medici

  • In ospedale un medico su tre cambierebbe lavoro

    La fuga dagli ospedali è un desiderio per un medico su tre che si dice disposto a cambiare lavoro per avere più tempo libero e stipendi più alti. Fra i medici più avanti con l’età compare anche l’esigenza di una maggiore sicurezza sul lavoro. E la fascia di età più in crisi è quella tra i 45 e i 55 anni. E’ quanto emerge da una survey del maggior sindacato dei medici ospedalieri Anaao Assomed, a cui hanno risposto 2130 tra medici e dirigenti sanitari. Più della metà (56,1%) tra medici e dirigenti sanitari è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro e 1 su 4 (26,1%) anche della qualità della propria vita di relazione o familiare. Un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e di alienazione.

    Una insoddisfazione che cresce con l’aumentare della anzianità di servizio e delle responsabilità, tanto che i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata (36,5%), tra i quali si raggiunge l’apice nella fascia di età tra i 45 e i 55 anni, un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che il nostro sistema, però, non riesce a garantire. Per quanto riguarda i cambiamenti desiderati nel lavoro, il podio è occupato da incrementi delle retribuzioni con il 63,9% delle risposte, e da una maggiore disponibilità di tempo con il 55,2%. E sono gli over 65 quelli che considerano prioritaria una maggiore sicurezza. Al contrario, l’esigenza dei giovani di una maggior disponibilità di tempo per la famiglia e il tempo libero è più alta rispetto ai colleghi con maggior anzianità di servizio. In generale, l’aumento delle retribuzioni e del tempo libero hanno un peso maggiore nelle aspettative rispetto alla progressione di carriera. Il 20% degli intervistati si dichiara ancora indeciso, segno del fatto che almeno una volta si è interrogato sul futuro della professione e sul suo ruolo all’interno del sistema.

    La crisi della professione è più sentita al sud rispetto al nord: si va dal 53,6% del nord, passando al 56,3% del centro per finire al sud e isole con ben il 64,2% di insoddisfatti. Ma il dato appare – osserva il sindacato – talmente diffuso da “configurare quasi una patologia endemica con la quale convivere e per la quale non esiste vaccino o terapia”. Pesa il fatto che l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità, la cifra più bassa tra i paesi del G7, ben al di sotto della media europea di 11,3% con il costo della sanità privata pari al 2,3%, poco sopra la media europea. Occorre immaginare – propone l’Anaao Assomed – un nuovo modello che tenga nella dovuta attenzione la presa in carico del paziente, sia cronico che in acuzie, aumentando posti letto e personale, e implementando quella medicina di prossimità che appare oggi sempre più teorica, liberando i professionisti dalla medicina di carta che sottrae tempo alla cura.

  • Azioni Marie Skłodowska-Curie: 429 milioni di euro a sostegno di dottorandi altamente qualificati

    La Commissione ha annunciato i risultati delle Azioni Marie Skłodowska-Curie (MSCA) 2022 per le reti di dottorato. 149 programmi di dottorato di eccellenza riceveranno un totale di 429,4 milioni di euro da utilizzare per formare oltre 1.650 dottorandi altamente qualificati, stimolandone il talento e l’occupabilità a lungo termine. Di questi programmi, 14 dottorati industriali formeranno ricercatori e ne svilupperanno le competenze al di fuori dell’ambiente accademico, in particolare nell’industria, nelle aziende e nel settore pubblico, mentre 12 dottorati congiunti offriranno una formazione integrata che porterà al conseguimento di titoli congiunti o multipli.

    I programmi selezionati riguardano tutte le discipline scientifiche e permetteranno di fare ricerca in aree quali la progettazione di materiali avanzati e di componenti per nuovi sistemi di accumulo dell’energia, l’integrazione dell’intelligenza artificiale nella ricerca sulla sicurezza stradale, o lo studio di nuove terapie contro le ricadute e le metastasi del cancro causate dalle cellule staminali.

    I programmi di dottorato finanziati sono attuati da partenariati internazionali che coinvolgono oltre 1.100 organizzazioni con sede in 62 paesi dell’UE, paesi associati a Orizzonte Europa e altri. Di queste organizzazioni 403 appartengono al settore privato e 796 al settore pubblico. Dal 2014 le Azioni Marie Skłodowska-Curie hanno finanziato 1 330 programmi di dottorato.

