Sostenibilità

  • Passata la sbornia Greta, la Ue rivede le tempistiche per la promozione dell’auto elettrica

    La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha riferito il 3 marzo a Bruxelles i tre punti secondo lei più importanti del secondo incontro del “Dialogo strategico sul futuro dell’industria automobilistica europea” con l’industria e le parti interessate del settore automotive.

    E’ stata, ha detto durante un punto stampa, “una discussione proficua, intensa e produttiva, ed è molto chiaro ora che è tempo di agire su una serie di priorità”. In questo quadro, la Commissione presenta la proposta di un Piano d’azione per il settore automotive il 5 marzo.

    “Innanzitutto – ha riferito von der Leyen -, il tema dell’innovazione è stato dominante. Dovrebbe essere al centro di tutto ciò che facciamo per garantire il futuro dell’industria automobilistica in Europa, senza alcun dubbio. Ad esempio, abbiamo concordato che abbiamo bisogno di una grande spinta riguardo al software e all’hardware per la guida autonoma. Sappiamo che la concorrenza globale è feroce. Quindi dobbiamo agire in grande, e dobbiamo essere grandi. L’economia di scala su questo argomento è importante, più che mai”.

    “Ecco perché abbiamo concordato che creeremo e sosterremo un’alleanza di settore” per la guida autonoma. “Le aziende saranno in grado di mettere in comune le risorse. Svilupperanno software, chip e tecnologia di guida autonoma condivisi. Da parte nostra”, come Commissione, “perfezioneremo le regole sui test e la diffusione, e aiuteremo anche a lanciare progetti pilota su larga scala per la guida autonoma. Perché l’obiettivo è molto semplice: dobbiamo portare i veicoli autonomi sulle strade europee più velocemente”, ha indicato von der Leyen.

    Il secondo punto importante indicato dalla presidente della Commissione è la soluzione che si profila al fine di evitare che le industrie automobilistiche europee debbano pagare delle forti multe per non aver rispettato gli obiettivi di riduzione delle emissioni per il 2025, a causa del netto calo della domanda di auto elettriche. La Commissione intende proporre che sia valutata la conformità con l’obiettivo di riduzione su tre anni invece che sull’ultimo anno. “Abbiamo bisogno di prevedibilità ed equità per i ‘first mover’, le imprese che hanno fatto i loro compiti a casa con successo. Ciò significa – ha rilevato von der Leyen – che dobbiamo attenerci agli obiettivi concordati” riguardo al percorso di riduzione delle emissioni di CO2.

    Ma, ha aggiunto, “Dall’altro lato dobbiamo ascoltare le voci e le parti interessate che chiedono più pragmatismo in questi tempi difficili, soprattutto quando si tratta degli obiettivi del 2025 e delle relative sanzioni in caso di non conformità. Per affrontare questo punto in modo equilibrato – ha annunciato -, proporrò questo mese un emendamento mirato al regolamento sugli standard di emissioni di CO2: invece della conformità annuale, le aziende avranno tre anni” per conformarsi agli obiettivi.

    “Gli obiettivi – ha precisato von der Leyen – rimangono gli stessi”, le imprese “devono rispettarli”. Ma questa soluzione “significa che c’è più spazio di manovra per l’industria, e significa anche più chiarezza, senza modificare – ha insistito – gli obiettivi concordati”.

    Il terzo punto riguarda la competitività. “E’ necessario che le filiere europee di fornitura delle automobili siano più solide e resilienti, soprattutto per quanto riguarda le batterie. E qui – ha avvertito von der Leyen – c’è una sfida: perché mentre la nostra produzione è in aumento, vediamo che le batterie importate sono più economiche. Non possiamo permettere che i veicoli elettrici diventino più costosi. Ma non possiamo nemmeno permetterci di creare nuove dipendenze”, ha osservato.

    “Quindi – ha annunciato ancora la presidente della Commissione – esploreremo ipotesi di supporto diretto per i produttori di batterie dell’Ue. E introdurremo gradualmente requisiti di contenuto europei per celle e componenti delle batterie”. Queste, insomma, sono “alcune delle nostre azioni prioritarie. E Ce ne sono altre in arrivo, naturalmente, presentate nel Piano d’azione il 5 marzo. Ma vorrei anche sottolineare – ha concluso von der Leyen – che il dialogo con l’industria automobilistica non è terminato oggi. Continueremo a impegnarci nei filoni di lavoro che abbiamo con i commissari. E abbiamo concordato che ci incontreremo di nuovo a livello di Ceo (amministratori delegati, ndr) prima della pausa estiva”.

