Genocidio

  • L’ambasciata cinese a Roma rigetta le accuse di genocidio degli Uiguri

    “L’ambasciata cinese in Italia prende atto che oggi alcuni media italiani hanno approfittato di alcune vicende cinesi per speculare di nuovo sulle questioni relative allo Xinjiang. I reportage pertinenti si discostano seriamente dai fatti e le cosiddette ‘prove’ si basano su una grande quantità di informazioni false. Su questo manifestiamo la nostra ferma obiezione”. Lo si legge in una nota della rappresentanza diplomatica di Pechino a Roma dopo che fonti di stampa hanno messo in relazione il forfait dell’ambasciatore cinese Jia Guide ad una cena di gala il 22 maggio, in occasione dell’inaugurazione in Arsenale dell’atteso padiglione della Cina alla Biennale Architettura in corso a Venezia con la presenza alla stessa Biennale di un’installazione olandese in cui si denuncia la situazione nei campi di rieducazione nello Xinjiang.

    “Innanzitutto – afferma l’ambasciata cinese nella nota – non esiste il cosiddetto ‘genocidio’ nella Regione Autonoma dello Xinjiang Uygur. Negli ultimi 40 anni, la popolazione uigura dello Xinjiang è aumentata da 5,55 milioni a 12,8 milioni, l’aspettativa di vita media è incrementata da 30 a 72 anni. Dal 2014 al 2022, il Pil della regione è aumentato da 919,59 miliardi di yuan a 1,77 mila miliardi di yuan. Secondo lo standard attuale, 3,089 milioni di poveri sono stati tutti sottratti alla povertà e il problema locale della povertà assoluta è stato risolto. In quale parte del mondo esiste un simile ‘genocidio’?”.

    “In secondo luogo – prosegue la nota dell’ambasciata cinese riferendosi all’opera olandese – le cosiddette ‘immagini satellitari’ e le ‘testimonianze’ contenute nel reportage si sono già rivelate molte volte informazioni false. Il rapporto relativo allo Xinjiang preparato dall’Australian Strategic Policy Institute (Aspi) utilizza immagini satellitari per localizzare e ‘studiare’ lo Xinjiang. I luoghi contrassegnati come ‘campi di rieducazione’ sono in realtà strutture pubbliche e civili come edifici per uffici del governo locale, case di cura e scuole. Quei fatti sono completamente aperti e verificati e non è necessario utilizzare ‘immagini satellitari’ per ‘provare’; inoltre il Chinese Human Rights Defenders, un’organizzazione non governativa sostenuta dal governo degli Stati Uniti, tramite interviste con solo 8 uiguri e stime approssimative è giunta all’assurda conclusione che ‘su 20 milioni di persone nello Xinjiang, il 10% è detenuto nei campi di rieducazione’. Come può avere credibilità un’indagine così fittizia?”.

    “Negli ultimi anni – conclude la nota dell’ambasciata cinese a Roma – più di 2.000 esperti, studiosi, giornalisti, diplomatici, figure religiose e altre persone provenienti da più di 100 Paesi hanno visitato lo Xinjiang, hanno testimoniato di persona i risultati dello sviluppo economico e progresso sociale dello Xinjiang e hanno espresso molte voci obiettive ed eque. Esortiamo i giornalisti competenti a rispettare l’etica professionale più basilare, a comprendere e riconoscere obiettivamente la verità e a non agire come megafono di bugie relative alla Cina”.

  • Non dimenticare, per non rivivere più le atrocità del passato

    Si può perdonare, ma dimenticare è impossibile.

    Honoré de Balzac

    La scorsa settimana, il 18 aprile, ad Oswiecim, in Polonia, è stata organizzata e svolta la 35a Marcia dei Vivi. Si tratta di un’annuale celebrazione che si svolge sempre lì. Una celebrazione alla quale partecipano migliaia di studenti, ma non solo, da tutto il mondo. I partecipanti marciano silenziosi per ricordare le atrocità subite da milioni di ebrei e di altre nazioni, portati nei famigerati campi di concentramento e di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale. Un’iniziativa, quella avviata nel 1988, il cui obiettivo è di ricordare quanto è accaduto in quei campi e di non dimenticare tutte le crudeltà messe in atto consapevolmente dai nazisti. Di non dimenticare per non essere poi costretti a riviverle. Si tratta di un’attività, quella della Marcia dei Vivi, che accade ogni anno tra aprile e maggio, subito dopo il Pesach, la Pasqua ebraica. E non a caso è stata scelta quella ricorrenza, essendo il Pesach strettamente legato con l’Esodo: la liberazione degli ebrei e la loro partenza verso la Terra promessa. Le Sacre Scritture testimoniano, con il libro dell’Esodo, come gli ebrei, schiavi in Egitto, sono stati liberati da Dio, che aveva scelto Mosè per guidarli. Dopo aver attraversato, prima il mar Rosso e poi il deserto di Sinai, sono finalmente arrivati vicino alla Terra promessa dal tempo di Abramo, a Canaan, ossia la Palestina, divisa in tre regioni: la Galilea, la Samaria e la Giudea. Una volta arrivati di fronte a Canaan, Mosè chiese a suo fratello Aronne di curarsi degli ebrei mentre lui saliva sul monte Sinai per parlare con Dio e scrivere i dieci Comandamenti. Ma nel frattempo gli ebrei convinsero Aronne a fondere tutti i gioielli d’oro e di forgiare una statua raffigurante un vitello. Un vitello d’oro per essere adorato. “Ecco il tuo Dio o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Esodo; 32;4). Allora Dio disse a Mosè: “non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione” (Esodo; 32; 9-10). E solo dopo l’implorazione di Mosè, “Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al Suo popolo” (Esodo, 32; 14). Ma gli ebrei non sono potuti entrare nella terra promessa di Canaan e secondo le Sacre Scritture hanno trascorso altri quarant’anni nel deserto prima di entrarci.

