Democrazia

  • Relazione sullo Stato di diritto 2024, quinta edizione: l’UE è attrezzata meglio per affrontare le sfide in questo ambito

    La Commissione ha pubblicato la quinta relazione annuale sullo Stato di diritto, in cui esamina sistematicamente e obiettivamente gli sviluppi avvenuti in tutti gli Stati membri, in condizioni di parità. Rispetto al 2020, anno della prima edizione della relazione sullo Stato di diritto, gli Stati membri e l’UE nel suo complesso sono preparati decisamente meglio per individuare, prevenire e affrontare le crisi emergenti, il che contribuisce a rendere resilienti le nostre democrazie europee e ad alimentare la fiducia reciproca all’interno dell’Unione; contribuisce inoltre al buon funzionamento del mercato unico e a un contesto imprenditoriale che promuove la competitività e la crescita sostenibile.

    Dal 2020, anno della prima edizione, la relazione è diventata un autentico fattore di promozione di riforme positive: due terzi (il 68 %) delle raccomandazioni formulate nel 2023 sono state seguite in tutto o in parte. Tuttavia, in alcuni Stati membri permangono problemi sistematici e la situazione si è aggravata ulteriormente: tali motivi di preoccupazione sono affrontati nelle raccomandazioni della relazione di quest’anno.

    Tra i capitoli sui singoli paesi, la relazione di quest’anno comprende per la prima volta quattro capitoli sulla situazione in Albania, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia. Includere nella relazione sullo Stato di diritto questi paesi dell’allargamento, i più avanzati nel processo di adesione, sosterrà le loro azioni di riforma, aiuterà le loro autorità a progredire ulteriormente verso l’adesione e li preparerà a proseguire il lavoro nel settore dello Stato di diritto in quanto futuri Stati membri.

  • La grande confusione

    I repubblicani americani fanno parte della grande famiglia dei Conservatori.

    L’ex Presidente Trump è il candidato alla presidenza dei Repubblicani.

    Giorgia Meloni, che presiede il gruppo dei Conservatori europei, ha sempre lealmente e tenacemente difeso l’Ucraina dalla ingiusta e crudele aggressione di Putin, ed anche i Conservatori inglesi sono sempre stati in prima linea nell’aiutare il presidente ucraino.

    Trump ha dichiarato che Putin e il presidente cinese, che invia armi alla Russia e ne sostiene l’economia, sono due grandi capi di stato che operano bene, e per togliere ogni dubbio su come eserciterà il suo mandato dopo aver detto che farà fare la pace ovunque, anche in Ucraina, ha aggiunto che darà il via, negli Stati Uniti, alla più grande deportazione di immigrati.

    Facciamo fatica ad accettare nello stesso discorso due parole così agli antipodi come pace e deportazione ma in special modo la parola deportazione fa suonare tragiche campane d’allarme: si deportava nell’epoca nazista e nell’Unione Sovietica, si deporta oggi nella Russia di Putin e nella Cina di Xi Jinping.

    Come conciliare allora la presenza di Trump nei Repubblicani e perciò nei Conservatori! Possiamo anche capire che ad alcuni possa piacere la sua aria e il suo piglio da maschio alfa, la sua ricchezza e la sua pettinatura ma quando sentiamo certe parole, certi programmi, non possiamo che porci molte domande e constare che c’è una certa pericolosa confusione su cosa significhi oggi essere conservatori se non arriva nessuna presa di distanza dalle dichiarazioni di Trump.

  • Un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia

    Servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù.

    Lorenzo Milani

    Il sistema della giustizia è uno dei pilastri sui quali si fonda uno Stato. Come tale è perciò molto importante per la costituzione di una sana e funzionante democrazia. La storia, dall’antichità ad oggi, ce lo insegna. Un sistema di giustizia che funziona in base alle leggi in vigore rappresenta una garanzia per i cittadini. Così com’è una garanzia anche per lo sviluppo multidimensionale del Paese dove quel sistema è operativo.

    Da quando gli esseri umani hanno cominciato a vivere in comunità hanno sentito anche il bisogno di avere delle regole per gestire la loro vita. Regole che si adattavano alle condizioni sociali delle comunità e che, con il passare del tempo, stabilivano i diritti e i doveri di ciascuno nei rapporti con gli altri. Gli esseri umani, in base alle tante diverse e spesso anche sofferte esperienze di vita vissuta, sono diventati consapevoli della necessità di quelle regole. Regole che in seguito sono state anche scritte e tramandate di generazione in generazione. L’insieme di quelle regole era anche l’embrione delle future legislazioni in vari Paesi. E coloro che si erano incaricati di controllate l’applicazione di quelle regole erano anche gli antichi funzionari dei sistemi di giustizia.