  • I padri e le madri della crisi europea

    Emerge evidente e contemporaneamente inquietante, nella valutazione del gigante tedesco Volkswagen, la deleteria sintesi tra una incredibile inadeguatezza del management ed il delirio ideologico, espresso attraverso la propria politica, dalla Commissione Europea.

    Dalle dichiarazioni del CdA emerge evidente la natura della crisi della casa di Wolfsburg la quale nasce da una chiara volontà speculativa,  clonata dal mondo finanziario ma applicata al settore industriale dell’automobile, che ha cercato di massimizzare i vantaggi futuri derivanti da una “opportunità politica europea” fornita dalle scelte pseudo ambientaliste nella politica europea.

    Una volontà speculativa che ha trovato il  limite e quindi le ragioni dell’inevitabile  fallimento in quanto non aveva tenuto in alcuna considerazione la eventuale disponibilità del mercato circa la transizione elettrica nella mobilità privata.

    In altre parole, questa scelta strategica operata dal management della Casa di Wolfsburg, i cui costi sono ora il problema principale dell’azienda, che intende ridurli  attraverso la chiusura o la possibilità di vendita di questi stabilimenti di produzione di auto elettriche, era motivata dalla sola volontà speculativa offerta dalla comunità europea, tanto da illudere il CdA ad andare  verso un periodo caratterizzato da un mercato vergine per i prossimi decenni e relativo alla transizione verso le auto elettriche che avrebbe assicurato oltre 300 milioni di autovetture da cambiare in Europa.

    Proprio questa sintesi deleteria tra ideologia ambientalista e desiderio speculativo ha generato la crisi solo europea del settore Automotive e dell’intera filiera industriale la quale si manifesta nelle sue terribili declinazioni solo ed esclusivamente nel continente europeo, come diretta conseguenza del divieto di produzione e vendita di auto a motore endotermico. Ciò rappresenta un unicum al mondo.

    Tornando alla volontà speculativa del management di Volkswagen, sicuramente i piani industriali di una grossa casa automobilistica non possono essere variati ogni 3-4 anni, come a propria giustificazione afferma il Ceo.

    Ma di fronte ad una scelta assolutamente disastrosa, in quanto basata solo su di una scommessa speculativa, andrebbe assolutamente ritirata da parte degli azionisti la fiducia al CDA e al management, i cui tempi di un avvicendamento però sono sicuramente inferiori, che dovrebbe essere destituito immediatamente per manifesta incompetenza ed inadeguatezza.

    La crisi Volkswagen non rappresenta una problematica evoluzione di un mercato globale e sempre più concorrenziale. Nasce, invece, da una volontà speculativa che ha cercato di sfruttare una ideologica opportunità europea ma senza avere alcuna conoscenza della disponibilità del mercato in merito alle auto elettriche. E proprio per gli effetti ed i mancati risultati ottenuti che dovrebbero essere destituiti per manifesta incompetenza ed inadeguatezza.

    Di conseguenza, gli effetti di questa strategia, espressione di una sintesi tra ideologia ambientalista europea e una  volontà speculativa, dovrebbero ricadere sugli azionisti della Volkswagen che hanno scelto il CdA e, a caduta, il management.

    Invece il perseverare nella medesima strategia finalizzata comunque a nascondere l’errore strategico, con in più il rinnovato sostegno alla posizione dell’Unione europea, si trasformerà in un disastro economico, sociale e politico senza precedenti dal dopoguerra ad oggi per l’intero continente europeo il quale diventerà la Terra di conquista delle auto a carbone (*)  provenienti dalla Cina.

    (*) Il 62% dell’energia necessaria alla realizzazione delle auto cinesi viene dalle centrali a carbone attraverso l’importazione di 5 miliardi di tonnellate all’anno.