    Trentacinque anni fa, nel 1988, è stata attuata la prima Marcia dei Vivi, come parte integrale di un programma educativo delle giovani generazioni degli ebrei, ma non solo. Da allora ogni anno la marcia si svolge in Polonia. Si tratta di diverse attività che durano per alcuni giorni, incluse le visite nei diversi campi nazisti di concentramento, nel ghetto di Varsavia, nonché in altri luoghi legati alla storia e alla cultura ebraica. Tutto per non dimenticare. Non si devono mai e poi mai dimenticare le atrocità subite nel passato. Non dimenticare mai per non essere costretti a rivivere e subire di nuovo le stesse o simili crudeltà. E per non dimenticare mai, la Marcia dei Vivi è stata concepita anche per ricordare altre marce, quelle che i nazisti chiamarono le marce della morte. Ossia quei lunghi percorsi fatti a piedi, oppure stipati in vagoni di treno, da migliaia di detenuti partiti dai campi di concentramento verso la parte dei territori controllati dai nazisti. Le marce della morte erano degli spostamenti forzati, soprattutto degli ebrei, ma anche di altri prigionieri, tutti malnutriti e sofferenti, nei primi mesi del 1945, quando le truppe degli alleati stavano avanzando verso Berlino. Sono stati molti i prigionieri che persero la vita durante le marce della morte. E la Marcia dei Vivi, ogni anno, nel periodo immediatamente dopo il Pesach, la Pasqua ebraica, ricorda anche le vittime delle marce della morte. Per non dimenticare mai i crimini, le crudeltà e le atrocità commesse dai nazisti prima e soprattutto durante la seconda guerra mondiale,

    E per non dimenticare mai le vittime della barbarie e della crudeltà nazista, diverse nazioni del mondo celebrano “le Giornate/i Giorni della Memoria”. Sono delle ricorrenze che ricordano tutte le atrocità subite soprattutto dagli ebrei ed attuate dai nazisti fino al 1945. Per indicare lo sterminio ed il genocidio degli ebrei perpetrato dai nazisti, dal 1933 si usano le parole shoah ed olocausto. Dal punto di vista etimologico il termine ebraico shoah significa catastrofe, distruzione e, riferendosi alle Sacre Scritture, tempesta devastante. Con questa parola si definisce anche lo sterminio degli ebrei dovuto al genocidio nazista. Mentre la parola olocausto, che deriva dal greco antico e significa “bruciato interamente”, definisce un atto di sacrificio religioso usato dai greci antichi e dagli ebrei, durante i quali degli animali venivano uccisi e poi bruciati completamente sugli altari dei templi, in modo che poi nessuna parte commestibile dell’animale sacrificato poteva essere mangiata. Da qualche decennio però, viene sempre più usata la parola shoah invece della parola olocausto. Questo soprattutto perché, riferendosi al genocidio nazista, non necessariamente è legato ad un sacrificio inevitabile come l’olocausto.

    Sempre per non dimenticare le crudeltà dei nazisti, ma non solo, prima e durante la seconda guerra mondiale, il 24 gennaio del 2005 si svolse una sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il motivo era quello di celebrare il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi nazisti di sterminio e la fine di quell’orribile periodo storico. Circa nove mesi dopo, e proprio il 1° novembre 2005, si è svolta la 42a sessione plenaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Durante quella sessione è stata approvata la Risoluzione 60/7 con la quale si stabilì che ogni 27 gennaio si celebrasse il “Giorno della Memoria”, una ricorrenza internazionale per ricordare ed onorare tutte le vittime della Shoah. E non a caso fu scelta quella data. Era proprio il 27 gennaio 1945 quando sono stati liberati tutti i detenuti rimasti nel famigerato campo di Auschwitz (il nome nella lingua tedesca riferita alla città polacca di Oświęcim nel sud della Polonia; n.d.a.). Un campo costituito nell’aprile del 1940, sfruttando le strutture di una vecchia caserma ad Auschwitz che si estendeva in un’area di circa 200 ettari. In quel campo furono portati i primi prigionieri politici polacchi nel giugno dello stesso anno. Ma siccome la superficie del campo non bastava più per i sempre crescenti flussi di prigionieri, soprattutto ebrei, allora fu deciso di allargarlo. Si costruì quello che è noto come il campo di Birkenau, costituendo quello conosciuto come il campo Auschwitz-Birkenau, il più grande campo di sterminio nazista del Terzo Reich. All’entrata del campo, sulla porta di ferro, era stata scritta in tedesco la frase “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi; n.d.a.). Una cinica e diabolica idea quella di riferirsi alla “libertà” mentre si entrava in un luogo di crudeli torture e di morte. Una scritta, quella sull’ingresso del famigerato campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, che offende la memoria delle vittime e la capacità di intendere, pensare e giudicare delle persone normali.

