Fisco

  • Effetto Covid: in rosso col fisco il 39% delle imprese

    L’impatto del Covid sull’economia viene a galla nelle dichiarazioni fiscali delle imprese. Nell’anno d’imposta 2020, quello in cui più forte è stato l’effetto della pandemia sul Pil italiano, arretrato di ben il 9%, le dichiarazioni Ires delle società di capitali, quelle presentate cioè nel corso degli anni 2021 e 2022, sono state quasi 1,3 milioni, in crescita dell’1,4% rispetto all’anno precedente. Ma se il 54% delle aziende ha dichiarato un reddito d’impresa rilevante ai fini fiscali (in netto calo rispetto al 64% all’anno precedente) e il 7% ha chiuso l’esercizio in pareggio, ben il 39% ha dichiarato una perdita, mostrando in questo caso un deciso aumento rispetto al 29% registrato nel 2019.

    I dati appaiono dalle statistiche del Dipartimento delle Finanze del Mef secondo cui il reddito fiscale dichiarato, pari a 162,8 miliardi di euro, ha subito una riduzione dell’11,6%. Tra i settori che hanno registrano una contrazione maggiore del reddito compaiono innanzitutto quelle più colpite dalle restrizioni Covid: quindi le attività dei servizi di alloggio e ristorazione (-75%), il trasporto e magazzinaggio (-43%) e poi le “attività finanziarie” (-20%).

    La perdita fiscale complessiva è salita a 86,3 miliardi di euro, con un incremento del 49%. L’aumento delle perdite ha colpito anche in questo caso in particolare il settore alloggio e ristorazione, il cui valore è triplicato rispetto al 2019, e il trasporto e magazzinaggio, con un valore raddoppiato rispetto al 2019. Nel 2020, precisa ancora il ministero dell’Economia, le società di capitali hanno dichiarato un imponibile di 129,2 miliardi di euro (-13,1% rispetto al 2019). Quelle che hanno dichiarato imposta sono pari al 50,3% del totale, in forte diminuzione rispetto l’anno precedente; il rimanente 49,7% non ha dichiarato imposta o ha un credito.

    Andamento al ribasso infine anche per l’Irap: il numero dei soggetti che hanno presentato la dichiarazione è stato di 3,3 milioni (-2,1% rispetto al 2019). La contrazione ha interessato in misura prevalente le persone fisiche (-4,5% rispetto al 2019) e le società di persone (-3,7% rispetto al 2019), a causa soprattutto della forza attrattiva del regime forfettario.

  • La coincidenza fiscale

    Già precedentemente si era accennato alla volontà dell’Unione Europea di spostare sugli immobili quella nuova tassazione aggiuntiva  con l’obiettivo di fornire nuove risorse finanziare all’Unione Europea, in considerazione anche delle conseguenze economiche causate dalla  pandemia ed ora della guerra in Ucraina.

    Contemporaneamente nel nostro Paese, quando ancora si dovevano affrontare i terribili esiti e conseguenze della pandemia in campo economico e si avvicinavano i primi venti di guerra, il governo in carica ha approvato con successo una riforma del catasto giustificandone l’aggiornamento con una ricerca di maggiore equità e di una maggiore  giustizia fiscale nella tassazione degli immobili. Una riforma definita ad impatto Zero, cioè lasciando inalterato il carico fiscale complessivo.

    Un adeguamento ed aggiornamento nell’accatastamento immobiliare comporta inevitabilmente, pur ad  aliquote invariate, un aumento delle entrate fiscali  e quindi come logica conseguenza, sempre che  l’obiettivo fosse rimasto quello di mantenere inalterato il gettito fiscale, si sarebbe dovuta prevedere ed allestire una diminuzione delle aliquote per gli  immobili già correttamente accatastati.

    Tornando alle strategie fiscali, probabilmente le due iniziative, quella  europea e quella  italiana,  possono venire considerate assolutamente “indipendenti ” e prive di alcuna sinergia tra le due autorità istituzionali tanto da considerare  questa casualità come una semplice “coincidenza  fiscale”.

    Al tempo stesso la riforma catastale, anche se  intesa come monitoraggio dell’asset stesso, si  potrebbe anche salutarla come inevitabile ma non si può non prendere in considerazione come questa stessa  rappresenti, all’interno delle strategie europee, il  veicolo ideale  per l’aumento dell’imposizione fiscale sugli immobili e specialmente per la prima casa.

    Una strategia fiscale la quale può assumere  dei connotati drammatici all’interno della specificità del nostro Paese. Basti ricordare in questo senso come in Francia il carico fiscale relativo alla prima casa risulti del 7,6  per mille (1.000), in Germania venga calcolata in modo molto simile al l’IMU, mentre in Italia va dal 2 al 7% (100).