  • Le case automobilistiche europee potrebbero pagare le concorrenti cinesi per le emissioni di carbonio

    Le case automobilistiche europee, guidate da Volkswagen, rischiano di dover sborsare centinaia di milioni di euro ai produttori cinesi di veicoli elettrici per l’acquisto di crediti di carbonio, nel tentativo di evitare le pesanti multe previste dalle norme Ue sulle emissioni per il 2025. Lo riporta il Financial Times. In base alla normativa europea – ricorda il quotidiano britannico -, le case automobilistiche sono obbligate a ridurre le emissioni medie di CO2 delle loro flotte a 93,6 grammi per chilometro entro il 2025, e le aziende che supereranno questo limite saranno soggette a una multa di 95 euro per ogni grammo di CO2 in eccesso, moltiplicata per ogni auto venduta. Secondo gli analisti – scrive il Financial Times -, molte case automobilistiche dell’Ue si trovano di fronte a una scelta: accelerare la vendita di veicoli elettrici abbassandone i prezzi, pagare miliardi di euro di sanzioni o acquistare crediti di carbonio da produttori meno inquinanti. Tra i principali beneficiari di questa strategia ci sono i produttori cinesi come Byd, che vantano una solida posizione nel mercato europeo dei veicoli elettrici e dispongono di ampi pool di crediti da vendere.

    Secondo quanto riferisce il Financial Times, una delle soluzioni che molti gruppi sta adottando è il cosiddetto “pooling”, che permette di calcolare la media delle emissioni tra flotte di diverse aziende operanti nell’Unione europea. Gli analisti avvertono tuttavia che il costo dei crediti potrebbe ammontare a centinaia di milioni di euro per alcune case automobilistiche europee, in ritardo nella transizione verso la mobilità elettrica, e che l’accordo renderà meno competitiva l’industria europea, favorendo i rivali cinesi in un momento in cui Bruxelles ha imposto tariffe più alte sui veicoli elettrici cinesi per proteggere le case automobilistiche europee. Jens Gieseke, un legislatore di centro-destra del Parlamento europeo – riporta il Financial Times -, ha affermato che l’Ue ha commesso un “errore” nel consentire il pooling con le case automobilistiche statunitensi e cinesi, in quanto ciò potrebbe avvantaggiare i rivali delle case automobilistiche europee.

    Per l’analista di Ubs Patrick Hummel, secondo quanto scrive il quotidiano britannico -, lo Stato tedesco della Bassa Sassonia detiene una partecipazione del 20% in Volkswagen, mentre Renault è per il 15% di proprietà del governo, il che rende la condivisione dei gruppi con le case automobilistiche cinesi un argomento politicamente sensibile. L’Europa, sottolinea il Financial Times, è il continente che si sta riscaldando più velocemente al mondo, con un aumento delle temperature doppio rispetto alla media globale dagli anni ’80, dovuto anche alla vicinanza all’Artico in scioglimento. Questi fattori rendono ancora più pressante la necessità di rispettare gli obiettivi climatici stabiliti da Bruxelles.

  • Ok di Tunisia e Algeria: il corridoio del gas per rifornire Italia, Austria e Germania può partire

    Tunisia e Algeria si aggiungono al patto tra Italia, Austria e Germania per trasportare idrogeno tra le due sponde del Mediterraneo. Con la firma, il 21 gennaio a Roma, di una nuova dichiarazione comune di intenti tra i cinque paesi, il progetto del Corridoio Sud dell’Idrogeno inizia a fare qualche passo avanti concreto.

    L’intesa siglata a Villa Madama non aggiunge né modifica le linee fondamentali del progetto SouthH2 Corridor. Punta invece a rafforzare la cooperazione, soprattutto a livello tecnico, tra tutti iPpaesi interessati dai 3.300 chilometri di gasdotti adatti a trasportare anche idrogeno. Roma, Vienna e Berlino avevano già compiuto un passo del genere a fine maggio 2024. L’accordo prevedeva di trasformare il supporto politico in lavori tecnici e cooperazione tra gli stakeholder rilevanti dei 3 Paesi. La dichiarazione d’intenti firmata il 21 gennaio 2025 estende il perimetro dell’iniziativa a Tunisia e Algeria. Prevede per i 5 Paesi l’impegno di riunirsi semestralmente a livello di gruppo di lavoro tecnico per monitorare e sostenere l’attuazione del progetto.

    Finora, la tabella di marcia è rispettata. L’intesa allargata a Tunisia e Algeria era prevista nella prima metà del 2025. Entro fine 2025 dovrà avvenire lo sviluppo di un rapporto di definizione dell’ambito del SouthH2Corridor. E l’ok allo status di Progetti di reciproco interesse (PMI) nell’ambito del regolamento sulla rete transeuropea per l’energia (TEN-E) nel settimo elenco PCI/PMI europeo.