    L’apprendimento lungo tutto l’arco della vita rientra fra le priorità dell’Anno europeo delle competenze 2023, che verterà sull’aiutare le persone ad acquisire le competenze necessarie per ottenere posti di lavoro di qualità.

  • Unione sanitaria: diventa operativa la rete di laboratori HERA

    L’Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie (HERA) sta istituendo una rete di laboratori che è diventata operativa il 1 febbraio. La rete, denominata DURABLE, è finanziata con 25 milioni di euro nell’ambito del programma EU4Health. Fornirà informazioni scientifiche rapide e di alta qualità per sostenere l’UE nella preparazione e nella risposta alle minacce sanitarie transfrontaliere e nella valutazione dell’impatto delle contromisure mediche.

    DURABLE sarà coordinata dall’Institut Pasteur e comprenderà diciotto laboratori di alto livello all’interno dell’UE. Contribuirà a un’analisi e un’individuazione rapide, complete ed efficaci degli agenti patogeni e a una loro migliore caratterizzazione; ciò aiuterà a individuare, sviluppare e acquistare contromisure mediche adeguate. DURABLE integrerà le reti esistenti, comprese quelle coordinate del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, per affrontare le sfide future.

    DURABLE promuoverà lo scambio di dati e orienterà il processo decisionale a livello mondiale. Ciò sosterrà i paesi nei loro sforzi per raggiungere l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 3 su salute e benessere e altri traguardi e Obiettivi di Sviluppo Sostenibile legati alla salute.

  • Prima dell’autonomia regionale bisogna dare a tutti gli italiani un uguale ed efficiente servizio sanitario

    Tra i diversi temi che ci sono quotidianamente riproposti c’è la riforma per le autonomie con tutti i pro e i contro che ogni schieramento sostiene, tra i tanti problemi emergono le spaventose carenze del sistema sanitario al quale mancano medici, infermieri, tecnici e adeguate strutture sul territorio. La pandemia ha, una volta di più, dimostrato che un buon sistema ospedaliero può collassare se non funziona la medicina territoriale.

    Ci sentiamo, perciò, di chiedere alla Presidente del Consiglio e ai due ministri competenti, per Sanità e Autonomie regionali, se, prima di varare la riforma per le autonomie, abbiano verificato, in modo corretto ed esaustivo, la reale situazione della sanità in tutte le regioni italiane. Se sia stato valutata la necessità, per il comparto sanità, di procedere alle autonomie solo quando ad ogni italiano sarà garantito un servizio funzionante e non differenziato e carente a seconda delle aree geografiche di appartenenza.

    Il Ministro della Sanità è in possesso, o ha già richiesto, una mappatura dei servizi sanitari territorio per territorio, non solo su base esclusivamente regionale? Si conoscono quanto personale sanitario occorre nelle varie strutture ospedaliere, quanto sul territorio, quanti macchinari sono mancanti o non funzionanti ed obsoleti?

    Si conoscono i tempi di attesa per gli esami diagnostici e per le visite specialistiche?

    Se a Milano, città che sappiamo ha una sanità di gran lunga migliore di tante altre realtà, ci sono tempi d’attesa, come riporta un’inchiesta del Corriere della Sera del 9 novembre 2022, incompatibili con le necessità dei malati, cosa avviene in altre città e regioni? Alcuni esempi dei tempi di Milano, riportati nell’articolo e ovviamente mai smentiti, cinque mesi per una visita ginecologica con ecografia, sette mesi per una ecografia alla spalla e alla colonna vertebrale.

    L’assessore regionale della Lombardia Guido Bertolaso ha detto in Consiglio regionale, l’8 novembre, che al fabbisogno lombardo mancano 1120 dirigenti medici e 1521 infermieri, quanti mancano nelle altre regioni?

    Qualunque riforma deve prendere atto della realtà e di quanto va fatto, subito, per ridare a tutti gli italiani un servizio sanitario all’altezza delle oggettive necessità.