    Ancora una volta, quindi, l’immensa differenza dell’insopportabile carico fiscale italiano sembra destinato a trovare una ulteriore conferma anche per possibile aumento della  fiscalità sulla prima casa imposta dall’Unione Europea grazie all’aggiornamento del catasto.

    Ancora una volta la classe politica della sua completezza non considera quindi la specificità fiscale italiana la quale presenta  una tassazione già ampiamente sopra la media. Contemporaneamente viene dimostrato, ancora una volta, come l’eccessivo carico fiscale complessivo  rappresenti Il primo motivo della mancata crescita economica  del nostro Paese.

    In più, anche se di genesi europea, ad un ulteriore aggravio fiscale dovranno venire imputate  le condizioni deterrenti  di quella crescita ancora oggi troppo debole nel  nostro Paese riducendolo a rappresentare l’ultimo nella classifica dei paesi nel raggiungimento dei livelli economici pre pandemia.

    L’azione combinata del carico fiscale nazionale unito ad una nuova imposizione fiscale europea probabilmente ridurranno ulteriormente le possibilità di quella crescita del  sistema economico italiano e contemporaneamente accresceranno il potere della classe politica governativa responsabile della gestione di  questa spesa pubblica.

    Questa coincidenza fiscale dimostra, ancora una volta, come la classe politica governativa italiana non abbia ancora compreso l’effetto devastante per il Paese di un ulteriore carico fiscale sulle potenzialità di crescita del sistema economico italiano.

  • L’Inquisizione fiscale e lo stato confessionale

    L’inquisizione rappresentava l’istituzione ecclesiastica creata per indagare attraverso un tribunale le teorie contrarie alla ortodossia cattolica. Con “soli” pochi secoli di ritardo il nostro Paese adotta ora, nel XXI secolo appunto, il medesimo principio della supremazia statale confessionale adottata in campo fiscale attualizzando metodi e tecniche simili a quelle dell’inquisizione ma sintonizzate con l’era digitale.

    Al processo del XVI secolo come strumento di indagine viene introdotto il monitoraggio di tutte le transazioni economiche anche per importi minimi attraverso l’applicazione di rilevazioni algoritmiche.

    Un controllo assolutamente invasivo effettuato ex ante, quindi non a seguito di una “notizia di reato” come in ogni democrazia ma semplicemente alla ricerca di una motivazione o quantomeno di un plausibile dubbio tale da giustificare la stessa indagine esplorativa.

    In altre parole viene meno il principio costituzionale basato sulla presunzione di innocenza del cittadino e quindi si adottata invece quello legato alla semplice ricerca di una potenziale eresia fiscale tale da giustificare la stessa. Prova di questo infausto declino della nostra democrazia verso uno stato confessionale del quale l’inquisizione fiscale rappresenta il braccio operativo va ricercata già nella terribile “riforma” introdotta dal ministro Tremonti il quale impose in ambito delle controversie fiscali l’inversione dell’onere della prova. Praticamente sull’eretico fiscale venne scaricato ogni onere di negazione della propria eresia fiscale.

    Così, ora, si obbliga il cittadino a dimostrare la propria innocenza invece di assegnare allo Stato, come avviene in ogni sistema democratico, il compito di dimostrare la sua colpevolezza in ragione della presunzione di innocenza.

    Questa sistematica e continua “medioevo-luzione” del sistema democratico italiano nasce dal furore ideologico di una parte degli esponenti politici e della stessa Sacra Inquisizione oggi rappresentata dai vertici della pubblica amministrazione, assolutamente intoccabile esattamente come le cariche ecclesiastiche.

    In questo contesto nessun valore viene attribuito alla conoscenza in quanto si ignora come la stessa evasione fiscale rappresenti esattamente un quarto rispetto agli sprechi della pubblica amministrazione (200 mld, fonte Cgia) la cui dilapidazione non suscita alcuna indignazione presso la classe politica.

    Non ancora sazi di questa invasione dello Stato, e di chi in suo nome opera nella privacy dei sudditi, ma sempre più motivati da un crescente ardore ideologico di stampo medievale nel 2022, in piena crisi economica, il governo in carica ha inserito un’altra alquanto folle norma alla già preoccupante evoluzione dell’economia pandemica: quella del limite all’uso del contante a 1.000 euro.

    Al di là dei risibili effetti che questa norma potrà avere nei confronti dell’evasione fiscale, la quale in buona parte risulta legata ad esterovestizioni di società italiane, in questo demenziale decreto governativo si prevede contemporaneamente per le persone provenienti dall’estero un limite di 15.000 euro all’uso dello stesso contante.

    Ancora una volta assistiamo all’ennesima dimostrazione di come lo Stato italiano consideri sempre e comunque i propri cittadini come dei veri sudditi fiscali.