    Il Corridoio Sud dell’Idrogeno prevede la costruzione di nuove pipeline, o il riadattamento di condutture esistenti, per trasportare in Europa l’idrogeno prodotto in Nord Africa. Il SouthH2 Corridor rientra nella strategia europea per il vettore energetico, che prevede di importare dall’estero entro il 2030 almeno 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile.

    Da progetto, la pipeline di 3.300 km dovrebbe trasportare 4 milioni tonnellate di idrogeno l’anno, il 40% del target Ue. Idrogeno che dovrebbe essere generato in Algeria (manca però adeguata capacità rinnovabile affinché sia H2 verde) e trasportato via Tunisia fino a Mazara del Vallo, dove sarebbe immesso nella rete italiana per poi accedere ai mercati dell’Europa centrale attraverso Tarvisio. Con una possibile diramazione attraverso la Svizzera (Passo Gries), paese che ha il ruolo di osservatore nel progetto. Il segmento italiano sarà quello principale: lungo 2.300 chilometri, circa 70% dei quali da ottenere tramite riconversione delle condutture gas esistenti e 30% da costruire ex novo.

    A inizio dicembre 2024, il Corridoio Sud dell’Idrogeno è stato inserito nella lista dei progetti bandiera dell’Ue per il 2025 sotto l’iniziativa Global Gateway, che facilita finanziamenti e realizzazione dell’opera. In precedenza, era già stato inserito nella lista dei progetti di interesse europeo.

  • Il dumping ideologico

    Le forme di dumping possono essere molteplici e la consapevolezza dovrebbe influenzare la politica economica e strategica dell’Unione Europea. Il costo del lavoro in Cina risulta inferiore del -77% rispetto al costo medio occidentale, fornendo così un vantaggio strutturale all’economia cinese e conseguentemente incrinando ogni modello di libero mercato votato alla semplice e scolastica applicazione del principio della concorrenza. Tuttavia questo differenziale viene determinato non solo da un basso livello retributivo ma anche dalla assenza di tutele dell’intero sistema produttivo e per questo assolutamente non paragonabile a quanto il mondo occidentale invece garantisce.

    A questo “dumping retributivo” che già ha distrutto, all’inizio del terzo millennio, il sistema tessile abbigliamento, europeo anche grazie alla volontà speculativa di molte aziende che hanno delocalizzato la propria produzione, ora se ne aggiunge un secondo il quale da solo azzera ogni valore strategico alla politica europea per la “tutela dell’ambiente”.

    Va infatti ricordato che in Cina ogni anno vengano importati cinque miliardi di tonnellate di carbone usato come combustibile per assicurare il 60% dell’energia elettrica fornita appunto dalle centrali a carbone. In questo modo vengono alimentati i sistemi industriali ed in particolare quello dell’automotive i cui prodotti, come l’auto elettrica, paradossalmente in Europa vengono invece considerati a “basso impatto ambientale”.

    La forma più inquinante di produzione energetica quindi, quella a carbone, viene utilizzata dal settore automotive cinese il quale, proprio per questo motivo, è espressione di un ciclo produttivo a fortissimo impatto ambientale legato appunto all’utilizzo del carbone, un fattore determinante nella valutazione di impatto ambientale complessivo di un prodotto ed assolutamente non considerato all’interno dell’Unione Europea.

    Prova ne sia che la stessa Unione Europea non solo omette di considerare e premiare il basso impatto ambientale della produzione di autoveicoli europei che utilizzano fonti energetiche sicuramente meno inquinanti di quella di origine carbonifera cinese, In più dal 2025 imporrà alle case automobilistiche europee il pagamento di sanzioni per tutte quelle aziende che non rispettasse i limiti di emissioni già arbitrariamente definiti. In questo modo non si valuta la qualità complessiva del ciclo produttivo dell’intero settore automotive europeo il cui impatto ambientale risulta minimo rispetto a quella cinese, ma addirittura lo si penalizza sulla base di valori ridicoli legati alle emissioni degli autoveicoli, quindi a valle della filiera produttiva.

