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  • Le materie prime sono rovinose. Chi vuole svilupparsi deve puntare sulla tecnologia

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 13 ottobre 2021

    Il rapporto «State of Commodity Dependence 2021» recentemente pubblicato dalla Unctad, Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, evidenzia l’aumento nell’ultimo decennio del numero dei paesi dipendenti dalle materie prime: da 93 paesi nel 2008-2009 a 101 nel 2018-2019.

    L’Unctad considera un paese dipendente dalle esportazioni di merci quando più del 60% del totale delle sue esportazioni è composto di materie prime e di prodotti agricoli. Più che una condizione, è una vera trappola, che blocca la crescita di molte economie.

    Il valore nominale delle esportazioni mondiali di materie prime ha raggiunto 4.380 miliardi di dollari nel 2018-2019, con un aumento del 20% rispetto al 2008-2009. La dipendenza rende i paesi più vulnerabili agli shock economici con inevitabili impatti negativi sulle entrate fiscali, sull’indebitamento e sullo sviluppo economico.

    Infatti, nel 2008-2009 la maggior parte dei paesi, il 95%, che dipendeva dalle materie prime, è rimasta tale nel 2018-2019. Naturalmente, la dipendenza tende a colpire principalmente i paesi in via di sviluppo.

    Lo sono ben 87 dei 101 emersi nel 2019. In specifico, dei 101 paesi, 38 facevano affidamento sulle esportazioni di prodotti agricoli, 32 sulle esportazioni minerarie e 31 sui combustibili.

    La dipendenza è particolarmente forte in Africa. Tre quarti dei paesi africani sono dipendenti per oltre il 70% del loro export. In Africa centrale e occidentale essa è mediamente pari al 95%.

    Anche tutti i 12 paesi del Sud America hanno un livello di dipendenza dalle materie prime superiore al 60% e per tre quarti di essi la quota supera l’80%. Nell’Asia centrale, il Kirghizistan, il Kazakistan, il Tagikistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan, hanno registrato una quota media delle esportazioni di materie prime sul totale dell’export di merci superiore all’85.

    Consapevole di ciò, l’Unctad ha esortato i paesi in via di sviluppo a migliorare le proprie capacità tecnologiche per sfuggire alla “trappola”. Un processo non facile in assenza di sostegni e di trasferimenti di tecnologia.

    L’analisi mostra infatti che i livelli di tecnologia sono molto bassi nei paesi succitati. Il Technology Development Index, l’indice di sviluppo tecnologico dei paesi cosiddetti commodity-dependent developing countries, è mediamente dell’1,55 rispetto al 5,17 dei paesi in via di sviluppo che non dipendono dalle materie prime, come Cina, India, Messico, Turchia e Vietnam.

    Il Frontier Technology Readiness, relativo all’utilizzo delle nuove tecnologie, dà un punteggio medio dello 0,25 ai paesi dipendenti rispetto allo 0,47 degli altri.

    Si tenga presente che l’indice dei prezzi delle materie prime, elaborato dall’Unctad, che, a causa della pandemia, nel periodo gennaio 2020 – aprile 2021 era diminuito del 36%, a luglio ha raddoppiato il suo valore e i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 41%.

    L’indice Fao sul cibo ha già raggiunto i 127,4 punti lo scorso agosto, con un aumento del 3,1% in un mese. Si ricordi che alla vigilia dell’esplosione dei prezzi dei beni alimentari del 2011, che portarono alle rivolte del pane in molti paesi, l’indice era di punti 137,1.

    Secondo l’Unctad, la correlazione tra i prezzi delle materie prime e la crescita economica può arrivare al 70%. Milioni di persone, soprattutto nelle aree rurali dei paesi in via di sviluppo, non hanno ancora accesso a cibo, elettricità, acqua e servizi igienico-sanitari. Si prevede che la domanda di cibo aumenterà del 60%, man mano che la popolazione mondiale si avvicinerà ai 10 miliardi entro il 2050.

    La trappola delle materie prime, di fatto, è il proseguimento moderno del vecchio rapporto colonialistico. Sembra di rileggere La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, scritta prima del 1776, che, di là delle teorie economiche, come la divisione del lavoro, invitava le colonie inglesi nel Nord America a limitarsi a produrre cotone perché le manifatture e lo sviluppo industriale erano riservati all’Inghilterra.

