’alleanza. L’uomo non può prendere due sentieri alla volta. Così recita un proverbio africano. E neanche un Paese può farlo. Come cerca di fare la Serbia.

  • Il nuovo presidente dell’Iran

    Non è certo rassicurante né bello a sapersi ma siamo tutti consci che da sempre e ovunque nel mondo ciò che i politici dicono non corrisponde necessariamente a ciò che fanno. In Medio Oriente le cose si fanno ancora più complicate perché in quelle zone le parole “sempre” e “mai” hanno pochissimo senso.

    Un caso che qualche sottile storico del futuro potrà decidere di studiare nelle sue trasformazioni decennali è quello dell’Iran, la “Repubblica Islamica” per eccellenza. Si tratta di un Paese molto particolare nel suo sistema politico. Se intendiamo come “democratico” uno Stato dove i cittadini possono esercitare un libero (seppur parziale) diritto di voto l’Iran lo è, poiché sono sempre stati gli elettori a scegliere apparentemente chi sarebbe potuto diventare il Presidente dello Stato. Purtroppo, da un lato i candidati ammessi alle elezioni sono scelti insindacabilmente da un organismo affatto trasparente sia nella sua composizione sia nei suoi criteri di valutazione; dall’altro il vero potere non appartiene né al Presidente eletto né al locale Parlamento. Infatti, istituzionalmente, la massima autorità politica risiede nella Guida Suprema, attualmente l’Ayatollah Alì Khamenei capo politico e religioso.

    Anche il potere economico non è realmente nelle mani di chi si suppone potrebbe detenerlo bensì, soprattutto nel corso degli ultimi anni, sta nelle mani di società e organismi controllati direttamente o indirettamente dalle Guardie Rivoluzionarie, una specie di esercito parallelo costituito durante la Rivoluzione Islamica a garanzia che l’orientamento religioso e morale (e politico!) del Paese non potesse essere messo a rischio. Tuttavia, particolarmente nelle città ma anche sempre più nelle campagne, la popolazione non ne può più del regime clericale, delle regole da esso imposte, della corruzione e delle prepotenze dei suoi esponenti o delle organizzazioni che li fiancheggiano. Non è un caso che le manifestazioni di protesta originate da varie cause, non ultima l’assassinio in un carcere della curda Masha Amini rea di aver indossato il velo in modo improprio, hanno visto un numero sempre crescente di partecipanti. Il fatto che siano state soffocate nel sangue con brutalità ha potuto porre fine alle proteste ma non alle ragioni che le motivavano. Nelle penultime elezioni i conservatori più tradizionalisti avevano pensato di mantenere salde le leve del potere facendo candidare (e poi eleggere senza veri concorrenti) Ibrahim Raisi alla presidenza. Costui era un ultraconservatore inviso a una grande fetta della popolazione ma perfettamente organico al potere vigente, tanto è vero che si parlava di lui come del possibile successore allo stesso Khamenei, già molto avanzato nell’età. La sua morte avvenuta con la caduta dell’elicottero su cui viaggiava ha però scombussolato tutti i giochi del potere. A questo proposito, considerate le circostanze dell’evento, non si può nemmeno escludere che la caduta del velivolo che trasportava il Presidente in carica e alcuni suoi sodali di alto livello sia stata causata volutamente dallo stesso pilota che avrebbe così deciso di sacrificarsi per liberare il Paese da un personaggio spietato e impopolare.

    Le elezioni presidenziali convocate in tutta fretta dopo quella morte hanno visto, con sorpresa di molti in patria e all’estero, che il Consiglio dei Guardiani assieme a tre candidati conservatori aveva deciso di far correre anche un “riformista”. La sorpresa è stata ancora più grande quando proprio costui ha vinto al ballottaggio la gara elettorale contro il candidato ultra conservatore che era rimasto.

    Conoscendo quel sistema si può escludere che il tutto sia avvenuto casualmente e dobbiamo allora cercare alcune possibili spiegazioni.

    Al primo turno, in gara c’erano il religioso conservatore Mostafa Pourmohammadi, il presidente del parlamento ed ex comandante delle Guardie Rivoluzionarie Mohammad Bagher Ghalibaf, sostenuto dai conservatori moderati, l’ultra conservatore Saeed Jalili, ex segretario del Consiglio Supremo Nazionale Iraniano e il riformatore moderato Massoud Pezeshkian. Quest’ultimo è un medico cardiochirurgo che non si era mai risposato dopo che la moglie morì in un incidente d’auto e ha cresciuto i figli da solo. Fu presidente dell’Università e Ministro della Salute durante la presidenza del riformatore Khatami diventando in seguito membro del parlamento. Pur essendo non particolarmente conosciuto né essersi distino come parlamentare agguerrito, riveste l’immagine di essere competente, pio e per nulla corrotto. Inoltre, la sua ascendenza è in parte curda e in parte azera e quindi potenzialmente gradito alle due minoranze. Al primo turno durante la campagna elettorale, convinti che sarebbe passato uno di loro, i tre candidati conservatori non hanno risparmiato i reciproci attacchi e ognuno di loro era portatore di uno dei gruppi di interessi che, all’interno del potere costituito, lottano da tempo tra loro per la supremazia. Sembrava che il favorito, anche perché sostenuto dalla Guardie Rivoluzionarie, potesse essere Ghalibaf ma al ballottaggio arrivò invece Jalili che si trovò contro Pezeshkian. A questo punto sembra che non solo l’elettorato più vicino ai riformatori ma anche alcuni tra i sostenitori di Ghalibaf e di Pourmohammadi abbiano scelto di appoggiare Pezeshkian. Costui aveva fatto una campagna elettorale apparentemente sottotono in quanto riformatore, ribadendo in più occasioni la sua fedeltà alla suprema guida Khamenei e ribadendo di credere nell’identità fondamentale della repubblica islamica. In positivo si è concentrato nel promettere di ridurre l’inflazione, migliorare l’azione di governo, facilitare l’accesso a internet e non enfatizzando la rigidità nelle restrizioni sull’abbigliamento femminile. In altre parole ha cercato di presentarsi come un riformatore moderatissimo, rispettoso delle virtù religiose e conscio delle responsabilità dell’equilibrio necessario in politica. È stato sincero e il suo comportamento sarà veramente come pre-annunciato? È possibile, però occorre ricordare che se fosse partito con un atteggiamento diverso e più “rivoluzionario” non solo le probabilità che il sistema lo lasciasse vincere sarebbero state quasi minime ma è perfino pressoché sicuro che sarebbe stato escluso dalla lista dei candidati. Certamente, la sua elezione ha beneficiato anche della spaccatura tra i conservatori pragmatici e i dogmatici intransigenti che avevano vinto con il governo Raisi ma non va sottovalutato che durante la sua campagna elettorale gli ex politici riformatori del passato lo hanno fortemente sostenuto. Lo ha fatto soprattutto Azar Mansoori, una donna considerata leader dei riformatori, la stessa che aveva, con successo, invitato a boicottare le elezioni presidenziali del 2021 e quella parlamentari del 2023. Questa volta, invece, ha invitato la gente ad andare a votare e scegliere Pezeshkian. Una osservazione particolare riguarda il fatto che l’anagrafica lascia pensare che proprio durante questa nuova Presidenza potrebbe probabilmente accadere che si dovrà scegliere una nuova Guida Suprema che prenda il posto di Khamenei. Essere oggi Presidente può non avere moltissimo peso, ma in alcune nomine e in alcune decisioni quella posizione può giocare un ruolo. Ancora di più se l’attuale Guida Suprema dovesse scomparire improvvisamente creando così un vuoto istituzionale e scatenando le lotte tra i vari gruppi conservatori.

