export

  • Distretti agroalimentari italiani mai così apprezzati all’estero come nel 2024

    A fine 2024, l’export dei distretti agroalimentari italiani ha segnato un nuovo record, con oltre 28 miliardi di euro di vendite sui mercati esteri e una crescita del 7,1% rispetto al 2023 (1,9 miliardi in più). È quanto emerge dal Monitor dei distretti agroalimentari italiani al 31 dicembre 2024, curato dal Research Department di Intesa Sanpaolo. L’andamento, è in linea con il totale del settore agro-alimentare italiano, di cui i distretti rappresentano il 42,5% in termini di valori esportati. Settore che Intesa Sanpaolo presidia attraverso la Direzione Agribusiness, rete nazionale parte della divisione Banca dei territori di Intesa Sanpaolo guidata da Stefano Barrese, e partner strategico per le aziende del comparto che attualmente supporta ben 172 filiere agroalimentari grazie al Programma sviluppo filiere di Intesa Sanpaolo coinvolgendo oltre 8.200 fornitori strategici delle aziende capofila, 21.500 dipendenti con un giro d’affari complessivo di oltre 22 miliardi di euro. Il bilancio complessivo dell’export agroalimentare del 2024, prima dell’introduzione dei dazi da parte dell’amministrazione Trump (varati ad aprile 2025 e poi parzialmente sospesi), vede protagonista la filiera dell’olio (+40,9% a prezzi correnti) con il distretto dell’olio toscano che avanza di 419 milioni (+43,5%), in particolare con verso gli Stati Uniti (+43,5%) verso cui indirizza oltre il 40% del suo export. Anche il distretto dell’olio umbro cresce a due cifre (+26,5%), così come il comparto oleario dell’olio e pasta del barese (+47,6%).

    La filiera complessivamente risulta molto esposta verso il mercato Usa, con un peso sull’export complessivo di circa un terzo (32,7%, contro una media del 12,9% per i distretti agroalimentari). Seconda per contributo alla crescita è la filiera della pasta e dolci, con un progresso del 7,8% nel 2024, in un contesto di raffreddamento dei prezzi alla produzione sui mercati esteri. Il distretto più importante in termini di valori esportati, quello dei dolci di Alba e Cuneo, ha realizzato ben 304 milioni in più rispetto al 2023 (+16,5%). Andamento positivo anche per i dolci e pasta veronesi (+12,6%). I distretti vitivinicoli superano i 6,7 miliardi nel 2024 (+4%). Il distretto principale, quello dei vini di Langhe, Roero e Monferrato, arretra leggermente (-1,7%); molto positiva invece la dinamica per i vini del Veronese (+9,2%), per i vini dei colli fiorentini e senesi (+9,8%), e per il prosecco di Conegliano-Valdobbiadene (+7,3%). Nel complesso, la filiera vitivinicola esporta verso il mercato americano quasi un quarto del suo export complessivo (23%), con punte del 43% per i vini e distillati di Trento, del 38% per i vini dei colli fiorentini e senesi e del 27% per il prosecco di Conegliano-Valdobbiadene. Bene la filiera agricola, con oltre 4,1 miliardi di export (+4,7%), ma con risultati molto eterogenei tra i distretti. Il maggior contributo viene dal distretto dell’ortofrutta romagnola che si porta nel 2024 a quota 689 milioni di euro, il 14,9% in più rispetto al 2023.

    Molto positivo anche l’andamento del distretto delle mele dell’Alto Adige, che realizza un balzo del 18,9%. Continua la contrazione sui mercati esteri per la nocciola e frutta piemontese (-15,2%). Anche la filiera delle conserve contribuisce positivamente alla dinamica dell’export dei distretti agroalimentari, con un +3,5% nel 2024. Stabili le conserve di Nocera, primo distretto per export nella filiera. In accelerazione nell’ultimo trimestre del 2024 la filiera delle carni e salumi che chiude il 2024 con un incremento del 5,3%. Si distinguono le carni di Verona (+6,3%) e i salumi del modenese (+5,2%), incremento a due cifre per salumi dell’Alto Adige (+13,9%). La filiera del lattiero-caseario avanza del 6,1% (146 milioni di euro in più), di cui quasi 111 realizzati dal lattiero caseario parmense (+31%), che esporta verso gli Usa il 25% dei suoi flussi di vendite all’estero. Il distretto del lattiero-caseario sardo (+1,4% nel 2024) è quello maggiormente esporto sul mercato americano, con il 72% del totale. Avanza la filiera del caffè (+9,5% nel 2024), con ottimi andamenti per tutti e tre i distretti che la compongono: caffè, confetterie e cioccolato torinese (+7,1%), caffè di Trieste (+15,5%) e caffè e confetterie del napoletano (+10,7%). La filiera del riso è l’unica che chiude in terreno leggermente negativo il 2024 (-1,7%). In calo dell’1,6% per il distretto del riso di Pavia e dell’1,7% per quello del riso di Vercelli.