    Si ricordi che quell’imposizione coloniale fu una delle cause principali che portarono alla Rivoluzione americana e alla nascita e all’indipendenza degli Stati Uniti.

    *già sottosegretario all’Economia  **economista

  • Ripartono i finanziamenti per l’export e l’internazionalizzazione

    GreenHillAdvisory, che da anni affianca le Aziende per preparare, presentare e gestire le richieste di finanziamento per l’export e l’nternazionalizzazione, promuove martedì 18 maggio, alle ore 15.00, un Webinar Informativo su come accedere ai finanziamenti Simest.  Il 3 giugno infatti ripartono i finanziamenti Simest per le attività di Export e di Promozione Internazionale su mercati UE ed Extra UE. Le attività finanziate sono: realizzazione e ampliamento di strutture commerciali all’estero; partecipazione a fiere internazionali; piattaforme per l’e.commerce; studi di fattibilità; patrimonializzazione di imprese esportatrici.

    E’ previsto un contributo a Fondo Perduto fino al 40% ed il resto finanziato a Tasso Agevolato, entro il 30 giugno senza garanzie.

    La partecipazione è libera previa adesione sulla pagina Linkedin https://www.linkedin.com/events/webinargratuito-internazionaliz6793111129833922560/

  • Scambi commerciali mondiali giù di oltre il 7% nel 2020 ma nel 2021 faranno +7,6%

    Il commercio internazionale è pronto a ripartire. Lo confermano le stime di Ice Agenzia e Prometeia, secondo cui nel 2021 gli scambi internazionali registreranno un rimbalzo del 7,6%. La ripresa si consoliderà nel 2022 con un’ulteriore crescita del 5,3%, riportando le importazioni dei mercati analizzati sui livelli prima della crisi. Entusiasta, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha commentato: “Dobbiamo essere fiduciosi perché le imprese italiane, dopo un periodo di difficoltà e coraggiosa resistenza possono vedere aprirsi nei prossimi mesi una fase di nuove possibilità”.

    Il rapporto Ice-Prometeia traccia un quadro non roseo per il 2020, l’anno in cui è iniziata la crisi pandemica. Lo scorso anno si è infatti chiuso con una caduta degli scambi mondiali poco superiore al 7% su base annua. E’ da riconoscere, tuttavia, come gli scambi commerciali internazionali abbiano giocato un ruolo fondamentale nell’arginare la diffusione dell’epidemia. Nell’ultimo anno infatti i flussi commerciali dei beni legati all’emergenza – dai dispositivi di protezione, ai prodotti farmaceutici, al materiale medico/sanitario – sono cresciuti in valore del 17%. Il settore più collegato all’emergenza sanitaria, la chimica farmaceutica, ha sperimentato un’espansione della domanda internazionale dell’8%. Il dato si confronta con flessioni superiori al 20% per i settori collegati alla mobilità (automotive e mezzi di trasporto) o a oltre il 10% per alcuni comparti tecnologici (meccanica in particolare) e di consumo (sistema moda e arredo), tra quelli di particolare rilevanza per l’Italia.

    Di Maio ha ricordato che il documento Ice-Prometeia “riflette inevitabilmente l’eccezionalità dell’anno appena trascorso. Un’eccezionalità, purtroppo, di segno negativo. Un dato su tutti: -7,2% il volume degli scambi mondiali nel 2020 rispetto al 2019. Il secondo peggior calo degli ultimi 20 anni. Sono statistiche che preoccupano e possono scoraggiare, ma sfogliando il rapporto troviamo anche evidenze di una imminente ripresa che ci porta a guardare con ottimismo al futuro”. Il mercato globale “è estremamente competitivo, ma ci sono ancora margini consistenti per riposizionarsi e cogliere nuove opportunità di affari”, ha sottolineato il ministro.