    È, comunque, impossibile pensare che Pezeshkian potesse essere candidato e poi eletto contro la volontà di Khamenei. Contrariamente alla vulgata diffusa in occidente, i politici iraniani e lo stesso Khamenei non sono dei fanatici invasati di fede religiosa ma sono, al contrario, dei raffinati machiavellici forti di una cultura dotta e secolare. Il Paese sta soffrendo pesantemente una crisi economica che colpisce tutti gli strati della popolazione salvo i privilegiati vertici del potere e i loro sodali. Tutti loro, Khamenei incluso, erano oramai consci che l’impopolarità del sistema stava arrivando ad un punto di non ritorno. Le sanzioni economiche stanno soffocando sempre di più le possibilità di sviluppo e hanno fermato quasi del tutto gli investimenti e il know how dall’estero. È facile immaginare che la stessa Guida Religiosa abbia capito che, almeno nelle apparenze, qualcosa doveva cambiare per l’opinione pubblica e l’offrire una seppur piccola speranza di rinnovamento avrebbe aiutato a placare gli animi e ridare un po’ di rispettabilità al sistema (“Cambiare tutto per non cambiare niente” dice qualcosa?). I problemi, tuttavia, non si fermano alla politica interna. I vertici iraniani sanno benissimo che la loro attuale sopravvivenza deve moltissimo, se non tutto, all’aiuto che a loro arriva da Cina e Russia ma sanno altrettanto bene che ogni Paese persegue un proprio egoistico interesse e che, in caso cambiassero certi equilibri, i due attuali partner potrebbero anche decidere verso altre direzioni. Con sano realismo, quindi, Khamenei, che continua e continuerà a manifestare pubblicamente la sua ostilità nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ha però deciso di permettere ad una figura potenzialmente più accettabile da parte dell’occidente di avere un ruolo che, almeno formalmente, possa aprire ad altri scenari sia in politica interna che internazionale.  Ciò non significa che l’Iran potrebbe voltare le spalle a Cina e Russia ma che potrebbe aprire contemporaneamente ad un maggiore dialogo con gli occidentali. Nessuno si può illudere che l’Iran cambierà improvvisamente il proprio atteggiamento anche perché, comunque sia, la politica estera è strettamente nelle mani dello stesso Khamenei (anche il Ministro degli esteri del governo Pezeshkian non potrà che essere un esecutore delle direttive che gli arriveranno dalla Guida Suprema e dai consiglieri in politica internazionale di quest’ultimo). Comunque sia, non è stato casuale che Pezeshkian abbia sostenuto di volersi impegnare in “dialogo costruttivo” con i Paesi europei (sebbene continui ad accusarli di aver tradito l’accordo del 2015). Ha anche parlato di voler aumentare la collaborazione con i Paesi vicini sostenendo che tutta l’area sarebbe molto più sicura e tranquilla se regnasse tra loro la collaborazione anziché la ricerca del dominio di un singolo Stato. A proposito della guerra di Gaza, nonostante l’Iran continui a sostenere pubblicamente Hamas e la causa palestinese in generale, ha dichiarato che la sua amministrazione farà di tutto per spingere i vicini Stati arabi a collaborare affinché sia raggiunto un qualunque cessate il fuoco. A questo proposito, anche qui considerando le modalità con cui si è svolto l’assassinio di Ismail Haniyek, non è da escludere che tale omicidio abbia avuto almeno un tacito consenso dei massimi poteri di Teheran. Costui, infatti, pur presentandosi al mondo come la parte più dialogante di Hamas (in un gioco delle parti comunemente usato in politica) era sempre stato percepito dagli iraniani come “troppo indipendente”. Infatti, tutta sua fu la responsabilità della decisione che Hamas, in Siria, si schierasse con le fazioni ribelli (sostenute da sauditi e turchi) contro Assad e quindi contro gli iraniani. Ovviamente, anche se così fosse stato, mai e poi mai qualcuno lo ammetterà.

    Anche per quanto concerne le scelte economiche e di politica interna il margine di manovra del nuovo governo sarà condizionato pesantemente. La onnipresenza pervasiva delle aziende che fanno capo alle Guardie Rivoluzionarie obbligherà il nuovo Governo a negoziare e concordare con loro ogni intervento che non vorrà essere minimale.

    Come si diceva all’inizio di queste righe, la politica medio orientale è molto complessa e raramente trasparente. In Iran lo è ancora di più rispetto a tutti i Paesi che lo circondano. I gruppi di interesse sono tanti e la lotta tra di loro non è mai venuta meno nonostante l’apparente compattezza. I precedenti tentativi, supportati dall’Occidente, di apportare cambiamenti al sistema sono sempre naufragati nel nulla aprendo la porta a vecchi poteri reazionari. Non è da escludere che questa volta, in maniera mai dichiarata e affatto eclatante, si arrivi man mano a cambiamenti politici inaspettati. Affinché ciò possa avvenire, sarà però indispensabile che nessuna forza straniera si intrometta in alcun modo, né solleciti accelerazioni perché, se così fosse, anche i poteri ora in lotta tra loro si ricompatterebbero immediatamente e tutto tornerebbe a bloccarsi.

  • Gesù bambino settimino in Venezuela, Maduro anticipa il Natale

    Il presidente del Venezuela Nicolas Maduro ha annunciato di aver anticipato per decreto il Natale al primo ottobre. Lo ha comunicato durante una diretta trasmessa dalla televisione nazionale, poche ore dopo l’annuncio del mandato di cattura del candidato di opposizione Edmundo Gonzalez Urrutia. “Siamo già a settembre e c’è aria di Natale. Sì, c’è aria di Natale e per questo, in omaggio e ringraziamento a tutti voi, vi annuncio che decreterò di spostare questa festività al primo ottobre. Sarà Natale per tutte e tutti il primo ottobre. È arrivato Natale con pace, felicità e sicurezza”, ha detto Maduro.

    Non si tratta della prima iniziativa del genere: nel 2020 il presidente aveva annunciato per il 15 ottobre l’inizio delle festività e nel 2021 lo aveva anticipato al 4 ottobre. Durante le settimane che precedono il Natale, il governo venezuelano è solito intensificare gli aiuti e i bonus, soprattutto attraverso la distribuzione di pacchi alimentari, pratica iniziata negli anni peggiori della crisi economica. Ancor prima, già nel 2013, Maduro anticipò la festività all’1 novembre per distogliere l’attenzione del popolo dalla grave crisi economica che attanagliava il Paese, così come dalla carenza di cibo e dall’aumento di criminalità a Caracas.

