Democrazia

  • Croazia al voto

    I cittadini della Croazia votano il 17 aprile per eleggere i 151 deputati del Parlamento croato (Sabor), dopo quasi quattro anni dall’ultima volta datata luglio 2020. 6.500 i seggi elettorali aperti nel Paese alle 7 di mattina alle 19 di sera. La Commissione elettorale centrale (Dip) ha censito in 3.733.283 gli aventi diritto al voto. All’estero si è votato in 41 Paesi, in 109 seggi di rappresentanze consolari e ambasciate. Su 151 deputati, 140 vengono eletti nelle 10 circoscrizioni elettorali lungo tutto il Paese, 3 dai cittadini croati residenti all’estero e 8 sono membri delle minoranze nazionali.

    I sondaggi della vigilia davano il partito conservatore Unione democratica croata (Hdz), in coalizione con altri partiti minori, in vantaggio nelle preferenze dei cittadini. Leader del movimento è l’attuale premier Andrej Plenkovic, al governo dal 2016, il quale ha chiesto ai cittadini la fiducia per un terzo mandato consecutivo, forte soprattutto dei successi in politica estera dell’ultimo mandato. Con l’europeista Plenkovic, infatti, la Croazia nel 2023 è entrata contemporaneamente nello spazio Schengen e nell’eurozona e, secondo il premier, votare per il suo partito significa “stabilità, sicurezza e sviluppo” sebbene i suoi due mandati siano stati allo stesso tempo costellati da scandali di corruzione e nepotismo che hanno portato all’avvicendamento di diversi ministri. Proprio su una “lotta senza compromessi contro la corruzione” insieme a “salari e pensioni più alte” ha puntato il secondo partito più importante del Paese, il partito Socialdemocratico (Sdp), all’opposizione da 8 anni e storico rivale dell’Hdz, per guidare il Paese.

    La più grande sorpresa, emersa all’inizio della campagna elettorale, è stata l’annuncio del presidente in carica, Zoran Milanovic, di volersi candidare a primo ministro del Partito socialdemocratico che si è posto a guida della coalizione “Rijeka Pravde” (Fiumi di giustizia). Milanovic è già stato premier della Croazia dal 2011 al 2016 con la stessa formazione politica e ha posizioni per lo più antieuropeiste e filorusse. Più volte ha criticato il sostegno di Bruxelles all’Ucraina in seguito all’invasione del Paese da parte della Russia. La Corte costituzionale ha però impedito causa di elementi di “incostituzionalità” al capo dello Stato di candidarsi alle elezioni parlamentari, a meno di dimettersi dalla carica, cosa che Milanovic non ha voluto fare. L’attuale capo dello Stato non ha quindi partecipato ufficialmente alle elezioni parlamentari e il suo nome non è figurato sulla lista elettorale del Sdp, ma in dichiarazioni quasi quotidiane ha affermato che dopo le elezioni formerà un nuovo governo “di salvezza nazionale” attaccando l’attuale governo dell’Hdz, il primo ministro e la sua politica. Il confronto-scontro sempre acceso e aspro tra premier e presidente ha praticamente segnato tutta la campagna elettorale, durata solo 17 giorni.

    I sondaggi nel Paese alla viglia dell’apertura delle urne assegnavano all’Unione democratica 60 seggi nell’Assemblea, sebbene il partito attualmente al potere possa probabilmente contare, in aggiunta, sui 3 seggi riservati ai cittadini croati residenti all’estero (di solito vicini all’Hdz) e sugli 8 delle minoranze nazionali tradizionalmente filogovernative. Sempre secondo gli ultimi sondaggi la coalizione guidata dall’Sdp si attestava invece intorno ai 44 seggi. Per entrambe le forze politiche i risultati sarebbero insufficienti comunque per ottenere la maggioranza per governare nel Parlamento croato per la quale occorrono 76 seggi. Secondo gli esperti quindi, i 2 partiti che potrebbero decidere chi governerà la Croazia per i prossimi 4 anni sono le due formazioni più a destra dello spettro politico del Paese, il Movimento patriottico, formazione politica di estrema destra, a cui i sondaggi assicurano intorno ai 15 seggi e la formazione cattolico-conservatrice Most, a cui le stime assegnano nove seggi.

    Il presidente Milanovic a tal proposito ha affermato che cercherà di riunire tutte le forze politiche, sia da sinistra che da destra, per formare una maggioranza in Parlamento nel tentativo ultimo di escludere il partito Hdz dal potere. I Socialdemocratici potranno comunque contare probabilmente anche sull’appoggio della formazione verde e progressista Mozemo!, guidata dall’attuale sindaco di Zagabria Tomislav Tomasevic, a cui i sondaggi assegnano intorno ai dieci seggi. Sicura infine di superare la soglia di sbarramento del 5% dovrebbe essere anche la Dieta democratica istriana (Ids) a cui i sondaggi assegnano due seggi nel Sabor. Nelle ultime parlamentari del 5 luglio 2020 Plenkovic era stato confermato premier del Paese e il partito Hdz aveva ottenuto 66 seggi. L’affluenza era stata di poco superiore al 46%.

  • Chi vota ha sempre ragione se il suo voto è libero

    Chi vota ha sempre ragione se vota in un Paese democratico nel quale la libertà è un diritto fondamentale ed inalienabile.

    Se vive in un Paese dove la minoranza è rispettata ed ha il suo spazio, un Paese con regole certe ed un’informazione libera a tutto campo, un Paese, uno Stato, una Nazione il cui governo non imprigiona gli avversari e li suicida o uccide, una nazione che rispetta il diritto internazionale e la vita dei suoi cittadini.
    Se le elezioni si svolgono in un paese libero e democratico ognuno ha il diritto di esprimere la sua scelta ed il risultato elettorale va rispettato, in caso contrario si tratta di elezioni farsa, guidate dalla forza di chi detiene in modo assoluto il potere e nessun risultato può essere riconosciuto come attendibile.
    Lo diciamo con calma a Salvini e ai tanti o pochi amici di Putin che vivono in Italia ricordando che se hanno tanta ammirazione per il nuovo zar niente vieta a loro di andare a vivere in Russia, quello che certamente non consentiremo a nessuno è di tentare di portare in Italia, in Europa, l’autocrazia e qualunque altro regime che privi i cittadini della libertà e dei diritti fondamentali che regolano le democrazie.

  • Rapporto indipendente che conferma inquietanti abusi di potere

    Un’ingiustizia fatta all’individuo è una minaccia fatta a tutta la società.

    Montesquieu

    Il Consiglio degli Ambasciatori Statunitensi (The Council of American Ambassadors; n.d.a.) è una nota organizzazione senza scopo di lucro e apartitica che raggruppa più di 200 membri. Si tratta di ex ambasciatori di carriera che hanno svolto la loro attività diplomatica negli ultimi sessant’anni. Il Consiglio, riconosciuto ufficialmente anche dal Dipartimento di Stato, svolge diverse attività in base ai suoi programmi. Il Consiglio collabora attivamente con il Dipartimento di Stato, offrendo sostegno e suggerimenti, riferensosi agli obiettivi della politica estera degli Stati Uniti in divese parti del mondo, nonché all’esperienze dei suoi membri. In più il Consiglio degli Ambasciatori Statunitensi programma ed organizza delle riunioni, delle tavole rotonde con diversi alti rappresentati diplomatici stranieri accreditati presso la Casa Bianca. Tra le tante attività che svolge il Consiglio c’è anche quella di organizzare ed attuare delle missioni investigative indipendenti per raccogliere dati ed informazioni in diversi Paesi del mondo. Dati ed informazioni che spesso non vengono rapportati da altre istituzioni e/o dai media.

    Ebbene, nel periodo tra il 7 ed il 14 maggio 2023 un gruppo di dieci rappresentanti del Consiglio degli Ambasciatori Statunitensi è stato mandato in una missione di raccolta dati ed informazioni in tre Paesi dei Balcani occidentali: Albania, Kosovo e Macedonia del Nord. Dopo quella missione è stato redatto un rapporto che è stato reso pubblico una decina di giorni fa. Nel rapporto sull’Albania viene trattata soprattutto la decisione firmata dal segretario di Stato statunitense nei confronti dell’attuale dirigente dell’opposizione albanese, ex Presidente della Repubblica (1992-1997) ed ex primo ministro (2005-2013).

    Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò in un articolo pubblicato nel maggio 2021. “Il 19 maggio scorso, un’inattesa notizia, arrivata da oltreoceano, ha scombussolato la politica e l’opinione pubblica in Albania. Il Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America ha pubblicato, nel suo account personale Twitter, la dichiarazione come “persona non desiderata per entrare negli Stati Uniti” dell’ex Presidente della Repubblica (1992-1997) ed ex primo ministro (2005-2013). Con lui anche sua moglie e i due figli. Questa drastica decisione è stata presa perché gli atti corruttivi dell’ex Presidente “…hanno minato la democrazia in Albania”. Il Segretario di Stato ha espresso la sua convinzione che l’ex primo ministro “…. era coinvolto in atti corruttivi come l’uso improprio dei fondi pubblici, interventi nei processi pubblici, compreso l’uso del suo potere a beneficio e all’arricchimento degli alleati politici e dei membri della sua famiglia”. Il Segretario di Stato ha ribadito anche che l’ex primo ministro, con la sua retorica, “…è pronto a difendere se stesso, i membri della sua famiglia e gli alleati politici, a scapito delle indagini indipendenti, degli sforzi anticorruzione e delle misure sulla responsabilità [penale]””. Così scriveva l’autore di queste righe il 24 maggio 2021. E poi aggiungeva: “…Per facilitare la chiave di lettura, il nostro lettore deve sapere che ormai l’ex primo ministro albanese, dichiarato “persona non grata” il 19 maggio scorso, dopo la sua sconfitta elettorale nel 2013 ha dato le dimissioni da ogni responsabilità istituzionale e politica, tranne quella di deputato, della quale ha beneficiato fino al febbraio 2019. Il che vuol dire che lui, da circa otto anni ormai, non gode di nessun “potere corruttivo” (Eclatanti e preoccupanti incoerenze istituzionali; 24 maggio 2021).

    Il sopracitato rapporto del Consiglio degli Ambasciatori Statunitensi, all’inizio del capitolo che si riferiva all’Albania, affermava che i membri della missione avevano incontrato il presidente della Repubblica, membri del parlamento, rappresentanti dell’opposizione ed altri. E sottolineava che il primo ministro e i membri del suo gabinetto “non hanno dato informazioni”. Aggiungendo che “È difficile determinare se si trattava di una mancanza di tempo, oppure per tergiversare e [in seguito] discreditare ogni critica che poteva emergere dalla nostra missione. Ma il primo ministro Rama è stato il tema delle conversazioni in quasi tutti i nostri incontri”. Nel rapporto viene sottolineato, tra l’altro, il fatto che l’allora ambasciatrice statunitense in Albania (2020-2023) non ha risposto alle domande dei membri della missione riguardo alle prove che hanno portato alla sopracitata decisione firmata dal segretario di Stato statunitense il 19 maggio 2021. Il rapporto sottolineava che quello nei confronti del dirigente dell’opposizione era “interamente una determinazione in camera, esclusa da contestazioni della parte lesa e senza appello. Questo è altamente insolito, se non [caso] unico per la giurisprudenza statunitense”. Chissà perché allora una simile decisione?! Le cattive lingue hanno sempre parlato però di supporto lobbistico da oltreoceano a favore del primo ministro. Ma l’ambasciatrice aveva confermato in privato alla missione del Consiglio degli Ambasciatori Statunitensi che “…la lotta contro la corruzione era così fondamentale per la politica degli Stati Uniti e così prioritaria, che i funzionari dell’amministrazione Biden hanno considerato di fare qualcuno come esempio, per sottolineare che nessuno è sopra la legge, oppure immune quando si tratta del crimine della corruzione”. I membri della missione affermavano nel loro sopracitato rapporto che l’ormai 79enne dirigente dell’opposizione si potrebbe considerare alla fine della sua vita politica. Ma affermavano, altresì, che “…non è il modo come la giustizia americana possa mettere nel mirino qualcuno per dare lezione ad un attuale colpevole”. E per rendere tutto più chiaro hanno usato il detto cinese “Uccidere i polli per spaventare le scimmie”. Per chi conosce la preoccupante realtà albanese è molto chiaro che se c’è qualcuno che dovrebbe essere punito per la galoppante corruzione in Albania quello è proprio il primo ministro. Ma “stranamente” durante la sua visita lampo in Albania, il 15 febbraio scorso, il segretario di Stato statunitense ha dichiarato che il primo ministro albanese era “…un illustre dirigente e un ottimo primo ministro”(Sic!). Chissà perché?! Ed era proprio quel segretario di Stato che il 19 maggio 2021 firmava la sopracitata decisione nei confronti del dirigente dell’opposizione,

    Chi scrive queste righe ha trattato per il nostro lettore questi argomenti e continuerà a farlo. Egli, nel frattempo, trova sempre attuale che un’ingiustizia fatta all’individuo è una minaccia fatta a tutta la società. Come saggiamente affermava Montesquieu circa tre secoli fa.

  • Autocrati disponibili a tutto in cambio di favori

    Un tiranno troverà sempre un pretesto per la sua tirannia.

    Esopo

    Il 10 dicembre 1948, durante la sua terza sessione, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Dichiarazione universale dei Diritti umani. Si tratta di un importante documento che sancisce i diritti innati, acquisiti ed inalienabili dell’essere umano. Si tratta di diritti fondamentali ed universali che garantiscono la dignità della persona. L’articolo 19 della Dichiarazione conferma che “…tutti hanno il diritto alla libertà di espressione; questo diritto include la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni tipo, senza limiti di frontiera, sia oralmente, sia per iscritto, sia sotto forma d’arte, sia attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta”.

    Oltre alle istituzioni specializzate di ogni Paese e di quelle internazionali, anche il contributo del giornalismo indipendente e responsabile è importante e necessario per garantire sia la tutela dei diritti dell’essere umano, che l’investigazione e la denuncia degli abusi di potere da parte dei rappresentanti politici ed istituzionali. Compresi i massimi livelli. Anzi, loro prima di tutti gli altri. Nel mondo sono operativi diversi media scritti, audiovisivi ed in rete che contribuiscono a raggiungere questo obiettivo. Risulterebbe che uno di loro sia anche il giornale digitale francese Mediapart, fondato nel 2008 da un ex capo redattore della nota testata Le Monde. Mediapart è un quotidiano che non accetta nessuna pubblicità ed è finanziato soltanto dagli abbonamenti dei cittadini. Si tratta di un media composto da due sezioni. Le Journal è lo spazio dove pubblicano i giornalisti professionisti, mentre Le Club è quello in cui scrivono i cittadini abbonati. Bisogna, in più, sottolineare che è stato proprio Mediapart che ha denunciato gli abusi fatti da due presidenti della repubblica francese, Nicolas Sarcozy e François Hollande, con le dovute conseguenze sancite dalla legge. Lo stesso quotidiano, per primo, ha reso pubblico quello che nel 2010 venne chiamato come l’affare Bettencourt. Ha pubblicato nel 2012 una registrazione audio che costrinse, in seguito, l’allora ministro delle finanze a dare le dimissioni. E questi sono soltanto alcuni dei molti altri casi seguiti e resi pubblici dai giornalisti investigativi di Mediapart.