    Dai dati Ice-Prometeia arrivano comunque anche segnali incoraggianti. “Tra i Paesi del G8, l’Italia è il secondo per minor flessione dell’export e questo contributo ha consentito di attenuare un più forte calo dei consumi interni”, ha ricordato Carlo Ferro, presidente di ICce Agenzia. “Inoltre, nonostante il calo delle esportazioni ci sono eccellenze settoriali, gli ‘Oscar dell’export’, che hanno performato positivamente su alcuni mercati, indice della capacità delle nostre filiere di resistere agli shock inaspettati. Per esempio, il riso verso la Germania, la pasta verso Giappone e UK, il vino verso la Corea del Sud e l’Olanda e l’olio di oliva verso la Francia. Oltre il farmaceutico e l’alimentare, che sono cresciuti come settori, ci sono performance dell’export settore-Paese particolarmente positive: i componenti elettronici verso gli Stati Uniti, le macchine tessili verso la Turchia, le materie plastiche verso la Cina, le calzature in Corea del Sud, per fare alcuni esempi”, ha ribadito Ferro.

  • Piaggio tiene malgrado Covid e mette sul mercato nuovi modelli

    Piaggio tiene nell’anno della pandemia e rilancia con undici nuovi modelli a due ruote e uno stabilimento in Indonesia in arrivo nel 2021. Il Gruppo ha chiuso il 2020 con un utile a 31,3 milioni di euro, rispetto ai 46,7 milioni del 2019. Nel complesso i dati hanno confermato “l’efficacia della risposta del Gruppo alla pandemia che ha colpito l’economia mondiale”, afferma Roberto Colaninno, presidente e amministratore delegato.

    I ricavi si sono attestati a 1,31 miliardi di euro, in contrazione del 13,6% rispetto all’anno precedente a causa delle misure di contenimento per il Covid-19 che hanno provocato la chiusura delle attività produttive e commerciali per diverse settimane in molte Paesi. A garantire la tenuta dei conti è stata la performance del secondo semestre che ha visto i ricavi in crescita dell’1,3%, l’utile netto con un incremento dell’82,3% e le vendite di scooter e moto nel mondo aumentate del 20,7%. E con il 2020 ormai alle spalle il consiglio d’amministrazione ha deciso di proporre all’assemblea degli azionisti un saldo sul dividendo di 2,6 centesimi di euro per ciascuna azione, con un dividendo totale pari a 6,3 centesimi di euro, per complessivi 22,5 milioni di euro.

    Piaggio è riuscita a vendere nel mondo 482.700 veicoli, rispetto ai 611.300 nel 2019.  Il mercato dell’Asia Pacific ha registrato volumi in crescita del 9,4%, mentre quelli di Emea – Americas e India hanno presentato una flessione delle vendite rispettivamente dell’1,7% e 49,6%.  Nel segmento dei veicoli a 2 ruote, Piaggio ha rafforzato la propria leadership del mercato europeo raggiungendo una quota complessiva del 14,2%.

    Il 2020 va in soffitta con una “sostanziale tenuta dei risultati, sia sui mercati europei, sia su quelli asiatici”, aggiunge Colaninno. Le prospettive per il 2021 appaiono positive. Nell’anno in cui Moto Guzzi compie i suoi primi 100 anni di vita e Vespa i primi 75, il gruppo è pronto a lanciare undici nuovi modelli a 2 ruote ed un veicolo commerciale leggero. Prevista anche la costruzione del nuovo dipartimento di e-mobility a Pontedera (Pisa), l’avvio di un nuovo stabilimento in Indonesia e il completo rifacimento del sito produttivo e delle aree museali di Moto Guzzi. Centrale sarà anche il tema dei veicoli elettrici a 2 ruote. Piaggio è infatti reduce da un accordo con altri 3 grandi produttori per la costituzione di un consorzio che porterà alla realizzazione di batterie intercambiabili per motocicli e veicoli elettrici leggeri. Una vera e propria rivoluzione che ha l’obiettivo di arrivare all’utilizzo di una batteria unica per tutti i produttori.

  • Amazon fa scuola di e-commerce a 10mila Pmi

    Scuola di e-commerce per 10mila piccole e medie imprese e startup. Il gigante del commercio on line Amazon ha raggiunto un accordo con Confapi per realizzare un programma di formazione che favorisca la digitalizzazione del tessuto imprenditoriale italiano e recuperare il gap che ci allontana dagli altri contesti europei. Boot camp intensivo di una settimana, corsi di approfondimento virtuali e consulenze mirate: il programma di formazione sarà a tutto campo e coinvolgerà anche partner di rilievo. Il progetto “Accelera con Amazon” coinvolge anche l’Ice, l’istituto che aiuta le imprese italiane sui mercati internazionali, il Politecnico di Milano e il consorzio del commercio digitale italiano Netcomm.