  • Troppi farmaci prescritti, anche i medici scoprono che less is more

    Troppi farmaci prescritti, soprattutto agli anziani, ed i rischi di interazioni pericolose per la salute crescono. A segnalarlo sono i medici internisti, dai quali parte dunque un nuovo approccio: è il ‘deprescribing’, ovvero la ‘de-prescrizione’ che punta a ridurre la lista di medicinali non strettamente necessari ai pazienti perché a volte, avvertono gli specialisti, ‘meno è meglio’. Per il bene del paziente è cioè necessario fare marcia indietro rispetto all’eccesso di prescrizioni di terapie, sfoltendo la ‘polifarmacia’, che indica il prendere più di 5-6 medicine al giorno, condizione comune in almeno i due terzi degli anziani. Un tema nuovo e complesso che sarà al centro dei lavori del120esimo Congresso della Società Italiana di Medicina Interna (Simi).

    L’allungamento della vita, rileva la Simi, porta con sé varie conseguenze, come la comparsa di patologie croniche, che spesso si associano in uno stesso paziente. Avere una ‘regia’ centrale, come quella offerta dal medico internista, mette al riparo i pazienti dai rischi di una ‘polifarmacia’ troppo affollata, dovuta alla ‘collezione’ di tante prescrizioni di farmaci diverse, una per ogni specialista consultato, spesso in conflitto tra loro, tanto da provocare interazioni ed effetti indesiderati che possono pregiudicare la sicurezza del paziente.

    “Alcuni studi – ricorda Giorgio Sesti, presidente Simi – hanno messo ben in evidenza il fenomeno della polipharmacy e le sue ricadute. A rischio di effetti indesiderati sono soprattutto le persone con una ridotta funzionalità renale, condizione comune tra gli anziani”. Uno studio su oltre 5 mila pazienti over 65 del registro Reposi ha evidenziato che almeno la metà mostrava una compromissione moderata, il 14% una compromissione funzionale grave e il 3% molto grave. Tra i pazienti con ipertensione, diabete, fibrillazione atriale e scompenso, all’11% veniva prescritto un dosaggio di farmaci inappropriato rispetto alla funzionalità renale. E nel follow up, un’inappropriatezza prescrittiva si associava ad un aumentato rischio di mortalità per tutte le cause del 50%. “Il 66% dei pazienti adulti assume 5 o più farmaci e un anziano su 3 assume oltre 10 farmaci in un anno – rileva Gerardo Mancuso, vicepresidente Simi – provocando un aumento delle cause di ricovero per eventi avversi per interazioni farmacologiche.

    De-prescrivere le molecole farmacologiche è una attività che l’internista deve fare in tutti i pazienti, ma soprattutto negli anziani”. È dunque “necessario invertire la tendenza – sostiene Sesti – e inaugurare l’era del ‘deprescribing’. Ma perché questo avvenga, dobbiamo aumentare la consapevolezza di pazienti e medici”. La Simi, sottolinea Nicola Montano, presidente eletto Simi, “ha lanciato nel 2016 la campagna Choosing Wisely, per sensibilizzare medici e pazienti a ridurre esami e trattamenti che hanno dimostrato una scarsa utilità e quindi aumentare la sicurezza riducendo gli sprechi”. La professoressa Rita Redberg, direttore di Jama Internal Medicine e professore di cardiologia alla University of California, che prenderà parte al congresso, è una delle fautrici del movimento Choosing Wisely. È suo lo slogan ‘less is more’, sintetizzabile con il concetto che ‘fare meno talvolta è meglio che fare di più’. “Il less is more – prosegue Sesti – non vale solo per le medicine, ma anche per i troppi esami, alcuni dei quali, come le Tac, comportano rischi per la salute legati ad un eccesso di radiazioni”. E d’altronde, l’inerzia prescrittiva, che porta a ripetere le prescrizioni anno dopo anno senza una rivalutazione critica, non rappresenta una strategia vincente: secondo un’analisi recente, 1 ricovero su 11 tra gli anziani può essere ricondotto a una prescrizione sbagliata o agli effetti indesiderati dei farmaci. Altri paladini del movimento deprescribing sono gli esperti statunitensi del National Institute on Aging ed un deprescibing network è stato creato in Canada, con offerta di borse di studio e seminari. Intanto, il numero delle pubblicazioni sul deprescribing aumenta. Insomma l’era del ‘less is more’ è iniziata.