    Dietro la decisione, gli osservatori vedono un modo per tentare di placare le contestazioni sulla regolarità del conteggio dei voti in base al quale Maduro avrebbe vinto le elezioni a luglio scorso. I funzionari di alcuni seggi si sono rifiutati di rilasciare i conteggi cartacei del voto elettronico mentre sono state diverse le segnalazioni di brogli e intimidazioni ai danni degli elettori. Convalidata dalla Corte suprema venezuelana, la vittoria di Maduro sarebbe arrivata grazie al 52% dei voti arrivati dal Consiglio nazionale elettorale (CNE). Ma l’amministrazione non ha mai reso pubblici i resoconti dei seggi elettorali e numerosi Paesi, latinoamericani e occidentali, hanno criticato i risultati per la mancanza di trasparenza. A livello locale la crisi politica si è tradotta in violenza fra i sostenitori di Edmundo Gonzalez Urrutia, candidato dell’opposizione da molti ritenuto il vero vincitore dell’elezione, e i lealisti. Oltre 1.700 persone, sin qui, sono state arrestate e 24 sono morte.

    Solo qualche ora prima dell’annuncio della festività anticipata, la Procura del Venezuela ha chiesto l’arresto del candidato dell’opposizione alle presidenziali González, accusandolo dei «reati di usurpazione di funzioni, falsificazione di documenti pubblici, istigazione a disobbedire alle leggi dello Stato, cospirazione, sabotaggio per danneggiare i sistemi ed associazione terroristica». La richiesta, emessa dal procuratore ausiliario Luis Ernesto Dueñez Reyes, è già stata approvata dal Tribunale di prima istanza con funzioni di controllo e resa dunque effettiva.  González Urrutia non si è presentato a tre convocazioni in tribunale – l’ultima venerdì scorso – per essere ascoltato sul contenuto di una pagina pubblicata sul sito della coalizione di opposizione Piattaforma unitaria democratica (PUD) in cui il 75.enne viene indicato come vincitore delle elezioni presidenziali. L’ex ambasciatore, che vive in semi-clandestinità, non appare in pubblico dal 30 luglio. Per giustificare le sue assenze, González Urrutia ha detto di temere una magistratura «senza garanzie di indipendenza».

  • Il “pragmatismo democratico” svizzero

    Alle ultime Olimpiadi molte squadre agonistiche della nazionale italiana presentavano atlete e atleti italiani  di ogni colore e provenienza geografica, ma tutti uniti dai colori della nazionale italiana.

    Immediatamente dopo l’evento olimpico la politica, priva di argomenti che potessero interessare i media che non fosse l’ennesima giravolta di Renzi, ha dato vita ad  una polemica relativa al diritto di cittadinanza ed in particolare allo ius  scholae. Una speculazione politica al limite della semplice strategia di una miserevole comunicazione, divenuta il mantra di una politica di un centro ormai avvizzito in quanto privo di una guida, Berlusconi, il quale,nel bene o nel male, lo aveva gestito e guidato.

    Ovviamente si dimentica come la presenza di molti atleti dalle più diverse origini geografiche nella nazionale dimostri come l’integrazione già ora sia stata  confermata  alle Olimpiadi di Parigi del 2024.

    Essere italiani, oppure diventarlo, non può essere limitato da un fattore relativo al colore della pelle e tantomeno alla provenienza di nascita, quanto dalla condivisione di quei valori democratici che rendono le nostre democrazie delle società aperte.

    In altre parole, gli atleti della nazionale hanno accettato e condiviso valori etici e sportivi assieme ai regolamenti nazionali ed internazionali dello sport. Successivamente, attraverso le proprie performance sportive, li esaltano esattamente come la nazione che rappresentano nell’ambito  dello sport .

    In questo contesto, allora, è la sola condivisione di valori e regole a rappresentare  il fattore fondamentale per dirsi e sentirsi appartenente ad una comunità.

    Il rifiuto, quindi, della accettazione dei valori di una società o comunità non può essere considerato come una democratica manifestazione di libertà del pensiero, in quanto la condivisione si declina come sintesi di valori ed obblighi i quali entrambi rappresentano le fondamenta istituzionali della democrazia e della nostra libertà.

    Mai come ora la Svizzera si dimostra come uno dei migliori  modelli di questo “pragmatismo democratico” basato  sulla condivisione di valori ed obblighi, i veri  fattore fondamentali  ed unificanti per appartenere ad una comunità. Recentemente, infatti, il titolo “Svizzera: non stringono la mano, negata cittadinanza a musulmani. Rifiutano di stringerla a persone sesso opposto. ‘Non integrati’ (*) indica che la semplice mancanza di un valore come l’uguaglianza ed il rispetto per e tra i  due sessi (o generi come si usa dire ultimamente) dimostra la impossibilità di una condivisione democratica nella vicina Svizzera e quindi la  mancanza di una base valoriale condivisibile.

    Al di là delle speculazioni ideologiche, quindi, utilizzate solo  per sostenere la stessa esistenza in vita dei vari gruppi politici, la sola  condivisione democratica di un sistema di diritti ed obblighi diventa l’espressione complessa della appartenenza ad una nazione.

    (*) https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2018/08/18/svizzera-non-stringono-la-mano-negata-cittadinanza-a-musulmani_8cc5dafc-384c-4490-babf-4efc4b1f45e1.html

  • Regimi totalitari attivi in diverse parti del mondo

    Se la legalità è l’essenza del governo non tirannico e l’illegalità

    quella della tirannide, il terrore è l’essenza del potere totalitario.

    Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 1951

    In diverse parti del mondo purtroppo sono attivi dei regimi totalitari che opprimono i diritti dei cittadini. Regimi, dittature che purtroppo hanno l’appoggio anche di altri Paesi, alcuni dei quali importanti dal punto di vista geopolitico e geostrategico. Regimi e dittature che ne approfittano anche dallo ‘spostamento dell’attenzione’ verso altre parti del mondo, dove si sta combattendo. Dal 24 febbraio 2022, si sta combattendo in Ucraina, in seguito all’ordine del dittatore russo. Combattimenti che hanno causato migliaia di vittime innocenti. Mentre dal 7 ottobre 2023, dopo l’attacco di Hamas a Israele, si sta combattendo anche nella Striscia di Gaza. Da fonti ufficiali risulterebbe che ormai a Gaza il numero delle vittime è oltre 40 mila. Combattimenti che anche in questi giorni stanno attirando l’attenzione, sia dei “grandi del mondo”, sia quella mediatica. Nel frattempo le forze armate dell’Ucraina hanno cominciato il contrattacco in alcune località russe situate oltre il confine tra i due Paesi, mettendo così in difficoltà il dittatore russo. Mentre il 15 agosto scorso a Doha, la capitale di Qatar, sono ricominciate le trattative per arrivare ad un accordo di pace tra Israele e Hamas. Trattative che però non hanno avuto un esito positivo e si sta lavorando per avere altri colloqui nei giorni successivi.