    L’iniziativa, che ha ricevuto i complimenti del ministro degli Esteri Luigi Di Maio (“un passo avanti per aumentare la competitività delle imprese nell’export”), si inserisce in un contesto italiano nel quale le vendite attraverso l’e-commerce stanno crescendo ma continuano a rappresentare solo una piccola parte degli acquisti complessivi. In base all’analisi dell’Osservatorio eCommerce B2C Netcomm – School of Management Politecnico di Milano l’incidenza del valore delle vendite online sul totale delle vendite in ambito retail è cresciuto dal 6% all’8% nel 2020. Le piccole e medie imprese italiane hanno un gap da colmare se comparate ai cugini europei. Solo un terzo di loro è digitalizzata e solo una su sette (di quelle con più di 10 impiegati) ha una presenza online significativa. Di gran lunga indietro rispetto alle altre nazioni europee, l’Italia si posiziona al 25° posto tra i 28 Stati Membri dell’Unione europea nell’edizione 2020 del DESI Digital Economy and Society Index.

    Al momento sono oltre 14.000 le piccole e medie imprese italiane che vendono su Amazon. Nel periodo dall’1 giugno 2019 al 31 maggio 2020, i partner di vendita italiani hanno registrato vendite per una media di oltre 75.000 euro ciascuno, ed hanno venduto più di 60 milioni di prodotti negli store Amazon. Il Covid ovviamente ha dato una spinta agli acquisti on line. “A causa della crisi pandemica, l’intero nostro sistema industriale e produttivo è stato costretto a far fronte alla necessità di innovare – sostiene il presidente Confapi, Mauro Casasco – L’accordo con Amazon aiuterà ad accelerare questo processo “. Il vicepresidente di Amazon in Europa, Francois Saugier ha del resto ricordato come la società “ha investito oltre 2,2 miliardi di euro in logistica, strumenti, servizi, programmi e persone per aiutarle a raggiungere il loro pieno potenziale”.

    Il corso offrirà tra l’altro una piattaforma gestita dal politecnico di Milano e anche moduli di formazione dedicati a come creare un’immagine del brand efficace e implementare strategie di marketing e di social media, mettendo in campo anche team più efficaci dal punto di vista delle risorse umane.

  • Ogni euro nella manifattura ne vale 2,1 per l’Italia

    L’industria manifatturiera giocherà un ruolo fondamentale per la crescita economica e consentirà all’Italia di superare la crisi provocata dalla pandemia. Per ogni euro investito nell’industria italiana se ne generano 2,1 per il sistema Paese. Dall’annuale Forum di Ambrosetti a Cernobbio, sul lago di Como, arriva l’immagine futura dell’industria italiana tra resilienza, rilancio dopo la crisi sanitaria globale e competitività di lungo periodo. A causa della crisi economica, rileva uno studio di The European House – Ambrosetti per Fondazione Fiera Milano, il 70% delle aziende italiane ha registrato un calo di fatturato rispetto allo scorso anno e, di questi, quasi la metà ritiene che il proprio fatturato subirà una flessione superiore al 25% nel 2020.  Lo studio evidenzia la necessità di riportare i temi dell’industria al centro del dibattito strategico e dell’agenda d’azione nazionale.

    Il Dna competitivo dell’industria italiana ha consentito al Paese di avere un ruolo chiave per lo sviluppo della manifattura europea e mondiale. A fine 2019, l’Italia rientrava nella top 5 mondiale dei Paesi con surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari; 922 prodotti italiani (su un totale di 5.206) rientravano nelle prime 3 posizioni al mondo per surplus commerciale. Permangono però alcune grandi questioni di fondo che “zavorrano” il potenziale dell’industria italiana: rallentamento della produttività, funzionamento poco efficace della pubblica amministrazione, ecosistema dell’innovazione ancora poco dinamico, diffusione di una cultura antindustriale e progressivo impoverimento delle relazioni tra l’industria e le parti sociali.