    Uno dei più noti storici della Grecia antica, Strabone, vissuto circa venti secoli fa, ci ha lasciato, tra l’altro, anche delle preziose informazioni legate alle leggi e a coloro che se ne erano occupati. Uno di essi era Zaleuco di Locri vissuto nel VII secolo a.C.. Strabone considerava addirittura che le leggi stabilite da Zaleuco di Locri, riconosciute anche come il suo Codice o legislazione, sono state le prime leggi scritte ed applicate dagli antichi greci stabiliti nella Magna Grecia. Leggi che, allo stesso tempo, rispecchiavano anche le esperienze delle altre città dell’antica Grecia. In base a dei diversi documenti scritti, risulterebbe che la legislazione di Zaleuco abbia consolidato il buon funzionamento dell’allora sistema giuridico, servendo come base per i secoli a venire. Demostene, noto oratore e politico ateniese, vissuto circa ventitré secoli fa, affermava che parte integrante della legislazione di Zaleuco era anche una legge, secondo la quale “…l’abrogazione o la modifica di una legge poteva essere proposta solo dopo essersi presentati dinnanzi all’assemblea con un laccio al collo che, in caso di rifiuto della proposta, sarebbe diventato strumento di morte per il proponente”. L’esistenza di una simile legge l’avrebbe confermata anche lo storico Polibio, vissuto nel secondo secolo a.c. Secondo documenti a lui riferiti, risulterebbe che Zaleuco di Locri avesse stabilito che “…nel caso in cui, rispetto all’interpretazione di un decreto, magistrato e cittadino presentassero opinioni differenti dovrebbero entrambi presentarsi davanti all’assemblea cittadina, indossando un laccio che sarebbe poi stato stretto attorno al collo di colui la cui interpretazione si sarebbe rivelata errata”. Un rigido obbligo, quello proposto da Zaleuco di Locri, che ideava ed evidenziava l’esigenza della massima responsabilità, sia da parte dei legislatori che proponevano, abrogavano e modificavano le leggi, che dei giudici che interpretavano quelle leggi. Ma anche dei cittadini che pretendevano i loro diritti.

    Nei secoli successivi e soprattutto durante il periodo dell’illuminismo europeo sono stati elaborati nuovi concetti nel campo della giurisprudenza e sono stati stabiliti anche nuovi principi riguardanti le forme dell’organizzazione e del funzionamento dello Stato, in tutte le forme all’epoca conosciute e funzionanti. Principi che stabilivano anche le garanzie del funzionamento normale di una democrazia. Tra i più noti filosofi che hanno trattato ed elaborato i principi del funzionamento della democrazia c’è stato anche Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, comunemente noto come Montesquieu. Nel 1748, dopo ben quattordici anni di studi e di lavoro, pubblicò un insieme di trentuno libri, raccolti in due volumi ed intitolato De l’esprit des lois (Spirito delle leggi; n.d.a.). Un’opera quella che rappresentava un trattato in cui Montesquieu evidenziava e definiva i tre poteri che dovevano essere divisi ed indipendenti. E si riferiva al potere legislativo, al potere esecutivo e a quello giudiziario. Ovviamente Montesquieu si riferiva all’organizzazione dello Stato dell’epoca in cui viveva. Per lui il potere legislativo “…verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo”. Invece il potere esecutivo “…deve essere nelle mani d’un monarca, perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi”. Mentre il potere giudiziario doveva essere “la bouche de la lois” (la bocca della legge; n.d.a.).

    Da allora sono passati altri secoli, durante i quali si sono evolute anche le forme dell’organizzazione dello Stato, orientandosi verso la forma democratica che si basava sul principio della separazione dei poteri, elaborato da Montesquieu. Ma, purtroppo, ci sono degli Stati in cui la democrazia non funziona come dovrebbe. E ci sono, in diverse parti del mondo, anche Stati in cui la democrazia è solo una facciata per camuffare una realtà ben diversa. Stati dove non funziona più il principio della separazione dei poteri e dove un autocrate controlla tutto e tutti. Uno dei Paesi dove da circa dieci anni si è restaurata e si sta consolidando una nuova dittatura sui generis è anche l’Albania. E perciò, si tratta di un Paese dove anche il potere giudiziario non è più indipendente dai due altri poteri. Ma per camuffare questa preoccupante realtà, nel 2015, l’attuale primo ministro, durante il suo primo mandato, presentò quella che è stata echeggiata dalla propaganda governativa come una innovatrice riforma del sistema giudiziario. E già dalla prima bozza si capì subito che si trattava di una “riforma” che mirava la messa sotto controllo del sistema della giustizia. Una “riforma” che purtroppo, fatti accaduti, documentati e resi pubblici alla mano, è stata fortemente appoggiata anche dai “rappresentanti internazionali” in Albania. Le cattive lingue, già da allora, dicevano che un simile loro comportamento era dovuto a dei progetti voluti, ideati e poi anche messi in atto da un multimiliardario speculatore di borsa da oltreoceano. Le cattive lingue dicevano e tuttora dicono che un simile comportamento dei “rappresentanti internazionali” in Albania era ed è altresì dovuto a degli ingenti finanziamenti per la “riforma” della giustizia sia da oltreoceano, che dalle istituzioni dell’Unione europea. Finanziamenti che si devono giustificare, mettendo in rilievo “l’utilità della riforma”. Il nostro lettore è stato da allora in poi molto spesso informato di tutto ciò.

    Era proprio il 22 luglio 2016 quando tutti i 140 deputati del parlamento albanese, alle ore 1.30 del mattino, in piena unanimità, hanno votato gli emendamenti costituzionali che avrebbero aperto la strada all’attuazione della riforma di giustizia. Da allora sono passati ben otto anni ormai. Ma purtroppo, sempre fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano, risulta che il sistema di giustizia è stato messo sotto il controllo del primo ministro. Proprio come era stato voluto da chi ha ideata la “riforma”. Un sistema che nonostante le innumerevoli prove documentate che testimoniano il diretto coinvolgimento del primo ministro, dei suoi stretti familiari e collaboratori in clamorosi scandali milionari, non vede, non sente e non capisce niente. Chissà perché?!