    Riferendosi ai dati, risulterebbe che nel campo di sterminio di Auschwitz siano stati sterminati, uccisi, bruciati vivi e morti per altre cause oltre un milione di persone. Sempre riferendosi ai dati, circa il 90% delle vittime erano degli ebrei arrivati nel campo dalla Polonia e da diversi altri Paesi europei. Ragion per cui il campo di Auschwitz-Birkenau è stato considerato come una “fabbrica della morte”. Una “fabbrica della morte” per mettere in atto quella che cinicamente e crudelmente veniva chiamata la “soluzione finale”. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1947, sul territorio della “fabbrica della morte” è stato costituito un museo memoriale, mentre nel 1979 il campo di Auschwitz-Birkenau è stato iscritto come “luogo di memoria” nell’elenco dei siti tutelati come Patrimonio mondiale dell’Unesco.

    E proprio lì, ad Oświęcim (Auschwitz), la scorsa settimana, il 18 aprile, si è svolta la 35a Marcia dei Vivi. Una Marcia di alcune migliaia di studenti arrivati da molti paesi del mondo, Italia compresa, nonché dei sopravvissuti della Shoah, per ricordare e commemorare tutte le vittime dello sterminio nazista degli ebrei, ma anche delle vittime di altre nazionalità. Il tragitto che hanno percorso tutti i partecipanti alla Marcia dei Vivi era quello noto come la “strada della morte” che dal campo di sterminio nazista di Auschwitz I arriva a quello di Auschwitz II-Birkenau. Il 18 aprile scorso tra i partecipanti della Marcia dei Vivi c’erano anche gli studenti di tre scuole superiori italiane. Era presente anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accompagnato dalle due sorelle, Tatiana e Andra Bucci, che sono tra le ultime sopravvissute del campo di sterminio nazista di Auschwitz- Birkenau e che possono ancora testimoniare, per loro sofferte esperienze personali, l’orrore, le atrocità e tutto quello che accadeva nel famigerato campo. Il presidente Mattarella, dopo aver visitato il campo, ha dichiarato ai giornalisti: “Già studiarlo, e l’ho fatto molto a lungo, è impressionante ma vederlo è un’altra cosa, è già straziante leggere e vedere nei video le testimonianze, ma vederlo è un’altra cosa, che dà la misura dell’inimmaginabile”. E poi, riferendosi a quella parte dove erano esposte ammassate le scarpe delle vittime, bambini compresi, ha detto; “Vedere quelle scarpe, vedere quelle scarpette dei bambini, dei neonati sono cose inimmaginabili e bisogna continuare a ricordare e bisogna ricordare che quello che vediamo è una piccola parte”. Il presidente Mattarella, rivolgendosi ad un gruppo di studenti di tre scuole superiori italiane lì presenti, ha detto: “Dovete trasmettere anche voi a vostra volta la memoria. Dovete trasmetterla anche voi a chi verrà dopo”. Ed infine ha dichiarato: “Siamo qui oggi a rendere omaggio e fare memoria dei milioni di cittadini assassinati da un regime sanguinario come quello nazista che, con la complicità dei regimi fascisti europei che consegnarono propri concittadini ai carnefici, si macchiò di un crimine atroce contro l’umanità. Un crimine che non può conoscere né oblio né perdono”.

    L’autore di queste righe ha trattato anche prima l’importanza di non dimenticare per non rivivere quanto è accaduto nel passato. Nel febbraio 2020 scriveva: “Il 27 gennaio scorso è stato ricordato e onorato il “Giorno della Memoria”. Un giorno prima, durante l’Angelus, Papa Francesco, riferendosi alle barbarie nei lager nazisti ammoniva dicendo che “Davanti a questa immane tragedia, a questa atrocità, non è ammissibile l’indifferenza ed è doverosa la memoria” (Drammatiche conseguenze dell’indifferenza; 3 febbraio 2020). Oppure ricordava la frase “Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo!”, scritta da Primo Levi nel suo libro “Se questo è un uomo” (Deliri e irresponsabilità di un autocrate; 22 febbraio 2021).