    La ripartenza del Paese non può prescindere da un “piano d’azione serio e articolato – emerge dalla ricerca – per colmare il divario di competitività ad attrattività tra l’Italia e i suoi competitor internazionali”.

  • 2020 da dimenticare, ma non per la produzione di vino

    È vincente l’Italia del vino nell’anno del Covid-19. Nonostante un calo produttivo (-1% rispetto allo scorso anno) e una congiuntura economica non proprio favorevole, lo Stivale è sul tetto del mondo per quantità mettendo a segno 47,2 milioni di ettolitri e in fila le storiche rivali del settore, con la Francia che registra una produzione di 45 milioni di ettolitri e la Spagna, 42 milioni. Buone, se non ottime le aspettative che emergono sotto il profilo della qualità dell’uva, considerata, per alcuni casi, eccellente. Preoccupa invece l’export, sulla base di quanto presentato da Ismea, Assoenologi e Unione italiana vino (Uiv) con il quadro di sintesi e le stime di vendemmia 2020. Secondo infatti gli analisti a una qualità alta e a una quantità leggermente inferiore alla media dell’ultimo quinquennio (-4%) fa da contraltare la particolare situazione economica internazionale, che registra una notevole riduzione degli scambi globali di vino (-11% a valore e -6% a volume nel primo semestre sul pari periodo 2019) e una contrazione, la prima dopo 20 anni di crescita, delle esportazioni del vino made in Italy (-4% nei primi 5 mesi), sebbene inferiore a quella dei principali competitor.

    L’argomento export e consumi entra dunque, gioco forza, nei tavoli di confronto istituzionali con la ministra per le Politiche agricole, alimentari e forestali Teresa Bellanova che, in occasione della presentazione del report Ismea Assoenologi e Uiv, ha annunciato la richiesta al ministro degli Esteri Luigi Di Maio di riaprire il Tavolo sul vino con la partecipazione dell’Istituto commercio estero (Ice) e Farnesina. Bellanova, ricordando che la sua attenzione nei confronti del settore non è in discussione, ha sottolineato che nel “Dl Agosto la misura destinata alla ristorazione del valore di 600 milioni a fondo perduto è ad una sola condizione, gli acquisti di prodotto made in Italy. Una misura importante, capace di generare – ha specificato – fatturato pari al quadruplo dell’importo destinato a ciascuna impresa, e che evidentemente avrà un effetto virtuoso proprio sul vino e proprio nei segmenti di eccellenza particolarmente colpiti dalla crisi”.

    Dal punto di vista di produzione a livello regionale il report economico conferma il Veneto prima regione con una crescita di un +1% e 11 milioni di ettolitri, seguita da Puglia (8,5), Emilia-Romagna e Abruzzo. Tra le principali aree produttive, in un quadro di raccolto di circa il 20% dell’uva al 3 settembre, segno più per Piemonte e Trentino-Alto Adige (+5%), Lombardia e Marche (+10%), Emilia-Romagna e Abruzzo (+7%). Calo della produzione invece in Toscana e Sicilia (-15%), Friuli-Venezia Giulia (-7%) e Puglia (-5%). Più in generale l’annata produttiva vede in leggero incremento il Nord (+3% sul 2019) mentre al Centro e al Sud le quantità si dovrebbero ridurre rispettivamente del 2 e del 7%. Positivi i giudizi degli operatori. “L’annata 2020 – afferma il presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella – si presenta con delle uve di ottima qualità, sostenute da un andamento climatico sostanzialmente positivo, che non possono che darci interessanti aspettative per i vini provenienti da questa vendemmia”. “Il settore vitivinicolo italiano – dichiara Raffaele Borriello, direttore generale Ismea – ha dato prova di una straordinaria capacità di ripresa e resilienza riuscendo a reggere l’urto di questa crisi senza precedenti che si è abbattuta sul sistema produttivo globale”. “Il bilancio previsionale della vendemmia – commenta il presidente dell’Unione italiana vini, Ernesto Abbona – si annuncia positivo sia per la diffusa qualità delle uve, con diverse punte di eccellenza, sia per una quantità leggermente inferiore allo scorso anno che ci aiuterà a gestire il mercato in maniera equilibrata”.