    Il 28 febbraio scorso è stato proprio questo media che ha pubblicato un articolo in cui si trattava la vera realtà in Albania. L’articolo, intitolato “Albanie: comment l’autocrate Edi Rama est devenu le meilleur allié des Occidentaux” (Albania; come l’autocrate Edi Rama è diventato il miglio alleato degli occidentali; n.d.a.), evidenzia, fatti accaduti alla mano, come un autocrate, il primo ministro, controlla tutto anche con il sostegno degli “occidentali”, in cambio a dei favori a loro necessari e ben graditi. Si tratta di un articolo investigativo scritto da tre noti giornalisti del Mediapart che cominciano affermando: “La capitale albanese s’imposta come una tappa diplomatica inevitabile nei Balcani, nel frattempo che il Paese si appresta ad accogliere i richiedenti asilo “delocalizzati” dall’Italia”. Ed in seguito gli autori dell’articolo scrivono: “Mercoledì, il 28 febbraio, l’Albania organizza un “vertice di pace” con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L’indomani (29 febbraio; n.d.a.) la capitale albanese ospiterà un vertice regionale Balcani-Unione europea. Del “Vertice” sull’Ucraina il nostro lettore è stato informato la scorsa settimana (Vertice che non è servito a niente tranne alla necessità di apparire; 4 marzo 2024). Nel loro articolo gli autori francesi affermano che “Due settimane prima, il 15 febbraio, c’era il segretario di Stato americano Antony Blinken in una visita a Tirana, dove non ha mancato di salutare “l’importanza strategica” dell’Albania e “l’eccellente collaborazione che mantiene il piccolo Paese con gli Stati Uniti”. E poi gli autori si domandano: “Come mai il regime del primo ministro Edi Rama è diventato il partner privilegiato degli occidentali nella penisola balcanica, mentre le libertà fondamentali continuano a peggiorare in Albania?”. L’autore di queste righe, riferendosi alla visita del segretario di Stato statunitense, informava il nostro lettore anche che “….il segretario di Stato ha considerato il primo ministro albanese come “un illustre dirigente e un ottimo primo ministro” (Sic!). Chissà a cosa si riferiva? Ma non di certo alla vera, vissuta e sofferta realtà albanese” (Sostegno da Oltreoceano ad un autocrate corrotto; 20 febbraio 2024).

    Nell’articolo pubblicato da Mediapart, riferendosi al primo ministro albanese, gli autori evidenziano che lui “…è nato e cresciuto in una famiglia della nomenklatura dell’Albania stalinista”. Sempre riferendosi al primo ministro albanese, affermavano che lui “…guida l’Albania in un modo sempre più aspro, sapendo [però] come diventare utile per i suoi partner stranieri ed evitare ogni critica riguardo alla [sua] caduta verso l’autoritarismo”. Gli autori del sopracitato articolo affermavano che in cambio dei favori offerti e spesso attuati dal primo ministro albanese “…i partner occidentali sono pronti ad ignorare le “piccole” deviazioni del suo regime dal predominio della legge”. Loro evidenziavano, altresì, che  “Negli ultimi anni la riforma della giustizia […] è stata deviata dai suoi obiettivi”.

    Nel ultimo capitolo del sopracitato articolo pubblicato il 28 febbraio scorso da Mediapart, gli autori scrivevano che il primo ministro albanese, di fronte ai partner occidentali, “…non ha nessuna difficoltà di imporre la narrativa che interessa a lui”. Aggiungendo che il primo ministro albanese fa apparire se stesso “…come ‘un uomo di Stato della stabilità’ nei Balcani, come l’amico sul quale l’Occidente può sempre appoggiarsi. E, per questo, gli occidentali sono pronti a non mostrarsi così rigorosi con i principi democratici”. Con questa frase terminava l’articolo.

    Chi scrive queste righe ha spesso trattato anche questi argomenti per il nostro lettore e condivide quanto hanno scritto i tre giornalisti del Mediapart. Egli, fatti accaduti alla mano, è convinto che il primo ministro albanese è un autocrate disponibile a tutto in cambio di favori. E parafrasando Esopo, il noto scrittore della Grecia antica, si potrebbe dire che un autocrate troverà sempre un pretesto per la sua autocrazia. Anche perché un autocrate e un tiranno hanno molte cose in comune.

  • Modello di Democrazia o Democrazia Modello?

    Durante lo scorso weekend i cittadini della Confederazione Elvetica hanno approvato, attraverso un quesito referendario, l’inserimento della tredicesima per i pensionati nonostante il parere contrario della maggioranza al governo. Come diretta conseguenza spetterà, ora, allo stesso governo elvetico trovare le coperture finanziarie in modo da assicurare l’attuazione dell’esito referendario.

    Contemporaneamente, invece, è stato rifiutato, in un altro quesito referendario, l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni, il quale aveva invece il sostegno politico del governo federale e della maggioranza.

    Una democrazia si rivela tale quando fa proprie le istanze dei cittadini trasformandole poi in quadri normativi nazionali in linea anche con le indicazioni espresse dagli esiti referendari. E’ invece una versione decisamente “spuria” quella democrazia delegata all’interno della quale si riconosce ad una classe politica la libertà di scelta, grazie all’assenza del vincolo di mandato, in relazione alle priorità nazionali, alle quali i cittadini poi si devono adeguare sia in termini politici che economici. Emerge evidente come una democrazia delegata trovi la propria giustificazione espressamente ideologica e politica nella presunta superiorità della classe politica rispetto al popolo amministrato.

    Un presupposto intollerabile e tipicamente ideologico che avvicina tutte le compagini politiche tanto di sinistra che di destra in merito alla comune mancanza di considerazione per i propri elettori.

    Una situazione talmente evidente ormai che viene confermata dal progressivo abbassamento dell’afflusso di votanti registrato agli ultimi appuntamenti elettorali.

    La complicità che lega tutte le forze politiche italiane viene conclamata dalla inesistente attenzione dimostrata verso il proprio declino elettorale complessivo in quanto intimamente compiaciute dalla facilità con la quale l’intera classe politica si trova a beneficiare di una delega politica ottenibile attraverso un coefficiente elettorale molto più basso.

    Certamente la Svizzera rappresenta un modello di democrazia ma, in considerazione degli esiti della democrazia delegata in Italia, sicuramente anche la “Democrazia Modello”.

    Solo attraverso questo asset istituzionale e proprio perché diretta, lo Stato si evolve da entità terza superiore rispetto ai cittadini e viene posto nella condizione di dover offrire una risposta normativa esaustiva alle principali istanze dei cittadini. Queste vengono definite attraverso l’istituto del referendum il quale, a differenza di quanto avviene in Italia, non solo è propositivo ma può avere come oggetto anche normative fiscali ed economiche.

    Anche l’ipotesi di una revisione della nostra Costituzione con il premierato va in direzione opposta a quella di dare effettivamente ai cittadini maggiore possibilità di incidere.

  • Sostegno da Oltreoceano ad un autocrate corrotto

    In nessun altro tempo ebbe la ciarlataneria tanti seguaci e s’allegrò di

    così lauti profitti, quanto in questo tempo di spregiudicati e di scaltriti.

    Arturo Graf; da “Ecce Homo”, 1908

    Si continua a combattere e a morire nella Striscia di Gaza, dopo che il 7 ottobre 2023 i terroristi di Hamas attaccarono e uccisero circa 1200 persone innocenti, tra civili e militari israeliani. In più presero come ostaggi circa 250 altri cittadini israeliani. Da allora il numero delle vittime aumenta ogni giorno che passa. E mentre il conflitto continua si sta cercando anche di mediare tra le parti. Purtroppo i negoziati, tuttora in corso, non hanno portato ad una soluzione plausibile e duratura, accettata sia dal governo israeliano, sia dai rappresentanti del Hamas.

    Nel frattempo e quasi da due anni ormai si continua a combattere e a morire anche in Ucraina. L’aggressione, che il dittatore russo considerava “un’operazione militare speciale”, cominciò il 24 febbraio 2022. Un’aggressione che ha causato molte vittime innocenti, soprattutto tra i cittadini ucraini. L’opinione pubblica in tutto il mondo ha avuto modo di conoscere le atrocità dell’esercito russo. Sono tanti i simboli di queste crudeltà, compresa quella nella cittadina di Bucha durante la primavera del 2022. Lì sono stati ritrovati uccisi e buttati nelle fosse comuni alcune centinaia di cittadini inermi ucraini, tra cui anche bambini ed anziani. Ogni giorno che passa arrivano notizie di questa guerra che continua a mietere tante vite umane. L’ideatore di questa aggressione continua però a parlare cinicamente di “un’operazione militare speciale” e non di una sanguinosa guerra, di una vera e propria carneficina.