    Chi scrive queste righe è convinto, come tanti altri, che bisogna non dimenticare per non rivivere più le atrocità del passato. Egli pensa che nessuno che ha ed esercita poteri, nessun autocrate debba aggredire i diritti innati e acquisiti e le libertà del genere umano, ma anche delle singole persone innocenti. E men che meno, nessuno possa mettere in atto delle atrocità come quelle commesse dalle diverse dittature in ogni parte del mondo. E soprattutto quelle simili alle orribili atrocità, le crudeltà commesse consapevolmente nei campi di concentramento dai nazisti. Ragion per cui si deve evitare a dare qualsiasi appoggio, anche “formalmente protocollare”, alle persone che abusano del potere conferito, agli autocrati. Come per anni e per degli “interessi di Stato” è accaduto con il dittatore russo. Ma anche con altri autocrati in America Latina, in Africa ed in Medio oriente. La storia, anche quella recente, ci insegna. Perciò non si potranno offendere i tanti sacrifici umani, le tantissime vittime crudelmente uccise dai nazisti ma anche da altri dittatori. Perché così si potrà rispettare anche quanto è stato sancito il 1° novembre 2005 dalla Risoluzione 60/7 dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Chi scrive queste righe, riferendosi agli insegnamenti della storia e alle vissute esperienze umane, parafrasando il pensiero di Balzac, pensa che si può perdonare, ma si dovrebbe far di tutto, per quanto possa essere difficile, per non dimenticare. Si, non dimenticare, per non rivivere più le atrocità del passato.

  • Una protesta a Berlino per invitare il governo tedesco a riconoscere il genocidio degli uiguri

    Il 17 maggio la commissione per i diritti umani e gli aiuti umanitari del Bundestag tedesco terrà un’audizione pubblica sul tema “Valutazione giuridica internazionale delle violazioni dei diritti umani contro gli uiguri”. Lo stesso giorno, nel pomeriggio, il Congresso mondiale degli uiguri terrà una manifestazione davanti alla Paul-Löbe-Haus di Berlino per invitare il Bundestag tedesco a essere all’altezza delle sue responsabilità e riconoscere le violazioni dei diritti umani contro gli uiguri e altri popoli turchi come genocidio.

    L’udienza arriva in un momento cruciale, pochi mesi dopo che i parlamenti olandese, canadese e britannico, nonché il governo degli Stati Uniti, hanno stabilito che le violazioni dei diritti umani contro il popolo uiguro sono un genocidio. Poiché la Cina non ha ratificato lo Statuto di Roma e ha espresso riserve contro la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia, i tradizionali meccanismi legali internazionali non possono essere applicati per ritenere la Cina responsabile. In quanto tali, i parlamenti nazionali e i governi sono l’unica opzione per ritenere il governo cinese responsabile delle sue politiche genocide contro il popolo uiguro.

    La situazione dei diritti umani nel Turkistan orientale è peggiorata drasticamente dal 2017, quando il governo cinese ha introdotto il suo perfido sistema di campi di internamento. La distruzione del patrimonio culturale, il lavoro forzato, la sterilizzazione forzata, lo stupro, la separazione dei bambini dalle loro famiglie e la tortura sono tra le tante violazioni dei diritti umani commesse dal governo cinese contro gli uiguri. Il rapporto della scorsa settimana dell’Australian Strategic Policy Institute mostra che i tassi di natalità sono diminuiti di quasi la metà tra il 2017 e il 2019 nel Turkistan orientale, proporzionalmente il calo più evidente dei tassi di natalità a livello globale dal 1950.

    Nel complesso, i crimini del governo cinese contro gli uiguri e altri popoli turchi soddisfano i criteri dei crimini contro l’umanità e il genocidio ai sensi degli articoli 6 e 7 dello Statuto di Roma e dell’articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, secondo gli avvocati dell’Essex Court Chamber e 50 esperti di diritti umani del Newlines Institute. Anche il Tribunale uiguro, guidato dall’avvocato per i diritti umani Sir Geoffrey Nice, affronterà la questione nella sua prima udienza pubblica dal 4 al 7 giugno.

  • Cominciato il processo contro l’ex Presidente del Sudan al-Bashir

    E’ iniziato il processo contro Omar al-Bashir, presidente del Sudan per oltre trent’anni, per il colpo di stato militare che lo ha portato al potere il 30 giugno 1989. Bashir, già accusato di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità per il sanguinoso intervento in Darfur, era stato costretto a lasciare il potere nel 2019 a seguito delle proteste iniziate alla fine del 2018. Ad agosto era stato formato un governo unitario composto da funzionari dell’esercito e civili.

    Con Bashir sono stati mandati a processo anche più di venti ex funzionari che hanno prestato servizio nel suo governo. Insieme agli ufficiali, l’ex presidente è accusato di aver pianificato il colpo di stato in cui l’esercito ha arrestato i leader politici del Sudan, sospeso il parlamento, chiuso l’aeroporto e annunciato il rovesciamento alla radio. Bashir è già stato condannato per corruzione. Potrebbe essere condannato a morte se ritenuto colpevole del suo ruolo nel colpo di stato. Il processo è stato sospeso fino all’11 agosto per essere ripreso in un tribunale più grande dove più avvocati e familiari di imputati potranno partecipare.

  • UN fails to take measures on order against Myanmar on Rohingya

    The United Nations’ Security Council discussed the International Court of Justice’s order that Myanmar do all it can to prevent genocide against the Rohingya Muslims. It however, failed to agree on a statement.