    Mentre l’attenzione dei “grandi del mondo” e quella mediatica era focalizzata su questi conflitti, il 28 luglio scorso in Venezuela ci sono svolte le elezioni presidenziali. Il presidente uscente ha ottenuto il suo terzo mandato con il 51.2% dei voti. Mentre il candidato dell’opposizione ha ufficialmente ottenuto il 44.2% dei voti. Ma il risultato proclamato delle elezioni del 28 luglio scorso è stato fortemente contestato dall’opposizione venezuelana che ha denunciato numerosi brogli elettorali, chiedendo la pubblicazione dei registri elettorali. Non a caso però le istituzioni venezuelane responsabili, nonostante le ripetute richieste arrivate dall’opposizione e da diversi Paesi, hanno, altresì, ripetutamente respinto proprio quella richiesta. Il che confermerebbe i denunciati brogli elettorali. Ragion per cui i sostenitori del candidato dell’opposizione che risulterebbe il vero vincitore, hanno cominciato le proteste in piazza subito dopo le elezioni del 28 luglio scorso. Ma le forze dell’ordine, al servizio del presidente, hanno, allo stesso tempo, messo in atto una vera e propria rappresaglia contro gli oppositori in protesta. Rappresaglia che ha portato a circa 24 morti e più di 1200 arrestati. Tra cui anche dei cittadini e/o oriundi italiani. Sono stati molti i Paesi che non riconoscono il risultato delle elezioni del 28 luglio scorso in Venezuela, tra cui gli Stati Uniti d’America, i Paesi membri dell’Unione europea ed altri. Ma come nel 2019, anche dopo le elezioni del 28 luglio scorso, sono stati Paesi come la Russia, la Cina, l’Iran, la Turchia ed altri che hanno appoggiato Maduro. Si tratta però di Paesi dove il potere viene esercitato e gestito da autocrati, simili ed “amici” del presidente venezuelano.

    Nicolás Maduro, l’attuale presidente del Venezuela, ex autista di autobus, è stato anche un convinto sostenitore di Hugo Chavez, ed il suo prediletto successore. E come il suo predecessore, anche il “vincitore” delle elezioni presidenziali del 28 luglio scorso, è noto come un autocrate legato, tra l’altro, anche con dei raggruppamenti occulti della malavita locale. Dopo essere stato eletto deputato dell’Assemblea nazionale, il parlamento del Paese, nel 2005 è stato nominato il suo presidente. Poi ha lasciato quel incarico per diventare, nel 2006 e fino al 2013, ministro degli Esteri. Ed era proprio nell’ottobre del 2012, quando Hugo Chavez, dopo aver ottenuto il suo quarto mendato come presidente del Venezuela, nominò Maduro come il suo vice presidente esecutivo. Poi, solo due mesi dopo, nel dicembre 2012 Chavez lo indicò come il suo successore designato. E dopo la morte di Chavez, nel marzo 2013 Maduro è diventato presidente ad interim. Mentre un mese dopo, nell’aprile 2013, ha ottenuto il suo primo mandato come presidente del Venezuela. Il suo secondo mandato l’ha ottenuto nel maggio 2018, per poi insediarsi nel gennaio 2019. Ma la situazione in Venezuela era veramente grave, sia dal punto di vista economico e da quello sociale, sia per i forti scontri politici. Bisogna sottolineare che in quel periodo gli avversari politici di Maduro avevano ottenuto la maggioranza dell’Assemblea nazionale. Ragion per cui, il presidente dell’Assemblea ha deposto Maduro poco dopo la sua rielezione, autoproclamandosi egli stesso presidente pro tempore del Paese. Il Venezuela però in quel periodo è diventato un’arena di massicce proteste contro il presidente che non accettava di dimettersi. Ma Maduro, appoggiato anche dalle forze armate, dalla polizia e non solo, riuscì a mantenere il suo incarico come presidente. E solo un anno dopo la coalizione da lui guidata, vinse le elezioni legislative.

    L’autore di queste righe, riferendosi agli sviluppi in Venezuela, scriveva allora per il nostro lettore che “La situazione in Venezuela è grave e seriamente preoccupante, con le parti schierate ben determinate l’una contro l’altra. Con dietro anche i sopracitati supporti internazionali. Intanto la maggior parte dei venezuelani stanno soffrendo da tempo le conseguenze di una povertà diffusa. Una situazione che peggiora ogni giorno che passa”. E poi paragonava quanto stava accadendo in Venezuela con la realtà vissuta e sofferta anche in Albania e scriveva che “…finalmente il primo ministro controlla pienamente e in prima persona anche il sistema della giustizia. Tutto il sistema. Perciò è diventato quello a cui secondo le cattive lingue mirava: uno che controlla tutto e tutti. Come il suo amico Erdogan. E come Maduro, salito anche lui al potere nel 2013, sta cercando adesso di far fronte al diffuso malcontento popolare. Malcontento che cresce di giorno in giorno” (La grande e irresponsabilmente assente; 28 gennaio 2019).

    E realmente, fatti accaduti alla mano, sono tante le somiglianze tra il primo ministro albanese ed il presidente venezuelano. Nel 2013, tutti e due sono saliti al potere e da allora, durante tre mandati, stanno gestendo il potere usurpato da veri autocrati. Sempre, fatti accaduti alla mano, tutti e due vincono i loro mandati con dei clamorosi e ben evidenziati brogli elettorali ed altri supporti occulti. Tutti e due, sia il presidente venezuelano che il primo ministro albanese sono responsabili, tra l’altro, anche della preoccupante situazione economica e sociale nei rispettivi Paesi. Delle situazioni che stanno peggiorando di giorno in giorno. E non a caso, da autocrati quali sono, hanno anche delle “amicizie fraterne” comuni. Come quella del presidente turco, anche lui noto per i suoi modi autocratici della gestione del potere. Colui che ha supportato nei suoi momenti difficili il primo ministro albanese. Colui che nel gennaio 2019, durante un periodo molto difficile, assicurava il presidente venezuelano, dicendogli: “Fratello Maduro, resisti, siamo al tuo fianco!”.

    Chi scrive queste righe pensa che sono non pochi i regimi totalitari attivi in diverse parti del mondo. Dei regimi, delle dittature dove degli autocrati che si somigliano controllano tutto e tutti, appoggiandosi a vicenda. Basta fare riferimento a chi appoggiano anche nei conflitti in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza. Similes cum similibus congregantur dicevano i latini. Autocrati i quali usano spesso anche il terrore per controllare la situazione. Aveva ragione Hannah Arendt quando affermava che se la legalità è l’essenza del governo non tirannico e l’illegalità quella della tirannide, il terrore è l’essenza del potere totalitario. La storia lo testimonia e ci insegna.

  • Una gola profonda che accusa e rivela gravi verità

    Un’accusa grave nuoce anche se è fatta per scherzo

    Publilio Siro

    Quando si parla di una “gola profonda”, di solito si intende una persona che sa e rivela delle notizie importanti, riservate e che pochi sanno. Un’espressione che è stata usata, per la prima volta, da Bob Woodward, un giornalista del noto giornale statunitense The Washington Post. Lui insieme con un altro giornalista, Carl Bernstein, pubblicarono nel 1974 il libro All the president’s men (Tutti gli uomini del presidente; n.d.a.). Un libro che si riferiva a quello che ormai è noto come lo scandalo Watergate, che portò alle dimissioni, il 9 agosto 1974, del presidente Richard Nixon. E da allora l’espressione “gola profonda” viene usata soprattutto quando si tratta dell’intricato mondo dei malaffari, ma anche a determinati rapporti occulti che coinvolgono rappresentanti politici.