    Molto positiva, infine, la dinamica del distretto dell’ittico del Polesine e del Veneziano (+10,8%). La Germania si conferma il primo partner commerciale nel 2024 (+6,9%); bene anche i flussi destinati alla Francia (+4,8%), stabile il contributo del Regno Unito (+0,4%). Ma la destinazione verso la quale si è registrata la maggior crescita sono gli Stati Uniti (+14,9%), e questo aumento non sembra legato ad eventuali politiche di approvvigionamento anticipato post-elezione di Trump, avvenuta a novembre: tassi di crescita sostenuti si sono registrati in tutti i trimestri dell’anno. I dazi introdotti e parzialmente sospesi dall’amministrazione Trump ai primi di aprile del 2025 vanno a colpire ad ampio raggio molta parte della nostra produzione; tra i comparti distrettuali più esposti l’olio, il vino e i latticini. I nostri prodotti venduti negli Usa, tuttavia, potrebbero essere potenzialmente meno sensibili alle variazioni di prezzo rispetto a quelli dei nostri competitors: si tratta, infatti, di produzioni di nicchia, spesso legate al territorio e certificate Dop-Igp, molto apprezzate da una clientela ad alto reddito, che potrebbe beneficiare dei tagli fiscali promessi da Trump. La ricerca di nuovi partner commerciali resta una strategia molto valida di diversificazione del rischio derivante dall’entrata in vigore di dazi più pesanti. Buon contributo alla crescita dell’export dei distretti agroalimentari è venuto infatti anche dalle economie emergenti, che rappresentano il 20% del totale: crescono del 7,7%o nel 2024 contro un +6,9% delle economie avanzate.

    Tra queste vanno segnalate Polonia (+15,3%) e Romania (+15,2%); bene anche la Cina (+9,7%) grazie allo sprint del quarto trimestre (+16,9%). Massimiliano Cattozzi, responsabile direzione Agribusiness Intesa Sanpaolo, ha dichiarato: “Il nuovo record dell’export dei distretti agroalimentari italiani conferma la forza competitiva delle nostre filiere e la crescente domanda internazionale di prodotti di qualità, identitari e sostenibili. La Banca dei territori, attraverso la direzione Agribusiness, è al fianco delle imprese in questo percorso di crescita, accompagnandole con soluzioni concrete per affrontare le sfide di un contesto globale in rapida evoluzione: nuovi mercati, transizione green, digitalizzazione e ricambio generazionale. Grazie alla sinergia con partner e istituzioni, alla nostra rete capillare e a un programma dedicato allo sviluppo delle filiere, accompagniamo ogni giorno oltre 80.000 clienti nella valorizzazione del made in Italy nel mondo, trasformando la presenza internazionale del Gruppo in una leva strategica per la competitività del Paese”. Intesa Sanpaolo è fortemente focalizzata nel settore Agribusiness credendo fermamente nell’importanza strategica che esso rappresenta per l’economia del Paese. A supporto dei propri clienti la direzione Agribusiness mette a disposizione 250 punti operativi di cui 95 filiali in tutto il territorio grazie a circa 1.100 specialisti che offrono, ad oltre 80 mila clienti, consulenza e supporto su temi cruciali legati all’accesso a nuovi mercati, alla sostenibilità, alla digitalizzazione e al passaggio generazionale per le imprese agroalimentari come testimoniano i 2 miliardi di euro di erogazioni a medio e lungo termine concessi nel 2024.

  • Aumenta l’export dell’Italia fuori dalla Ue

    Secondo i dati diffusi dall’Istat sul commercio estero dell’Italia, al momento disponibili verso i soli Paesi extra Ue, nel primo trimestre del 2025 l’Italia ha esportato beni per 76,3 miliardi di euro, registrando – rispetto al primo trimestre del 2024 – un incremento del 3,1 per cento. Lo riferisce la Farnesina in una nota. Sempre nel primo trimestre del 2025 l’Italia ha importato beni per 65,2 miliardi di euro, registrando rispetto al primo trimestre del 2024 un incremento dell’11,7 per cento. Il saldo commerciale del primo trimestre del 2025 con i Paesi extra Ue è stato positivo e pari a 11,2 miliardi di euro. Al netto del settore energetico (in deficit di 13,2 miliardi di euro), l’avanzo commerciale è stato pari a 24,4 miliardi di euro. A livello geografico, al momento disponibile solo per i principali partner commerciali extra Ue dell’Italia, l’incremento in valore delle esportazioni ha coinvolto in particolare i seguenti Paesi o aree: Paesi Opec (+16,8 per cento), Medio Oriente (+13,7 per cento), Paesi Mercosur (+12,8 per cento), Stati Uniti (+11,8 per cento), Svizzera (+11,2 per cento), Regno Unito (+8,5 per cento), India (+5,6 per cento) e Giappone (+2 per cento). Hanno invece registrato una diminuzione le esportazioni verso Paesi Asean (-1,6 per cento), Cina (-11,2 per cento), Turchia (-18,3 per cento) e Russia (-18,7 per cento).

