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  • La flessione dell’export Ue penalizza l’Italia

    Il ritorno dalle vacanze estive è stato alquanto agitato. I giorni festivi possono spiegare solo in parte il brusco arretramento dell’export extra-Ue di settembre, preoccupante soprattutto perché generale, visibile con poche eccezioni nei principali mercati. Tutto questo è dato dal crollo delle esportazioni e della crescita degli acquisti dall’estero. Questa la fotografia aggiornata dall’Istat sui flussi di merci verso i territori esterni all’Unione europea: “Il surplus commerciale a settembre 2018 è stimato pari a +79 milioni, in forte diminuzione rispetto a +3.521 milioni di settembre 2017. Da inizio anno diminuisce l’avanzo nell’interscambio di prodotti non energetici (da +48.176 milioni per il 2017 a +47.776 milioni per il 2018)”.

    Su base mensile destagionalizzata la frenata è del 3,7%, in termini annui del 7,3%, il risultato peggiore da luglio 2016.

    Nelle casse delle aziende entrano 15,1 miliardi, oltre un miliardo in meno rispetto allo stesso mese del 2016, per effetto anzitutto della frenata di Washington, primo mercato extra-Ue delle nostre merci, in calo dell’8,7%. I paesi asiatici cedono terreno a doppia cifra, con Cina e Giappone a ridurre del 17% gli acquisti di made in Italy, l’India dell’11,7%. Male anche Medio Oriente e America Latina anche se i due dati più preoccupanti riguardano mercati più vicini, Russia e Turchia. Verso Mosca il crollo è del 24,9%, un risultato che trascina verso il basso il bilancio dall’inizio dell’anno, dove il calo è del 6%. Dati inattesi, proprio nel momento in cui i rincari del greggio stanno rafforzando il potere d’acquisto di Mosca, mentre era in un certo senso scontato il crollo della Turchia, alle prese con la pesante svalutazione della lira. Già ad agosto il risultato era stato negativo ma ora il quadro si aggrava, con un calo delle nostre vendite del 31,1%, che porta a -8% il bilancio del periodo gennaio-settembre.

    Solo Svizzera e Africa settentrionale si sottraggono a questo trend, che comunque riduce le nostre performance medie del 2018; a questo punto per i mercati extra-Ue si registra una crescita limitata all’1,4%.

    Di contro, settembre è un mese di forte crescita dal lato delle importazioni, spinte verso l’alto dall’energia (+39%) ma anche da beni strumentali e durevoli: la crescita media nel mese è pari al 17,5%, che si riduce all’11% escludendo dal calcolo l’energia. Un trend divergente che va quasi ad azzerare l’avanzo commerciale: i 3,5 miliardi di settembre 2017 si sono ora ridotti a 79 milioni. Gli statistici commentano i dati rimarcando la “flessione congiunturale e tendenziale delle esportazioni verso i paesi extra Ue a settembre 2018, dopo la positiva dinamica registrata ad agosto”.

    Per le importazioni si rileva, invece, una crescita molto marcata sia sul mese precedente che, soprattutto, su base annua. Il saldo della bilancia commerciale con i paesi extra Ue è prossimo al pareggio a fronte dell’avanzo di 3,5 miliardi di settembre 2017.

    “A settembre 2018, il saldo commerciale rimane comunque positivo, anche se si riduce a circa un miliardo, se espresso in termini destagionalizzati”.

  • Pil warning

    Per le aziende quotate che risultano soggette ad una disciplina molto rigida in relazione alle comunicazioni ai propri soci spesso si assiste alla dichiarazione di “profit warning” nel caso in cui il management aziendale  intenda avvertire i proprio azionisti che per l’anno in corso gli utili risulteranno in discesa se non azzerati.

    Immancabilmente, invece, in Italia, come ogni anno da parte di istituti quali Istat e Centro Studi Confindustria, tra giugno e settembre vengono rivisti i dati della crescita economica rispetto a quelli inseriti nella legge finanziaria varata l’anno precedente dal governo. Parlando quindi dello Stato italiano, composto non da azionisti ma da cittadini, la riduzione della crescita si manifesta, di conseguenza, non con una diminuzione del “dividendo azionario” ma attraverso un progressivo aumento inevitabile della pressione fiscale o una riduzione della spesa corrente al fine di mantenere l’equilibrio finanziario. Quindi, come ogni anno da oltre un ventennio, si assiste al “Pil warning”.