  • La filiera T/A tra export oriented ed e-commerce: sterili strategie

    Il nostro sistema industriale ha dovuto sopportare il peso ed i costi delle improduttività della pubblica amministrazione ai quali molto spesso ha ovviato nel corso degli anni 80 e 90 con la svalutazione competitiva. Nell’ultimo ventennio, invece, amplificandosi tali diseconomie legate alla pubblica amministrazione, il tentativo di mantenere in equilibrio il sistema industriale viene ricercato anche attraverso la compressione dei costi di produzione molto spesso trasferendo parte della stessa all’estero (TPP), strategia supportata dalla mancanza di una articolata normativa che sia in grado di tutelare l’articolata filiera espressione del made in Italy, come una recente ricerca giornalistica ha ancora una volta dimostrato (https://made-to-measure-suits.bgfashion.net/article/16242/65/Why-the-Italian-fashion-factories-go-bankrupt). Tale strategia del sistema industriale, assolutamente legittima, tuttavia ha sempre posto in secondo piano l’attenzione per il mercato e la domanda e quindi la disponibilità economica degli stessi consumatori italiani, quest’ultimi di competenza della classe politica e dirigente. In particolar modo per il sistema tessile abbigliamento ci se è illusi che la crescita internazionale potesse mantenere in equilibrio il sistema complessivo. In altre parole, si sperava che la forte capacità delle nostre imprese export oriented potesse sopperire al continuo calo della domanda interna legata ad una disponibilità economica sempre minore combinata ad una compressione della propensione al consumo, espressione cristallina dell’incertezza politica del nostro paese, come dimostrano l’aumento in 10 anni dei depositi bancari del 75% (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/).

    I terribili dati relativi al primo trimestre 2019 indicano come la domanda interna per quanto riguarda l’abbigliamento risulti in flessione del -8,1% e come oltre un terzo delle aziende intenda ricorrere alla cassa integrazione per far fronte a questa drastica diminuzione dei consumi. Questi dati dimostrano essenzialmente come fosse miope ed assolutamente illusoria la sola visione che individuasse nella salvezza del settore l’unica strategia export-oriented. Al tempo stesso risulta  altrettanto banale quanto superficiale individuare e giustificare la crisi del dettaglio indipendente solo ed esclusivamente legato all’e-commerce, quindi per questo quasi accettata  in quanto considerata espressione dell’innovazione tecnologica applicata alla distribuzione e perciò inevitabile secondo buona parte del mondo politico ed economico.

    La crisi politico-istituzionale che si trascina nel nostro Paese dal momento della crisi del 2008 lo sta portando al collasso economico. In questo senso infatti va considerato il paradosso del costante (e per questo indice di una sempre maggiore insicurezza) aumento dei  depositi bancari legato viceversa ad una diminuzione dei consumi e del denaro circolante. In più, in questo incredibile corto circuito economico nel quale la ricchezza prodotta non viene più messa in circolo e di conseguenza non diventa essa stessa veicolo di sviluppo esiste ancora chi pensa ad una ulteriore riduzione del contante per combattere l’evasione fiscale. Ulteriore conferma dell’assoluto distaccamento tra l’economia percepita da parte della classe politica e quella reale vissuta quotidianamente dagli operatori economici.

    La responsabilità di tale corto circuito economico nel quale la ricchezza prodotta non viene utilizzata per ricreare a sua volta nuova ricchezza a cascata (effetto leva) ma solo come strumento difensivo attraverso il deposito bancario va interamente imputata alla classe politica e dirigente.

    La prima dimostra giorno dopo giorno la propria incompetenza in ambito economico e politico giovandosi della irresponsabilità che il mandato elettorale regala. La seconda completamente lontana dal sentiment dei consumatori da non prevedere tale situazione e tanto meno pensare a soluzioni per invertire questo trend.

    Ancora una volta i dati economici dimostrano come la crisi del nostro Paese non sia economica ma soprattutto culturale.

     

  • L’incubo stagflazione

    Nel novembre 2017 il governo in carica Gentiloni, appoggiato dal centro studi  di Confindustria, indicava per il 2018 una crescita del Pil in un +1,4%. Già allora giudicai ampiamente pressapochista ed ottimistica questa previsione indicando nella crescita del +1% un obiettivo molto più raggiungibile, risultando il nostro sviluppo economico sostanzialmente “esterovestito”, cioè legato alla crescita della domanda  internazionale perché soprattutto le nostre Pmi sono parte di filiere estere di alto di gamma, ulteriore conferma della centralità delle nostre imprese, al 95% medio piccole ma centrali sul mercato.