    In altre parole, la tecnologia automobilistica europea che ha permesso la riduzione negli ultimi vent’anni del – 97% delle emissioni di PM10 e del -92 % del NOx, attraverso l’applicazione di multe basate sul mancato rispetto di valori delle emissioni assolutamente ideologici, favorirà la concorrenza cinese e la sua produzione ad altissimo impatto ambientale. L’automobile cinese così viene doppiamente incentivata dal regime cinese attraverso la fornitura di energia in “dumping ambientale” oltre ai finanziamenti pubblici alle stesse case automobilistiche, ma anche la stessa Unione Europea la favorisce ulteriormente in quanto penalizza fiscalmente il settore automotive europeo.

    Si passa, così, da un “dumping” relativo al costo del lavoro a quello energetico il quale al proprio interno contiene ed esprime in più articolato “dumping ideologico” la cui matrice politica si conferma di origine socialista ed in questo molto simile a quella adottata dal colosso cinese. Basti ricordare come l’Unione Europea possa essere considerata come la massima esponente di questo interventismo in ambito economico, in quanto risulta l’unica istituzione ad avere adottato il divieto, dal 2035, alla produzione ed alla vendita dei motori endotermici.

    Il percorso intrapreso nell’Unione Europea  da un sistema economico europeo espressione di valori liberali ed occidentali ad una società socialista è già stato avviato attraverso l’adozione dei principi ideologici del dumping ideologico.

  • Cresce la produzione di energia fotovoltaica in Sardegna

    E’ sempre più “green” l’energia prodotta in Sardegna con il fotovoltaico. Nell’Isola, infatti, si contano ben 11.573 impianti connessi alla rete che producono 196 megawatt. Consistente anche il numero delle imprese che operano, direttamente o indirettamente, nel settore delle rinnovabili; sono 2.510 quelle che realizzano, montano e manutengono motori, generatori, impianti elettrici, turbine, e pannelli fotovoltaici, che producono energia, e trasformano le biomasse. Gli addetti sono circa 7mila. E’ questa la sintesi dell’analisi sul fotovoltaico realizzata dall’Ufficio Studi di Confartigianato Imprese Sardegna, che ha rielaborato i dati fonte Gaudì e Terna per il 2023. Nella classifica degli impianti attivi in Italia, aperta dalla Lombardia con 64.833, seguita dal Veneto con 48.839, l’Isola si pone all’undicesimo posto per impianti presenti. Nel 2022, in Sardegna, gli sistemi di produzione fotovoltaica erano 5.899. Per ciò che riguarda la potenza generata dagli impianti sardi, come detto, è stata di 196 megawatt nel 2023 mentre era di 137 mw nel 2022; la crescita registrata tra il 2022 e 2023 è stata del +431 per cento mentre nel periodo 2021 e 2022 è cresciuta del +44 per cento. In totale le FER, fonti da energia rinnovabile nell’Isola hanno prodotto 2.915 megawatt nel 2023 mentre erano 2.179 mw nel 2022. “Per ridurre i costi dell’energia, abbattere le emissioni, favorire la creazione di imprese e occupazione – commenta Giacomo Meloni, Presidente di Confartigianato Imprese Sardegna – va potenziato l’utilizzo di produzioni come quella fotovoltaica, anche favorendo gli investimenti in piccoli impianti per l’autoproduzione, privilegiandone l’installazione su capannoni e aree occupate di immobili produttivi per evitare il consumo di suolo, e promuovendo la realizzazione di comunità energetiche”.

    Confartigianato Sardegna, ricorda come la Regione, credendo fortemente nell’autoproduzione e nell’autoconsumo per edifici pubblici, imprese, case private e Comunità Energetiche, attraverso un bando che sarà pubblicato a breve, abbia messo a disposizione 678milioni, fino al 2030, per creare un circolo virtuoso nell’utilizzo dei fondi da parte delle aziende. “Le nostre imprese sono pronte a fare la propria parte e a sfruttare questa occasione – aggiunge Meloni – che consentirebbe una autonoma produzione di energia pulita, con il relativo consumo, riducendo i costi della bolletta e contribuendo a salvaguardare l’ambiente”. Per Confartigianato Sardegna, costruire un futuro sostenibile per le imprese e per l’Italia è una responsabilità collettiva. Gli sforzi degli imprenditori devono però essere accompagnati da politiche e interventi orientati ad affrontare la transizione energetica e ambientale. “Nonostante le incertezze legate alla rimodulazione degli incentivi per le rinnovabili – continua il Presidente di Confartigianato Sardegna – nella nostra Isola cresce questo tipo di fonte rinnovabile e reggono bene anche le aziende legate ai servizi, alla manutenzione degli impianti e alla generazione dell’energia stessa. Ciò fa bene all’ambiente e all’economia”. “I numeri – prosegue Meloni – sottolineano la vivacità di un comparto che punta sull’eco-efficienza e che offre grandi potenzialità di sviluppo alle piccole imprese, sia in termini di innovazione, sia del mantenimento dei posti di lavoro”.