    The country denounced claims that it tried to exterminate the minority in a bloody 2017 crackdown by its military, during which some 740,000 Rohingya were forced to flee into camps in Bangladesh.

    After evidence showed that Myanmar’s government intentionally targeted its Rohingya Muslim minority, the top court in the Hague ordered the country to stop its genocidal campaign against the Rohingyas.

    According to diplomats, France, Estonia, Germany, Poland and Belgium urged Myanmar to comply with measures meant to prevent genocide set forth by the court. According to a diplomatic source, China and Vietnam opposed issuing a joint declaration by the entire council during the closed-door meeting of the Council.

    “Accountability of perpetrators of human rights and humanitarian law violations is a necessary part of this process”, the EU members said, adding that “Myanmar must address the root causes of its conflicts”.

    Myanmar’s case is the third genocide case filed at the court since World War II. A motion to protect the Rohingyas from an extermination campaign was first launched in November when the Gambia accused Myanmar of breaching the 1948 Genocide Convention. The Gambia asked the court for emergency measures to stop Myanmar’s “ongoing genocidal actions”.

    Myanmar’s civilian leader, the now-disgraced Nobel laureate Aung San Suu Kyi, has been accused of overseeing the genocide against Rohingyas. She said in court that Myanmar was defending itself against attacks by Muslim militant groups.

  • Drammatiche conseguenze dell’indifferenza

    La pena che i buoni devono scontare per l’indifferenza alla
    cosa pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi.

    Socrate

    Il 27 gennaio scorso è stato ricordato e onorato il “Giorno della Memoria”. Un giorno prima, durante l’Angelus, Papa Francesco, riferendosi alle barbarie nei lager nazisti ammoniva dicendo che “Davanti a questa immane tragedia, a questa atrocità, non è ammissibile l’indifferenza ed è doverosa la memoria”.

    Il “Giorno della Memoria” si celebra ogni 27 gennaio. Una data simbolica, perché il 27 gennaio 1945 sono stati liberati coloro che erano rimasti nel campo di concentramento di Auschwitz. Così è stato deciso il 1º novembre 2005, con la Risoluzione 60/7, durante la 42ª riunione plenaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Un “Giorno della Memoria” per commemorare le vittime dell’Olocausto. Si ricorda per non dimenticare il genocidio di tutti coloro che i nazisti consideravano come indesiderabili e inferiori per motivi razziali e politici. Ebrei per primi. Si ricorda per non essere indifferenti di fronte alle barbarie causate dalle dittature.

    La strategia di sterminio dei nazisti è stata basata su dei concetti razzisti e antisemiti formulati già alcune decine di anni prima, nel 19o secolo. Una strategia pubblicamente espressa per la prima volta da Hitler nel suo libro “La mia battaglia” (Main Kampf). Strategia riconosciuta anche come la Shoah (tempesta devastante), facendo cinicamente riferimento alle Sacre Scritture. La lugubre strategia di sterminio si ufficializzò nel 1935, con le Leggi di Norimberga ed era costituita da determinate e ben concepite fasi progressive. Fasi che cominciavano con delle severe, restrittive e proibitive politiche e misure economiche contro gli ebrei. Poi si è proseguito con una fase di estrema emarginazione sociale, simbolicamente rappresentata dalla “Notte dei cristalli”, tra l’8 e il 9 novembre 1938, quando furono bruciate le sinagoghe e saccheggiati i negozi degli ebrei in Germania. In seguito, i nazisti hanno messo in atto la fase più atroce e disumana della strategia. Fase sancita con le decisioni prese dai massimi rappresentanti nazisti durante la Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942. Decisioni che prevedevano lo sterminio massiccio degli ebrei in tutti i territori controllati dai nazisti. Quello che è accaduto in quel periodo è stato una vera e propria tragedia per milioni di ebrei e non solo. Quello che è accaduto allora non si deve mai dimenticare. Anche perché non accada di nuovo!