    Chi scrive queste righe, fatti alla mano, è convinto che il sistema della giustizia in Albania purtroppo, è solo un ubbidiente sistema “riformato” di [in]giustizia. I massimi rappresentanti delle “riformate” istituzioni di quel sistema sono purtroppo diventati dei servi che seguono solo gli ordini di chi comanda in Albania. Aveva ragione don Lorenzo Milani, servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù. Chissà cosa avrebbe proposto Zaleuco di Locri per coloro che hanno ideato e attuato la “riforma” del sistema albanese di giustizia?! Primo ministro in testa.

  • Mediatore per conto proprio

    Le amicizie fatte per opportunismo saranno gradite finché saranno utili.

    Lucio Anneo Seneca

    Il Consiglio dell’Unione europea, riconosciuto anche come il Consiglio dei ministri europei, è una delle più importanti istituzioni dell’Unione Europea. Insieme con il Parlamento europeo sono le due istituzioni che rappresentano il potere legislativo dell’Unione. Il 7 febbraio 1992 nei Paesi Bassi è stato approvato e firmato dai rappresentanti dei Paesi membri il Trattato dell’Unione europea. Il Trattato entrò poi in vigore il 1o novembre 1993. L’articolo 16 di quel Trattato stabilisce che il Consiglio dell’Unione europea sia composto da un rappresentante a livello ministeriale per ogni Stato membro, responsabile della materia che deve essere trattata. Sono dieci le strutture (note come Consigli), che trattano tutte le questioni di cui deve decidere il Consiglio. Tranne il Consiglio Affari esteri che viene presieduto dall’Alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza dell’Unione europea, tutti gli altri Consigli, spesso riferiti anche come riunioni, sono presieduti dal ministro competente del Paese membro che esercita, in quel periodo, la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea.

    La presidenza viene esercitata a turno, ogni sei mesi, dagli Stati membri dell’Unione. I vari rappresentanti dello Stato che detiene la presidenza durante quel semestre presiedono le riunioni a tutti i livelli. Il Trattato di Lisbona, approvato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1o dicembre 2009, ha stabilito, tra l’altro, che gli Stati membri previsti per presiedere il Consiglio dell’Unione europea debbano collaborare a gruppi di tre, noti anche come i “trio”. L’attuale trio è composto dalla Spagna, dal Belgio e dall’Ungheria.

    Dal 1o luglio scorso e fino al 31 dicembre 2024 la presidenza del Consiglio dell’Unione europea è passata all’Ungheria. Ed appena ha assunto la presidenza il primo ministro ungherese ha cominciato una serie di viaggi ed incontri, presentandosi come mediatore di pace. Il 2 luglio scorso è stato in visita ufficiale a Kiev. Una visita a sorpresa quella del primo ministro ungherese. Una visita, mentre in varie parti dell’Ucraina l’esercito invasore russo sferrava attacchi violenti contro la popolazione inerme, mietendo vittime innocenti. Il 2 luglio scorso il primo ministro ungherese ha incontrato il presidente ucraino. In seguito al loro incontro, il capo dell’ufficio presidenziale dell’Ucraina ha dichiarato che si era parlato e discusso del “futuro dell’Europa, della sicurezza, del diritto internazionale e della formula della pace”. Durante la comune conferenza stampa, il primo ministro ungherese ha chiesto al presidente ucraino “di prendere in considerazione se un cessate il fuoco rapido possa accelerare i negoziati di pace”. Mentre il presidente ucraino ha sottolineato: “Apprezziamo che la visita avvenga subito dopo l’inizio della presidenza ungherese dell’Unione europea”. Ma lui sostiene precise condizioni per arrivare alla pace, ben diverse da quelle russe.

    Dopo la visita a Kiev, il primo ministro ungherese che, dal 1o luglio scorso, è anche il presidente del Consiglio dell’Unione europea, ha fatto un’altra “visita a sorpresa”. Il 5 luglio è arrivato a Mosca, dove ha incontrato il presidente russo. Proprio lui che ha voluto, ideato ed attuato la crudele aggressione in Ucraina. Il motivo dichiarato della visita era di discutere della pace tra la Russia e l’Ucraina. Bisogna sottolineare però che il primo ministro ungherese ha una sua opinione ed un suo rapporto con il presidente russo. Una opinione ed un rapporto diverso da quello degli altri Paesi membri dell’Unione europea e delle istituzioni della stessa Unione. Il presidente ungherese, allo stesso tempo presidente del Consiglio dell’Unione europea fino al 31 dicembre 2024, ha dichiarato che la sua visita a Mosca era “una missione di pace”. Una visita fortemente voluta dal primo ministro ungherese e preparata in soli due giorni, come ha dichiarato il portavoce del presidente russo. Ma la visita non è stata coordinata neanche con il presidente ucraino, con il quale il mediatore ungherese si era incontrato proprio tre giorni prima. Lo hanno affermato fonti ufficiali ucraine. Durante la conferenza stampa congiunta il presidente russo ha dichiarato che “…aveva rifiutato il cessato il fuoco in Ucraina” proposto dal primo ministro ungherese, aggiungendo che “la Russia vuole una piena e definitiva conclusione del conflitto”. Mentre il primo ministro ungherese ha affermato che “…bisogna fare molti passi per avvicinare la fine della guerra”, ma ha considerato “un passo importante” l’incontro con il presidente russo. Aggiungendo: “continuerò a lavorare in questa direzione; per l’Europa la pace è la cosa più importante”.