    In ambito fiscale lo Stato confessionale disattende clamorosamente il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ponendo una discriminante in relazione alla residenza fiscale dei consumatori e, di conseguenza, con diversi limiti imposti.

    Sempre e solo per il vile denaro del quale uno Stato assolutamente irresponsabile risulta sempre più assetato, ci si è illusi di avere secolarizzato la nostra democrazia quando invece si è assistito ad una semplice sostituzione. Oggi il nostro Paese ha assunto i connotati di uno Stato Confessionale all’interno del quale la religione ha ceduto il posto ad un integralismo statocentrico di stampo Socialista incompatibile con qualsiasi forma di democrazia.

  • La logica fiscale

    Una delle riforme che l’Europa ci chiede per l’assegnazione dei finanziamenti del PNRR è relativa ad una riforma fiscale complessiva ed articolata che riguardi anche quella del catasto. L’obiettivo primario del governo in carica è ovviamente quello di ottenere i finanziamenti promessi dall’Unione Europea ma altrettanto importante sarebbe mostrare la medesima attenzione verso una reale riduzione del carico fiscale verso i contribuenti e le imprese. In questo contesto ricordare le condizioni attuali del sistema fiscale italiano può venire in aiuto.

    Nel 2020, in piena pandemia quindi, la pressione fiscale è aumentata dal 42,3 al 42,8% come espressione di una strategia economico-politica esattamente opposta rispetto a quella, per esempio, della Germania. Il governo di Angela Merkel ha diminuito l’Iva con l’obiettivo di fornire gli strumenti economici necessari per invertire il trend pandemico dell’economia. Da questo semplice confronto tra sistemi economici concorrenti (le due maggiori realtà manifatturiere europee) emerge chiaro come non si possa considerare sufficiente la rassicurazione di una riforma fiscale a somma zero per i contribuenti espressa dal governo in carica. Una riforma fiscale dovrebbe garantire, inoltre, una maggiore equità e, nello specifico del caso italiano, contemporaneamente ridurre la pressione complessiva in quanto il Total Tax rate italiano ha raggiunto l’insostenibile percentuale indicata al 59,9% (fonte Rapporto Payng Taxes 2020).

    Se l’obiettivo dichiarato della riforma del catasto è riuscire a fare emergere oltre un milione di immobili non accatastati ai quali applicare ovviamente una fiscalità, questa emersione dovrebbe quindi dimostrare delle conseguenze positive anche per i contribuenti oltre che per le finanze pubbliche. Partendo dal raggiungimento di questo obiettivo programmatico e lasciando invariati i saldi della pressione fiscale sugli immobili come all’art.7 “…Il relativo valore patrimoniale e una rendita attualizzata” non verranno utilizzati per “…la determinazione della base imponibile dei tributi”

    Cosi viene rappresentato di per sé un aumento della pressione fiscale in quanto l’invarianza dei saldi a fronte di nuovi contribuenti, e quindi nuovo gettito, sarebbe raggiunta solo ed esclusivamente attraverso una contemporanea riduzione delle aliquote applicate. In più, la sola ipotesi di un aumento dell’Iva sui consumi energetici, quando andrebbero sostanzialmente diminuite le accise sui carburanti anche solo per attenuare l’ondata inflattiva, non depone a favore della filosofia adottata dal governo nella elaborazione della riforma fiscale.

    Rimodulare le aliquote sull’Irpef come la riduzione dell’Irap rappresentano un obiettivo importante ed assolutamente condivisibile esattamente quanto una prima ed ovviamente parziale riduzione della pressione complessiva.

    L’attenuazione dell’ormai insostenibile peso fiscale rappresenta l’unica strategia nell’immediato in grado di offrire un sostegno alla domanda interna e quindi un aiuto alla ripresa dei consumi “domestici” il cui effetto risulta ancora oggi ampiamente sottostimato all’interno di una crescita sostanziale di un’economia, anche in considerazione dell’andamento delle retribuzioni e di un possibile malefico ritorno del fiscal drag con l’avvio ormai conclamato di una stagione a forte reflazione. Emergendo nuovi contribuenti con la riforma del catasto e con la sempre promessa della lotta all’evasione, e quindi con un nuovo gettito, allora le dinamiche di una politica fiscale si riducono sostanzialmente a due. Lasciando invariate le aliquote il nuovo gettito si sommerà al precedente (1) determinando un ulteriore aumento della stessa pressione anche se a saldi costanti oppure si utilizzerà l’intero ammontare (2) delle nuove risorse fiscali per allentare la presa fiscale non solo per le aziende ma anche riducendo le tasse di consumo e fornire così, per la prima volta nella storia del nostro Paese, un sostegno alla domanda interna. Un fattore economico da sempre dimenticato anche se “sostenuto” da risibili lotterie degli scontrini o cash back degni più del gioco del Monopoli che di una politica economica di un paese serio.