    Purtroppo la storia ci testimonia e ci insegna, come sempre, che simili strategie sono state attuate e/o sono in atto in varie parti del mondo. Anche nei Balcani. Magari non più con dei campi di concentramento, come quelli dei nazisti, ma comunque con tante gravi conseguenze, comprese barbarie, massacri collettivi e altre oscenità. La strategia serba contro la popolazione albanese nei territori del Kosovo e non solo, è una di quelle. Una strategia ideata nel 1844, sancita e codificata dal memorandum del ministro serbo degli affari interni dell’epoca. Una strategia che prevedeva l’allargamento dei territori serbi ai territori abitati storicamente dagli albanesi, usando tutti i mezzi possibili e necessari. Quella strategia prevedeva che la Serbia si doveva attivare ed agire di conseguenza: “…dall’edificio dello Stato turco (Impero ottomano; n.d.a.) togliere pietra dopo pietra e appropriarsi di quello che si può da questo buon materiale e sopra le buone e vecchie fondamenta dell’antico impero serbo […] costituire il nuovo Stato della Serbia”. Una strategia che è stata in seguito rielaborata diverse volte durante il secolo passato e che, dagli sviluppi degli ultimi due decenni, sembrerebbe essere sempre attiva per la Serbia. Uno degli strateghi serbi, un professore universitario e poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale anche ministro e direttore del’Istituto della balcanologia, in un documento pubblicato nel 1945, ribadiva che la colonizzazione dei territori abitati dagli albanesi “…dev’essere l’unico elemento costante dei governi serbi. Tutto può dividere i serbi tra di loro, ma mai e poi mai il comportamento contro gli albanesi”! Era lo stesso stratega che, già nel 1937, suggeriva la “soluzione finale”. Soluzione che prevedeva anche l’uso della violenza e i massacri per raggiungere l’obiettivo strategico. Deve essere sottolineata, però, la somiglianza di questa tesi con quanto è stato deciso durante la Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942 (sopracitato)! Ma lui suggeriva che, prima di arrivare alla “soluzione finale”, si doveva tentare la “soluzione finanziaria”, grazie alla quale si potevano raggiungere gli obiettivi strategici, evitando così la “soluzione finale”. Con la “soluzione finanziaria” lo stratega intendeva “supporti finanziari” al governo albanese, in cambio della sistemazione degli albanesi trasferiti in territorio albanese. O, se necessario, accordarsi con il governo turco che aveva bisogno di mano d’opera, di mandare in Turchia gli albanesi, tenendo presente anche la loro religione musulmana. In quel periodo si sono verificati spostamenti massicci degli albanesi dal Kosovo, sia verso l’Albania, che verso la Turchia. La sopracitata strategia serba prevedeva anche diverse altre modalità come l’impoverimento continuo della popolazione albanese, impedimenti all’istruzione per gli albanesi, l’applicazione di tasse e imposte diverse e pesanti, la provocazione di scontri locali, per motivi religiosi, di proprietà e altro, l’allontanamento “volontario” in altri paesi per trovare mezzi di sostentamento ecc.. E se tutto questo non avesse dato i risultati attesi, si doveva effettuare “l’allontanamento forzato” degli albanesi dai loro territori. Territori che in quel periodo, e cioè negli anni ’30 del secolo passato, si trovavano nel Regno della Serbia. Lo stratega serbo non si preoccupava più di tanto dell’impatto internazionale che avrebbe avuto in quel periodo “l’allontanamento forzato” degli albanesi. Perché, secondo lui “…dal momento che la Germania può allontanare decine di migliaia di ebrei e la Russia (l’Unione Sovietica; n.d.a.) può trasferire milioni di uomini da un continente all’altro, l’allontanamento di qualche centinaia di migliaia di albanesi non porterà allo scoppio della guerra mondiale.”! Una strategia quella serba, ideata nel 1844, elaborata e aggiornata di continuo, rimane attiva, anche se adesso viene camuffata dietro degli “Attraenti progetti regionali”, di cui il nostro lettore è stato informato anche il 13 gennaio scorso.

    Da alcuni anni però, dati e fatti accaduti, e che accadono di continuo, alla mano, sembrerebbe che ci sia un “progetto” che prevederebbe anche l’allontanamento dei cittadini albanesi dalla madre patria. Lo dimostrano i numeri sempre più allarmanti di questi ultimi anni dei richiedenti asilo albanesi in diversi paesi europei e non solo. E guarda caso, sembrerebbe che il governo albanese, dal 2013 in poi, abbia adottato una strategia che porti a tutto ciò. Una strategia che si basa, anch’essa, sull’impoverimento crescente della popolazione, sull’indebolimento e la decadenza del sistema dell’istruzione, sull’annientamento della speranza e della fiducia per un futuro migliore in patria. Nel frattempo in Albania si sta restaurando una nuova dittatura. Potrebbe significare qualcosa tutto ciò?!

    Chi scrive queste righe tratterà in seguito, per il nostro lettore, questo allarmante fenomeno. Egli è convinto che l’indifferenza può generare altre conseguenze drammatiche. Com’è accaduto nel passato e sta accadendo tuttora in varie parti del mondo. L’indifferenza è una preziosa alleata dei regimi totalitari e delle dittature. Mentre le conseguenze le subiscono i popoli. Era convinto Socrate che la pena che i buoni devono scontare per l’indifferenza alla cosa pubblica, è quella di essere governati da uomini malvagi.

  • Recognising the Armenian Genocide means being on the right side of history

    Turkey’s continued denial of both its past and present crimes against humanity proves that it is an insecure state

    The recent passing of House Resolution 296 in the US House of Representatives has highlighted the almost unbelievable roller coaster dynamics of Turkey’s relationship with its NATO allies. For years Ankara has done everything in its power to limit the success of genocide recognition campaigns around the world, primarily with its use of carrot and stick techniques. In Australasia, it would be the threat of not allowing Anzac Day visits by foreign dignitaries from Australia and New Zealand while in the US and certain other countries they have resorted to hiring high-powered lobbying firms to counter moves for genocide recognition.