    Dalle immediate reazioni di molti rappresentanti delle istituzioni europee si è capito chiaramente però che la visita a Mosca del primo ministro ungherese doveva essere considerata solo nell’ambito dei rapporti bilaterali tra i due Paesi. Il portavoce della Commissione europea ha dichiarato che la Commissione non era stata “…assolutamente informata della visita, che non è stata coordinata con noi né con nessun altro”. Mentre l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza ha dichiarato che la visita del primo ministro ungherese a Mosca “…si svolge esclusivamente nel quadro delle relazioni bilaterali tra Ungheria e Russia”. Aggiungendo, altresì, che il presidente ungherese “…non ha ricevuto alcun mandato dal Consiglio dell’Unione europea e non rappresenta l’Unione in alcuna forma”. Contrari a quella visita sono stati anche diversi alti rappresentanti di vari Paesi membri dell’Unione europea. Come il primo ministro della Svezia, il quale ha affermato che il suo omologo ungherese “…è solo, non parla a nome dell’Unione europea e non parla a nome di tutti gli altri capi di Stato e di governo [dei Paesi membri]”.

    In seguito alle due sopracitate visite, il primo ministro ungherese, l’8 luglio scorso, è andato in Cina ed ha incontrato il presidente cinese. Per il primo ministro ungherese quella sua terza era una “missione di pace 3.0”. E si riferiva alla pace tra la Russia ed Ucraina. Ma anche questa visita è stata considerata dai rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea come una sua iniziativa personale. Evidenziando e criticando anche l’uso improprio del logo della presidenza dell’Unione europea, da parte del primo ministro ungherese, in tutte le sue comunicazioni.

    La scorsa settimana Cristiana Muscardini, trattando l’incontro del primo ministro ungherese con il presidente russo, scriveva per il nostro lettore: “…dobbiamo fare chiarezza e portare allo scoperto chi fino ad ora, in ognuno degli Stati europei, ha solidarizzato, in modo più o meno palese, con Mosca perché la sicurezza delle nostre democrazie è messa a rischio e non si può più traccheggiare”. E faceva riferimento ai rapporti d’amicizia tra loro due. Poi chiudeva l’articolo scrivendo: “Piaccia o non piaccia ad alcuni governi, l’Europa deve darsi una politica estera ed una difesa comune, anche a fronte delle insicurezze americane, per questo, come è già stato fatto per la moneta unica si abbia il coraggio di partire con un gruppo di Stati, gli altri verranno poi, rimanere ancora immobili ed indecisi sarebbe un errore tragico dalle conseguenze irrimediabili” (Dopo la visita di Orban Putin bombarda gli ospedali dei bambini; 9 luglio 2024).

    Chi scrive queste righe pensa che con le sue tre visite in una settimana, il primo ministro ungherese si stia comportando come un mediatore per conto proprio. Senza nessun mandato dalle istituzioni dell’Unione europea, compreso il Consiglio dell’Unione europea che lui stesso presiede dal 1o luglio scorso. Ragion per cui chi scrive queste righe considera quelle visite come delle opportunità che possano diventare utili per colui che le programma e le attua. Ma bisogna ricordare sempre che le amicizie fatte per opportunismo saranno gradite finché saranno utili. Lo diceva Seneca e la storia lo conferma.

  • Libertà, democrazia e armi

    Come tutti siamo preoccupati per l’escalation della violenza in genere e di quella, in particolare, che colpisce rappresentanti politici: l’attentato a Trump dimostra, una volta di più, come dalla violenza verbale sia brevissimo il passo per arrivare alla violenza fisica.

    Tutti dovrebbero abbassare i toni e comprendere l’urgenza di ritornare a confronti politici corretti cosi come è necessario un maggior controllo sui social quando i loro utenti si scatenano in ingiurie e minacce.

    Dopo avere condannato l’attentato a Trump dobbiamo anche fare una riflessione sull’eccessiva e pericolosa libertà, che c’è negli Stati Uniti, per l’acquisto di armi.

    Il Presidente Biden si è più volte espresso sulla necessità di modificare l’attuale sistema per rendere più difficile l’acquisto di armi, armi che sono vendute liberamente anche quando sono praticamente armi d’assalto.

    Ovviamente i produttori di armi sono sempre stati contrari osteggiando in tutti i modi la proposta di Biden e Trump è sempre stato favorevole alla libera vendita delle armi, non per nulla una possibile candidata ad essere sua vice, se sarà eletto alla presidenza, è una governatrice che in un suo libro si vanta di aver sparato al proprio cane, perché disubbidiente, ed ad una sua capra, perché brutta.

    Oggi forse Trump, sulla sua pelle, potrebbe aver imparato una dura lezione, la libertà di tutti non va d’accordo con la libertà di chiunque di acquistare strumenti per ferire ed uccidere.

    In questi anni gli Stati Uniti hanno pianto decine di morti, ragazzi, studenti, cittadini presi di mira da altri ragazzi e cittadini che, legalmente in possesso di armi da fuoco, hanno sparato per uccidere, per commettere delle autentiche stragi.

    Speriamo che questa riflessione la facciano anche gli americani, Trump in testa, e comprendano tutti che la libertà e la democrazia del proprio Paese si tutela anche regolamentando in modo più severo la vendita di armi da fuoco.

  • Democrazia come concetto e come vissuta realtà quotidiana

    Soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia.