  • In Italia il tasso di aborti è tra i più bassi al mondo

    In Italia il tasso relativo alle interruzioni volontarie di gravidanza (ivg) è tra i più bassi al mondo. Lo confermano i dati dell’ultima Relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 194/78 sulle ivg, che evidenziano come gli aborti nel nostro Paese continuino a calare. Nel 2020 le ivg sono state poco più  di 66mila, il 9,3% in meno rispetto al 2019. Il calo s’è registrato in tutte le aree geografiche e fasce d’età, soprattutto in quelle più giovani e tra le straniere. Il tema dell’aborto resta tuttavia al centro del dibattito politico e non solo, ed oggi arriva la presa di posizione dell’influencer Chiara Ferragni, che schierandosi contro FDI parla di ‘rischi di politica anti-aborto’. Una affermazione ‘falsa’, è la replica del partito, mentre i Dem plaudono alla Ferragni.

    La fotografia scattata dall’ultima Relazione al Parlamento evidenzia comunque come le ivg siano in netta diminuzione tra le donne italiane.  La Relazione raccoglie i dati del Sistema di Sorveglianza, da cui emerge che, in totale, nel 2020 sono state notificate 66.413 ivg con un tasso di abortività pari a 5,4 ogni mille donne tra i 15 e 49 anni (in calo del 6,7% sul 2019 ), un dato tra i più bassi a livello internazionale.

    Al contempo, si è leggermente ridotta la percentuale di personale medico e non medico che esercita il diritto all’obiezione di coscienza all’esecuzione dell’interruzione di gravidanza. I valori restano tuttavia elevati: l’obiezione riguarda 2 ginecologi su 3 e quasi 1 anestesista su 2, con picchi superiori all’80% in alcune regioni. Secondo la Relazione, nel 2020, la percentuale di ginecologi obiettori su scala nazionale è scesa al 64,6% rispetto al 67% dell’anno precedente. Esistono, tuttavia, ampie differenze regionali. Nella provincia autonoma di Bolzano esercita il diritto all’obiezione l’84,5% dei ginecologi, in Abruzzo l’83,8%, in Molise l’82,8%, in Sicilia l’81,6%, in Basilicata l’81,4%. I minori tassi di obiezione tra i ginecologi si riscontrano in Valle d’Aosta (25%), nella PA di Trento (35,9%) e in Emilia Romagna (45%).

    Più basso il tasso di obiezione tra gli anestesisti: nel 2020 è il 44,6% in lieve aumento rispetto al 43,5% del 2019. Anche in questo caso si registrano ampie differenze regionali: si va dal 20% della Valle d’Aosta al 75,9% della Calabria. Tra il personale non medico, l’obiezione si attesta al 36,2% (era al 37,6% nel 2019) con una forbice dal 13% della Val d’Aosta al 90% del Molise.

    “Permane elevato il numero di obiettori di coscienza per tutte le categorie professionali sanitarie, in particolare per i ginecologi (64,6%). L’organizzazione dei servizi Ivg deve essere tale che vi sia un numero di figure professionali sufficiente da garantire alle donne la possibilità di accedere all’interruzione volontaria di gravidanza, come indicato nell’articolo 9 della legge n. 194/78. Questo dovrebbe essere garantito dalle Regioni, per tutelare il libero esercizio dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne e l’accesso ai servizi Ivg e minimizzare l’impatto dell’obiezione di coscienza nell’esercizio di questo diritto”, ha scritto nelle conclusioni alla Relazione il ministro della Salute Roberto Speranza.

  • Trapianti in aumento, record di donatori Covid

    L’Italia segna un record nel campo dei trapianti: è stato il primo Paese al mondo a rendere possibile l’uso di organi da donatori positivi al Sars-Cov-2. E oggi è in cima alla classifica globale per numero di trapianti da donatori Covid: 21 nel 2021, in aggiunta ai 7 di fine 2020, tutti andati a buon fine. Il dato emerge dal rapporto della Rete nazionale trapianti sul 2021 pubblicato dal Centro nazionale trapianti (Cnt).

    In totale i trapianti eseguiti in Italia lo scorso anno sono stati 3.794, di cui 3.417 da donatore deceduto (+9% sul 2020) e 377 da donatore vivente (+24%). Il 2021, spiega nel Rapporto il direttore generale del Centro Nazionale Trapianti, Massimo Cardillo, “è stato l’anno della ripresa post-pandemica”. Per Cardillo la Rete trapiantologica italiana “ha dimostrato ancora una volta di essere solida e resiliente, anche rispetto all’esperienza di altri Paesi. Questi risultati sono stati ottenuti nonostante il Covid-19 non abbia allentato la sua pressione sui nostri ospedali”.