    Non può esistere concettualmente una riforma fiscale a saldi invariati che non preveda l’abbassamento delle aliquote a fronte di un aumento delle risorse disponibili. Una questione di logica più che di matematica.

  • L’Europarlamento chiede di rivedere la compilazione della lista Ue dei paradisi fiscali

    Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui invita a modificare il sistema utilizzato per redigere la lista Ue dei paradisi fiscali perché lo ritiene “confuso ed inefficace”. Il testo è stato approvato con 587 voti favorevoli, 50 contrari e 46 astensioni. L’elenco Ue dei paradisi fiscali, istituito nel 2017, ha avuto finora un “impatto positivo”, ma non è stato “all’altezza del suo potenziale in quanto le giurisdizioni che attualmente contiene coprono meno del 2% delle perdite di gettito fiscale a livello mondiale”, afferma il Parlamento Ue. Nella risoluzione non legislativa approvata oggi, che completa il dibattito di mercoledì sera con la Presidenza del Consiglio e la Commissione, l’attuale sistema viene definito appunto “confuso ed inefficace”.

    Gli eurodeputati propongono delle modifiche che renderebbero il processo di valutazione di un Paese più trasparente, coerente e imparziale. In particolare, dovrebbero essere aggiunti alcuni criteri per garantire che più Paesi vengano considerati dei paradisi fiscali ed evitare che un paese venga rimosso dall’elenco troppo rapidamente. I Paesi Ue non dovrebbero essere esclusi dall’analisi per vedere se presentano qualche caratteristica di paradiso fiscale, e quelli che non superano tale verifica dovrebbero essere considerati a loro volta paradisi fiscali. Secondo l’Europarlamento, il criterio per giudicare se un sistema fiscale di un paese sia equo o meno deve essere rivisto e ampliato, per includere ulteriori pratiche e non solo le aliquote fiscali preferenziali. La recente rimozione delle Isole Cayman dall’elenco, mentre nel Paese si applica una politica di aliquote fiscali dello 0%, rappresenta una prova sufficiente delle mancanze del sistema di valutazione. Tra le altre misure proposte, i deputati chiedono che tutte le giurisdizioni con un’aliquota d’imposta sulle società pari allo 0% o senza imposte sugli utili delle società vengano automaticamente inserite nell’elenco dei paradisi fiscali.

    Il Parlamento Ue vorrebbe requisiti più severi: la rimozione di un Paese dall’elenco non dovrebbe essere il risultato di modifiche del sistema fiscale puramente simboliche. Secondo i deputati, ad esempio, le Isole Cayman e le Bermuda sono state rimosse dall’elenco in seguito all’introduzione di cambiamenti “minimi” e di “misure di esecuzione deboli”. Il Parlamento europeo chiede, dunque, criteri di screening più severi, nonché che tutti i Paesi terzi vengano trattati e valutati in modo equo e utilizzando gli stessi criteri, mentre a suo parere l’elenco attuale dimostra il contrario. La mancanza di trasparenza con cui l’elenco viene redatto e aggiornato rappresenta un’ulteriore perplessità. Pertanto – recita la nota diffusa dall’Europarlamento – il processo di elaborazione della lista deve essere formalizzato attraverso uno strumento giuridicamente vincolante.

    Dopo la votazione, il Presidente della sottocommissione parlamentare per le questioni fiscali (FISC), Paul Tang (S&D, NL) ha affermato: “Definendo ‘confuso ed inefficiente’ l‘elenco UE dei paradisi fiscali, il Parlamento europeo dice le cose come stanno. La lista può essere un valido strumento, ma gli Stati membri hanno dimenticato qualcosa quando l’hanno compilata: i paradisi fiscali veri e propri. L’elenco infatti non sta migliorando, sta peggiorando. Guernsey, le Bahamas e ora le Isole Cayman sono solo alcuni dei ben noti paradisi fiscali che gli Stati membri hanno tolto dalla lista. Rifiutandosi di affrontare adeguatamente l’evasione fiscale, i governi nazionali stanno deludendo le aspettative dei loro cittadini per oltre 140 miliardi di euro. Soprattutto nel contesto attuale, ciò è inaccettabile”. “Per questo motivo, il Parlamento europeo condanna la recente rimozione delle Isole Cayman dall’elenco e chiede maggiore trasparenza e criteri più severi. Inoltre, bisogna anche guardarsi allo specchio: i Paesi Ue sono responsabili del 36% dei paradisi fiscali”, ha aggiunto.