    Leo Longanesi

    Come molte altre parole di uso quotidiano anche la parola democrazia fa parte del vocabolario della lingua greca antica. Si tratta di una parola composta che, tradotta letteralmente, significa potere del popolo. Il popolo dovrebbe esercitare la sua sovranità direttamente o indirettamente, tramite diverse forme di consultazioni di massa, per stabilire la forma dell’organizzazione dello Stato. Si tratta di una parola però che, nel corso dei secoli, ha espresso concetti diversi. Riferendosi a documenti della Grecia antica, gli studiosi hanno evidenziato che il significato della parola era tutt’altro che positivo. Platone ed Aristotele, due noti filosofi della Grecia antica, davano al concetto della democrazia un significato negativo. Per Platone dovrebbero essere i filosofi e non il popolo ad avere il potere e governare. Mentre per Aristotele la democrazia non era la forma dovuta dell’organizzazione dello Stato, perché si poteva trasformare in una tirannide. In seguito, durante il periodo dell’illuminismo europeo, il concetto della democrazia è stato trattato da molti noti filosofi come John Locke, Jean-Jacques Rousseau e Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, comunemente noto come Montesquieu. Era il 1863 quando Abraham Linkoln definì la democrazia come “il governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo”. Una definizione quella che, nel 1958, è stata introdotta anche nella Costituzione francese.

    Montesquieu, trattando il concetto della democrazia, ha ripreso dall’antichità un altro concetto, quello della separazione dei poteri. In seguito ad un lungo lavoro, durato per ben quattordici anni, lui pubblicò nel 1748 un insieme di trentuno libri, raccolti in due volumi ed intitolato De l’esprit des lois (Spirito delle leggi; n.d.a.). Un’opera che rappresenta un trattato del pensiero politico e giudiziario del Settecento che è attuale anche adesso. Un trattato in cui Montesquieu evidenziava e definiva i tre poteri che dovevano essere divisi ed indipendenti; il potere legislativo, il potere esecutivo ed il potere giudiziario. Ovviamente Montesquieu si riferiva all’organizzazione dello Stato dell’epoca in cui viveva. Per lui il potere legislativo “…verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo”. Invece il potere esecutivo “…deve essere nelle mani d’un monarca, perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi”. Mentre il potere giudiziario doveva essere “la bouche de la lois” (la bocca della legge; n.d.a.).

    Il concetto della democrazia, intesa come democrazia liberale, si è evoluto e ha assunto un significato positivo. La forma dell’organizzazione dello Stato liberale prende vita in Inghilterra nel ‘600. Due sono i documenti su cui si basa: la Magna Carta libertatum (Grande Carta delle libertà, 1215; n.d.a.) e il Bill of Rights (Carta dei diritti, 1689; n.d.a.). Con la democrazia liberale si intende una forma di governo che si basa sul coordinamento e la connivenza del principio liberale dei diritti individuali dell’essere umano con il principio democratico della sovranità del popolo. La storia ci insegna però che il diritto di voto non era riconosciuto da sempre alle donne ed ad alcune altre comunità. Un diritto acquisito ormai e non sempre facilmente. In uno Stato democratico la Costituzione rappresenta il limite oltre il quale il governo non può esercitare la sua autorità. Ma rappresenta anche la garanzia del funzionamento dello Stato di diritto. E cioè di quella forma del funzionamento dello Stato che garantisce il rispetto dei diritti e delle libertà dell’essere umano.

    Era il 1907 quando Giuseppe Toniolo, un economista e sociologo italiano ed uno dei protagonisti del movimento cattolico, proclamato Beato nel 2012, diede avvio a quella che ormai è nota come la Settimana Sociale dei cattolici. La scorsa settimana, dal 3 al 7 luglio, è stata celebrata la 50a Settimana Sociale dei Cattolici in Italia. Sono state organizzate diverse attività con il tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.  Mercoledì scorso, 3 luglio, a Trieste per dare inizio alla Settimana Sociale era presente anche il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella. Durante il suo intervento egli ha trattato il tema della democrazia, sottolineando che “Una democrazia ‘della maggioranza’ sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà”. Sempre riferendosi alla democrazia il Presidente ha affermato: “Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere. Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera. Insieme una conquista e una speranza che, a volte, si cerca, in modo spregiudicato, di mortificare ponendone il nome a sostegno di tesi di parte. Non vi è dibattito in cui non venga invocata a conforto della posizione propria. Un tessuto che gli avversari della democrazia pretenderebbero logoro”. Il Presidente ha altresì detto che “…Non è democrazia senza la tutela dei diritti fondamentali di libertà, che rappresentano quel che dà senso allo Stato di diritto e alla democrazia stessa”.

    La 50a Settimana Sociale dei Cattolici in Italia si è conclusa, sempre a Trieste, con la presenza di Papa Francesco. Durante il suo intervento il Santo Padre ha trattato ampiamente il concetto della democrazia. Per lui “…La parola stessa ‘democrazia’ non coincide semplicemente con il voto del popolo; nel frattempo a me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare. Cosa significa quello? Non è il voto del popolo solamente, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va ‘allenata’, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche”. Papa Francesco, tra l’altro, ha ribadito che “…Ci spetta il compito di non manipolare la parola democrazia, né di deformarla con titoli vuoti di contenuto, capaci di giustificare qualsiasi azione. La democrazia non è una scatola vuota, ma è legata ai valori della persona, della fraternità e anche dell’ecologia integrale”.