    Progressivamente nel 2018 la crescita è andata via via diminuendo dal primo trimestre, fino ad arrivare al terzo con una crescita nulla (Pil Q3 +0,0%). Questa conferma del rallentamento  della crescita economica proietta il dato finale e complessivo annuale ad un +0,8% (fonte Confindustria), al massimo un +1% di Pil. Già questo andamento renderà necessaria una ulteriore manovra di correzione in quanto la spesa pubblica risulta finanziata da una entrata fiscale calcolata su di un Pil superiore per lo meno di 0,4%.

    Contemporaneamente, a causa anche delle tensioni internazionali, l’inflazione registra un tasso di crescita del +1,4%, imputabile soprattutto alla crescita dei prodotti petroliferi: quindi un’inflazione importata e non certo espressione di un aumento dei consumi. Ulteriore conferma di tale situazione viene fornita dall’indice generale dei consumi che si ferma ad un +1,4%, quindi, se confrontato con l’inflazione, abbiamo una crescita zero dei consumi stessi.

    In altre parole, nonostante negli ultimi due anni i governi Renzi e Gentiloni avessero affermato  esattamente il contrario, e cioè che la crescita economica fosse strutturale quando invece era semplicemente legata alla ripresa della domanda internazionale, e contrariamente a quanto afferma ancora l’attuale governo in carica, la crescita del PIL nominale risulta inferiore al tasso di inflazione: classico esempio di stagflazione. Innescando in questo modo un pericolosissimo vortice negativo nel quale progressivamente il differenziale tra inflazione e crescita economica (Pil 0,8/1%, inflazione 1,4%, quindi da un -0,6/0,4%) viene pagato dai consumatori attraverso una minore capacità di spesa e quindi fornendo un nuovo impulso alla decrescita (felice non lo sarà mai!!) come alla frenata del Pil.

    Scenari economici che sarebbero potuti diventare ancora più negativi se la scelta del governo Gentiloni, su indicazione dei ministri Padoan e Calenda, fosse stata quella di aumentare l’IVA in modo tale da ridurre il peso del debito pubblico come conseguenza dell’aumento dell’inflazione: una strategia molto simile a quella dei sovranisti ispiratori della politica economica dell’attuale governo. In uno scenario così proposto il differenziale tra inflazione e crescita del PIL probabilmente sarà stato addirittura maggiore, con ulteriore aggravio per i consumatori italiani.

    In questo conteso solo un rallentamento della domanda internazionale, che si tradurrebbe in una minore crescita internazionale, di fatto ridurrebbe la domanda di quei fattori inflattivi relativi alle materie prime, soprattutto per il petrolio, e di conseguenza a caduta diminuirebbe la possibilità di importare inflazione che così si adeguerebbe alla bassa crescita del Pil.

    In altre parole il riequilibrio tra crescita e Pil, come l’allontanamento dall’incubo stagflazione,  verrebbe dal rallentamento della crescita internazionale, esattamente come la crescita economica italiana è dipesa dall’aumento della domanda e dello sviluppo internazionale. Ulteriore conferma di come le strategie di sviluppo economico degli ultimi vent’anni abbiano giocato sulla capacità delle aziende italiane market ed export oriented senza innescare alcuna politica di sostegno alla domanda interna. Il pericolo e l’incubo di una stagflazione. la quale divora il potere d’acquisto dei consumatori, rimane dietro l’uscio anche per la incapacità di comprenderne gli effetti ma soprattutto le cause.

  • L’arredo-design italiano cerca la sua dimensione sui mercati

    Il settore dell’arredamento e del design in Italia è sempre più florido. A dimostrarlo non solo i numeri sempre positivi di questi anni ma soprattutto le fiere e gli eventi, la Milano Design week su tutte, che riscuotono sempre maggior successo.