    The Armenian Genocide – an umbrella term for the 1915 massacres of Armenians, Greeks, and Assyrians by the Ottoman Empire – has for decades been used by Turkey as political capital against well-known democracies around the world. The US block (US, UK, Australia, New Zealand, Israel and a number of other countries) have gone out of their way to placate Turkey and its ever more irrational leader, Erdogan, on this issue, ultimately to 1) procure more sales of military equipment, 2) For Turkey to remain a bulwark against Russian ambitions in the area, and 3) For the West to maintain its bases to further project military might in the Middle East and the region overall.

    The result has been an absolute disaster, hindering Turkish democracy, and helping to silence all those struggling for an egalitarian, secular state there.

    Over the past few years, Erdogan’s handling of American pastor Andrew Brunson’s imprisonment, Turkey’s purchase of Russian S-400 missiles, and its recent military invasion of Syria have finally deteriorated faith in this far removed NATO ally. It’s surprising that this is what it took for the West to take notice. For years, Erdogan’s government has shunned international conventions by imprisoning tens of thousands of suspected Gulenists, Kurds, journalists, artists, and many others without any international noteworthy cost. It led this outlier of a leader to think that he can get away with pretty much anything.

    Turkey’s recent invasion of Syria, made under the pretence of a security corridor and a place for the resettlement of Syrian Arab refugees, has directly targeted the area’s Kurds, Armenians, and other communities and explicitly showed the true face of an unpunished killer.

    This begs the question of when someone gets away with murder, or genocide denial, what is to stop them from committing other crimes against humanity?

    Armenians around the world were devastated to witness Turkey’s bombing of Kurdish forces and civilians in Syria. It was like experiencing PTSD from a 100+-year-old genocide. The YPG/Kurdish-American alliance was destroyed overnight after US President Donald Trump’s call with Erdogan. As far as Trump saw it, the Kurds had served American interests by doing the lion’s share of the fighting against ISIS and were now disposable.

    Lucky for us, most Americans don’t see it that way. Many in the United States and their congressional representatives were appalled at how easily a U.S. ally was literally thrown under the bus by a President fighting a now ongoing impeachment inquiry. It truly brought Turkey’s continued diplomatic abuse to light.

    As Armenian-Americans, we have fought for recognition of the genocide for many years. We will continue to fight for a Senate resolution of the same kind in the coming days and months. The importance of such resolutions is to finally make it clear to Turkey that there is a price to pay for genocide denial, for continuing to act with impunity against its own minorities and activists and to shed international laws.

    These resolutions will not predicate behaviour by the State Department, nor the President, but will nonetheless send a strong message that Americans will not stand for this. The rest of the world also needs to take a strong stance against Erdogan and his insecure state.

    While I was in New Zealand, I wrote a strong critique of Erdogan’s response to the Christchurch mosque shootings with his false claims of responsibility against New Zealanders.

    Australians and New Zealanders should be appalled, stand up to this thug and refuse to visit their perished loved ones who are buried under Turkish soil in Gallipoli while the government of Turkey continues its unending abuse.

    Most of my friends are shocked that Israel has also never formally recognised the genocide. Irrespective of the bad diplomatic blood between Turkey and Israel, Prime Minister Benjamin Netanyahu’s government has blocked all such efforts to recognise the Armenian Genocide due to the intelligence sharing that Israel has with Turkey and, until now, the US’ official stance on genocide recognition. Israel should have been the first state to pass a resolution that gave official recognition to the Armenian genocide as we’re now all too familiar with Hitler’s quote when asked about the Nazi’s extermination of Europe’s Jews: “Who, after all, speaks today of the annihilation of the Armenians?”

    It is time to punish genocide denial around the world.

    Last year Armenia experienced a unique historical detour, shedding its post-Soviet corrupt oligarchic state and instituting a progressive regime via the peaceful Velvet Revolution led by Prime Minister Nikol Pashinyan. We’ve made a documentary film called “I Am Not Alone” which premiered at the Toronto International Film Festival in September and shows the details of the revolution.

    What continues to stand out for me is how decentralised civil disobedience was successfully used as a tool for peaceful regime change in Armenia. Turkey continues its illegal blockade of Armenia, holding a whole country hostage from international trade routes and rights. With so many countries and provinces around the world struggling with their own democratic movements – Hong Kong, Lebanon, Chile, and Iraq, to name a few – it is essential for the citizens of Turkey to claim their destiny and find a way forward toward the goal of a more progressive, egalitarian, democratic country. Erdogan and his deeply corrupt government continue to send them into a downward spiral of misfortune.

    The Armenian Genocide should serve as an important historical lesson to all. Unpunished crimes against humanity that are ignored for economic or political gain by the international community will eventually lead to global disorder.

     

  • Shoah e Ruanda, due lezioni parallele: il nuovo libro di Niccolò Rinaldi sarà presentato a Firenze

    In occasione della Giornata della Memoria, lunedì 28 gennaio, alle ore 18, presso la Libreria Claudiana di Firenze (Borgo Ognissanti, 14 rosso), sarà presentato il libro Shoah, Ruanda: due lezioni parallele di Niccolò Rinaldi (edizioni Giuntina). Con l’autore interverrà Valdo Spini, ad introdurre l’incontro sarà Letizia Tomassone, pastora della chiesa metodista e valdese di Firenze.