  • Entrate fiscali da gennaio a ottobre inferiori di 22 miliardi rispetto al 2019

    Covid-19 si abbatte, come previsto, sulle entrate con i primi 10 mesi decisamente più magri per l’Erario: -22 miliardi in tutto rispetto all’anno scorso. E di questi più della metà è legato al calo del gettito Iva per gli slittamenti. Si assottigliano anche le entrate per i controlli che nel frattempo sono stati fermati. Crollo per i giochi (-4.502 milioni di euro, -35,0%). Ma – avverte il Mef – i dati dei due anni sono ‘disomogenei’ e quindi poco significativi. Questo per l’inclusione nei versamenti di quest’anno di quelli dei contribuenti Isa e “minimi o forfettari”. Inoltre – secondo quanto l’Esecutivo spiega nella bozza del Recovery- “il gettito fiscale ha superato le previsioni, grazie alle misure anti-evasione introdotte negli ultimi anni (compresa la fatturazione digitale obbligatoria). I proventi di una migliore conformità fiscale saranno accantonati in un fondo che finanzierà in parte la riforma fiscale e sosterrà in parte i riacquisti di titoli di Stato”.

    Intanto nel periodo gennaio-ottobre 2020, – spiega il Ministero dell’Economia – le entrate tributarie erariali accertate in base al criterio della competenza giuridica ammontano a 337.368 milioni di euro, segnando una riduzione di 22.462 milioni di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-6,2%). “La variazione negativa – commenta il ministero – riflette sia il peggioramento congiunturale sia le misure adottate dal governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria e, in particolare, quelle che hanno sospeso o hanno ridotto i versamenti di alcuni tributi per specifiche categorie di contribuenti”. Ad esempio per le attività di accertamento e controllo nei primi 10 mesi dell’anno il gettito si è attestato a 6.816 milioni (-3.029 milioni di euro, pari a -30,8%) di cui: 3.097 milioni di euro (-2.186 milioni di euro, -41,4%) sono affluiti dalle imposte dirette e 3.719 milioni di euro (-843 milioni di euro, -18,5%) dalle imposte indirette. I dati – si spiega – risultano influenzati dal decreto “Cura Italia” che aveva già sospeso i termini di versamento delle entrate tributarie e extratributarie derivanti da cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione nel periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020, ulteriormente prorogati dal Decreto Rilancio fino al 31 agosto. Il recente D.L. n.104 ha prorogato, dal 31 agosto al 15 ottobre, il termine della sospensione della notifica di nuove cartelle e dell’invio degli atti della riscossione disponendo, inoltre, la sospensione dei pagamenti relativi a cartelle, avvisi di addebito e avvisi di accertamento esecutivi in scadenza dall’8 marzo: il pagamento dovrà essere effettuato entro il 30 novembre 2020. Da ultimo, – ricorda il Mef – il recente decreto legge n.129 dello scorso 20 ottobre ha differito al 31 dicembre 2020 il termine di sospensione del versamento di tutte le entrate derivanti da cartelle di pagamento, avvisi di addebito e avvisi di accertamento affidati all’agente della riscossione.

    Per quanto riguarda le imposte indirette ammontano nei primi 10 mesi dell’anno a 143.013 milioni di euro con una diminuzione di 23.806 milioni di euro (-14,3%). Il notevole calo – spiega il Mef – è imputabile principalmente alla riduzione dell’Iva (-12.333 milioni di euro pari a -12%) e in particolare alla componente scambi interni (-9.020 milioni di euro pari a -9,9%), per effetto del rinvio dei versamenti dell’Iva. Il gettito sulle importazioni registra nel periodo un calo pari a -3.313 milioni di euro (-28,3%).

    Il risultato dei primi 10 mesi del 2020 rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, presenta comunque elementi di disomogeneità dovuti all’inclusione nei versamenti di quest’anno di quelli dei contribuenti ISA e “minimi o forfettari” che, nell’anno 2019, avevano versato a scadenze differite per effetto della proroga dei versamenti. Per questa ragione – spiega il Mef – il confronto tra i due periodi, in particolare per le imposte autoliquidate Irpef, Ires e imposte sostitutive collegate all’autoliquidazione, risulta poco significativo.

  • Al fisco gli immigrati rendono 18 miliardi

    In Italia le tasse e i contributi dei lavoratori stranieri valgono 18 miliardi. C’è un basso impatto sulla spesa pubblica: il saldo costi/benefici è di +500 milioni. Mentre dalla “sanatoria” 2020 ci potrebbe essere un gettito potenziale di 360 milioni annui. Gli occupati stranieri oggi producono il 9,5% del Pil italiano, ovvero 147 milioni di euro (l’anno scorso era il 9%), ma il potenziale è frenato da lavoro nero e presenza irregolare. E’ quanto emerge dall’edizione 2020 del Rapporto annuale sull’economia

    dell’Immigrazione dal titolo “Dieci anni di economia dell’immigrazione”, a cura della Fondazione Leone Moressa. Lo studio è stato redatto con il contributo della Cgia di Mestre e il patrocinio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), dei ministeri degli Esteri e dell’Economia e dell’Università Cà Foscari di Venezia.