    Segnali positivi arrivano da tutti i principali indicatori del processo di donazione. In particolare, i donatori utilizzati a scopo di trapianto sono stati 1.387 rispetto ai 1.235 del 2020 e ai 1.379 del 2019. Allo stesso modo è salito il tasso di donazioni utilizzate per milione (Pmp), che nel 2021 è stato pari a 23,3, dato “estremamente incoraggiante se confrontato con quello registrato nel 2020 (20,5) ma anche con il dato del 2019 (22,8), anno in cui avevamo rilevato la seconda migliore performance di sempre”, si legge nel Rapporto.

    In Italia sono 11.958.916 i cittadini hanno registrato la propria dichiarazione di volontà sulla donazione di organi e tessuti dopo la morte nel Sistema Informativo Trapianti (Sit). L’86,6% di tutte le dichiarazioni di volontà presenti nel Sit sono state registrate nei Comuni al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità, l’11,8% sono raccolte dall’Aido (Associazione italiana per la donazione di organi, tessuti e cellule) e l’1,6% dagli sportelli Asl.

    Nei Comuni, in particolare, nel 2021 sono state raccolte 3.201.540 dichiarazioni di volontà, di cui 2.204.318 consensi e 997.222 opposizioni. Sono stati invece 214 gli ospedali italiani nei quali sono stati reperiti i 1.387 donatori deceduti utilizzati nel 2021.

    Dati positivi anche per le liste d’attesa per un trapianto, che al 31 dicembre 2021 ospitavano 8.065 pazienti con un calo del 2,69% rispetto al 2020. In particolare si registra “un calo notevole” per le liste d’attesa di pancreas (-9,45%) e rene (-2,87%) rispetto agli altri organi (-1,57% per il polmone, -0,91% per il cuore, -1.62% per il fegato). I tempi medi di attesa per ciascun organo nelle liste standard vanno da 3,7 anni per il trapianto di cuore a 1,7 anni per il fegato, che si riducono per i pazienti in lista d’urgenza nazionale a 18 giorni per il cuore e meno di 2 per il fegato.

    Secondo Cardillo, che sottolinea “il grande impegno dei sanitari, soprattutto quelli in servizio nelle terapie intensive, e nei centri trapianto”, il rapporto dimostra che “il sistema è maturo” per affrontare le sfide del futuro e l’accesso alle risorse del Pnrr “potrà aiutare a migliorare l’architettura tecnologica e quindi la capacità di risposta alle esigenze dei cittadini”.

  • Tre sei nove…Trecentosessantanove

    Questo è il numero dei medici ospedalieri delle strutture sanitarie italiane che hanno perso la vita specialmente durante il primo periodo di esplosione della pandemia. Un numero decisamente inaccettabile e troppo spesso legato ad una assoluta inadeguatezza di supporti tecnologici ed igienici per la loro tutela dovuti al  mancato adeguamento ed aggiornamento del protocollo pandemico le cui responsabilità ancora oggi rimangono un mistero.
    Il loro sacrificio rimane una pietra miliare del senso di abnegazione di chi in prima linea ha affrontato la crisi pandemica e contemporaneamente rappresentano l’espressione, loro malgrado, della assoluta  incapacità di previsione e di adeguamento dei protocolli sanitari all’emergenza da parte delle autorità sanitarie nazionali, tutte in capo al ministro della Sanità dei diversi governi Conte e Draghi.
    L’estremo sacrificio di queste persone ha lasciato nella disperazione le famiglie a causa della morte del congiunto  durante l’esercizio della propria professione all’interno di strutture sanitarie pubbliche ma anche per le conseguenze economiche poiché spesso le famiglie sono state private della principale fonte di sostentamento.

    Entrati ormai all’interno del terzo anno di pandemia e con un fiume di risorse di fonte europea pronti a finanziare progetti di valutazione sismica dei siti di culto o la compatibilità ambientale di teatri il senato non ha, senza una minima vergogna, convertito in legge quanto approvato in commissione, cioè il risarcimento di 100.000 euro a favore delle famiglie dei medici deceduti giustificando questa scelta con una mancanza di copertura finanziaria.

    Trentasei milioni e novecentomila (36.900.000) euro era la somma indicata per assicurare un indennizzo di centomila euro (100.000) alle famiglie dei caduti nell’esercizio del proprio lavoro. Solo per un confronto impietoso alla Regione Veneto vengono assegnati ventisette (27) milioni per le piste ciclabili suscitando la soddisfazione del presidente Zaia quando si sarebbero potute risarcire con la medesima somma duecentosettanta (270) famiglie di medici deceduti. Si pensi, poi, al Lazio con oltre trecento (300) milioni.