  • 16 mila cristiani assassinati in tre anni in Nigeria

    Il Foglio di oggi, nell’editoriale di prima pagina, dà voce e spazio alla richiesta di aiuto rivolta all’Occidente dai vescovi nigeriani. “E’ in corso una pulizia etnica” – hanno dichiarato, contraddicendo il Papa che ha più volte invitato alla prudenza circa l’uso di tale termine: “A me non piace, e voglio dirlo chiaramente, a me non piace quando si parla di un genocidio dei cristiani: questo è un riduzionismo, è un riduzionismo. La verità è una persecuzione che porta i cristiani alla fedeltà, alla coerenza nella propria fede. Non facciamo un riduzionismo sociologico di quello che è un mistero della fede: il martirio”. Non vogliamo ridurre ciò che succede in Nigeria ad una polemica sull’interpretazione da dare al fenomeno. Certo, il martirio nella scala dei valori, viene prima della pulizia etnica, è un mistero di fede che non si deve ridurre a fatto puramente sociologico, ma qualunque sia la lettura del fenomeno, un dato è certo: in Nigeria in tre anni sono stati assassinati 16 mila cristiani, vale a dire la popolazione di un’intera città come Todi, o Sorrento, o Brunico. Il fatto che ha provocato l’intervento dei vescovi è stato l’assassinio di più di cento contadini cristiani  avvenuto il 23 giugno scorso nello stato di Plateau, nella Nigeria Centrale. Gli autori del massacro sono stati i pastori islamici fulani, una etnia nomade dedita alla pastorizia e al commercio. E’ in questa occasione che il vescovo di Gboko, mons. William Amove Avenya, ha parlato di “una vera e propria pulizia etnica” ed ha invitato a “non commettere lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato. E sappiamo bene come è andata a finire”, ha aggiunto. Nel 2018, nel solo stato di Benue ci sono stati 492 morti. Nella diocesi di Maiduguri in gennaio, ce ne sono stati più di settanta. Il vescovo Oliver Dashe Doeme tiene la conta delle vittime dei fulani con quelle perpetrate dai miliziani jihadisti di Boko Haram (2.050), tra stupri, incendi e distruzioni di chiese e rapimenti quasi sempre di ragazze. I vescovi denunciano l’esistenza di una chiara agenda per islamizzare la Middle Belt nigeriana, un termine che designa la regione centrale della Nigeria. I principali ispiratori di questa strategia sono il governo e il presidente Muhammadu Buhari, di etnia fulani. In un comunicato della Conferenza episcopale nigeriana di qualche giorno fa si legge che “Non si può più considerare una mera coincidenza il fatto che gli autori di questi crimini odiosi sono della stessa religione di coloro che controllano gli apparati di sicurezza, incluso lo stesso presidente. Le parole non bastano al presidente e ai capi dei servizi di sicurezza per convincere il resto della cittadinanza che i massacri non facciano parte di un progetto religioso più ampio. Questi assassini “sono criminali e terroristi, ma non fanno le stesse cose nei territori a maggioranza musulmana” – ha aggiunto mons. William Amove Avenya in una dichiarazione all’ “Aiuto alla chiesa che soffre”. Sono da anni che le chiese cristiane della Nigeria lanciano l’allarme, invocando un aiuto dell’Occidente, che non è mai arrivato. Non si tratta solo di un nuovo Ruanda; la partita è ben più grossa e decisiva – afferma Il Foglio – e cita uno dei massimi studiosi delle religioni, Philip Jenkins, il quale ha scritto che “l’equilibrio tra islam e cristianesimo in Africa sarà deciso in Nigeria” che secondo tutte le stime diverrà entro trent’anni uno tra i dieci paesi con più cristiani al mondo.

    E l’Occidente? Che farà l’Occidente? Nulla, temiamo, come non ha fatto nulla per il genocidio etnico in Ruanda. E l’Italia? E la Santa Sede? L’Italia è troppo impegnata a piangere le vittime delle tragiche migrazioni sui gommoni insicuri nel Mediterraneo e a maledire chi vuole bloccare questo commercio di persone. Le migliaia di vittime innocenti che vengono trucidate in Nigeria per mano assassina, nell’intento di far scomparire i cristiani da quelle terre non interessano nessuno, nemmeno gli “indignati” in servizio permanente effettivo, soprattutto se si tratta di credenti in Dio.

    La Santa Sede grida al “martirio”, non al genocidio religioso, e non trova nemmeno il tempo di includere nella liturgia della “preghiera universale” in ogni messa, un ricordo particolare per questi fratelli martiri. L’Occidente sta diventando a-cristiano e rifiutando le radici cristiane che l’hanno ispirato si autocondanna al declino e rischia di soccombere alla occupazione islamica.

    Grazie al Foglio ed all’autore dell’articolo, Matteo Matzuzzi, che hanno la sensibilità di porre in prima pagina una notizia che altri organi d’informazione nascondono.

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