    “Non dimentichiamoci che queste buone performance – rimarca – sono anche il frutto delle misure messe in campo dai Governi Nazionali. Pertanto è auspicabile che venga confermata l’attenzione verso questo settore, che punta sull’innovazione, con un know how ormai consolidato che ha dimostrato di portare ossigeno a numerosi settori, in particolare all’edilizia”. “Ed è proprio questo comparto che – conclude il Presidente di Confartigianato Sardegna – grazie alla crescita delle rinnovabili, unita agli interventi sul risparmio energetico potrebbe vedere ulteriormente crescere gli interventi dei privati sulla riqualificazione energetica degli stabili”. Sempre più imprenditori sardi fanno della sostenibilità e dell’efficientamento delle proprie aziende un impegno forte e costante. In Sardegna il 25 per cento delle realtà (circa 45mila, erano 14.520 solo nel 2018) ha investito in “prodotti e tecnologie a maggior risparmio energetico e/o a minor impatto ambientale”, classificandosi al 5° posto in Italia per attività produttive in “ambito green”, mentre è del 30,5 per cento (circa 57mila) la percentuale delle attività regionali che ha effettuato una “formazione adatta transizione green e sostenibilità ambientale” per i propri dipendenti; 9° posto nazionale. Alla transizione green sono interessati ben 80.222 addetti, il 25,8 per cento di tutte le imprese sarde attive nella filiera della casa (costruzioni, impiantistica, produzione materiali edili, legno, sughero, taglio e finitura pietra, studi di ingegneria e architettura), dell’autoriparazione, del trasporto merci e persone e di altre tipologie di produzioni. Nonostante queste performance, nell’Isola rimane difficile reperire il 45,5 per cento dei lavoratori con “competenze verdi e sostenibili”: all’artigianato sardo ne mancano più di 8mila.

  • Quel sottile desiderio eversivo

    “È allora forse arrivato il momento di pensare a qualcosa di più radicale, come per esempio l’istituzione di un organismo europeo che possa agire con una certa autonomia dalla politica pur essendo soggetto a valutazione e controllo dal Parlamento, un po’ sul modello di una banca centrale” – Lucrezia Reichlin, Corriere della Sera 1/12/ 2024

    L’indipendenza della attuale BCE dal mondo della politica e, di conseguenza, anche dal Parlamento Europeo rappresenta uno dei capisaldi istitutivi della stessa istituzione europea, per assicurarsi di mantenere l’indipendenza e la libertà dall’influenza delle singole nazioni e un potenziale condizionamento dalle singole compagini governative, come dalle maggioranze parlamentari.

    Quindi l’affermazione relativa ad un nuovo istituto ma “soggetto a valutazione e controllo del Parlamento…sul modello di una Banca centrale…” quando anche per la Banca d’Italia l’elemento di indipendenza risulta presente fino dal suo atto istitutivo del 1893.

    Questo modelli di riferimento, Bce e Banca Centrale nazionale, assolutamente lontani dalla realtà invece nascondono, oltre ad una discutibile competenza, la motivazione per giustificare e confermare la necessità di una imposizione del Green Deal proprio attraverso un nuovo organo europeo, svincolato dalle volontà degli elettori in quanto nominato e non eletto.

    In altre parole, si avanza la necessità di affermare, in un contesto di estrema difficoltà economica per ogni singolo paese dell’Unione europea, la necessità della creazione di un nuovo ordine, all’interno del quale viene considerata come elemento fondativo e qualificante la stessa transizione energetica, la quale diventa la ragione del delirio politico e quindi il collante di spiriti e visioni eversive.

    In considerazione, poi, proprio della assolutamente ininfluente ricaduta a tutela del territorio continentale di tali eurocentriche politiche ambientaliste, se si considera come in Cina siano stati autorizzati 218 GW il cui raggiungimento richiede l’apertura di sei centrali a carbone al mese con emissioni assicurate per i prossimi 75 anni, rimane allora l’implicito obiettivo della creazione di un nuovo ordine.