    Purtroppo attualmente non si combatte e non si muore soltanto in Ucraina e nella Striscia di Gaza. Da circa dieci mesi si sta combattendo anche in Sudan, causando morti tra i civili inermi e i combattenti nonché una grave crisi umanitaria. Nello stesso tempo però sono in corso anche altri combattimenti in diverse parti del mondo, con morti e distruzioni, nonostante non abbiano la stessa attenzione mediatica e politica.

    La scorsa settimana c’è stata un’altra notizia che ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica; la morte di Alexei Navalny, il maggior oppositore politico del dittatore russo. La morte “improvvisa” è avvenuta in una prigione speciale in Siberia, oltre il circolo polare artico, costruita nel periodo dei lager nell’Unione Sovietica. La colonia penale IK-3, nota anche come la colonia Polar Wolf (Lupo polare; n.d.a.) si trova a circa duemila chilometri a nord-est di Mosca. E, guarda caso, la morte di Navalny è avvenuta a meno di un mese dalle elezioni presidenziali in Russia, previste tra il 15 ed il 17 marzo 2024. Elezioni che, vista la realtà, saranno “vinte” di nuovo dal dittatore russo. Proprio da lui che ha visto sempre nella persona di Alexei Navalny un avversario molto pericoloso, perciò un avversario da eliminare.

    La notizia della morte di Navalny è stata diffusa dalle autorità venerdì scorso, 16 febbraio, alle ore 14:17 locali (le 10:17 italiane; n.d.a.). Lo confermava anche un certificato rilasciato a sua madre dalle autorità della colonia penale IK-3, dopo che lei era andata lì per vedere il defunto figlio, dopo la diffusione della notizia, insieme con l’avvocato di Navalny. Bisogna sottolineare che la notizia è stata propagata dal servizio penitenziario russo tramite alcune delle reti televisive controllate dal governo. In un breve comunicato stampa si faceva sapere che Alexei Navalny “… si è sentito male dopo una passeggiata e ha perso conoscenza quasi immediatamente”. Aggiungendo che “…tutti gli sforzi fatti per rianimarlo non hanno avuto esiti”. Da fonti indipendenti e credibili risulterebbe che ai media ed ai giornalisti è stato “consigliato” di non dare spazio alla notizia e comunque di attenersi a quanto diramato solo dalle autorità e diffuso dalle televisioni e dalle agenzie stampa controllate dal governo russo. Ma nonostante tutto ciò, la notizia ha avuto subito una rapida diffusione a livello internazionale. E si riferiva soprattutto alle dichiarazioni della madre e della moglie di Navalny, della sua portavoce e dell’avvocato. Si è saputo che sua madre ed il suo legale hanno dovuto aspettare per circa due ore prima che un funzionario della colonia penitenziaria si presentasse finalmente per comunicare loro che il corpo era stato portato nel obitorio di una città a circa 50 chilometri di distanza. Andati lì hanno trovato però l’obitorio chiuso, In seguito, è stato comunicato loro che il cadavere non si trovava nell’obitorio! La famiglia e i suoi collaboratori sono convinti che la morte di Navalny “ha un solo responsabile: Vladimir Putin”. La portavoce dell’oppositore ha dichiarato, tra l’altro::“….Ora chiediamo che il corpo di Navalny sia consegnato alla famiglia, e facciamo appello a tutti perché lo chiedano con noi”.

    Alexei Navalny, morto il 16 febbraio scorso, a 47 anni, era un avvocato e uno dei più convinti ed agguerriti oppositori del dittatore russo. Aveva cominciato la sua attività politica all’inizio degli anni 2000 con il partito liberale e nazionalista Yabloko (La mela; n.d.a.). In seguito ha aperto un sito dove denunciava la corruzione del regime russo e degli oligarchi “amici” del dittatore. Poi, nel 2011, registra ufficialmente la sua Fondazione anticorruzione e continua a pubblicare molti materiali e documenti con i quali denunciava la corruzione ai massimi livelli del potere politico. Ed era proprio tra il 2011 ed il 2012 che Navalny organizzava e dirigeva, insieme ad altri suoi amici e collaboratori, delle proteste in piazza contro i brogli elettorali. Brogli che garantivano sempre al dittatore russo la vittoria. Le “paperelle gialle” sono state diventate il simbolo della realtà russa, caratterizzata dalla corruzione diffusa e che partiva dai massimi livelli del potere politico. Navalny diventa perciò un’avversario “ingombrante” per il dittatore russo e proprio per questa ragione lui non è stato registrato come candidato nelle elezioni presidenziali del 2018 con la scusa di una “condanna per frode”. Alexei Navalny diventava sempre più una crescente preoccupazione per lo zar russo. Ragion per cui quest’ultimo ordina ai suoi di avvelenarlo. Era il 20 agosto del 2020 quando, a bordo di un aereo diretto a Mosca, Navalny si sente male. Perciò l’aereo atterra nella città di Omsk e lui viene ricoverato nell’ospedale dove, comunque, non hanno fatto riferimento di avvelenamento. Da quell’ospedale Navalny, su sua richiesta, è stato trasferito presso l’ospedale Charité (Carità; n.d.a.) di Berlino. I medici tedeschi hanno constatato l’avvelenanento con un agente nervino. Ma nonostante la consapevolezza dei pericoli che poteva affrontare, Navalny, dopo la degenza in Germania, nel gennaio 2021 decise di ritornare di nuovo in Russia. Ma in patria lui è stato di nuovo condannato dal regime russo. Condanne che ammontavano, tutte insieme, ad oltre trent’anni di carcere. A quelle condanne poi, guarda caso, subito dopo l’inizio guerra in Ucraina, a Navalny è stata aggiunta un’altra condanna di nove anni. Ma non è finita lì. Era l’agosto del 2023 quando a lui arriva un’altra, l’ennesima, condanna. Quella volta di 19 anni di prigione. Ed era dopo quella condanna che lui, a fine dicembre scorso, è stato trasferito proprio nella colonia penale IK-3 dove, secondo i suoi familiari e collaboratori, è stato ucciso venerdì scorso 16 febbraio.

    Subito dopo la diffusione della notizia della morte di Navalny in diverse città in Russia sono state organizzate delle manifestazioni per onorare quello che lui rappresentava. Ovviamente la reazione delle autorità russe è stata immediata, con alcune centinaia di arresti. Durante il fine settimana ci sono state delle manifestazione in onore di Navalny anche in diverse capitali e città europee e negli Stati Uniti d’America. Lunedì 19 febbraio, mentre le autorità russe annunciavano che la salma non sarebbe stata restituita alla famiglia per altri 14 giorni, la vedova di Alexei Navalny è stata a Bruxelles dove ha partecipato alla riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi membri dell’Unione europea. Lo stesso giorno, in una video, lei affermava: “Mentono meschinamente e nascondono il suo corpo attendendo quando svaniranno le tracce dell’ennesimo novichok di Putin”.

    Purtroppo il dittatore russo ha dei suoi simili in diverse parti del  mondo. Simili che, come lui, fanno di tutto per avere le “mani libere” nella gestione dei regimi dittatoriali. Compresa anche l’eliminazione degli avversari politici e di qualsiasi opposizione. Quanto sta accadendo in questi ultimi mesi in Albania ne è una significativa ed inconfutabile testimonianza. Il nostro lettore è stato informato della palese violazione della Costituzione e delle leggi in vigore da parte delle istituzioni del sistema “riformato’ della giustizia. Si tratta di procuratori e giudici che, ubbidendo agli ordini personali e perentori del primo ministro albanese, hanno deliberato prima il divieto dell’uso del passaporto e poi, dal 30 dicembre scorso, l’arresto domiciliare del dirigente dell’opposizione politica albanese (Inconfutabili testimonianze di una dittatura in azione, 23 ottobre 2023; Preoccupante ubbidienza delle istituzioni al regime dittatoriale, 7 novembre 2023; Un dittatore corrotto e disposto a tutto, 20 dicembre 2023). Riferendosi alla drammatica realtà albanese, l’autore di queste righe scriveva che si tratta di una realtà: “…che è stata palesemente confermata anche da quello che è accaduto con il dirigente dell’opposizione, ex presidente della Repubblica (1992-1997) ed ex primo ministro (2005-2013). Per il primo ministro e per i suoi “alleati”, lui rappresenta non solo un avversario politico, ma bensì un nemico da combattere con tutti i metodi. E dal 30 dicembre scorso, in piena violazione della Costituzione e delle leggi in vigore, il dirigente dell’opposizione è agli arresti domiciliari” (Preoccupanti e pericolose somiglianze; 16 gennaio 2024).