    A livello settoriale, al momento disponibile solo per raggruppamenti di beni, l’aumento delle esportazioni è sostenuto in particolare dalle maggiori vendite di beni di consumo non durevoli (+13,1 per cento) e beni intermedi (+4,7 per cento). L’incremento delle importazioni è stato generalizzato e più ampio per beni di consumo durevoli (+30,5 per cento) e non durevoli (+26,1 per cento) e beni intermedi (+10,9 per cento). Considerando il solo mese di marzo 2025, rispetto a marzo 2024, le esportazioni italiane verso i Paesi extra Ue hanno registrato una crescita del +7,5 per cento. Tale aumento è stato determinato soprattutto dall’aumento delle vendite di beni di consumo non durevoli (+20,7 per cento) e beni strumentali (+10,4 per cento). Anche le importazioni italiane verso i Paesi extra Ue hanno registrato un incremento dell’8,7 per cento, cui hanno contribuito i maggiori acquisti in particolare di beni di consumo, durevoli (+33,6 per cento) e non durevoli (+32,4 per cento).

  • In attesa dei dazi cresce il cibo italiano in Usa

    Nei primi due mesi del 2025 le esportazioni di cibo Made in Italy verso gli Usa sono cresciute in valore dell’11% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E’ quanto emerge da una analisi Coldiretti su dati Istat diffusa all’inaugurazione di Tuttofood, la kermesse a dedicata all’agroalimentare aperta alla Fiera di Milano Rho. I dati, come riporta Il Punto Coldiretti, indicano che ad inizio anno si è registrata una crescita degli acquisti da parte degli importatori statunitensi, con l’obiettivo di “fare scorta” di prodotti italiani in attesa di capire la mosse di Trump sui dazi, annunciati già in campagna elettorale e dopo il suo insediamento, poi fissati successivamente al 20%, prima di essere dimezzati e sospesi per 90 giorni.

    Dal monitoraggio Coldiretti sui prodotti simbolo del Made in Italy a tavola, emergono comunque situazioni differenti da filiera e filiera. Per il vino, prima voce delle esportazioni agroalimentari tricolori negli States, arrivano segnali discordanti, tra chi sta registrando una ripresa delle vendite e chi, invece, rileva un calo almeno a livello di volumi. L’unico fattore ad accomunare tutte le cantine – precisa Coldiretti – è un senso di incertezza, considerata anche l’estrema mutevolezza degli annunci da parte del presidente americano Donald Trump. Per i formaggi, altro simbolo dell’italian food, il Consorzio del Grana Padano segnala un aumento ad inizio anno dell’11% delle forme spedite negli Usa, quasi il doppio rispetto al risultato generale. Per le conserve di pomodoro la situazione rimane, invece, incerta, anche in considerazione dell’annunciato calo a doppia cifra della produzione della California e delle attese rispetto a quella cinese.

    Restano anche le preoccupazioni sul possibile effetto dei dazi sul fenomeno dell’italian sounding. Per l’occasione è stata allestita una mostra sui prodotti simbolo del Made in Italy in America, messi a confronto con le loro imitazioni che dall’imposizione dei dazi e dal possibile calo di vendite degli “originali” potrebbero trovare una ulteriore spinta. Non bisogna, infatti, dimenticare che già oggi gli Usa si piazzano in testa alla classifica dei maggiori taroccatori con una produzione di cibo italiano tarocco che ha superato i 40 miliardi in valore e che vede come prodotto di punta i formaggi.

  • Made in Italy sempre più apprezzato in Tunisia

    L’Italia si conferma primo fornitore della Tunisia nel periodo da gennaio a ottobre 2024, consolidando così un primato che dura da diverso tempo. Stando alle tabelle dall’Istituto nazionale di statistica (Ins) tunisino ottenute da “Agenzia Nova”, l’export del Made in Italy verso il Paese nordafricano è stato pari a 8,2 miliardi di dinari (corrispondenti a circa 2,4 miliardi di euro) nei dieci mesi dell’anno in corso, in calo del 2,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ma pur sempre davanti agli altri paesi competitor. Le importazioni in Italia dalla Tunisia sono aumentate del 4,2 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con un bilancio di 1,4 miliardi di dinari (414 milioni di euro) a favore del Paese nordafricano.