    Ecco quindi, anche se anche privo di ogni supporto scientifico e frutto semplicemente delle applicazioni ideologiche ad infantili competenze, che il perseguimento forzato della transizione ambientale rappresenta la motivazione per l’istituzione di un organo considerato superiore ad ogni istituzione europea, anche se privo di un consenso elettorale e svincolato dall’esercizio del diritto del voto.

    In questo rinnovato contesto allora paradossalmente si intravedono maggiori similitudini con un modello dittatoriale simile più alla Cina che non a qualsiasi altra democrazia occidentale.

    Il perseguimento della creazione di questo nuovo ordine risulta ormai chiara, e mentre una volta poteva essere semplicemente auspicata, ora si esplicita con i propri connotati mediatici del Corriere della Sera e del suo editore.

    Emerge ora un nuovo esempio di quel suprematismo ideologico espresso all’interno del movimento ambientalista, i cui esponenti di spicco hanno completamente perso il senso della democrazia e dei propri principi.

    Questo nuovo ordine, implicitamente eversivo rispetto ai principi democratici nazionali ed internazionali, non parte più, come in passato, dai ceti popolari che intendevano ribellarsi ad una “condizione di sfruttamento delle masse operaie” e da coloro che se ne facevano interpreti. Viceversa il nuovo desiderio eversivo nasce dal delirio espressione di una presunta superiorità intellettuale unita ad un suprematismo ideologico di chi, a torto, si considera “élite” culturale e conscio degli effetti devastanti per quelle “masse operaie” le quali sono destinate a pagare i costi di questa eversione ambientalista.

    Mai come ora il pensiero di Albert Camus risulta di una contemporaneità agghiacciante: “Il benessere dell’umanità è sempre l’alibi dei tiranni”.

  • L’UE si riconferma leader a livello mondiale in materia di finanza sostenibile

    A più di tre anni dalla prima emissione, l’UE ha emesso oltre 65 miliardi di euro in obbligazioni verdi di NextGenerationEU, il che potrebbe renderla il più grande emittente di obbligazioni verdi al mondo.

    In linea con l’annuncio della Presidente Von der Leyen nel suo discorso del 2020 sullo stato dell’Unione, la Commissione europea continuerà ad adoperarsi per emettere il 30% dei finanziamenti di NextGenerationEU mediante obbligazioni verdi, che dovrebbero coprire 264,6 miliardi di euro di investimenti nei trasporti puliti, energia pulita ed efficienza energetica, a conferma del ruolo di primo piano dell’UE nella finanza sostenibile.

    Secondo le stime, la piena attuazione nei prossimi anni di tutte le misure che possono essere finanziate mediante obbligazioni verdi di NextGenerationEU fornirà un contributo significativo alla transizione verde dell’UE, riducendo le emissioni di gas a effetto serra di 55 milioni di tonnellate all’anno. Si tratta dell’1,5% di tutte le emissioni di gas a effetto serra nell’UE, pari alle emissioni combinate di 15 milioni di famiglie europee o alla sostituzione con veicoli elettrici di 38 milioni di automobili a combustione interna sui 250 milioni in circolazione nell’UE,

  • Il benessere dell’umanità

    “Il benessere dell’umanità è sempre l’alibi dei tiranni”, Albert Camus

    Da sempre l’ideologia rappresenta lo strumento attraverso il quale giustificare una scelta anche di natura economica la quale altrimenti sarebbe ingiustificabile. Questo è quanto accade, ora, in merito alla transizione verso una mobilità elettrica, sostenuta proprio da quelle compagini politiche che hanno visto crollare i propri modelli politici e di sviluppo con la caduta del Muro di Berlino lasciandoli senza riferimenti. L’attenzione e la sete di riscossa politica si spostano quindi verso il modello di vita e consumi occidentale.

    In questo contesto allora ecco la lotta alla mobilità indipendente possibile grazie all’utilizzo delle autovetture private ed al loro “impatto”.

    L’auto  risulta responsabile dell’1% delle emissioni di CO2, la cui riduzione del 50% sarebbe ottenibile semplicemente attendendo la normale conversione delle vecchie auto o magari attraverso una incentivazione fiscale alle classe di emissione euro 6.