    Nel primo caso, cioè per le aziende quotate, l’effetto del warning risulta quello di una riduzione della redditività delle quote azionarie. Nel secondo, e ci riferiamo allo Stato italiano, viceversa l’effetto si manifesta attraverso la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva per mantenere l’equilibrio economico-finanziario garantito da entrate fiscali che invece, proprio a causa del PIL Warning, risulteranno sicuramente inferiori progressivamente alla minore crescita. Senza tale manovra aggiuntiva salterebbero le coperture finanziarie per i capitolati di spesa del bilancio dell’anno in corso.

    Mentre nel primo caso il Warning si traduce in una riduzione dei margini azionari, e quindi della disponibilità economica, nel secondo si traduce in un aumento ulteriore della pressione fiscale o una malaugurata riduzione della spesa pubblica che negli ultimi anni quasi sempre si è trasformata in una riduzione dei trasferimenti agli enti locali. Quest’ultimi poi la trasformano in una riduzione dei servizi sanitari e di altro genere alla cittadinanza.

    La Frenata del PIL stimato ora al +1,3%, unito al forte calo dell’export oltre Ue ( -2,7%), inevitabilmente si trasformeranno in una manovra correttiva. Quindi, come ampiamente anticipato, tutti i dati entusiastici raccontati e favoleggiati dagli ultimi due ex governi Renzi e Gentiloni e dalle rispettive maggioranze si sciolgono in soli tre mesi come neve al sole. Si renderà necessaria inevitabilmente una ulteriore manovra correttiva legata alla decrescita del PIL al di sotto delle previsioni governative (di circa 9 miliardi), in aggiunta a quella già conclamata e scaturita

    dall’aumento dei tassi di interessi e di conseguenza dei costi al servizio del debito pubblico (altri 5/9 miliardi). Ovviamente a questi andranno aggiunti anche i 14 miliardi necessari per bloccare l’effetto delle clausole di garanzia relative all’aumento dell’Iva. Ancora una volta tutti i centri studi, in particolare di Confindustria, durante l’emanazione e la elaborazione della legge finanziaria o Def  per l’anno 2018 hanno fornito un supporto poco professionale alla politica governativa, specialmente in relazione alle prospettive di crescita del PIL. Poi, come sempre, da anni tali elaborazioni vengono successivamente smentite tra giugno e settembre.

    La compagine politica di maggioranza e di governo di cui questa risulta l’espressione possono avere il desiderio di offrire scenari economici di sviluppo positivi quando si trovano al governo e questo si può anche comprendere. In questo senso basti ricordare un ex ministro dell’Economia che affermò che in 4 anni avrebbe portato la quota export sul PIL dall’attuale 28,7% ad oltre il 50%. Un’affermazione priva di qualsiasi supporto ma soprattutto competenza economica e di conoscenza del mercato.

    A riprova si ricorda che della primavera del 2015, in cui la quota Export era il 28,5% sul PIL (periodo di uscita di questa entusiastica intervista al Corriere della Sera), nonostante il clima sempre più concorrenziale e competitivo le aziende italiane sono riuscite ad aumentare complessivamente la quota Export su PIL all’attuale 29,7, quindi con una crescita importante di oltre lo 0,4 % l’anno. Un risultato determinato solo ed esclusivamente dalle capacità delle imprese italiane di presidiare i mercati esteri e non certo dalla capacità o dal supporto del governo per il quale, dopo aver stanziato 34 milioni per la lotta all’italian sounding, di questa priorità non resta alcuna traccia.

    Non può essere comprensibile e tanto meno giustificabile da parte di certi studi non mantenere delle posizioni terze per evitare le continue smentite a sei mesi dalle proprie previsioni economiche.

    Tutto questo poi in un contesto nel quale i titolari dei dicasteri economici affermavano che la ripresa economica sarebbe avvenuta attraverso la forte esplosione dell’export, il cui calo del 2,7% (maggio 2018/2017 extra Ue) dimostra ancora una volta la loro assoluta “eccentricità” nelle previsioni economiche. Una responsabilità che ovviamente cadrà sul governo in carica il quale invece di affrontare queste problematiche terribili favoleggia di flat Tax, reddito cittadinanza e amenità varie invece di affrontare la terribile eredità lasciata dai governi Renzi e Gentiloni.

    Ovviamente, tornando al parallelo tra azienda e Stato italiano, a fronte di un profit warning molto spesso gli azionisti rispondono attraverso il ritiro della delega e della fiducia al management e, in taluni casi, chiedendone anche la messa sotto accusa. Viceversa, nella gestione della complessa economia italiana la responsabilità rimane un parametro sconosciuto all’intera classe politica, in particolar modo se “tecnica”.

    La decadenza economica del nostro Paese, ieri come oggi, nasce da una classe politica e dirigente che si dimostra sorda e cieca rispetto all’impatto dei fattori economici da loro determinati.