    Il primo ministro albanese, trovandosi sempre più impantanato in vistose difficoltà, da lui stesso causate, sta cercando, costi quel che costi, un “appoggio internazionale”. E siccome non convince più il comprato sostegno dei soliti “rappresentanti diplomatici” accreditati in Albania e neanche quello di alcuni rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea, allora lui sta disperatamente cercando di avere anche l’appoggio di alcuni massimi rappresentanti delle istituzioni statunitensi.

    Giovedì scorso, 15 febbraio, per alcune ore, è arrivato in  Albania il segretario di Stato degli Stati Uniti d’America. Proprio colui che ultimamente è stato continuamente impegnato nei negoziati difficili e ad ora senza nessun esito, tra l’Israele e Hamas. Proprio lui che, guarda caso, il 19 maggio 2021 dichiarava il dirigente dell’opposizione, ormai agli arresti domiciliari dal 30 dicembre scorso, come persona “non idonea ad entrare negli Stati Uniti d’America’. Una visita, quella del segretario di Stato ,che è stata smentita dalle istituzioni statunitensi fino a pochi giorni prima di essere stata realizzata. Una visita durante la quale non sono state trattate delle “questioni geostrategiche”, come preannunciavano alcuni media controllati dal primo ministro albanese. Una visita, durante la quale l’illustre ospite ha avuto un brevissimo incontro con il presidente della Repubblica, un ubbidiente  servitore del primo ministro, fatti accaduti alla mano. Una visita, durante la quale il segretario di Stato ha incontrato anche alcuni dirigenti delle istituzioni del sistema “riformato’ della giustizia. Il segretario di Stato statunitense ha avuto però un lungo incontro e poi una conferenza stampa con il primo ministro albanese. E durante quella conferenza stampa il segretario di Stato ha considerato il primo ministro albanese come ”un illustre dirigente e un ottimo primo ministro” (Sic!). Chissà a cosa si riferiva? Ma non di certo alla vera, vissuta e sofferta realtà albanese. E se lui, il segretario di Stato, avesse letto solo l’ultimo rapporto pubblicato nel marzo 2023 proprio del Dipartimento di Stato che lui dirige, doveva avere avuto dei “buoni motivi” per dire quelle parole.

    Chi scrive queste righe pensa che quello del segretario di Stato statunitense, giovedì scorso, è stato un vergognoso sostegno da oltreoceano ad un autocrate corrotto. Aveva pienamente ragione Arturo Graf quando scriveva nel suo libro “Ecce Uomo” che in nessun altro tempo ebbe la ciarlataneria tanti seguaci e s’allegrò di così lauti profitti, quanto in questo tempo di spregiudicati e di scaltriti.

  • Il vero obiettivo dello stato etico o religioso

    A Parigi è passato il referendum attraverso il quale i proponenti intendevano triplicare i costi di parcheggio ai Suv. Al di là della specifica domanda proposta attraverso questo strumento democratico, l’aspetto più pericoloso che pochi hanno colto è rappresentato dal fatto che se si sia recato alle urne poco più del 5% della popolazione.

    All’interno di una democrazia avanzata e rappresentativa sarebbe da decenni operativa una legge che prevedesse la soglia minima del 50% più uno degli aventi diritto per rendere effettivi gli esisti del referendum.

    Invece, uno stato sempre più etico e simile nelle forme e dinamiche a una vera e propria teocrazia laica
    non si preoccupa della sintonia tra gli esiti elettorali e la volontà della maggioranza degli elettori.
    Anzi, spinge sempre più verso una più marcata percezione del distacco  dei cittadini dalle istituzioni che si estrinseca con l’abbandono di ogni strumento  democratico e quindi della centralità delle stesse elezioni
    come strumento finalizzato all’indirizzo politico di uno stato ed espressione popolare.
    Oltre  la specificità dello strumento referendario, quindi, questo  progressiva perdita di fiducia dei cittadini verso il semplice esercizio della democrazia permette ad ogni élite politica o religiosa di assicurarsi gli esiti elettorali voluti e programmati in quanto il peso elettorale dei propri sostenitori diventerebbe determinante.

    Tornando, infatti, ai numeri del referendum a Parigi si è registrato un afflusso di poco superiore al 5%, numeri che hanno espresso un parere favorevole con il 54,6% al quesito referendario. In altri termini, si pretenderebbe che con il favore del 2,6% degli elettori sia considerato legittimato un referendum e con esso le strategie delle élite
    politiche nel modificare una legge.

    Lo Stato etico, cioè la versione laica della teocrazia, si nutre proprio della propria perdita di credibilità e quindi si alimenta dello stesso scetticismo espresso attraverso un allontanamento da ogni strumento democratico, come quello elettorale.
    Quindi prospera della gestione del consenso ormai monopolistico dei propri affiliati alla religione o all’etica dominante dominandone cosi persino gli esiti elettorali.

  • Preoccupanti e pericolose somiglianze

    Tenete sempre divisi i furfanti. La sicurezza del resto della terra dipende da ciò.

    Jean de La Fontaine

    In Europa uno dei più significativi simboli della “Guerra fredda” era  il Muro di Berlino, noto ufficialmente anche come la Barriera Antifascista da parte di coloro che lo idearono ed, in seguito, lo costruirono. La costruzione del Muro era un’iniziativa comune dell’Unione Sovietica e della Germania dell’Est (la Repubblica Democratica Tedesca) ed ebbe inizio il 13 agosto 1961. Un muro che impediva ai cittadini della Germania dell’Est di passare dall’altra parte, verso il tanto ambito mondo occidentale. Quel muro crollò finalmente il 9 novembre 1989 e segnò anche il crollo dei sistemi dittatoriali comunisti dell’Europa dell’Est, nonché lo sgretolamento della stessa Unione Sovietica. È ormai opinione comune che una delle persone che contribuì a quei importanti eventi e sviluppi geopolitici è stato Papa Giovanni Paolo II. Egli, già durante il suo primo discordo da Papa, il giorno dell’insediamento, il 22 ottobre 1978, tra l’altro disse: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo, alla sua salvatrice potestà!”. Aggiungendo perentorio: “Aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo”. Mentre durante la sua visita ufficiale in Polonia, nel giugno 1979, Papa Wojtyla disse: “Non vuole forse, Cristo, che questo Papa polacco, slavo, proprio ora manifesti l’unità spirituale dell’Europa?”. Riferendosi proprio al ruolo di Papa Giovanni Paolo II, durante l’Angelus del 9 novembre 2014, in occasione del 25o anniversario della caduta del Muro di Berlino, Papa Francesco disse: “…La caduta avvenne all’improvviso ma fu resa possibile dal lungo e faticoso impegno di tante persone che per questo hanno lottato, pregato e sofferto, alcuni fino al sacrificio della vita. Tra questi, un ruolo di protagonista lo ha avuto il santo Papa Giovanni Paolo II”.