    Era il 14 luglio 2023 quando il Parlamento albanese approvò la richiesta della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata. Una richiesta quella che chiedeva l’arresto di un deputato della maggioranza governativa, il quale è stato anche vice primo ministro (2021-2022). Lui però dal 2013 è stato, altresì, anche ministro dello sviluppo economico, ministro delle finanze e alla fine, ministro di Stato per la Ricostruzione del Paese, dopo il terremoto del 2019. Proprio lui per il quale il primo ministro, alcune settimane prima che si chiedesse il suo arresto, aveva detto che lui era “…uno dei collaboratori con il quale mi sono incontrato di più, ho comunicato di più al telefono, ho discusso di più per molte delle nostre decisioni durante questi anni”. Il vice primo ministro era accusato  di abuso d’ufficio, di corruzione passiva, di illegittimo vantaggio di interessi e di riciclaggio di denaro. Chi conosce la vera e vissuta realtà albanese di questi ultimi anni sa benissimo che i dirigenti della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata non fanno niente senza avere avuto prima il beneplacito partito da molto alto. Lui però, l’ex vice primo ministro, proprio in quel periodo, quando si chiedeva il suo arresto al Parlamento, era all’estero. Le cattive lingue dissero allora che, avvisato in tempo, era riuscito a fuggire ed in seguito a chiedere anche asilo politico in un Paese europeo. Il nostro lettore è stato informato di questa faccenda (Governo che funziona come un gruppo criminale ben strutturato, 17 luglio 2023; Inganna per non ammettere che è il maggior responsabile, 24 luglio 2023).

    Ovviamente l’ex vice primo ministro non era uno stinco di santo. Come persona molto vicina al primo ministro e come ministro in ministeri dove si gestivano ingenti somme di denaro pubblico, lui era spesso oggetto di critiche e pubbliche accuse, sia dai rappresentanti dell’opposizione, sia da alcuni media ancora non controllati dal restaurato regime che si sta consolidando da alcuni anni in Albania. Ma a onor del vero lui, quando era ministro delle finanze, non ha dato parere favorevole ai progetti degli inceneritori, tanto ambiti dal primo ministro, dal sindaco della capitale e da alcuni ministri e alti funzionari del governo. Si trattava di un’impresa, quella dei tre inceneritori, di “…un investimento per il quale non possiamo non essere fieri”, come esclamava euforico il primo ministro nel aprile 2017. Il nostro lettore è ormai da alcuni anni ben informato dello scandalo. Ragion per cui nella sopracitata richiesta della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata indirizzata al Parlamento, guarda caso, l’ex vice primo ministro non è stato accusato della violazione delle leggi in vigore che regolano le procedure messe in atto nel caso dei tre inceneritori e anche gli obblighi istituzionali del ministro. Violazioni delle procedure che porterebbero portare poi direttamente al primo ministro. Come mai e chissà perché?! Ma i dirigenti della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata, i quali, fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo alla mano, risultano agire solo dopo aver avuto degli ordini partiti dagli uffici del primo ministro e/o di chi per lui. E quando serve chiudono occhi, orecchie e mente. Lo hanno fatto non di rado e come se niente fosse, anche per dei casi clamorosi ben documentati e denunciati ufficialmente. Lo stanno palesemente facendo anche in queste ultime settimane per alcuni scandali che coinvolgono direttamente il primo ministro, suoi famigliari ed altri.

    Era il 1o febbraio scorso quando, dall’esilio in Svizzera, l’ex vice primo ministro è stato intervistato da un giornalista di un media molto critica al primo ministro e che lui non riesce a controllare. Chi scrive queste righe informava allora il nostro lettore, scrivendo: “…Ebbene giovedì scorso 1o febbraio, l’ex primo ministro ha fatto delle rivelazioni riguardanti ruberie milionarie ed abuso del potere. Lui ha accusato direttamente il primo ministro ed il sindaco della capitale come ideatori e approfittatori dei progetti degli inceneritori. Lui ha fatto delle rivelazioni che non lasciano dubbi […] Lui ha dichiarato, tra l’altro: “Porterò sulla schiena la mia croce. Ma non porterò la croce di nessun altro”. E si riferiva al primo ministro albanese. L’ex vice primo ministro ha accusato anche il sistema “riformato” della giustizia che sta cercando di difendere il primo ministro ed il sindaco della capitale per lo scandalo degli inceneritori. Lui ha dichiarato che se si aprisse il dossier degli inceneritori “gli albanesi si spaventerebbero” (Rivelazioni riguardanti ruberie milionarie ed abuso del potere; 6 febbraio 2024).

    L’ex vice primo ministro il 29 luglio scorso, sempre dall’esilio, ha rilasciato una seconda intervista allo stesso giornalista che l’aveva intervistato sei mesi prima, il 1o febbraio. Durante una lunga e ben dettagliata intervista, lui ha di nuovo accusato il primo ministro albanese ed alcuni dei suoi più stretti collaboratori e famigliari. Ha, altresì, accusato il dirigente della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata, come una persona che non fa niente senza essere stato ordinato dal primo ministro, elencando alcuni casi concreti. L’ex vice primo ministro, ha detto che il primo ministro è “…uno delle sei persone responsabili se gli succede qualcosa” e che ha anche dei documenti e registrazioni che lo dimostreranno.  Lui ha riconfermato che il primo ministro ed il sindaco della capitale sono i veri proprietari del inceneritore della capitale.

    Il 29 luglio scorso, il giornalista ha chiesto all’ex vice primo ministro se era pronto a confrontarsi con il dirigente della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata. La sua risposta era che il procuratore non ha il coraggio di farlo, aggiungendo: “Avrebbe avuto il coraggio se fosse pulito nella sua integrità come procuratore e come [dirigente della] istituzione….Non ha il coraggio. Le carte ci sono, ma non vuol vederle. Dove sono gli 80 milioni di dollari dell’inceneritore di Tirana? Segui il denaro! Dove sono?”. Per l’ex vice primo ministro, il dirigente della Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata è “controllato politicamente … e non dalla legge”. L’ex vice primo ministro, durante la sua intervista del 29 luglio scorso ha accusato anche gli stretti famigliari del primo ministro come diretti approfittatori di ingenti somme di denaro pubblico, affermando che ci sono delle intercettazioni ambientali che lo testimoniano. Ma durante l’intervista del 29 luglio scorso l’ex primo ministro ha rivelato anche altre gravi e clamorose verità. Verità che purtroppo non saranno confermate anche dalle istituzioni “riformate” del sistema della giustizia, la Struttura speciale contro la Corruzione e la Criminalità organizzata per prima.

    Chi scrive queste righe pensa che le dichiarazioni fatte il 29 luglio scorso dal vice primo ministro albanese, così come quelle fatte sei mesi fa, il 1o febbraio, sono delle importanti rivelazioni uscite da una “gola profonda”. Così come le sue accuse.  Perché lui dovrebbe sapere tante cose riservate, molto riservate, a conoscenza di pochissime persone. Publilio Siro pensava che un’accusa grave nuoce anche se è fatta per scherzo. Ma il vice primo ministro non scherzava. Anzi!