    Dal 2011 l’Italia ha di fatto, evidenzia il Rapporto, chiuso la porta agli immigrati extra-comunitari in cerca di lavoro, che per entrare in Italia hanno potuto usare solo i ricongiungimenti familiari o le richieste d’asilo. Oggi gli occupati stranieri in Italia sono 2,5 milioni e negli ultimi 10 anni sono aumentati di 600mila unità (+31% dal 2010). È un’occupazione concentrata prevalentemente nelle professioni meno qualificate, pertanto al momento è complementare rispetto all’occupazione italiana. I lavoratori stranieri sono prevalentemente uomini (56,3%) e 7 su 10 hanno un’età compresa tra 35 e 54 anni. Oltre la metà ha come titolo di studio la licenza media, mentre solo il 12% è laureato. Il valore aggiunto generato dai lavoratori stranieri è di 146,7 miliardi di euro, pari 9,5% del Pil. Valore ridimensionato, evidenzia il Rapporto, da presenza irregolare, lavoro nero e poca mobilità sociale.

    Altro aspetto sottolineato nel rapporto è che gli stranieri sono in aumento, ma gli ingressi per lavoro sono in calo. Dal 2010 ad oggi gli stranieri residenti in Italia sono passati da 3,65 a 5,26 milioni (+44%), arrivando a rappresentare l’8,7% della popolazione (e superando il 10% in molte Regioni). Tuttavia, i nuovi permessi di soggiorno sono complessivamente diminuiti del 70%, a causa di una riduzione drastica di quelli per lavoro (-97%): gli stranieri (extra-comunitari) oggi arrivano soprattutto per ricongiungimento familiare o motivi umanitari.

    Nel documento un capitolo è dedicato all’espansione delle imprese straniere. Nell’ultimo decennio l’imprenditoria straniera, infatti, è stata uno dei fenomeni più significativi: gli imprenditori nati in Italia sono diminuiti (-9,4%), mentre i nati all’estero sono aumentati (+32,7%). Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, ma la crescita più significativa si registra tra gli imprenditori del Bangladesh e del Pakistan. Il 95% delle imprese a conduzione straniera è di proprietà straniera “esclusiva”, quindi senza soci italiani. Le imprese straniere producono un valore aggiunto di 125,9 miliardi, pari all’8,0% del totale. L’incidenza maggiore si registra nell’edilizia (18,4% del valore aggiunto del settore).

    Per quanto riguarda l’impatto fiscale per l’Italia ci sono più benefici che costi. I contribuenti stranieri in Italia sono 2,29 milioni e nel 2019 hanno dichiarato redditi per 29,08 miliardi e versato Irpef per 3,66 miliardi. Sommando addizionali locali e contributi previdenziali e sociali si arriva a 17,9 miliardi. Oggi il saldo tra entrate (Irpef, Iva, contributi, ecc.) e costi (scuola, sanità, pensioni, ecc.) dell’immigrazione è ancora positivo (+500 milioni). Gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, principali voci della spesa pubblica. Ma i lavori poco qualificati e la poca mobilità sociale – avverte lo studio – possono portare nel lungo periodo ad un saldo negativo.

     

     

  • L’Olanda ed il meridione d’Italia…

    Nell’ultimo periodo caratterizzato dalla crisi da Covid 19 le diverse normative fiscali e soprattutto le diverse aliquote applicate dai diversi Stati in Europa hanno suscitato grandissime critiche in particolar modo in Italia.

    L’Olanda, in particolare, anche per l’opposizione del suo governo alla destinazione di risorse finanziarie a fondo perduto per i paesi colpiti dalla pandemia, rappresenta il primo soggetto, assieme all’Irlanda e al Lussemburgo, di tali critiche grazie alle proprie aliquote molto basse applicate ai redditi di impresa. Sfruttando il giusto principio della libertà intraeuropea molte aziende infatti hanno scelto come sede fiscale della  holding di controllo proprio l’Olanda, avvantaggiandosi quindi di una pressione fiscale molto inferiore rispetto, per esempio, a quella italiana. Il principio della concorrenza che il mercato globale applica senza alcuna correzione o attenuazione al mondo dei beni e dei servizi forniti da soggetti privati evidentemente non vale all’interno di una Comunità Europea versione moderna dell’iniziale Mercato Unico Europeo (MEC).

    La miopia politica, o meglio, lo strabismo espressione di una ideologia politica  trasforma, in più, l’applicazione di questo principio di concorrenza quale giudizio fortemente negativo in ambito europeo addirittura in una espressione di un valore aggiunto nel caso venga applicato al meridione d’Italia. Il governo in carica, infatti, ha annunciato un taglio delle imposte per le piccole e medie imprese che risiedono al Sud cercando di incentivarne l’attività e magari anche la creazione di nuove. Questa decisione assolutamente legittima è esattamente la copia della politica olandese applicata all’interno dei confini dell’Unione Europea.