    Nel suo piccolo l’autore di queste righe si è riferito spesso alla democrazia, sia come concetto, sia come vissuta realtà quotidiana. Egli ha trattato per il nostro lettore anche le diverse deformazioni fatte alla democrazia (Stabilocrazia e democratura, 25 febbraio 2019; Bisogna reagire, 17 maggio 2021; Predicano i principi della democrazia ma poi, 28 giugno 2021; Interessi, indifferenza, irresponsabilità, ipocrisia e gravi conseguenze, 15 novembre 2021; Inconfutabili testimonianze di una dittatura in azione, 23 ottobre 2023 ecc..). Più  di cinque anni fa l’autore di queste righe scriveva: “…Stabilocrazia e democratura sono due neologismi coniati ultimamente e usati, quasi sempre, in una connotazione non positiva […]. La prima è un incrocio tra le parole stabilità e democrazia. Mentre la seconda tra le parole democrazia e dittatura. […]. Fatti alla mano però, quasi sempre la scelta della stabilità, giustificata da “ragioni geopolitiche”, per un paese/una regione ha compromesso i principi basilari della democrazia. Almeno analizzando quanto è realmente accaduto in diversi Paesi e in diverse parti del mondo. Quando un Paese si trova in uno stato di democratura, l’instaurazione anche di una stabilocrazia, per motivi di mutuale convenienza diventa più facile” (Stabilocrazia e democratura, 25 febbraio 2019).

    Chi scrive queste righe, seguendo quanto ha detto Papa Francesco domenica scorsa a Trieste, ha trovato molto significativa la sua affermazione che “La crisi della democrazia è come un cuore ferito”. Egli condivide pienamente anche le sagge parole di Leo Longanesi. Si, soltanto sotto una dittatura ci si riesce a credere nella democrazia. In quella democrazia però che garantisce il rispetto dei diritti individuali dell’essere umano e la reale sovranità dei cittadini.

  • Presidenti virtuali e democrazie morte

    Si discute molto, in questi giorni, sulle performance di Trump e di Biden e sulle effettive possibilità che ha quest’ultimo di tornare alla presidenza.

    Sono molte meno le voci che si confrontano sul problema reale e cioè quale è il futuro di un grande paese, come gli Stati Uniti, definiti la più grande democrazia del mondo occidentale e la prima, o tra le primissime potenze, in fatto di armi e di economia, quando per la presidenza si confrontano due anziani, l’uno inqualificabile per i suoi comportamenti, l’altro che spesso sembra confuso.

    L’età di un presidente non è importante se ci troviamo di fronte a persone lucide come Mattarella, diventa un problema quando negli Stati Uniti dei due candidati l’uno passa di processo in processo, enunciando programmi sempre più astrusi e pericolosi, e l’altro non riesce a ricordare le cose buone che ha fatto durante la sua presidenza e a rispiegare i fondamentali motivi per i quali gli Stati Uniti non possono disarticolarsi dall’Europa o smettere di difendere l’Ucraina.

    Tutto questo avviene mentre sanguinose guerre continuano, non solo in Medio Oriente ed in Ucraina, in tutto il mondo, Xi Jinping stringe sempre più forte amicizia con il sanguinario zar della grande Russia, Kim Jong-un esporta armi, lancia missili ed inonda di immondizia la Corea del Sud, tornano a farsi sentire i terroristi di varia natura, l’Europa nelle trattative per il proprio e nostro futuro sembra la nazionale di calcio italiana, cioè inconcludente, la Francia è sull’orlo di una crisi isterica, almeno per una parte, i cambiamenti climatici hanno messo in ginocchio l’agricoltura ed il rischio di carestie e di impoverimento per tutti è sempre più reale.

    Che l’inquinamento, negli anni, abbia colpito il cervello di molti non è più una ipotesi surreale, forse l’intelligenza artificiale è stata creata proprio per questo, oltre che per arricchire alcuni, e cioè impedirci di continuare a pensare sostituendosi a noi con presidenti virtuali e democrazie morte.

  • China changed village names ‘to erase Uyghur culture’

    China has changed the names of hundreds of villages in Xinjiang region in a move aimed at erasing Uyghur Muslim culture, Human Rights Watch (HRW) says.

    According to a report by the group, hundreds of villages in Xinjiang with names related to the religion, history or culture of Uyghurs were replaced between 2009 and 2023.

    Words such as “sultan” and “shrine” are disappearing from place names – to be replaced with terms such as “harmony” and “happiness”, according to the research, which is based on China’s own published data.

    The BBC contacted China’s embassy in London about the allegations.

    In recent years, Chinese authorities have been radically overhauling society in Xinjiang in an attempt to assimilate its minority Uyghur population into mainstream Chinese culture.

    Researchers from HRW and Norway-based organisation Uyghur Hjelp studied the names of villages in Xinjiang from the website of the National Bureau of Statistics of China over the 14-year period.

    They found the names of 3,600 of the 25,000 villages in Xinjiang were changed during this time.

    While the majority of these name changes “appear mundane”, HRW said, around one fifth – or 630 changes – remove references to Uyghur religion, culture or history.

    Words freighted with meaning for China’s Uyghur population – including Hoja, a title for a Sufi religious teacher, and political or honorific titles such as Sultan and beg – have been replaced with words HRW claims reflect “recent Chinese Communist Party ideology”, including “harmony” and “happiness”.

    In one example highlighted by the report, Aq Meschit (“white mosque”) in Akto County, a village in the southwest of Xinjiang, was renamed Unity village in 2018.

    growing body of evidence points to systematic human rights abuses against the country’s Uyghur Muslim population. Beijing denies the accusations.

    Most of China’s Uygur Muslims live in the north-west of the country, in areas such as Xinjiang, Qinghai, Gansu and Ningxia.

    There are roughly 20 million Muslims in China. While China is officially an atheist country, the authorities say they are tolerant of religious freedom.

    However, in recent years observers say they have witnessed a crackdown on organised religion across the country.

    According to HRW, while the renaming of villages and towns appears ongoing, most of the place names were changed between 2017 and 2019.

    The group claims this coincides with an escalation in hostilities against the Uyghur population in Xinjiang.