    Se ancora esistesse una minima sensibilità in capo ai vertici istituzionali uno dei presidenti di Regione dovrebbe vincolare l’accettazione dei legittimi finanziamenti al reperimento della copertura dei 36.900.000 destinati alle famiglie dei medici.

    Ovviamente i canali di finanziamento non possono essere intercambiabili ma la possibilità per una classe politica regionale e statale di dimostrare un minimo di sensibilità per i nostri “caduti” nell’adempimento del proprio lavoro si poteva anche attendere: all’infinito sembra.

    Nel breve volgere di meno di tre anni i caduti nelle corsie ospedaliere sono stati definiti prima degli “eroi” per poi raggiungere il ruolo di “dimenticati” e successivamente indicati come un “costo insostenibile” e privo di copertura.

    Questi i valori odierni espressi dalla classe politica.

  • Unione europea della salute: un ruolo più incisivo per l’Agenzia europea per i medicinali

    Nell’ambito dei lavori in corso per costruire un’Unione europea della salute forte, il Consiglio ha adottato il regolamento relativo al riesame del mandato dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA), compiendo un importante passo avanti verso il rafforzamento dell’EMA nella preparazione alle crisi e nella loro gestione in relazione ai medicinali e ai dispositivi medici. Le nuove norme consentiranno all’Agenzia di monitorare attentamente e mitigare le carenze di medicinali e dispositivi medici durante eventi gravi ed emergenze di sanità pubblica, nonché di agevolare una più rapida approvazione dei medicinali che potrebbero curare o prevenire una malattia che causa una crisi di sanità pubblica. L’adozione di un mandato rafforzato dell’EMA fa parte del pacchetto sull’Unione europea della salute proposto dalla Commissione nel novembre 2020.

    Grazie al mandato rafforzato l’Agenzia può facilitare una risposta coordinata a livello dell’UE alle crisi sanitarie:

    • monitorando e mitigando il rischio di carenze di medicinali e dispositivi medici critici;
    • fornendo consulenza scientifica sui medicinali potenzialmente in grado di curare, prevenire o diagnosticare le malattie che causano tali crisi;
    • coordinando studi per il monitoraggio della sicurezza e dell’efficacia dei medicinali per la cura, la prevenzione o la diagnosi delle malattie connesse alle crisi di sanità pubblica;
    • coordinando le sperimentazioni cliniche di medicinali per la cura, la prevenzione o la diagnosi delle malattie connesse alle crisi di sanità pubblica;
    • trasferendo all’Agenzia i gruppi di esperti del regolamento sui dispositivi medici.

    La legislazione istituisce inoltre formalmente il gruppo direttivo per le carenze di medicinali e dispositivi medici e la task force per le emergenze, che si occupano dei compiti di cui sopra.

    A seguito della firma ufficiale odierna da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, il regolamento sarà pubblicato nella Gazzetta ufficiale. Entrerà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione e si applicherà a decorrere dal 1º marzo 2022. Le disposizioni del regolamento relative al monitoraggio delle carenze di dispositivi medici, fatta eccezione per il trasferimento dei gruppi di esperti, troveranno applicazione 12 mesi dopo l’entrata in vigore del regolamento.

    Fonte: Commissione europea

  • La scomoda verità pandemica

    La pandemia, e soprattutto il suo continuo rinnovarsi – si sta entrando nel terzo anno ormai e nelle medesime condizioni strutturali – ha senza ombra di dubbio messo a nudo le vere responsabilità della spesa pubblica della medesima classe politica che ora vorrebbe portarci in salvo.

    I numeri impietosi relativi alla gestione “argentina“* della sanità pubblica negli ultimi quindici anni non lasciano alcun dubbio né tantomeno giustificazioni ad una classe politica e dirigente la quale, come un esercito di cavallette, ha sia depatrimonializzato il know how professionale espresso dagli operatori sanitari  quanto diminuito il  valore capitale della struttura, pur aumentando la spesa pubblica generale (si pensi allo sforamento di deficit ottenuto dal Governo  Renzi dalla Ue,) unito  al costante aumento del debito pubblico la cui gestione dal 2015 poteva contare sul quasi azzeramento degli  interessi, per un periodo addirittura  negativi (effetto del Qantitative Easing introdotto  dal presidente della Bce Draghi come sostegno alla economia in stagnazione ), quindi con costi di servizio al debito in forte diminuzione.