    Nel suo complesso, quindi, questa politica di fiscalità di vantaggio applicata all’interno dei confini italiani si rivela come una concorrenza fiscale assolutamente negativa nei confronti delle imprese che nella loro maggior parte risiedono nel nord Italia. Paradossale poi se si considera che quello che viene fortemente criticato nell’ambito dell’Unione Europea, cioè il principio di “fiscalità di vantaggio di uno Stato rispetto ad un altro per agevolare la migrazione di aziende ed holding estere”, subisca una metamorfosi, qualora applicato in Italia, “in fattore positivo e propositivo finalizzato ad una politica economica di espansione”.

    I principi, che siano legali, economici o fiscali, rappresentano il proprio valore indipendentemente dal perimetro nazionale o internazionale all’interno del quale vengano applicati. Paradossale come chi abbia criticato la posizione olandese ora manifesti la sfacciataggine di dichiarasi apertamente favorevole ad una fiscalità proprio di tipo “olandese” (quindi di vantaggio ed in applicazione del principio della concorrenza) per il Sud del nostro paese la quale ovviamente penalizzerà ancora una volta le industrie del Nord. Le strategie economiche ma anche le stesse posizioni politiche rimangono poche ma ben confuse.

  • Ostacolo sulla via del trasferimento in Olanda della sede di Campari

    Tegola recesso sul trasferimento della sede legale (non fiscale) di Campari in Olanda. L’operazione, per il momento, sembra allontanarsi visto che il diritto di recesso, concesso ai soci contrari all’operazione, è stato esercitato dal 4% del capitale, per un controvalore complessivo di 385 milioni di euro, valore che supera significativamente la soglia di 150 milioni prevista dalla società quale condizione sospensiva del trasferimento.

    Ora le azioni recedute, pari a circa 46 milioni, dovranno in primo luogo essere offerte (dal 22 maggio al 21 giugno) agli azionisti che non abbiano esercitato il proprio diritto di recesso. Ma, ha sottolineato Campari, “alla luce delle attuali condizioni di mercato, è realistico presumere che – anche tenendo conto dell’impegno dell’azionista di controllo, Lagfin, ad acquistare le azioni fino a un ammontare di 76,5 milioni di euro – il controvalore complessivo delle azioni recedute che è probabile restino non acquistate ecceda significativamente la soglia di 150 milioni prevista quale condizione sospensiva. Qualora si verificasse questa ipotesi, il cda potrà evitare il perfezionamento dell’operazione che genererebbe un costo ritenuto irragionevole per la società semplicemente in virtù del mancato avveramento della condizione sospensiva”. Per cui Campari, pur confermando il proprio impegno a completare l’operazione, ritiene che, vista l’onerosità, non sia oggi nell’interesse della società proseguire con il trasferimento. Il gruppo aveva fissato in 8,376 euro il prezzo di recesso, mentre il corso azionario da fine febbraio a oggi, complice l’emergenza Covid, ha sempre visto il titolo viaggiare ben sotto quella soglia, così molti soci hanno preferito passare all’incasso.

    La decisione di Campari di trasferire la sede legale nei Paesi Bassi era legata, tra l’altro, al potenziamento del sistema di voto maggiorato, già adottato dal gruppo, volto a valorizzare un azionariato con orizzonte d’investimento a lungo termine. Proprio per arginare gli spostamenti delle sedi legali delle società italiane all’estero, il Governo in fase di stesura del Dl Rilancio aveva introdotto il voto plurimo, dando la possibilità alle società quotate di derogare alla regola “one share one vote”, ma la sua introduzione è poi scomparsa nella versione finale del decreto. Già alcune società hanno fatto le valigie per traslocare in Olanda la propria sede legale e sfruttarne la maggiore flessibilità delle regole in materia di governance societaria e un diritto societario estremamente semplificato. Fca, Ferrari ed Exor hanno nei Paesi Bassi la loro sede legale. Sede legale ad Amsterdam è prevista anche per MFE, la holding che raggrupperà le attività italiane e spagnole del gruppo Mediaset, mentre lo è già per la Cementir di Caltagirone. In stand-by, per ora, Campari.

  • Soldi investiti? No, sono in fuga

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** apparso su ‘ItaliaOggi’ il 23 maggio 2020 

    Gli investimenti diretti esteri (Fdi è l’acronimo in inglese) possono avere un ruolo molto importante per lo sviluppo economico, per l’aumento della produttività e dell’occupazione e per l’integrazione internazionale. Perciò, tutti i Paesi sono interessati ad attrarli. Vari centri studi, tra cui quelli dell’Ocse e del Fmi, ritengono che ammontino a oltre 40 mila mld di dollari.