  • Pil ed inflazione: chi paga il differenziale

    Sembra incredibile come ancora oggi troppi esponenti, diretta espressione della linea politica economica dei partiti, continuino imperterriti a parlare di crescita economica italiana unita al raggiungimento degli obiettivi prefissati dagli ultimi governi successivi al 2013 (quindi dal governo Monti), quando i dati consuntivi, soprattutto i numeri negativi uniti alle prospettive di crescita, delineano un quadro assolutamente diverso. Uno scenario talmente fosco da assumere le tinte di una vera e propria recessione.

    I dati relativi alla crescita economica per il 2018 parlano di una crescita del PIL pari a 1,5 % (a tal proposito si ricorda che, come sempre da oltre vent’anni,a settembre si assiste ad un ritocco decimale al ribasso). Assolombarda prevede invece la crescita dell’inflazione, sempre per l’anno 2018, pari al 1,7%. Il differenziale, cioè lo 0,2%, indica chiaramente ed inequivocabilmente la decrescita reale del potere d’acquisto dei cittadini, quindi da una vera e propria recessione del valore nominale nella capacità di acquisto, espressione forse impropria ma reale di una recessione economica. Il tutto frutto di una crescita inferiore persino al tasso di inflazione, quindi essa stessa espressione di una domanda interna e conseguentemente di una frenata anche dell’export.

    La risultante dell’incrocio di questi dati delinea una situazione paradossale se confrontata con le  teorie economiche che negli ultimi anni hanno assunto la centralità della discussione economica e politica italiana.

    Il risultato di tale aumento dell’inflazione superiore al PIL viene determinato dall’importazione dell’inflazione stessa attraverso l’aumento delle materie prime, in particolare i prodotti petroliferi, come delle tariffe pubbliche, soprattutto quelle legate ai servizi offerti dalle aziende partecipate e dagli enti locali, espressione della mancanza di concorrenza ed ancora oggi di rendite di posizione. Come non ricordare la posizione favorevole all’aumento dell’IVA dei ministri Padoan e Calenda i quali si illudevano, attraverso l’impostazione dell’IVA, di ottenere l’obiettivo di ridurre il peso del debito pubblico.

    Un’opinione questa condivisa anche dal presidente della BCE Draghi il quale, nonostante la politica monetaria fortemente espansiva, non riuscì a ottenere un sostanziale aumento dell’inflazione, addirittura dirottando  la speranza nell’aumento del prezzo del greggio e dimostrando, ancora una volta, come tanto i politici italiani quanto i presidenti europei non si siano mai posti il problema di chi avrebbe pagato differenziale tra un aumento del PIL inferiore al tasso di inflazione.

    Dall’altra parte di questa contesa politica ed economica ci sono i sostenitori dell’inflazione legata magari  ad una moneta debole la quale darebbe impulso all’esportazione rendendo competitivi i prodotti italiani. In questo senso ecco allora i sostenitori del ritorno alla liretta, visionari ma soprattutto pericolosi in quanto l’inflazione provoca una sostanziale perdita del potere d’acquisto dei cittadini a reddito fisso e, di conseguenza, la nuova competitività andrebbe tutta a carico dei cittadini stessi. Agli smemorati sostenitori di questa dottrina si ricorda come negli anni ‘70 venne introdotta la scala mobile la quale a sua volta generò  nuova inflazione tanto da dover essere abolita all’inizio degli anni ‘80 per fermare la spirale inflattiva che in pratica impoveriva il ceto medio. Senza dimenticare la problematica relativa al Fiscal Drag, cioè all’aumento del prelievo fiscale allegato all’aumento dei valori nominali delle retribuzioni.

    Per quanto riguarda invece le previsioni del 2019, il grafico nella foto riporta come la nostra decrescita economica risulterà ancora maggiore in quanto il PIL crescerà solo del +1.2% (quindi con un – 0,3% di crescita economica) al quale contemporaneamente seguirà un aumento dell’inflazione pari al +1,4%.

    Il terribile combinato di frenata della crescita del PIL, unito comunque ad una infrazione che risulta superiore dello 0,2% al PIL stesso, determinerà ancora, una volta, una perdita del potere d’acquisto dei cittadini, quindi una ulteriore flessione della domanda interna che rappresenta una delle motivazioni per la quale non si riesce a trovare una crescita stabile dell’economia del nostro Paese.

    Un quadro a dir poco allarmante per non dire disastroso che evidentemente non riesce a suscitare alcuna reazione nel mondo politico come in quello economico, entrambi rivolti verso teorie  e strategie economiche  espressione di un asset economico ormai superato dal mercato globale. Si guarda al passato per non dimostrare l’incapacità di comprendere il presente e di delineare uno scenario futuro.

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