  • Gorbaciov e Trump

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Dario Rivolta 

    Nella seconda metà degli anni ‘80 ebbi occasione di trovarmi frequentemente in Unione Sovietica per motivi di lavoro. Avendo a che fare con il settore delle televisioni, i miei interlocutori erano spesso artisti, registi, giornalisti e anche politici di vario livello. Potei così constatare come un iniziale e forte sostegno verso Gorbaciov si andava trasformando in una ostilità popolare nei suoi confronti, diffusa e sempre più marcata. Moltissimi erano stati felici quando fu annunciata la Perestroika e l’apparire della Glasnost sembrò ai più l’inizio di una grande trasformazione in senso liberale della politica e della società. Ben presto tuttavia la gente cominciò a rendersi conto che le intenzioni di Gorbaciov non erano quelle di trasformare il Paese in modo radicale, bensì di cercare di effettuare un qualche maquillage, utile o forse indispensabile per salvare il potere del PCUS e consentirgli di “passare la nottata”.
    Nonostante la crescente impopolarità di Michail Gorbaciov tra i suoi concittadini, chi si fosse informato attraverso la stampa europea (anche tutta quella italiana) avrebbe immaginato di trovarsi di fronte ad un politico intelligente, coraggioso, lungimirante e fortemente amato dai suoi. In realtà chiunque avesse potuto avere in Russia contatti non ufficiali e capisse un po’ di politica e di psicologia sociale avrebbe capito che il sistema era al collasso, che Gorbaciov non era più, se mai lo fosse stato, in grado di dirigerlo e che, man mano che ci si avvicinava alla fine del decennio, lui stava diventando ciò che in politica si definisce un “cadavere ambulante”.
    Quando effettuò una visita ufficiale in Cina incontrò tra gli altri Deng Xiao Ping, che in privato lo definì poi “un idiota”. L’ex presidente statunitense Nixon, di cui si può dire tutto ma non che non capisse di politica, tornando da Mosca, ove si era trattenuto quasi un mese, si mise a fare una campagna pro Eltsin, considerando Gorbaciov inadeguato.
    Ai veri addetti ai lavori tutto ciò sembrava evidente, ma i giornalisti occidentali (e quasi tutti i politici europei che conoscevano l’Unione Sovietica solo attraverso ciò che leggevano) continuavano a esaltare Gorbaciov. Di più, dopo la sua caduta, iniziarono a denigrare Eltsin, troppo “russo” e meno accattivante. Tacquero anche della molto probabile complicità del vecchio presidente nel colpo di Stato, organizzato solo ufficialmente contro di lui ma fortunatamente fallito proprio grazie a Eltsin.
    Durante l’ultimo anno in cui Gorbaciov fu a capo dell’URSS mi capitò di incontrare all’aeroporto di Mosca Demetrio Volcic, corrispondente RAI da diversi anni proprio da quella capitale. Avvicinatolo, gli chiesi come fosse possibile che un giornalista esperto come lui, perfettamente padrone della lingua russa e abitante quel Paese da molti anni continuasse nelle sue corrispondenze televisive ad esaltare la figura e l’azione di un uomo evidentemente inadeguato al compito che la storia gli aveva dato, e comunque vicino alla propria fine politica. Ecco cosa mi rispose: “Io devo dire ciò che a Roma piace e si aspettano”. Fui allibito, ma apprezzai la sua sincerità. Oggi quell’atteggiamento, apparentemente strano per la supposta deontologia giornalistica, potrebbe aiutarci a spiegare da cosa sono motivate alcune corrispondenze dall’estero o le chiacchere di opinionisti, o pseudo tali, sempre concordi tra loro. Mi riferisco sia ai servizi giornalistici riguardanti le varie aree di crisi (Ucraina, Medio Oriente, Taiwan), sia a quanto ci si dice sui candidati delle prossime elezioni statunitensi.
    Partiamo dall’ex-candidato Joe Biden. Fino a quando, complice un penoso dibattito televisivo, la sua senilità intellettuale non fosse diventata così evidente da essere innegabile, quasi tutti i media italiani (ed europei in genere) ce lo dipingevano come un presidente virtuoso e soprattutto amico dell’Europa. La sua auspicata ri-vittoria sembrava essere l’unico baluardo contro la barbarie autoritaria dell’”anti-democratico” Donald Trump e ci si strappava i capelli nel pensare che avrebbe potuto perdere. Era normale che tutte le sue precedenti battute fuori luogo, i suoi errori geografici, le sue confusioni storiche, i tanti strafalcioni non avessero alcuna influenza nell’immaginarlo presidente della più grande potenza mondiale per altri quattro anni? E i validi giornalisti, alcuni dei quali residenti negli USA, è possibile che non ricordassero come da senatore non si distinse particolarmente per intelligenza o lungimiranza (pur essendo diventato presidente della Commissione esteri, organo solitamente piuttosto potente) e fosse un vice-presidente quasi insignificante? Perché, da presidente che spinge per l’Ucraina nella NATO, nessuno gli ha ricordato quando negli anni ’90 sosteneva che allargare la stessa verso est sarebbe stato un errore, poiché avrebbe causato una possibile reazione violenta russa? Come mai nessuno dei nostri giornalisti investigativi non ha fatto luce sui suoi coinvolgimenti economici personali (da vice presidente) con l’Ucraina? E perché non si è parlato, se non di striscio, sulle prebende copiose che suo figlio Hunter riceveva da quel paese senza fare praticamente nulla?
    Comunque, si sottolineava, lui era quello dell’”America is back” che, a differenza del “nemico” Trump, riconfermava che gli USA tornavano ad essere amici dell’Europa. Tanto amici da varare (senza consultare o almeno informare preventivamente Bruxelles) due leggi, l’IRA (Inflation Reduction Act) e il CHIPS and Science Act del 2022, che penalizzano i prodotti europei se le nostre aziende non spostano parte della loro produzione negli USA. Trump, il troglodita, ci aveva minacciati di non considerare più valido l’art.5 della NATO se ogni stato alleato non avesse provveduto a destinare almeno il 2% del PIL per l’acquisto di materiali per la difesa. Ovviamente, visto il ruolo NATO e la necessità di omogeneizzare gli armamenti, la maggior parte di questa spesa sarebbe dovuta finire ai produttori di armi americane. Ebbene, Biden (e prima di lui Obama) è sempre stato più gentleman e meno tranchant del tycoon dai capelli tinti e non usa i suoi modi e le sue parole, ma qualcuno ha forse dimenticato che le loro richieste erano e sono le stesse di Trump in merito al 2%? La differenza può stare nei modi e nei toni, ma mai nella sostanza. Sia che le elezioni presidenziali siano vinte dai democratici o dai repubblicani noi dovremo cominciare (finalmente) a pensare che la nostra difesa dovrà essere garantita soltanto da noi perché, di là dalle dichiarazioni, gli USA non possono far fronte da soli a tre aree di crisi contemporaneamente. Perché coltivare un’illusione? È naturale che ogni Paese persegua il proprio interesse e, quando si tratta di una grande potenza dominante, questo interesse può assumere anche una forma molto spregiudicata. Biden e la sua amministrazione, nonostante una enorme macchina di pubbliche relazioni a loro favorevoli, non sono diversi. E non è un caso che dopo la distruzione del North Stream 1 e 2, che ha messo in ginocchio l’economia tedesca, gli Stati Uniti siano diventati i maggiori fornitori di gas del nostro continente (a prezzi molto più alti di quanto l’Europa pagava alla Russia).
    Comunque, non essendo più Biden il candidato, i media possono permettersi di smettere di incensarlo. Il suo posto tra i santi adesso lo sta avendo Kamala Harris. Fino a prima della sua attuale candidatura era conosciuta da tutti come una vice-presidente insignificante e gaffeuse. Si diceva di quanto fosse poco popolare e qualcuno arrivò a dire che nominarla come vice fosse stato un errore. Dal momento in cui è diventata prima papabile e poi candidata dei Democratici alla presidenza tutto è cambiato. All’improvviso nelle penne dei giornalisti è diventata una bravissima politica, estremamente seducente nei confronti dell’elettorato e unica persona capace di salvare il sistema democratico americano insidiato dal proto-dittatore Trump. Ecco, costui che mai fu amato dalla stampa nostrana, è il naturale obiettivo degli strali di tutti i veri “progressisti”. Chi ne parlasse bene o non accettasse il gioco di poterlo ridicolizzare estrapolando le sue parole dai contesti in cui sono pronunciate è certamente un “anti-democratico” o, come è tornato di moda dire, un “neo-fascista”. È naturale, nel seguire i commenti della stampa nostrana, immaginare che i milioni di suoi sostenitori americani siano solo dei fanatici ignoranti, ultra-conservatori, retrogradi e chi più ne ha più ne metta.
    Per il buon vivere, non si dica mai che la sua politica internazionale è un “realismo” che si contrappone a quell’idealismo fintamente amante della democrazia che pianta semi di guerra in tutto il mondo. Non si dica che fu il primo a capire, mentre i suoi predecessori spingevano la Cina nel WTO, che si aveva di fronte un Paese orientato a sovvertire tutti gli equilibri economici e politici che avevano garantito fino a pochi anni orsono l’egemonia americana nel mondo. Non si ricordi mai che, durante la sua presidenza, i coreani del Nord non effettuarono alcun nuovo lancio missilistico. Si faccia finta di non sapere che con gli Accordi di Abramo (pur discutibili sotto certi aspetti) si stava preparando una pace definitiva tra Israele e l’Arabia Saudita. Ciò che conta è parlare bene dei Democratici, e magari perfino dei guerrafondai neo-conservatori pur di criticare Trump. Trump sicuramente non è un intellettuale e non brilla per raffinatezza nelle sue locuzioni, ma non è né un uomo stupido né un politico incapace, eppure viene da quasi tutti dipinto come il punto più basso che la presidenza americana potrebbe toccare.
    Perché non si può scrivere che Trump ha evitato, pur con i suoi modi da spaccone, nuovi coinvolgimenti militari, ha iniziato a districare gli Stati Uniti dai venti anni di occupazione fallita dell’Afghanistan e ha ingaggiato Stati avversari come Cina, Corea del Nord e Russia in modi che riducevano la possibilità di un conflitto? La verità è che questo vanesio tycoon sa che gli Stati Uniti non hanno più il potere di una volta e non possono più permettersi di pagare somme enormi per essere presenti in tutto il mondo. Sa che esiste una differenza tra gli interessi nazionali indispensabili e quelli desiderati. Non è un pazzo: è solo un realista.
    Purtroppo, nel seguire come la stampa riferisce quasi unanimemente delle elezioni americane, oltre al citato atteggiamento che si ebbe verso Gorbaciov, mi viene da ricordare gli anni in cui non tutti i nostri giornalisti erano comunisti ma tutti sapevano che la “patente di legittimità democratica” si doveva ritirare solo in via delle Botteghe Oscure. Adesso l’indirizzo è fisicamente cambiato, ma temo che la procedura sia rimasta la stessa.

    * Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.

  • Diritti violati in uno Stato che finge di essere di diritto

    Nel nostro paese la menzogna è diventata non solo

    una categoria morale, ma un pilastro dello Stato.

    Aleksandr Isaevič Solženicyn

    Uno dei concetti che distinguono il sistema democratico dell’organizzazione dello Stato è quello dello Stato di diritto. Si tratta di una determinata forma di funzionamento del sistema giuridico di un Paese democratico, in cui tutti i poteri politici e pubblici sono obbligati ad agire rispettando i limiti previsti e sanciti dalle leggi in vigore. In tutti i Paesi dove è funzionante lo Stato di diritto si tutelano e sono rispettati dalla legge anche tutti i diritti dell’essere umano. Lo stesso concetto dello Stato di diritto ha cominciato ad essere elaborato circa due secoli fa, quando cominciarono anche i movimenti di massa contro le monarchie che rappresentavano degli Stati assoluti dove i poteri venivano determinati e gestiti dal monarca. E nell’ambito dello Stato di diritto bisognava che venissero limitati, per legge, proprio i poteri dello Stato. Bisognava che si riconoscessero i diritti fondamentali ed inalienabili dell’essere umano. Bisognava, tra l’altro, che il potere esecutivo, quello legislativo ed il potere giudiziari, venissero separati e diventassero indipendenti.

    È necessario comunque distinguere il concetto dello Stato di diritto da quello dello Stato legale. Sono due concetti che si usano comunemente e che, non di rado, si confondono nonostante rappresentino due concetti diversi. Tutti e due si basano su uno stretto legame tra lo Stato e le leggi, le quali determinano anche i diritti. Ma tra loro esiste una netta differenza. Si, perché lo Stato di diritto è funzionante in un Paese dove si applica la forma democratica dell’organizzazione dello Stato, la quale garantisce i diritti, compresi anche quelli dell’essere umano. Mentre le leggi in vigore si applicano anche nei Paesi dittatoriali, dove molti diritti dell’essere umano, ma non solo, si calpestano. Perciò uno Stato legale non obbligatoriamente è anche uno Stato democratico. Invece uno Stato democratico, obbligatoriamente, è e dovrebbe essere uno Stato di diritto.

    I Padri fondatori, firmando a Roma il 25 marzo 1957 i Trattati che diedero vita all’allora Comunità economica europea, hanno sancito anche l’importanza dello Stato di diritto, delle libertà innate ed inalienabili ed i valori fondamentali dell’essere umano. Il secondo articolo del Trattato sull’Unione europea sancisce che “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

    Dal 2020 la Commissione europea pubblica, ogni anno, una Relazione sullo Stato di diritto in cui si analizza e si presenta la sua situazione e gli sviluppi in tutti i Paesi membri dell’Unione. Il 24 luglio scorso è stata resa pubblica la quinta Relazione della Commissione sullo Stato di diritto. Per la prima volta quest’anno la Relazione, oltre ai capitoli dedicati a ciascuno dei Paesi membri  dell’Unione europea, comprendeva anche quattro aggiunti capitoli che si riferivano ai quattro Paesi che hanno aperto i negoziati dell’adesione all’Unione europea. E cioè l’Albania, il Montenegro, la  Macedonia del Nord e la Serbia. Una decisione quella che evidenzia la necessità di sostenere e di aiutare le autorità di questi Paesi candidati anche a raggiungere gli obiettivi previsti che riguardano lo Stato di diritto. L’inclusione di questi quattro Paesi nella Relazione annuale della Commissione europea rappresentava “la principale novità” della relazione stessa. Nei rispettivi capitoli vengono analizzate le realtà, con l’obiettivo di evidenziare le situazioni per quanto riguarda il sistema giudiziario, la corruzione, il rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini e dei media.