    Tra i principali prodotti esportati dall’Italia verso la Tunisia vi sono materie prime energetiche (petrolio raffinato), metalli, tessuti, cuoio e pellami, apparecchi di cablaggio, materie plastiche e prodotti in plastica, motori generatori e trasformatori, prodotti chimici e farmaceutici, impianti e macchinari. Tra i principali prodotti che l’Italia invece importa figurano gli articoli di abbigliamento e calzature, parti e accessori per veicoli, oli e grassi, motori generatori e trasformatori, articoli in plastica, prodotti chimici e fertilizzanti, prodotti della siderurgia e petrolio greggio. Risulta evidente, pertanto, un consistente traffico di perfezionamento-trasformazione di materie prime o semilavorati in prodotti dall’Italia alla Tunisia. L’Italia risulta anche la principale destinazione per l’olio d’oliva biologico tunisino con oltre il 50% delle quantità totali esportate dal Paese nordafricano. L’Italia è seguita da altri due paesi europei, ovvero Spagna e Francia, che importano da Tunisi rispettivamente il 28,07% e il 12,10% dell’olio biologico “Made in Tunisia”.

    Tornando ai dati sull’interscambio in generale, da gennaio a ottobre 2024, le esportazioni tunisine hanno segnato un leggero aumento del 2,1%, raggiungendo i 51,6 miliardi di dinari equivalenti a 15,44 miliardi di euro, mentre le importazioni crescono dell’1,4 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (-3,3%). Il deficit commerciale della Tunisia si è leggermente ridotto nel 2024, passando da 15,85 miliardi di dinari (4,69 miliardi di euro) nei primi dieci mesi del 2023 a 15,71 miliardi di dinari (4,65 miliardi di euro). Il tasso di copertura ha guadagnato 0,6 punti rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, attestandosi al 76,7%. La bilancia commerciale rimane comunque in deficit, richiedendo un’attenta analisi delle dinamiche in atto alle autorità legislative impegnate in questi giorni nella discussione della Legge di bilancio per il 2025.

    A trainare la crescita delle esportazioni tunisine nel 2024 sono stati principalmente i settori agroalimentare (+25,4%) ed energetico (+23,8%). Al contrario, hanno registrato un calo le esportazioni di minerali (-24,8%) e di prodotti tessili (-5,4%). L’aumento delle importazioni tunisine dell’1,4% è invece riconducibile principalmente all’incremento delle importazioni di prodotti energetici (+13,4%), necessari per far fronte alla crescente domanda interna, e di beni strumentali (+4,6%) e di consumo (+5,2%), a testimonianza di una ripresa dell’attività economica. Tuttavia, questa crescita è stata parzialmente compensata dal calo delle importazioni di materie prime (-4,3%) e di prodotti alimentari (-12,5%).

    L’Unione europea si conferma il primo partner commerciale del Paese nordafricano, riaffermando un trend che prosegue da qualche anno. Le esportazioni tunisine verso lo spazio europeo, pur registrando una crescita contenuta (+0,2%), hanno mostrato dinamiche differenti nei singoli mercati. In particolare, si evidenziano aumenti per Italia (+4,2%), Spagna (+9,8%) e Germania (+0,5%), mentre si registrano contrazioni per Francia (-2,2%) e Paesi Bassi (-28,6%). Per quanto riguarda i paesi arabofoni, le esportazioni verso l’Algeria sono aumentate del 43,9%, mentre si sono registrati cali per Libia (-12,4%), Marocco (-14,1%) ed Egitto (-6,9%).

    Dall’Ue provengono anche il 43,4 per cento delle importazioni totali della Tunisia, registrando nei primi dieci mesi del 2024 una crescita dell’1,8 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Tuttavia, l’analisi per Paese evidenzia una situazione eterogenea con aumenti per Germania (+11,1 %o), Spagna (+7,2%) e Francia (+0,6%), mentre si registrano cali per Italia (-2,8%), Paesi Bassi (-9,9 per cento) e Belgio (-13,9%). Al di fuori dello spazio Schengen, hanno visto un aumento le importazioni da Cina (+4,7 per cento) e India (+2,5%), in calo invece quelle dalla Russia con un dato a doppia cifra (-21%) e Turchia (-9,5%).

    Il saldo della bilancia commerciale della Tunisia è negativo principalmente a causa del deficit con Cina (-7,35 miliardi di dinari, pari a 2,17 miliardi di euro), Russia (-4,7 miliardi di dinari, circa 1,4 miliardi di euro), Algeria (-3,5 miliardi di dinari, circa 1,03 miliardi di euro), Turchia (-2,29 miliardi di dinari, quasi 677 milioni di euro), India (-1,2 miliardi di dinari, equivalenti a 355 milioni di euro) e Ucraina (-1,2 miliardi di dinari, circa 355 milioni di euro). Tuttavia, i surplus con Francia (4,34 miliardi di dinari, pari a 1,28 miliardi di euro), Italia (1,4 miliardi di dinari, 414 milioni di euro), Germania (1,9 miliardi di dinari, 562 milioni di euro), Libia (1,8 miliardi di dinari, 532 milioni di euro) e Marocco (176 milioni di dinari, 52 milioni di euro) hanno parzialmente compensato questo deficit. Secondo Ins, nonostante l’aumento del deficit energetico, che è passato da 8,52 miliardi di dinari (2,52 miliardi di euro) nel 2023 a 9,39 miliardi di dinari (2,78 miliardi di euro) nel periodo considerato, il deficit commerciale al netto dell’energia ha registrato una riduzione, attestandosi a 6,32 miliardi di dinari (1,87 miliardi di euro). Nonostante l’Unione europea si confermi il primo partner commerciale della Tunisia, il peso dei paesi extra-Ue, soprattutto Cina e Russia, si fa sentire sempre di più. Il deficit commerciale con questi paesi pesa sulla bilancia tunisina, mettendo in evidenza la fragilità dell’economia nordafricana.