    Nonostante questi dati, il settore è sempre alla ricerca della sua dimensione. La chimera che in molti stanno inseguendo è la creazione di un gruppo da un miliardo di euro di fatturato. Se ne parla da tempo, ma solo negli ultimi tre anni – tra fusioni e acquisizioni, l’interventismo dei fondi, l’ampliamento e il consolidamento di vecchie operazioni – le imprese italiane dell’arredo-design intravedono la possibilità di creare holding in grado di reggere la sfida dei mercati globali. Da Design Holding a Poltrona Frau Group, da iGuzzini a Calligaris, solo per citare i più recenti protagonisti di operazioni societarie così complesse.

    Recentemente due casi, diversi tra loro, ma emblematici della vivacità del settore: iGuzzini passata sotto il controllo di Fagerhult e la padovana Saba Italia acquisita da Italian Design Brands (Idb).

    Nel caso della marchigiana iGuzzini – 232 milioni di euro di ricavi, in rampa di lancio per la quotazione in Borsa, ma acquisita a sorpresa dal gruppo di Stoccolma Fagerhult, 500 milioni di euro di fatturato – nascerà un colosso dell’illuminotecnica a controllo svedese.

    Un caso simile a quello di Poltrona Frau Group che, con il controllo del fondo Charme (famiglia Montezemolo), era il perno per la creazione di una holding italiana dell’arredo-design di alto livello (con i marchi Poltrona Frau, Cassina e Cappellini), sul modello di quanto creato nella moda dai francesi Lvmh e Kering. Ma nel 2014, nel pieno del processo, il gruppo è stato acquisito dall’americana Haworth, colosso mondiale del settore di mobili per l’ufficio, con un fatturato di 1,8 miliardi di dollari e molte idee di sviluppo.

    Nel caso Idb-Saba Italia, invece, continua il progetto di aggregazione di brand made in Italy di alto standing: il polo nato tre anni fa e arrivato ora oltre i 100 milioni di euro di fatturato aggregato comprendeva già Gervasoni, Meridiani, Cenacchi International e Davide Groppi. Perché anche le conglomerate a controllo italiano hanno accelerato le operazioni. A settembre c’è stata la creazione di Design Holding, il nuovo soggetto partecipato dai gruppi finanziari Investindustrial (che ha già in portafogli B&B Italia, Flos e la danese Louis Poulsen) e Carlyle, che ha per obiettivo la crescita per acquisizioni internazionali e la quotazione a Piazza Affari entro tre anni (si veda l’intervista accanto).

    Guarda alla Borsa anche l’azienda friulana Calligaris, 140 milioni di fatturato, che a inizio agosto ha raggiunto un accordo con il fondo Alpha per la cessione, da parte della famiglia, dell’80% delle quote dell’azienda che controlla anche Ditre Italia.

    “Sono operazioni sempre più frequenti – dice Claudio Feltrin, presidente di Assarredo e dell’azienda di famiglia, la veneta Arper – motivate dalla necessità di restare competitivi in uno scenario globalizzato. Fino a dieci anni fa un’impresa con 20 milioni di euro di fatturato poteva vivere tranquillamente, ma oggi è necessario crescere e per farlo occorrono grandi risorse”. In un settore dominato dalle imprese familiari, servono professionalità manageriali che spesso possono arrivare soltanto dall’esterno. Anche per questo, osserva Feltrin, “il modello più efficace sembra quello dell’ingresso nel capitale di investitori finanziari e industriali. Vedo un crescente interesse da parte del mondo della finanza nei confronti dell’industria italiana dell’arredo – aggiunge -. Sia perché la finanza in questo momento è ricca di risorse, sia perché il nostro comparto è rimasto indietro e offre molte opportunità interessanti per i fondi e gli altri investitori”.

    Se la qualità del design made in Italy è fuori discussione a livello internazionale, l’appetibilità delle aziende produttrici per gli investitori è, tuttavia, tutta da dimostrare. “La debolezza del settore – dice Antonio Catalani, professore di Management del design alla Bocconi e allo Iulm – affonda le radici in una logica vetero-familiare della struttura con poco supporto di capitale e scarsa internazionalizzazione. Il cambio generazionale ha aiutato pochi brand a rifocalizzarsi tornando sui fondamentali dell’impresa. Ma resta la difficoltà a fare massa critica e contrariamente a quello che si crede i brand davvero appetibili sono al massimo una trentina. C’è molto da fare per riorganizzare la gran parte del sistema”.

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