    Nel capitolo sull’Albania della quinta Relazione sullo Stato di diritto della Commissione europea, pubblicata il 24 luglio scorso, si evidenziavano delle problematiche riguardanti anche il sistema giudiziario ed il funzionamento dello Stato di diritto. Bisogna sottolineare che, per la prima volta, la Relazione evidenzia delle preoccupazioni, mentre in precedenza, dal 2014, tutti i Rapporti della Commissione europea sull’Albania “elogiavano i successi del governo”. Perciò la sopracitata Relazione, nonostante il “linguaggio diplomatico”, conferma una realtà preoccupante. Una realtà che certe attività lobbistiche occulte, profumatamente pagate dal primo ministro e/o da chi per lui, cercano sempre di camuffare. Una realtà vissuta e spesso anche sofferta che riguarda la galoppante corruzione, partendo dai più alti livelli delle istituzioni governative. Una realtà quella che cercano di camuffare le occulte attività lobbistiche, che riguarda quello che in Albania è palese, e cioè che il sistema “riformato” della giustizia è totalmente controllato. Così come è palese, fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano, che in Albania si è restaurato e si sta sempre più consolidando un regime, una nuova dittatura sui generis, come alleanza occulta e pericolosa del potere politico, rappresentato dal primo ministro, la criminalità organizzata e determinati raggruppamenti occulti internazionali. Uno soprattutto, finanziato da un noto multimiliardario speculatore di borsa di oltreoceano, che con le sue fondazioni presenti e ben attive anche in Albania e in altri Paesi dei Balcani occidentali, determina non poche decisioni governative importanti.

    Nel capitolo sull’Albania della quinta Relazione sullo Stato di diritto della Commissione europea si analizzava la situazione partendo dall’approvazione unanime del Parlamento della Riforma del sistema di giustizia, il 22 luglio 2016. E si evidenziavano anche delle problematiche. Ma per chi conosce bene la realtà albanese, quelle problematiche non sono le più preoccupanti, anzi! Nella Relazione si afferma, comunque, che ci sono dei “tentativi di interferenza e pressione sul sistema giudiziario da parte di funzionari pubblici o politici“. Mentre per quanto riguarda la corruzione, una vera e pericolosa cancrena che sta divorando tutto il bene pubblico in Albania, la Relazione evidenzia solo che la corruzione “è diffusa in molti settori, anche durante le campagne elettorali”. Aggiungendo, altresì, che il quadro giuridico “troppo complesso” limita le misure preventive. La Relazione evidenzia anche delle problematiche che riguardano i media, sottolineando che condizionano il buon funzionamento dello Stato di diritto in Albania. Destano preoccupazione la mancata indipendenza dell’emittente pubblica. Nella Relazione della Commissione europea si legge che c’è una “limitata regolamentazione sulla trasparenza della proprietà dei media” e che non si garantisce “un’equa allocazione della pubblicità statale e di altre risorse statali”. La sopracitata Relazione afferma che “le aggressioni verbali e fisiche, le campagne diffamatorie e le azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica sono motivo di preoccupazione”.

    Chi scrive queste righe la scorsa settimana informava il nostro lettore che “…il sistema della giustizia in Albania purtroppo, è solo un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia. I massimi rappresentanti delle “riformate” istituzioni di quel sistema sono purtroppo diventati dei servi che seguono solo gli ordini di chi comanda in Albania.” (Un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia; 22 luglio 2024). Egli è altresì convinto che in Albania sempre più diritti vengono violati. E trova molto significative le parole di Solženicyn, noto scrittore russo e primo Nobel per la letteratura, il quale affermava che “Nel nostro paese la menzogna è diventata non solo una categoria morale, ma un pilastro dello Stato”. Cosa che, da alcuni anni, si potrebbe dire anche dell’Albania, di uno Stato che finge di essere di diritto.

  • Relazione sullo Stato di diritto 2024, quinta edizione: l’UE è attrezzata meglio per affrontare le sfide in questo ambito

    La Commissione ha pubblicato la quinta relazione annuale sullo Stato di diritto, in cui esamina sistematicamente e obiettivamente gli sviluppi avvenuti in tutti gli Stati membri, in condizioni di parità. Rispetto al 2020, anno della prima edizione della relazione sullo Stato di diritto, gli Stati membri e l’UE nel suo complesso sono preparati decisamente meglio per individuare, prevenire e affrontare le crisi emergenti, il che contribuisce a rendere resilienti le nostre democrazie europee e ad alimentare la fiducia reciproca all’interno dell’Unione; contribuisce inoltre al buon funzionamento del mercato unico e a un contesto imprenditoriale che promuove la competitività e la crescita sostenibile.

    Dal 2020, anno della prima edizione, la relazione è diventata un autentico fattore di promozione di riforme positive: due terzi (il 68 %) delle raccomandazioni formulate nel 2023 sono state seguite in tutto o in parte. Tuttavia, in alcuni Stati membri permangono problemi sistematici e la situazione si è aggravata ulteriormente: tali motivi di preoccupazione sono affrontati nelle raccomandazioni della relazione di quest’anno.

    Tra i capitoli sui singoli paesi, la relazione di quest’anno comprende per la prima volta quattro capitoli sulla situazione in Albania, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia. Includere nella relazione sullo Stato di diritto questi paesi dell’allargamento, i più avanzati nel processo di adesione, sosterrà le loro azioni di riforma, aiuterà le loro autorità a progredire ulteriormente verso l’adesione e li preparerà a proseguire il lavoro nel settore dello Stato di diritto in quanto futuri Stati membri.

  • La grande confusione

    I repubblicani americani fanno parte della grande famiglia dei Conservatori.

    L’ex Presidente Trump è il candidato alla presidenza dei Repubblicani.

    Giorgia Meloni, che presiede il gruppo dei Conservatori europei, ha sempre lealmente e tenacemente difeso l’Ucraina dalla ingiusta e crudele aggressione di Putin, ed anche i Conservatori inglesi sono sempre stati in prima linea nell’aiutare il presidente ucraino.

    Trump ha dichiarato che Putin e il presidente cinese, che invia armi alla Russia e ne sostiene l’economia, sono due grandi capi di stato che operano bene, e per togliere ogni dubbio su come eserciterà il suo mandato dopo aver detto che farà fare la pace ovunque, anche in Ucraina, ha aggiunto che darà il via, negli Stati Uniti, alla più grande deportazione di immigrati.

    Facciamo fatica ad accettare nello stesso discorso due parole così agli antipodi come pace e deportazione ma in special modo la parola deportazione fa suonare tragiche campane d’allarme: si deportava nell’epoca nazista e nell’Unione Sovietica, si deporta oggi nella Russia di Putin e nella Cina di Xi Jinping.

    Come conciliare allora la presenza di Trump nei Repubblicani e perciò nei Conservatori! Possiamo anche capire che ad alcuni possa piacere la sua aria e il suo piglio da maschio alfa, la sua ricchezza e la sua pettinatura ma quando sentiamo certe parole, certi programmi, non possiamo che porci molte domande e constare che c’è una certa pericolosa confusione su cosa significhi oggi essere conservatori se non arriva nessuna presa di distanza dalle dichiarazioni di Trump.

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