    China has used the threat of “violent terrorism, radicalisation and separatism” in the past to justify the mass detention of the country’s minority Uyghur population.

    Maya Wang, the acting China director at Human Rights Watch, said: “The Chinese authorities have been changing hundreds of village names in Xinjiang from those rich in meaning for Uyghurs to those that reflect government propaganda

    “These name changes appear part of Chinese government efforts to erase the cultural and religious expressions of Uyghurs,” she added.

    The research follows a report published last year in which HRW accused the Chinese state of closing, destroying and repurposing mosques in an effort to curb the practise of Islam in China.

  • Lo scontro democratico tra garanzie ed opportunità

    Una democrazia rappresenta la forma di governo all’interno della quale, come nel periodo degli antichi Greci, tutti potevano godere degli stessi diritti e tutti potevano accedere a determinati incarichi pubblici in base alla propria competenza.

    Questa forma di governo basata sul principio di uguaglianza riportata all’era contemporanea offre anche delle opportunità (che rappresentano un concetto radicalmente diverso da quello di garanzia democratica) per chi sappia utilizzare e magari volgere a proprio favore delle “vacatio legis” tali da non definire una base minima di requisiti per la eleggibilità.

    Questa lacuna viene abitualmente interpretata da ogni forza politica come la possibilità di proporre per una carica elettiva candidati il cui unico merito è quello di rappresentare una vicinanza alla stessa compagine politica. Tuttavia, proprio perché in altri campi la legge nazionale risulta invece molto precisa nella definizione dei requisiti minimi di accesso, questa vacatio diventa non più una caratteristica della democrazia ma una semplice quanto banale opportunità speculativa.

    Il principio principe delle uguaglianza, già presente nella democrazia dell’antica Grecia, viene così azzerato quando per accedere ad un qualsiasi concorso del personale di servizio ATA il candidato deve risultare incensurato mentre una persona che abbia già subito quattro condanne e ventinove denunce possa venire tranquillamente candidata ed eletta al Parlamento Europeo.

    In fondo sarebbe bastato adottare il medesimo criterio richiesto per l’accesso ai concorsi pubblici come espressione della semplice garanzia democratica.

    Questa elezione di Ilaria Salis rappresenta in buona sostanza il risultato di uno sfruttamento della “Opportunità” che un sistema democratico assolutamente perfettibile non ha ancora avuto il coraggio di normare adeguatamente.  In altre parole, il voto non può e non deve rappresentare l’unica forma di manifestazione della democrazia.

    Questo, invece, si dovrebbe inserire all’interno di un sistema elettorale nel quale venisse adottato un criterio comune in relazione alla eleggibilità. Come logica conseguenza, quindi, i leader di partito non possono sentirsi esenti da una propria responsabilità quando utilizzano nel sistema una opportunità a proprio semplice beneficio politico, in più spacciandola come espressione di una garanzia democratica.

    La democrazia dovrebbe essere gestita cum grano Salis  da chi pretende di stabilirne i principi democratici ma che per opportunità politiche lascia la definizione di accesso assolutamente libera ed espressione degli interessi delle  formazioni politiche.

    In fondo basterebbe solo un minimo di discernimento in quanto la democrazia non può essere intesa come una giostra alla quale chiunque, solo in quanto scelto da un partito, possa accedere.

    Il livello di una democrazia comincia dalla qualità dei candidati i quali, per il principio di uguaglianza, dovrebbero essere soggetti ai medesimi obblighi di legge sia per un concorso pubblico quanto per la semplice presentazione di una candidatura.

  • Parlano di principi, ma agiscono seguendo gli interessi

    Gli uomini chiamano amicizia una società di interessi, uno scambio d’aiuti, un commercio in somma, in cui l’amor proprio spera di potere guadagnare qualche cosa.

    François de La Rochefoucauld

    Francesco de Sanctis era un buon conoscitore della letteratura italiana ed un noto critico letterario del diciannovesimo secolo. Lui è anche l’autore del libro “Storia della letteratura italiana”, in cui si tratta il pensiero del grande filosofo, scrittore ed uomo politico Niccolò Machiavelli, espresso nella sua opera molto nota Il Principe. Un’opera che viene considerata anche come la base della scienza politica moderna. Francesco de Sanctis, nel quindicesimo capitolo del suo sopracitato libro scrive: “Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell’ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice di tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda l’opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina”. Ormai il detto “Il fine giustifica  i mezzi” è molto noto ed usato in molte lingue del mondo. Un detto che però non è di Machiavelli, bensì, secondo gli studiosi, coniato proprio da Francesco de Sanctis nel suo libro “Storia della letteratura italiana” su Niccolò Machiavelli ed il machiavellismo.