  • Esportazioni agroalimentari dell’UE in costante crescita nel primo trimestre del 2024

    L’ultima relazione mensile sul commercio agroalimentare mostra che nel marzo 2024 l’avanzo commerciale del settore agroalimentare dell’UE ha raggiunto i 6,7 miliardi di euro, equivalente a un aumento dell’8% rispetto al mese precedente e del 3% rispetto al marzo 2023.

    Nel marzo 2024 le esportazioni agroalimentari dell’UE hanno raggiunto i 20,1 miliardi di euro, con un aumento su base mensile del 4%. Il Regno Unito è rimasto la principale destinazione delle esportazioni agroalimentari dell’UE, rappresentando il 22% del valore delle esportazioni dell’Unione.

    Nel primo trimestre del 2024 gli Stati Uniti hanno registrato il maggior aumento delle esportazioni dell’UE, con una crescita del 6% (372 milioni di euro), mentre la Cina, nonostante una riduzione di valore del 12%, è rimasta la terza destinazione. In termini di prodotti esportati, le esportazioni dell’UE di olive e olio d’oliva hanno registrato l’aumento più elevato rispetto al 2023 (+615 milioni di €, +51%) a causa dell’aumento dei prezzi, nonostante un lieve calo dei volumi.

  • Su Alibaba export italiano in Cina per 5,4 miliardi

    Dal 2019 al 2022 le esportazioni delle aziende italiane sui marketplace cinesi di Alibaba sono più che raddoppiate (+140%) raggiungendo i 5,4 miliardi di euro, pari a circa un terzo del valore dell’export italiano in Cina. Questo mercato “La Cina è una grande opportunità per i brand italiani e i consumatori cinesi amano i loro prodotti perché sono una garanzia di qualità, eleganza e stile”, esordisce il presidente di Alibaba Michael Evans – in videocollegamento – davanti a una platea di manager e imprenditori italiani riuniti al Talent Garden Calabiana di Milano per un evento organizzato dal gruppo. A distanza di sette anni dall’avvio dell’attività in Italia, il colosso dell’e-commerce fondato da Jack Ma fa il punto sui risultati delle 500 aziende italiane presenti sulle piattaforme rivolte al mercato cinese Tmall e Tmall Global, ma anche su Kaola e nella catena di supermercati automatizzati Freshippo e Taobao Global. I risultati sono affidati a un’analisi di Sda Bocconi che ha stimato anche l’impatto fiscale, evidenziando che il contributo per le casse dello Stato dovuto alle vendite sulle piattaforme Alibaba è stato di circa 2 miliardi nel 2022. “La nostra mission – afferma Evans – è supportare le aziende ad entrare in uno dei mercati più forti del mondo anche grazie alla collaborazione con le istituzioni, università e agenzie di marketing”. Tra le veterane c’è Tod’s che da lungo tempo collabora con Alibaba nella convinzione che la Cina sia “un mercato determinante, che ogni anno cresce”. A dirlo è il patron di Tod’s Diego Della Valle, convinto che il 2023 possa essere per il settore della moda “un anno eccellente nei rapporti tra l’Italia e la Cina”. In questo scenario, l’obiettivo del governo italiano è “valorizzare e difendere il Made in Italy”, spiega il viceministro delle Imprese e del Made in Italy, Valentino Valentini. La Cina “rappresenta il 20% del Pil mondiale, è un’area del mondo in forte crescita in cui le aziende devono essere accompagnate».

  • Export di moda maschile italiana cresciuto del 24,7% nel 2022

    Nel 2022 la moda maschile italiana ha evidenziato una performance positiva sui mercati esteri, proseguendo con il trend favorevole che si era già registrato nel 2021. Lo riporta una nota di Sistema moda Italia diffusa oggi durante la conferenza stampa di Pitti Uomo 104.

    Secondo i dati Istat, l’export relativo al periodo gennaio-dicembre 2022 ha messo a segno un incremento del +24,7%, per un totale di circa 8,9 miliardi di euro; l’import ha palesato un aumento del +43,9%, passando a 7,0 miliardi di euro. Con riferimento agli sbocchi commerciali, nella nota si sottolinea come sia le aree Ue sia quelle extra-Ue si siano rivelate favorevoli per il comparto, crescendo rispettivamente del +25,6% e del +24,0%. Analogamente, nel caso delle importazioni, dalla Ue proviene il 41,4% della moda maschile in ingresso nel nostro paese, mentre l’extra-Ue garantisce il 58,6%.