    Però, di questi, almeno 15 mila miliardi, pari a quasi il 40% del totale, sarebbero «investimenti fantasma», registrati in alcuni Paesi noti come dei paradisi fiscali, allo scopo, soprattutto, di evitare di pagare le tasse o per pagarne il meno possibile. La situazione, anche in questo campo, invece di essere stata sottoposta a controlli e a restrizioni, è peggiorata dopo la Grande Crisi del 2008, quando la percentuale era del 30%.

    Altri studi confermano che, oltre ai citati investimenti diretti esteri, anche il 40% dei profitti delle stesse multinazionali finisce nei paradisi fiscali. Ciò avviene nonostante che dal 1985 al 2018 il «global corporate tax rate», la media mondiale della tassazione sui profitti delle imprese, sia scesa dal 49 al 24%. Nel 2015 il profitto globale delle multinazionali è stato di 1.700 miliardi di dollari. Si calcola che di questi il 36%, circa 600 miliardi, sia stato «dirottato» nei paradisi fiscali.

    Si possono definire «investimenti fantasma» perché sono trasferimenti, oltre i vari confini, fatti da imprese che fanno parte dello stesso gruppo internazionale, passando attraverso dei «contenitori» vuoti localizzati nei paradisi fiscali. Questi contenitori sono dei veicoli che non sono coinvolti in alcuna attività reale. Servono soltanto per i giochi fiscali. È sorprendente che la metà degli investimenti fantasma transiti in due Paesi dell’Ue, Olanda e Lussemburgo, ben noti paradisi fiscali! Cosa sicuramente scandalosa e inaccettabile, ancora di più adesso che l’Europa si trova in grave emergenza economica per gli effetti della pandemia Covid-19. Se a loro si aggiungessero Hong Kong, le Virgin Islands britanniche, Bermuda, Singapore, le isole Cayman, la Svizzera, l’Irlanda e Mauritius, questo gruppo di dieci Paesi sarebbe responsabile per l’85% degli «investimenti fantasma».

    Nel piccolo Lussemburgo, per esempio, arrivano investimenti esteri pari a 4mila mld $, tanto quanti gli Usa e più di quelli della Cina. Naturalmente per attrarre così tanti investimenti virtuali i paradisi fiscali e i centri off-shore offrono un livello di tassazione molto basso, molto più basso dei Paesi dove sono realizzate le attività reali. Offrono, inoltre, una serie di altri servizi, quali l’anonimato, la scarsa trasparenza e un sistema giuridico a dir poco compiacente. Offerte molto apprezzate da chi vuole evadere o eludere la tassazione ed evitare controlli più stringenti sulle proprie attività.

    Negli anni Ottanta, l’Irlanda aveva una tassa sui redditi d’impresa del 50%. Oggi è del 12,5%. La legge irlandese si presta anche a «soluzioni fiscali creative». Si pensi all’operazione chiamata «doppia birra irlandese con un panino olandese», che prevede il trasferimento dei profitti di multinazionali registrate in Irlanda e in Olanda verso le isole Cayman. In questo modo sembra che le corporation in questione arrivino addirittura a pagare zero tasse, o quasi. Inoltre, in Irlanda il rapporto profitto/salari è pari all’800%, poiché le imprese straniere registrate nel Paese possono dire di avere dei profitti altissimi in rapporto ai pochi lavoratori dipendenti in loco.

    Spesso economisti e analisti male informati o interessati portano l’Irlanda, per la sua bassa tassazione e la sua crescita del Pil, come esempio di gestione virtuosa. Ma dimenticano di dire che gli alti ricavi derivano soprattutto dagli investimenti esteri che arrivano nel Paese proprio per la bassa tassazione. È stato calcolato che, se tutti i Paesi del mondo applicassero la stessa tassa sui redditi delle imprese, le fughe verso i paradisi fiscali quasi scomparirebbero. Ciò produrrebbe un aumento delle entrate fiscali del 15% nei Paesi Ue e del 10% negli Usa e una loro diminuzione del 60% nei paradisi fiscali.

    Queste problematiche sono emerse prepotentemente anche in Italia in seguito alla richiesta di credito avanzata al governo dalla Fiat per ben 6,3 miliardi di euro. Fca, com’è noto, opera in Italia ma ha la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna. In Europa la concorrenza relativa alla tassazione dei profitti delle multinazionali ha assunto aspetti intollerabili. Si pensi soltanto che ben 6 Paesi, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Malta e Cipro, che hanno fatto parte del gruppo originario dell’Unione prima della sua estensione all’Est Europa, sono considerati paradisi fiscali!

    Una seria riforma fiscale a livello europeo, che valga per tutti i 27 Paesi Ue, non è più rinviabile. È necessaria, urgente e decisiva per l’effettiva realizzazione dell’Europa unita e federale.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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