    I numeri impietosi ci indicano come all’interno del sistema nazionale sanitario ( SSN) la cittadinanza poteva contare nel 2007 sulla disponibilità di 259.476 posti letto mentre dieci anni dopo (quindi dopo i governi Prodi, 2006/08, Berlusconi, 2008/11, Monti, 2011/13, Letta, 2013/14, Renzi, 2014/16, Gentiloni, 2016/18), nel 2017, il numero di posti letto disponibili si dimostrava diminuito di 45.000 unita (-17%), cioè a 213.669, fino agli attuali 314 ogni 100.000 abitanti, mentre in Germania risultano 800 ogni 100.000.

    Lo stesso numero dei medici è sceso dai 106.800 nel 2007 a circa 101.100 nel 2017, con una flessione quindi del oltre 5.700 unità, e contemporaneamente il personale infermieristico vede una importante diminuzione sempre dal 2007, anno in cui il nostro SSN poteva contare su circa 264.430 unità rispetto ai 253.430 del 2017, a fronte di una quota di spesa pubblica per il SSN sempre in crescita e a fronte delle chiusure di duecento (200) ospedali e riduzione progressiva del personale.

    La stessa spesa pubblica, al netto degli interessi (primaria), passa dal 36,4% del Pil al 41,9% nel 2019, quindi o gli effetti del “risparmio”, identificabile nelle chiusura di strutture sanitarie e nella progressiva riduzione del personale sanitario, non hanno avuto alcun effetto o peggio si è scelto deliberatamente di ridurre la disponibilità per dirottare verso gli operatori privati della sanità ma aumentando i costi della struttura.

    Contemporaneamente a questo costante impoverimento del SSN dal 2010 al 2017 la percentuale di istituti ospedalieri pubblici rappresentava circa il 54% del totale mentre nel 2017 era scesa al 51,8%: infatti gli istituti privati convenzionati ed accreditati passano dal 46% del 2017 al 48,2%.

    A fronte di una parziale dismissione dell’azione del governo nel SSN si registra quindi un aumento della presenza di privati nella gestione di un diritto primario e costituzionalmente tutelato come quello all’assistenza sanitaria (art. 32).

    Emerge evidente come il modello adottato nella sanità pubblica risulti molto simile a quello seguito per la disastrosa “privatizzazione delle concessioni autostradali” tanto caldeggiata dal mondo accademico e politico negli anni ’90.

    Solo la maggiore soglia di competenza richiesta per entrare come operatori privati nel SSN da una parte ha escluso, per nostra fortuna e considerati i risultati gestionali culminati con la tragedia del ponte Morandi, i magliari di Ponzano e contemporaneamente così garantito un minimo sindacale di professionalità rispetto al settore autostradale.

    In altre parole, per garantire la costante ed improduttiva crescita della spesa pubblica la classe politica e governativa ha scientemente deciso di tagliare le risorse per la salute dei cittadini ritenuta di minore importanza rispetto alle spese correnti e di struttura.

    E pensare che ancora oggi si crede che sia stata la cattiva Ue a chiedere di tagliare la spesa sanitaria la quale invece, ancora nel 2018, nel nostro Paese per cittadino risultasse inferiore del -15% alla media europea (2.483 euro a fronte della media europea di 2.884).

    Viceversa la stessa spesa ovviamente risultava insostenibile rispetto ai bassi tassi di crescita della nostra economia ma soprattutto all’esplosione della spesa pubblica corrente, sostenuta dall’insieme di tutti i partiti, sempre in rapporto alla crescita del Pil.

    La pandemia e il relativo stress strutturale del sistema sanitario nazionale hanno solo messo in evidenza le conseguenze di una scellerata gestione della “salute pubblica” operata da una classe politica e dirigente sempre molto affascinata dal modello di gestione “autostrade by Benetton”.

    Gli effetti discutibili della gestione pandemica degli ultimi tre governi sono tuttavia imputabili anche alle scelte politiche negli ultimi vent’anni. E rappresentano il ponte Morandi del nostro SSN.

    (*) modello di depredazione di un sistema pubblico operato per soli fini speculativi

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