    Quindi, in considerazione del fatto che l’Italia risulta responsabile dello 0,7% delle emissioni totali e l’intera Europa del 6,5%, tanto le emissioni attuali di CO2 (1%), attribuibile alle auto, quanto la loro riduzione del 50% risulterebbero già di per sé  marginale in rapporto alle conseguenze economiche e sociali legate ad un avvento dell’auto elettrica cinese. Basti ricordare, infatti, come il settore Automotive in Europa rappresenti dodici milioni di posti di lavoro, circa mille miliardi di entrate fiscali ed il 12% del PIL.

    In relazione, poi, alle polveri sottili andrebbe ricordato come ad un grammo emesso da un motore endotermico ne corrispondano 1850 grammi attribuibili alla resistenza al rotolamento dei pneumatici che diventano 3850 nel caso di una guida più nervosa, ma comunque all’interno dei limiti imposti dal Codice della strada.

    Come logica conseguenza emerge evidente come il problema dell’impatto ambientale nella mobilità sia  più legato, in relazione alle polveri sottili, agli pneumatici che non al motore endotermico.

    Viceversa, la deriva strategica intrapresa dall’Unione Europea e soprattutto dalla sua Commissione trova la propria ragione in una scelta puramente ideologica nella quale la leva ambientalista rappresenta il fattore scatenante.

    Contemporaneamente in Cina negli ultimi due anni sono stati autorizzate le produzioni di 218 GW da centrali a Carbone (1 GW, 1 miliardo di Watt), quindi sono centinaia le centrali a carbone che la Cina sta costruendo in questo momento per alimentare il proprio sviluppo, e quindi anche l’industria automobilistica cinese, con un vita media compresa tra i 50 e i 75 anni, quindi operative fino alla fine del secolo in corso.

    In questo contesto basti ricordare come le emissioni delle centrali a carbone rappresentino un quinto di quelle totali e metà sia  localizzata in Cina ma in continua crescita.

    Pensare di utilizzare i prodotti di una economia malsana, con il primato mondiale dell’impatto ambientale, rappresenta, all’interno di una politica attenta ad un equilibrio ambientale, sia nel settore Automotive come in precedenza avvenne con il tessile abbigliamento,

    la strategia a più alto tasso di inquinamento che la UE potesse adottare.

    La sola giustificazione che possa sostenere il blocco della vendita e produzione dei motori endotermici a partire dal 2035 può venire considerata solo come espressione in un cieco furore ideologico che da sempre rappresenta il modo per sostenere quanto altrimenti risulterebbe assolutamente ingiustificabile e sempre in nome del bene comune.

  • Diminuite di oltre l’8% nel 2023 le emissioni di gas a effetto serra dell’UE grazie alla crescita delle energie rinnovabili

    La Commissione europea ha pubblicato la relazione 2024 sui progressi dell’azione per il clima, da cui emerge che le emissioni nette di gas a effetto serra dell’UE sono diminuite dell’8,3% nel 2023 rispetto all’anno precedente. Si tratta del più marcato calo annuo degli ultimi decenni, con l’eccezione del 2020, quando la pandemia di COVID-19 comportò riduzioni delle emissioni del 9,8 %. Le emissioni nette di gas a effetto serra sono oggi inferiori del 37% rispetto ai livelli del 1990, mentre nello stesso periodo il PIL è cresciuto del 68%, a dimostrazione della sempre crescente disassociazione delle emissioni dalla crescita economica. L’UE rimane dunque sulla buona strada per mantenere l’impegno di ridurre le emissioni di almeno il 55 % entro il 2030.

    Mentre la relazione contiene notizie incoraggianti sulle riduzioni delle emissioni dell’UE, bisogna sottolineare anche che durante l’anno scorso a causa dei cambiamenti climatici si sono verificati più eventi catastrofici e più perdite di vite umane e di mezzi di sussistenza, mentre le emissioni globali non hanno ancora raggiunto il loro picco. È quindi necessaria un’azione costante per garantire che l’UE raggiunga i suoi obiettivi per il 2030 e si avvii sulla strada giusta per conseguire l’obiettivo prefissato per il 2040 e il traguardo di azzerare le emissioni nette entro il 2050. L’UE deve inoltre proseguire il suo impegno internazionale, a partire dalla COP29 del mese prossimo, per fare sì che anche i nostri partner internazionali adottino le misure necessarie.

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