    Nel periodo in esame la prima destinazione del menswear made in Italy è risultata la Svizzera, in aumento del +14,1%, confermandosi hub logistico-commerciale per le principali griffe del settore. Seguono Francia e Germania, interessate entrambe da una dinamica positiva, rispettivamente pari al +29,8% e al +21,9%. Al quarto posto troviamo gli Stati Uniti, in virtù di un aumento molto sostenuto, ovvero pari al +68,6%, per un totale di 858 milioni di euro. La Cina in crescita dell’8,6% raggiunge i 568 milioni di euro (6,4% sul totale); di contro Hong Kong, in undicesima posizione, mostra una flessione dell’export italiano di comparto nella misura del 3,6%. Il Regno Unito, in sesta posizione, fa registrare un incremento su buoni tassi, ovvero +12,2%; seguono Spagna, Corea del Sud e Paesi Bassi che sperimentano vivaci variazioni, pari rispettivamente al +25,1%, +40,7% e +37,5%. Troviamo poi il Giappone, che registra un +8,7% assicurandosi il 3,2% delle esportazioni di comparto.

    Relativamente alle importazioni, da gennaio a dicembre 2022 tutti i principali mercati di approvvigionamento hanno evidenziato vivaci trend positivi, superiori al +20%; la Cina è il top supplier di moda uomo con un’incidenza del 15,8% e registra un’importante crescita del 67,2%; seguono il Bangladesh – sceso in seconda posizione, sebbene in aumento del 71,7% – e la Francia, con un incremento del 20,4%. Anche relativamente all’import, tutti i prodotti registrano variazioni positive a doppia cifra. Il ritmo più vivace, pari a +52,7%, interessa le cravatte; seguono camiceria e confezione, in aumento rispettivamente del +47,6% e del +46,3%. L’import di maglieria ha registrato una dinamica pari al +41,9%; infine l’abbigliamento in pelle cresce del +17,5%.

  • L’Irlanda chiede alla Wto di regolamentare le etichette a Wto del vino

    L’Irlanda non cambia rotta e nonostante il parere contrario di 13 altri Paesi membri Ue, tra cui l’Italia, tira dritto: a inizio febbraio ha notificato all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) le norme tecniche sull’etichettatura ‘salutista’ degli alcolici. Il progetto di regolamento sull’etichettatura si applicherebbe a tutti i prodotti alcolici venduti in Irlanda, si ricorda nella notifica, siano essi prodotti localmente o importati. Pertanto – è questo il primo iceberg in rotta di collisione in questa inesorabile navigazione solitaria dell’isola verde – potrebbe costituire una barriera tecnica al commercio. Ed è proprio su questo punto che il ministro degli Affari esteri Antonio Tajani ha inviato una lettera al vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrowskis.

    Secondo Tajani, le nuove norme irlandesi sulle etichette “rischiano di essere una fonte di distorsione agli scambi internazionali, equivalente a una restrizione quantitativa”. Il provvedimento, sottolinea Tajani, oltre ad essere criticabile sotto il profilo del diritto europeo, “potrebbe innescare una reazione a catena che finirebbe con il danneggiare l’insieme dell’Unione”.

    Ma i tempi si fanno stretti anche per il fronte contrario agli health warning nelle etichette del vino: il periodo per la presentazione delle opposizioni scade dopo 90 giorni. E l’Italia non sembra star ferma a guardare: “Proporrò all’Irlanda – ha annunciato su Twitter il ministro dell’Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste, Francesco Lollobrigida – una mediazione che può aiutarli a rendere più chiara la loro etichetta e soprattutto garantire corretta informazione. Eccessi e abusi vanno combattuti, ma un uso moderato garantisce, come la scienza afferma, benessere. #sdrammatizziamo #difendiamolaqualità”, ha aggiunto il ministro.

    Nel gioco delle alleanze contro l’iniziativa irlandese, che tanto danno di immagine sta già creando al comparto, mettendo poi un’ipoteca sulle potenzialità di esportazione in terra irlandese, guarda oltreoceano l’eurodeputato Paolo De Castro (Pd). “Ora la battaglia – ha rilevato – si sposta a Ginevra dove dovremo trovare alleati a livello internazionale, a partire dagli Stati Uniti. Siamo in contatto – fa sapere De Castro – con la Missione statunitense a Bruxelles, affinché anche Washingthon possa sollevare osservazioni” in sede Wto.