    Era il 23 giugno 1996 quando Papa Wojtyla, a Berlino, passava sotto la porta di Brandeburgo. E proprio dalla porta di Brandeburgo, dove si erano radunati numerosissimi partecipanti per vedere e sentire il Pontefice, rivolgendosi ai suoi “cari berlinesi”, a coloro che fino a pochi anni prima erano divisi dal Muro e dai fili spinati, ribadì: “…La Porta di Brandeburgo è stata occupata da due dittature tedesche. Ai dittatori nazionalsocialisti serviva da imponente scenario per le parate e le fiaccolate ed è stata murata dai tiranni comunisti. Poiché avevano paura della libertà, gli ideologi trasformarono una porta in un muro”. E riferendosi a quanto era accaduto negli ultimi decenni passati il Papa aggiunse: “…proprio in questo punto si è manifestato a tutto il mondo il volto spietato del comunismo, al quale risultano sospetti i desideri umani di libertà e di pace. Esso teme però soprattutto la libertà dello spirito, che dittatori bruni e rossi volevano murare”. In seguito, rivolgendosi ai partecipanti, Papa Wojtyla ha ricordato che “… la Porta di Brandeburgo, nel novembre del 1989, è stata testimone del fatto che gli uomini si sono liberati dal giogo dell’oppressione spezzandolo. La Porta chiusa di Brandeburgo era lì come simbolo della divisione; quando infine fu aperta, divenne simbolo dell’unità […]. E così si può dire a ragione: la Porta di Brandeburgo è diventata la Porta della libertà”. Papa Giovanni Paolo II era convinto, e lo ribadì, che “L’uomo libero è tenuto alla verità, altrimenti la sua libertà non è più concreta di un bel sogno, che si dissolve al risveglio”. E le dittature opprimono, annientano la libertà, sia quella del singolo essere umano che della società intera. Causando atroci sofferenze e tantissime vittime innocenti. Quanto è accaduto in Germania, sia durante la dittatura nazista che, poi in seguito, durante la dittatura comunista, rappresenta un’inconfutabile testimonianza. Un valoroso ed importante insegnamento lasciato a tutti e non solo ai berlinesi, quanto Papa Giovanni Paolo II disse convinto e perentorio sotto la Porta di Brandeburgo quel 23 giugno 1996. Un insegnamento per tutti coloro, ovunque nel mondo, che apprezzano la libertà e vogliono, ci tengono, ad essere delle persone libere. Non bisogna mai arrendersi alle dittature!

    Purtroppo in diverse parti del mondo sono attivi non pochi sistemi autocratici/dittatoriali. Dittature “ideologiche e politiche”, nonostante non di rado gli autocrati/dittatori si camuffino dietro le “ideologie” per giustificare tutto il resto. Anche in Europa, fatti accaduti, documentati, testimoniati e denunciati pubblicamente alla mano, risulta siano attivi alcuni sistemi autocratici e dittatoriali. In Turchia l’ormai presidente della Repubblica dal 28 agosto 2014 risulta essere una persona che ha ampi poteri decisionali. Fondatore nel 2001 del partito della Giustizia e dello Sviluppo (nella lingua turca Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP; n.d.a.), è stato il sindaco di Istanbul (1994 – 1998). In seguito è stato primo ministro dal marzo del 2003 fino al suo insediamento come presidente della Repubblica nell’agosto 2014. Quasi due anni dopo, il 15 luglio 2016, in Turchia c’è stato un fallito colpo di Stato. Il presidente turco denunciò allora subito come mandante del colpo di Stato Fethullah Gülen, suo amico fino a qualche anno prima. Il nostro lettore è stato informato di tutto ciò a tempo debito. L’autore di queste righe scriveva allora: “….dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016, il presidente turco ha deciso di rafforzare i propri poteri”. Sottolineando che “Il fallito golpe del 15 luglio 2016 rappresenta un momento cruciale della recentissima storia della Turchia in cui è stato coinvolto direttamente e personalmente Erdogan”. Egli scriveva allora che “…il presidente turco dopo il fallimento del golpe aveva soprattutto ideato e avviato un periodo di rappresaglie e di purghe […]….Lui vedeva e considerava nemici dappertutto, chiunque poteva essere e/o diventare un pericoloso avversario per lui. Perciò dichiarò guerra a tutto e tutti. Obiettivi e vittime, uccisi o condannati, decine di migliaia, tra alti ufficiali dell’esercito, giornalisti, docenti universitari e insegnanti, artisti e altri ancora”. Dopodiché l’autore di queste righe si chiedeva: “E se questo non rappresenta un inizio di dittatura, allora cos’è?” (Erdogan come espressione di totalitarismo; 28 marzo 2017). Dopo il fallito colpo si Stato il presidente della Turchia proclamò un referendum per approvare alcuni emendamenti costituzionali che garantivano al presidente altri poteri. Il referendum, svoltosi il 16 aprile 2017, approvò tutti i richiesti cambiamenti costituzionali. Cosicché il presidente turco, che potrà rimanere al potere fino al 2029, ha aumentato per legge il suo autoritarismo. Proprio lui che da anni, ma soprattutto dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016, fatti accaduti, documentati e denunciati alla mano, viene accusato di usare dei “metodi duri” per ammutolire tutte le denunce e le critiche nei suoi confronti, fatte dai suoi avversari, sia in Turchia che all’estero.

    Ma in Europa non è solo il presidente della Turchia che con dei cambiamenti della Costituzione e/o con l’approvazione delle leggi ad personam, garantisce a se stesso poteri e protezione. Il presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, che è al potere dal 1994 e che esercita il suo potere in modo autocratico, ha firmato nei primi giorni di quest’anno una nuova legge a suo favore. Una legge, approvata alla fine del 2023 dal parlamento, che garantisce al presidente bielorusso “l’immunità a vita contro eventuali procedimenti penali” nei suoi confronti. Inoltre la nuova legge protegge anche i suoi familiari. In più questa legge, riferendosi alla vissuta realtà in Bielorussia, riduce di molto le possibilità per gli avversari politici del presidente di creargli problemi durante le elezioni. Avversari che si trovano soprattutto fuori dal territorio della Bielorussia. Si, perché la nuova legge impedisce a tutti i probabili oppositori, cittadini bielorussi che non hanno vissuto stabilmente nel Paese negli ultimi vent’anni, di candidarsi alle elezioni presidenziali. Guarda caso, le prossime elezioni in Bielorussia sono proprio previste nel 2025. Inoltre tutti sanno che il presidente della Bielorussia è un stretto amico e sostenitore di un altro autocrate/dittatore, il presidente della Russia.

    E proprio all’inizio dello scorso dicembre il presidente della Russia ha annunciato “casualmente” la sua candidatura per le prossime elezioni presidenziali, previste di svolgersi tra il 15 e il 17 marzo prossimo. Lo ha fatto durante una conversazione informale durante la cerimonia di consegna della medaglia della Stella d’Oro agli Eroi della Russia che si è svolta al Cremlino. “Non nascondo che in altri momenti ho avuto pensieri diversi. Ma ora, avete ragione, è il momento di prendere una decisione. Mi candiderò alla carica di presidente della Federazione russa”, ha detto l’autocrate/dittatore russo ai partecipanti. Anche lui, al potere dal 2000, quattro mandati da presidente ed un solo mandato da primo ministro (2008-2012), ha consolidato la sua posizione. Ha usato una “riforma costituzionale” aumentando il mandato presidenziale da quattro a sei anni. In seguito, con altri emendamenti ha fatto partire da zero il conteggio dei sui anni da presidente, il che significa che adesso lui potrà avere anche due altri mandati da presidente. In quanto alle elezioni nel prossimo marzo, con tutta probabilità, lui le vincerà. Anche perché il suo avversario, ormai da anni carcerato, da dicembre scorso è stato trasferito in una prigione per detenuti pericolosi nel nord della Russia.