    La scorsa settimana si sono svolte le elezioni europee. Elezioni dalle quali sono stati scelti dagli elettori dei ventisette Paesi membri dell’Unione i 720 eurodeputati del Parlamento europeo. Elezioni che sono state svolte, a seconda del Paese, tra il 6 ed il 9 giugno scorso. L’Italia è stato l’unico Paese dove si è votato sabato 8 e domenica 9 giugno. Il risultato definitivo delle elezioni ha testimoniato una crescita dei partiti di destra che hanno vinto in diversi Paesi come la Francia, l’Italia, la Germania, l’Austria, la Polonia ecc. In Francia il presidente della Repubblica, dopo il deludente risultato del suo partito, ha decretato le elezioni legislative anticipate il 30 giugno ed il 7 luglio prossimi. La situazione politica è delicata anche in Germania, dopo la sconfitta dei partiti che compongono l’attuale governo. L’Italia è stato l’unico Paese dell’Unione europea dove il risultato delle elezioni ha confermato la vittoria del partito guidato dalla Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma la Presidente del Consiglio dei Ministri del’Italia deve essere molto attenta a certi rapporti con qualche suo omologo. Soprattutto quando si sa tutto sulla loro totale inaffidabilità. Individui che, fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo, fatti documentati, testimoniati, denunciati e pubblicamente noti alla mano, sono degli innati bugiardi ed ingannatori. Individui che quando si trovano in difficoltà fanno di tutto, costi quel che costi, per salvarsi. Individui che con i principi ed i valori non hanno niente in comune. Ragion per cui la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia, premiata dagli italiani nelle appena passate elezioni europee, deve essere molto attenta quando fa degli accordi con simili individui. Perché ha delle responsabilità istituzionali e non solo. Ma devono essere molto attenti e responsabili anche i suoi consiglieri e collaboratori che sono obbligati a raccogliere tutte le necessarie informazioni e poi riferirle alla Presidente del Consiglio dei Ministri, prima che lei prenda delle determinate decisioni. Decisioni che potrebbero essere motivate anche da interessi e/o promesse elettorali che, come tali, devono essere rispettate. Ma tutto in base ai principi morali e non spinti da certi interessi mai resi pubblici.

    La settimana scorsa era l’ultima delle campagne elettorali per le elezioni europee. Normalmente durante un simile periodo si programmano delle attività elettorali, degli incontri che sono valutati necessari per aumentare la possibilità di consenso degli elettori. Ebbene, coloro che avevano programmato le attività in cui doveva essere presente anche la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia avevano scelto una visita in Albania. Visita che è stata realizzata il 5 giugno scorso, solo tre giorni prima della fine della campagna elettorale. Durante quella visita la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ha incontrato il suo omologo albanese e poi tutti e due insieme si sono spostati in una località sulla costa adriatica ad una settantina di chilometri dalla capitale albanese. Sono andati lì perché proprio in quell’area è stato previsto di costruire due centri di accoglienza per migliaia di profughi. Tutto previsto dal “Protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, firmato a Roma nel pomeriggio del 6 novembre 2023 dalla Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia e dal suo “caro amico”, il primo ministro albanese. Il nostro lettore è stato informato sia di quel Protocollo, che dei successivi sviluppi a lui legati (Un autocrate irresponsabile e altri che seguono i propri interessi, 14 novembre 2023; Un autocrate irresponsabile ed altri che ne approfittano, 21 novembre 2023; Mai accordarsi con individui inaffidabili, 27 maggio 2024 ecc…). Molto significativa è stata un’intervista del primo ministro albanese, circa tre settimane fa, ad un giornalista del quotidiano La Repubblica. Un’intervista durante la quale il primo ministro albanese aveva “perso” l’entusiasmo sulla bontà di quel Protocollo. L’autore di queste righe esprimeva al nostro lettore la sua convinzione che “…non bisogna mai accordarsi con individui inaffidabili come il primo ministro albanese”. E poi aggiungeva: “Proprio con lui che il 18 novembre 2021 dichiarava convinto e perentorio che “l’Albania non sarà mai un Paese dove Paesi molto ricchi possano creare campi per i loro rifugiati. Mai!”. Ma quella sua “determinazione” la ha “dimenticata” il 6 novembre scorso, firmando l’Accordo sui migranti con l’Italia. Mentre adesso sta “dimenticando” proprio la bontà di quell’Accordo […].Chissà che ne pensa adesso del suo “caro amico”, il primo ministro albanese, la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia?!” (Mai accordarsi con individui inaffidabili, 27 maggio 2024).  Invece durante l’incontro avuto il 5 giugno scorso con la Presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia, il suo “caro amico” ha cambiato di nuovo la sua opinione sull’Accordo. Chissà perché?! Si sa però che il 5 giugno scorso c’è stata solo una visita nei centri e niente più. Si sa anche che non sono stati rispettati neanche i limiti di tempo previsti dal Protocollo.

    La Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia ha fatto però delle dichiarazioni che non hanno niente a che fare con la vera, vissuta e spesso sofferta realtà in Albania. Basta pensare che si tratta di un Paese dove in meno di dieci anni la popolazione è stata quasi dimezzata proprio perché gli albanesi stessi hanno dovuto fare la difficile e spesso sofferta scelta di diventare, anche loro, dei profughi. Lo sapeva questo la Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia? Lo sapeva lei che, ben diversamente da quello che lei ha dichiarato il 5 giugno scorso, l’Albania è veramente diventato un narcostato? Una verità quella sulla quale riferiscono i rapporti ufficiali delle strutture internazionali specializzate, comprese quelle dell’Unione europea. Una preoccupante realtà quella che, da alcuni anni ormai, la stanno denunciando anche diversi noti procuratori e giudici antimafia italiani. Chissà perché non sapeva questo noto fatto la Presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia?! Oppure lo sapeva ed ha cercato di sostenere il suo “caro amico” che si trova in grosse difficoltà, proprio perché lui deve molto anche alla criminalità organizzata.

    Chi scrive queste righe è convinto che, purtroppo, sono non pochi coloro che, avendo delle cariche istituzionali di alto livello, parlano di principi, ma agiscono seguendo gli interessi. Aveva ragione François de La Rochefoucauld quando affermava che gli uomini chiamano amicizia una società di interessi, uno scambio d’aiuti, un commercio insomma, in cui l’amor proprio spera di potere guadagnare qualche cosa. Ma si sa però che il fine giustifica i mezzi.

Pulsante per tornare all'inizio