    “L’Irlanda ha fatto il suo passo, ora – ha spronato il vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio (Lega) – tocca a noi. I Paesi contrari alle etichette allarmistiche devono fare fronte comune e presentare formale opposizione in quella sede entro i tre mesi previsti. A guidare questa coalizione non può che essere l’Italia”, ha affermato Centinaio.

    Per Federvini l’iniziativa irlandese “è basata su un approccio demonizzante delle bevande alcoliche, con indicazioni sanitarie che non distinguono tra consumo moderato e abuso”. Da qui l’appello al governo Meloni affinché “crei una coalizione di Paesi contro ogni discriminazione dell’alcol”. Secondo Ignacio Sánchez Recarte, segretario generale della Ceev, il Comitato europeo delle imprese del vino “in questa fase solo la Corte di giustizia dell’Unione europea sarebbe in grado di difendere” il mercato interno Ue. Mentre Coldiretti stima la conta dei danni: il blitz irlandese sulle etichette allarmistiche va fermato per difendere un prodotto simbolo del nostro Paese che è anche il principale produttore ed esportatore mondiale di vino, con oltre 14 miliardi di fatturato e dà lavoro dal campo alla tavola a 1,3 milioni di persone. “L’export rischia di essere penalizzato” è il grido d’allarme di Confagricoltura Bologna e per di più con un “messaggio fuorviante per il consumatore”.

  • Moda uomo 2022 in crescita del 20,5%, bene l’export

    Continua la ripresa della moda maschile italiana: dopo un 2021 chiusosi con un aumento del 15,2%, anche nel 2022 il segmento dovrebbe mettere a segno un valore positivo. Secondo i dati di Sistema moda Italia diffusi a Firenze, alla vigilia di Pitti Uomo 103, il settore dovrebbe archiviare l’anno con un fatturato attorno agli 11,3 miliardi di euro, in crescita del 20,5% sull’anno precedente. Il comparto ha così superato i livelli pre-Covid: il fatturato del 2019 era pari infatti a 10,1 miliardi di euro.

    Per il commercio con l’estero, dopo il brusco stop registrato nel 2020 (-16,7%), le esportazioni di moda uomo nel 2021 sono tornate in territorio positivo (+13,4%) e nel 2022 si stima una variazione pari al +26,1%. Anche relativamente all’import (crollato del -20,1% nel 2020 ma in parziale recupero nel 2021, +8%) si profila una crescita, ben più vivace rispetto a quella dell’export, stimata al +44,3%.

    Previsioni che trovano riscontro nei dati Istat: da gennaio a settembre 2022 l’export di menswear ha messo a segno un +26,3% portandosi a quota 6,5 miliardi di euro, mentre l’import un aumento del 47,9%, per un totale di 5,2 miliardi circa. Con riferimento agli sbocchi commerciali, si sottolinea come sia le aree Ue sia quelle extra-Ue si siano rivelate favorevoli per il comparto, crescendo rispettivamente del 27,7% e del 25,1%. Su quelle che sono le principali destinazioni, il primo mercato è risultato la Germania (+24,9%); seguono la Francia, che mette a segno una crescita del +31,1% e la Svizzera, principale hub logistico-commerciale del lusso (+15,8%). I flussi verso gli Usa, quarto mercato, salgono a 608 milioni di euro ed evidenziano una variazione del +70,9%. La Cina si mantiene al quinto posto con una crescita del 17,4%.

    Focalizzandosi sulle vendite oltre confine, la camiceria maschile risulta best performer, sperimentando una crescita del 41,2%; le cravatte evidenziano una dinamica pari al +32,4%. Seguono il vestiario esterno, in aumento del 26,8%, la maglieria con un +23,7% e l’abbigliamento in pelle con un +23%.

  • Il calzaturiero aumenta i ricavi del 13,9% nei primi nove mesi del 2022

    Il comparto calzaturiero italiano continua il percorso di recupero post-pandemia registrando nei primi nove mesi del 2022, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, un incremento a doppia cifra del fatturato (+13,9%). E’ la fotografia scattata dal Centro Studi di Confindustria Moda per Assocalzaturifici che evidenzia anche un aumento dell’export (+23,7% in valore e +11,7% in volume, trainato dalle griffe del lusso), che ha già superato i livelli pre-Covid (con l’eccezione, però, delle scarpe con tomaio in pelle, che presentano un gap del -11% in quantità sul 2019). Risultati positivi nei mercati comunitari (con aumenti nell’ordine del +25% in valore in Francia e Germania), in Nord America (+62%) e in Medio Oriente (+58,5%). Bene anche la Cina, ma soprattutto per l’alto di gamma (+43% in valore, con un +34% nel prezzo medio). Pesanti, invece, le conseguenze della guerra in Russia e Ucraina (-32% nei primi 9 mesi nell’insieme, con un -40% dall’inizio del conflitto); tra gli stati dell’ex blocco sovietico cresce il Kazakistan (+33,4%).