    Un altro autocrate/dittatore, il primo ministro albanese, è al potere dal 2013. E sta facendo di tutto per continuare ad esercitare e abusare del suo potere prima conferito e poi usurpato. Ormai, fatti accaduti e che stanno tutt’ora accadendo, fatti documentati alla mano, lui, il primo ministro albanese, controlla personalmente tutti i poteri. Lui, essendo il maggior responsabile istituzionale del potere esecutivo, non solo controlla ma addirittura ordina i rappresentanti istituzionali sia del potere legislativo che di quello giudiziario. In più, il primo ministro albanese controlla anche il potere mediatico tramite legami di clientela che ha con i proprietari della maggior parte dei media in Albania. Da anni ormai il nostro lettore è stato informato, con la dovuta e richiesta oggettività, della vera, vissuta e sofferta realtà albanese. Cosi che, fatti accaduti e documentati ufficialmente alla mano, il nostro lettore è stato spesso informato della galoppante corruzione che sta pericolosamente divorando la cosa pubblica in Albania. Da anni chi scrive queste righe ha informato il nostro lettore, basandosi solo e soltanto sui numerosi fatti facilmente verificabili, che in Albania è stata restaurata negli ultimi anni, e si sta consolidando ogni giorno che passa, una nuova e pericolosa dittatura sui generis. Una dittatura camuffata da un “pluripartitismo” più di facciata che reale, grazie a dei legami occulti e di interesse reciproco che il primo ministro ha stabilito con alcuni dirigenti politici in Albania. Una dittatura pericolosa, come espressione dell’alleanza tra il potere politico, rappresentato istituzionalmente proprio dal primo ministro, la criminalità organizzata locale ed internazionale ed alcuni raggruppamenti occulti e finanziariamente potenti internazionali, soprattutto uno di oltreoceano. Anche di questo il nostro lettore è stato spesso informato, fatti accaduti, documentati e pubblicamente denunciati alla mano. Una realtà questa che è stata palesemente confermata anche da quello che è accaduto con il dirigente dell’opposizione, ex presidente della Repubblica (1992-1997) ed ex primo ministro (2005-2013). Per il primo ministro e per i suoi “alleati”, lui rappresenta non solo un avversario politico, ma bensì un nemico da combattere con tutti i metodi. E dal 30 dicembre scorso, in piena violazione della Costituzione e delle leggi in vigore, il dirigente dell’opposizione è agli arresti domiciliari. Anche di questo il nostro lettore è stato informato durante gli ultimi mesi (Preoccupante ubbidienza delle istituzioni al regime dittatoriale, 7 novembre 2023; Un dittatore corrotto e disposto a tutto, 20 dicembre 2023).

    Chi scrive queste righe pensa che quanto sopracitato rappresenta delle preoccupanti e pericolose somiglianze. Perciò, parafrasando un po’ Jean de La Fontaine, si potrebbe dire che bisogna tenere sempre divisi i furfanti e gli autocrati/dittatori. La sicurezza del resto della terra dipende da ciò.

  • Doverose riflessioni in questo inizio anno

    Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

    Dal Siracide, libro dell’Antico Testamento

    Lunedì scorso, 8 gennaio, Papa Francesco ha incontrato i rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Durante l’udienza, tra l’altro, il Santo Padre ha fatto riferimento alla situazione nel mondo, sottolineando l’importanza della pace. Una “…parola tanto fragile e nel contempo impegnativa e densa di significato”. La pace che “… è primariamente un dono di Dio”. Ma che “…nello stesso tempo è una nostra responsabilità”, ha ribadito il Pontefice. Poi ha ricordato quanto aveva detto papa Pio XII alla vigilia di Natale del 1944, mentre la seconda guerra mondiale stava finendo. Pio XII ne era convinto che già allora si sentiva “…una volontà sempre più chiara e ferma: fare di questa guerra mondiale, di questo universale sconvolgimento, il punto da cui prenda le mosse un’era novella per il rinnovamento profondo”. Sono passati ormai quasi ottant’anni dalla fine di quel conflitto mondiale, ma le vere realtà vissute e spesso sofferte in diverse parti del mondo sono tali da far riflettere tutti e responsabilmente. Papa Francesco ha sottolineato lunedì scorso che purtroppo “…la spinta a quel “rinnovamento profondo” sembra essersi esaurita e il mondo è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che ho più volte definito “terza guerra mondiale a pezzi” in un vero e proprio conflitto globale”. In seguito, durante l’udienza, il Pontefice ha fatto un’analisi della situazione in diverse parti del mondo, dove sono in corso dei conflitti armati. Come quelli in Ucraina e nella Striscia di Gaza. Ma anche nel Caucaso Meridionale, dove continauno gli attriti tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Papa Francesco ha analizzato anche la preoccupante situazione tutt’ora in corso nel continente africano, dove sono diversi i Paesi in conflitto. Così come ha fatto con la situazione dell’America del Sud. Rivolgendosi ai rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il Pontefice ha ribadito che “…la via della pace esige il rispetto della vita, di ogni vita umana. […]. La via della pace esige il rispetto dei diritti umani, secondo quella semplice ma chiara formulazione contenuta nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”. Il Pontefice ha poi espresso la sua ferma convinzione, secondo la quale “…Il dialogo, invece, dev’essere l’anima della Comunità internazionale”. Sottolineando che “…L’attuale congiuntura è anche causata dall’indebolimento di quelle strutture di diplomazia multilaterale che hanno visto la luce dopo il secondo conflitto mondiale”. Il Papa ha ribadito altresì che “…Per rilanciare un comune impegno a servizio della pace, occorre recuperare le radici, lo spirito e i valori che hanno originato quegli organismi, pur tenendo conto del mutato contesto e avendo riguardo per quanti non si sentono adeguatamente rappresentati dalle strutture delle Organizzazioni internazionali”. Spirito e valori come quelli che hanno evidenziato e proclamato sia gli autori del “Manifesto di Ventotene”, che altri Padri Fondatori dell’attuale Unione europea. Coloro che hanno ideato e attuato il 18 aprile 1951 la costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Proprio quei Padri Fondatori che sei anni dopo, lungimiranti, convinti e determinati hanno firmato, il 25 marzo 1957, il Trattato di Roma che diede vita alla Comunità Economica Europea, la quale, con il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992, divenne l’attuale Unione europea.

    Purtroppo, non devono preoccupare solo i diversi conflitti armati attualmente in corso, evidenziati da Papa Francesco lunedì scorso, l’8 gennaio, durante l’udienza con i rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Devono preoccupare seriamente anche i molti regimi dittatoriali oppressivi ed attivi in diversi Paesi del mondo. Si tratta di realtà vissute e sofferte che generano la morte, causando tantissime vittime umane, come anche i conflitti armati. Con solo una differenza. Si, perché per le vittime delle guerre si tengono delle evidenze più o meno esatte, mentre per le vittime delle dittature, per centinaia di migliaia di persone che perdono la vita in “silenzio”, nel corso degli anni, in seguito alle numerose violazioni, sofferenze e privazioni, spesso non si sa niente. Si tratta di realtà, quelle legate alle dittature, dove l’individuo, l’essere umano, deve soltanto e semplicemente ubbidire al regime, oppure deve subire tutte le conseguenze. Si tratta delle realtà di cui non sempre si parla e si sa pubblicamente quello che accade, soprattutto fuori dai confini del paese. Si tratta purtroppo di realtà vissute, sofferte e note solo lì dove il regime esercita il suo potere dittatoriale. Ma durante questi ultimi decenni ci sono delle realtà che hanno cominciato ed essere note anche in altre parti del mondo. Sono delle realtà evidenziate e rese pubbliche, tra l’altro, sia da giornalisti coraggiosi, che da cittadini scappati da quelle dittature. Realtà rese pubblicamente note, altresì, da alcune istituzioni internazionali specializzate che da anni analizzano lo stato della democrazia nella maggior parte dei Paesi del mondo. Lo ha fatto dal 2006 anche l’Economist Intelligence Unit Index of Democracy (L’Unità d’intelligenza dell’Economist, parte del noto settimanale britannico The Economist che prepara e pubblica l’Indicatore della Democrazia nel mondo; n.d.a.). Oggetto dello studio, dell’elaborazione dei dati e delle analisi specializzate sono 167 diversi Paesi. Facendo riferimento allo stato  reale della democrazia, i Paesi vengono classificati in quattro categorie, denominate come “democrazie complete”, “democrazie imperfette”, “regimi ibridi” e “regimi autoritari”. Lo studio si concentra su cinque diversi obiettivi principali, che sono il processo elettorale ed il pluralismo, le libertà civili, il funzionamento del governo, la partecipazione politica e la cultura politica/democratica.