    Nel report emerge anche la risalita nei consumi interni: +13,3% in spesa gli acquisti delle famiglie, ma ancora -3,5% sulla situazione già largamente insoddisfacente di tre anni addietro. Il contestuale balzo dell’import (+30% quantità) e la propensione al risparmio indotta dal carovita rendono sempre più serrata la competizione sul mercato nazionale, sfavorito anche da una stagione autunnale partita molto in ritardo. Cresce, inoltre, la quota di vendite off-price, mentre in estate appare sostenuto il ritmo dei flussi turistici, anche se il recupero nello shopping straniero è ancora parziale.

    Analizzando nel dettaglio le esportazioni, le vendite estere di calzature hanno raggiunto l’ennesimo primato in valore, toccando i 9,35 miliardi di euro (+23,7% su gennaio-settembre 2021), per un totale di 165,2 milioni di paia (+11,7%): non un record quello delle quantità, ma comunque il miglior risultato dal 2017 ad oggi. Il prezzo medio al paio è salito a 56,60 euro (+10,7%). Sia in valore che in volume sono state superate le cifre dei primi 9 mesi 2019 pre-Covid (rispettivamente del +20,4% e di un più modesto +3,9%). Decisamente positivo l’export verso gli Usa che – dopo la fine della “guerra dei dazi” con la Ue nell’autunno 2021 nell’ambito delle dispute sulla digital tax e lo scampato pericolo di imposte aggiuntive sui prodotti del fashion – nel 2022, grazie al cambio favorevole, hanno registrato nei primi nove mesi un sensibile incremento (+61% in valore e +28% in volume). Crescita altrettanto vigorosa si evidenzia per il Canada. La Cina, dopo la frenata nel bimestre aprile-maggio (-25% nelle quantità e -13% in valore) legata alle restrizioni adottate in diverse città per fronteggiare i nuovi focolai Covid, da giugno è ripartita con vigore. Il terzo trimestre ha registrato un aumento del +86% in valore (con un +17,4% in volume), grazie ai risultati conseguiti dalle griffe del lusso. Il cumulato dei primi nove mesi segna così un +43% in valore, con un molto più ridotto +7% nelle paia. All’interno della top 20 delle destinazioni è il mercato che presenta il prezzo medio più alto: 213,39 euro/paio, +33,6% su un anno addietro. Forte preoccupazione destano ovviamente le notizie sulla recrudescenza del virus. Restando nel Far East (+27,4% in valore globalmente) torna a crescere la Corea del Sud (+22,5%); bene il Giappone (+25,5% in valore), che presenta però, così come Hong Kong, un gap considerevole col pre-pandemia. Confortanti anche i dati sul Medio Oriente, dove svettano gli Emirati Arabi (15 mercato, in aumento del +68% in valore e del +49% in quantità su gennaio-settembre 2021). Tornando nel Vecchio Continente, tra i membri della Ue27 cresce del 26% la Germania (+18% in paia), da sempre uno dei principali clienti delle calzature Made in Italy (è il secondo in termini di volume); positivi anche altri importanti sbocchi comunitari, quali Spagna (+23% circa in valore), Paesi Bassi (+36%), Polonia (+16%) e Belgio (+19%), tutti già abbondantemente oltre i numeri pre-Covid. Riparte l’export verso il Regno Unito (+23% in valore e +1,6% in quantità) dopo il crollo dell’ultimo biennio, successivo all’uscita dall’Unione. Le cifre attuali restano comunque marcatamente inferiori a quelle 2019: -29% in valore e -39% in volume.

    Secondo Giovanna Ceolini, presidente di Assocalzaturifici, «nonostante l’incremento a doppia cifra del fatturato settoriale 2022, con previsione di ritorno a consuntivo sui livelli pre-pandemia, e i segni positivi in gran parte delle variabili, il forte aumento dei costi erode i margini delle imprese, costrette ad affrontare, oltre ai rincari delle materie prime, la fiammata senza precedenti degli energetici. Permane inoltre una rilevante disomogeneità tra le aziende, con due su cinque tuttora con fatturato sotto i valori pre-emergenziali. Gli effetti della crisi – prosegue Ceolini – appaiono evidenti nei dati relativi alla demografia delle imprese (con 180 chiusure tra i produttori di calzature da inizio anno, tra industria e artigianato, -4,5%), mentre nei livelli occupazionali trovano conferma il rimbalzo già registrato nei primi 2 trimestri (+2,3%, insufficiente, comunque, a ripianare le perdite subite nel biennio precedente) e la marcata riduzione, rispetto al 2021, delle ore di cassa integrazione guadagni autorizzate nell’area pelle (-81,6%, con ancora però un +80% sul 2019). Nelle aspettative a breve domina – conclude – l’incertezza, in un panorama mondiale in cui – dopo il lungo periodo flagellato dalla pandemia – inflazione, caro bolletta e turbolenze geopolitiche minano il clima di fiducia, frenando la domanda di beni».

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