    Ebbene, dall’ultimo rapporto dell‘Economist Intelligence Unit pubblicato nel febbraio del 2023 e che si riferisce ai dati del 2022, raccolti ed elaborati nel ambito del Democracy Index, risulta che solo circa la metà della popolazione mondiale, e cioè il 45.3%, vive in un Paese con un sistema democratico, in una delle sue note e studiate forme. Dallo stesso rapporto per il 2022 risulta però e purtroppo che il 36.9% della popolazione mondiale vive in un Paese dov’è attivo un regime autoritario. L’Afghanistan risulta essere il Paese ultimo classificato. Tutto dovuto al ritorno dei talebani al potere, dopo il ritiro vergognoso delle truppe internazionali da Kabul, il 15 agosto 2021. Un ritorno quello che ha di nuovo restaurato il loro regime. Dall’ultimo rapporto dell‘Economist Intelligence Unit risulta che il Paese che ha avuto il peggior andamento nel mondo, dal punto di vista dell’adempimento dei principi democratici, è stato la Russia. Il Paese, una delle maggiori potenze mondiali, ha perso 22 punti rispetto alla sua posizione del 2021, fermandosi al 146o posto. Nel rapporto si elencano anche tutti gli altri Paesi oggetto dello studio, le loro posizioni ed il perché di quei risultati. Il rapporto dell‘Economist Intelligence Unit, pubblicato dal settimanale britannico The Economist, termina con la frase: “Nonostante alcuni miglioramenti globali, la democrazia resta minacciata”. Una preoccupante constatazione questa che deve far riflettere seriamente tutti coloro che hanno delle responsabilità politiche ed istituzionali, sia in ogni singolo Paese, che a livelli più ampi.

    Anche in Europa, come in altre parti del mondo, ci sono dei Paesi nei quali non si rispettano i principi dalla democrazia, non si rispettano i diritti innati dell’essere umano ed altri sacrosanti diritti acquisiti. Paesi dove non si rispetta il principio della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Un principio che rappresenta anche un criterio di valutazione del funzionamento del sistema democratico in un determinato Paese. Un principio quello della separazione dei poteri noto già dall’antichità ed ovviamente adattandosi alle condizioni storiche e sociali dell’epoca. Un principio che è stato elaborato in seguito, durante il diciottesimo secolo, da Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, un filosofo, giurista, nonché studioso di storia e del pensiero politico francese e non solo, meglio e semplicemente noto Montesquieu. L’autore di queste righe, mentre tratta ed analizza per il nostro lettore argomenti che hanno a che fare con la democrazia e/o i regimi autocratici e dittatoriali, ha spesso fatto riferimento al principio della separazione dei poteri. In un suo precedente articolo egli trattava ampiamente proprio questo principio. “Un principio che si basa sulla necessità di garantire la sovranità dello Stato e che individua tre poteri, i quali devono essere sempre attivi e ben indipendenti uno dall’altro, proprio per non permettere abusi di potere che danneggerebbero il normale funzionamento di uno Stato democratico”, scriveva l’autore di queste righe per il nostro lettore a fine ottobre 2023. Cercando di risalire alle origini storiche del principio, egli scriveva: “Il principio della separazione dei poteri era già noto dall’antichità, sia in Grecia che, in seguito, anche nella Roma antica. Un principio trattato da Platone, nella sua nota opera “La Repubblica” e da Aristotele, nella sua opera “La Politica”. Un principio che venne adottato anche nella Costituzione della Roma antica. Ma un trattamento dettagliato del principio della separazione dei poteri in uno Stato democratico è stato fatto secoli dopo. Prima da John Locke, nella sua opera “Due trattati sul governo”, pubblicata nel 1690, in seguito Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, dopo un lungo e impegnativo lavoro, durato per ben quattordici anni, pubblicò  nel 1748 un insieme di trentuno libri, raccolti in due volumi ed intitolato “Spirito delle leggi” (De l’esprit des lois; n.d.a.)”. E poi aggiungeva che “…Ovviamente Montesquieu, quando ha scritto la sua opera prendeva in considerazione l’organizzazione statale di quel tempo, tenendo presente soprattutto l’organizzazione statale nel Regno Unito e la sua Costituzione. Perciò affermava che il potere legislativo “…verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo”. Invece, per quanto riguarda il potere esecutivo “…deve essere nelle mani d’un monarca, perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi”. Mentre, riferendosi al potere giudiziario, Montesquieu ribadiva che doveva essere rappresentato ed esercitato da “…giudici tratti temporaneamente dal popolo”. Il potere giudiziario dovrebbe, altresì, “…essere sottoposto solo alla legge, di cui deve riprodurre alla lettera i contenuti”. Secondo lui il potere giudiziario, doveva essere “la bouche de la lois” (la bocca della legge; n.d.a.)”. Così scriveva l’autore di queste righe per il nostro lettore (Anche il sistema della giustizia a servizio del regime; 30 ottobre 2023). È ormai ben noto il pensiero di Montesquieu, filosofo e giurista francese del Settecento, attuale anche adesso. Ed è ben nota una frase con la quale egli spiegava anche l’indispensabilità della separazione del potere esecutivo da quello legislativo e dal potere giudiziario. L’indispensabilità che quei tre poteri siano sempre indipendenti l’uno dall’altro. Montesquieu era convinto che “…Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Purtroppo attualmente sono non pochi coloro che, avendo del potere da esercitare, ne fanno uso ed abuso. Lo testimoniano fatti accaduti e che tuttora stanno accadendo in diversi Paesi del mondo, alcuni dei quali anche in Europa. Così come lo testimoniano inconfutabilmente, tra l’altro, anche gli studi e i rapporti ufficiali pubblicati da diverse istituzioni internazionali specializzate; compresa l‘Economist Intelligence Unit.

    Chi scrive queste righe ha valutato di fare e di condividere con il nostro lettore alcune doverose riflessioni in questo inizio anno. Egli, nel suo piccolo, continuerà a trattare questi argomenti anche in futuro. Chi scrive queste righe è convinto che ciascuno deve fare di tutto per sostenere i processi democratici. Ma, allo stesso tempo, deve contrastare qualsiasi tendenza che porta ad un regime autocratico. Perché verrà un giorno in cui ognuno deve rendere conto alla propria coscienza.

  • La separazione dei poteri

    I tre poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale, vengono assegnati dalla nostra costituzione a tre organi statali: il governo, il parlamento e la magistratura.

    All’interno di una democrazia delegata come quella italiana, gli elettori scelgono i propri rappresentanti al parlamento attraverso le elezioni, il cui modello attuale tuttavia riduce la possibilità di espressione.
    A questi rappresentanti viene delegata la funzione legislativa ed implicitamente la rappresentanza e la tutela degli interessi politici ed economici degli elettori.

    L’azione del governo esercita la funzione esecutiva, trae la propria forza dal supporto di una maggioranza parlamentare e rappresenta la funzione esecutiva che esercita con pieno mandato.

    La magistratura rappresenta il terzo potere il cui esercizio meriterebbe una riflessione aggiuntiva.

    In questo contesto istituzionale sarebbe bastato  leggere poche pagine del libro di Crisafulli di Diritto Costituzionale per chiudere una volta per tutte questa penosa querelle relativa al limite di mandati alla Presidenza della Regione che ha innestato l’attuale governatore Zaia.
    Andrebbe ricordato come non viene previsto un limite alla rappresentanza dei propri elettori, come un delirante partito di 5Stelle cercò di introdurre, in quanto il consenso elettorale incide  molto meno nelle articolazioni dello Stato rispetto alla funzione governativa.

    Il potere esecutivo, anche se è eletto direttamente come nella ipotesi di un premierato, viceversa deve essere soggetto ad un limite in quanto il suo esercizio crea una rete di interesse che solo un termine temporale può depotenziare e non rendere parte integrante dello Stato.

    Le democrazie più avanzate, infatti, pongono un limite numerico alla elezione del presidente, come, per esempio, negli Stati Uniti.

    Tornando alla Regione Veneto, sarebbe bastato leggere poche pagine del libro di Diritto Costituzionale per togliere ogni vis polemica a chi non si dimostra ancora pago di essere al comando della Regione dal 2010 e che sta cercando di trasformare un consenso in un diritto regale.

    La democrazia, per sua stessa natura, pone dei limiti al potere esecutivo proprio per mantenere le proprie caratteristiche ed assicurare un minimo di garanzie.

    Sole poche pagine del libro di Crisafulli sarebbero state sufficienti per capirlo, piuttosto che esercitarsi nell’equitazione.

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