spesa

  • Lo “spread energetico”

    Lo spread indica il differenziale di rendimento tra i titoli del debito pubblico italiani e quelli tedeschi. Il suo basso livello attuale, che viene erroneamente interpretato come una valutazione positiva relativa alla strategia economica del governo in carica, dipende invece dal fatto che la Germania si conferma in recessione. In altri termini, nonostante il valore dello spread sia come detto assolutamente sostenibile, le condizioni economiche all’inizio del 2025 risultano molto simili a quelle del novembre 2011, alle quali vanno aggiunti oltre 1.000 miliardi di debito pubblico, avendo raggiunto e superato quota 3000 miliardi.

    Questo principio del confronto tra valori andrebbe adottato anche nel campo dei costi energetici, e stiamo parlando dello spread energetico, inteso come il differenziale tra i diversi costi energetici praticati alle famiglie e alle imprese, tra due Paesi che, nello specifico, possono essere rappresentati dalla Francia e dall’Italia. Ecco allora come questo differenziale risulti in forte crescita, esprimendo quindi il maggiore costo energetico pagato e subito in Italia, le cui ragioni sono interamente addebitabili alla mancanza di una politica energetica negli ultimi 30 anni, e confermata anche dal governo in carica che continua nella cessione di asset delle aziende energetiche.

    La sintesi finale di questa mancanza ultra decennale di competenza in ambito energetico determinerà un diverso destino economico e sociale riservato alla Francia rispetto a quello assicurato all’Italia.

    Come anticipato nel maggio 2023, le prospettive “energetiche” dei due Paesi erano già allora chiaramente differenti (*) ma quanto sta avvenendo nel gennaio 2025 conferma clamorosamente il trend a favore dell’economia francese. L’autorità energetica francese infatti ha deciso di ridurre del -15% il costo dell’elettricità praticato tanto alle famiglie quanto alle imprese francesi (**), mentre nel nostro Paese le aspettative relative al costo energetico sono di una crescita fino ad un +30%.

    Come logica conseguenza si prospetta un difficile futuro per le famiglie e per le imprese italiane, le quali vedranno aumentare di 30/45 punti lo spread energetico, a favore dei consumatori e delle imprese francesi.

    Questo, infatti, è l’effetto combinato della diminuzione decisa dall’autorità transalpina (-15%) e l’immediato aumento in Italia già in bolletta del +15%, destinato in più ad arrivare nei prossimi tre mesi addirittura ad un +30% portando quindi lo spread energetico finale ad un +45 punti.

    In questo contesto le famiglie italiane vedranno ancora una volta ridurre la propria disponibilità economica, ed inevitabilmente di consumo, drenata dai maggiori costi energetici, la quale si tradurrà con una ulteriore riduzione dei consumi ed ovviamente della crescita economica complessiva.

    Le imprese, viceversa, espressione del made in Italy o di filiere complesse internazionali, dovranno subire una ulteriore diminuzione della propria competitività in un mercato globale sempre più concorrenziale. Le ventidue flessioni consecutive della produzione industriale vanno interpretate anche come un effetto diretto di questa mancata tutela energetica.

    L’unica politica industriale rimane quella energetica, da troppo tempo dimenticata o, peggio, addirittura caratterizzata dalla cessione di asset fondamentali nazionali ai fondi internazionali che adottano inevitabilmente la propria logica speculativa. Per le famiglie e le imprese italiane quindi lo scenario futuro si tinge, una volta di più, di fosche tinte.

    (*) https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-diverso-destino-di-italia-e-francia/

    (**) https://www.francetvinfo.fr/economie/pouvoir-achat/electricite-la-commission-de-regulation-de-l-energie-annonce-une-baisse-de-15-en-moyenne-du-tarif-reglemente_7017836.html

  • La crisi tedesca e possibili implicazioni per l’Unione Europea

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Marco Palombi

    In Germania, il peggioramento della crisi economica ha subito, di recente, una brusca accelerazione.

    Il governo federale, sotto la guida del Cancelliere Olaf Scholz, ha adottato un approccio orientato alla continuità nominando Jörg Kukies come nuovo ministro delle Finanze.

    Tuttavia, la pressione politica si intensifica: Friedrich Merz, capo dell’opposizione della CDU e candidato alla cancelleria, ha richiesto l’anticipazione del voto di fiducia inizialmente previsto per il 15 gennaio, sottolineando che “non ci sono ragioni per attendere oltre due mesi”[i].

    La Germania sta affrontando una fase critica di deindustrializzazione, evidenziata da un calo significativo della produzione industriale.

    A settembre 2024, la produzione industriale tedesca è diminuita del 2,5% su base mensile, superando le previsioni di un calo dell’1%, e del 4,6% su base annua, rispetto alle attese di una diminuzione del 3%[ii] e [iii].

    La crisi del settore automobilistico tedesco[iv], un pilastro dell’economia nazionale, che rappresenta il 5% del PIL nazionale, riflette una serie di sfide complesse derivanti da cambiamenti strutturali, pressioni ambientali e dinamiche di mercato globali. Le aziende hanno difficoltà a gestire la transizione verso i veicoli elettrici e affrontare le crescenti pressioni dei costi[v]. Di conseguenza, Volkswagen ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti in Germania, una decisione significativa che comporta la perdita di circa 30.000 posti di lavoro.

    La situazione occupazionale in Germania, al settembre 2024, mostra un tasso di disoccupazione destagionalizzato al 6%. Questo dato non considera i disoccupati di lungo periodo che beneficiano di sussidi statali. L’Istituto per la Ricerca sull’Occupazione tedesco (IAB) ha stimato che, includendo circa 5,5 milioni di persone disoccupate da oltre un anno e supportate dallo Stato, il tasso di disoccupazione effettivo potrebbe aumentare significativamente, avvicinandosi al 18% [vi].

    La struttura del mercato del lavoro tedesco mostra un crescente divario tra l’occupazione nel settore pubblico, che continua a espandersi, e un settore manifatturiero in declino.

    Negli ultimi anni, la Germania ha registrato un incremento nell’occupazione nel settore pubblico. Secondo l’Ufficio Federale di Statistica Tedesco[vii] nel 2023 il numero di dipendenti pubblici è aumentato dell’1,5% rispetto all’anno precedente, raggiungendo circa 4,9 milioni di persone impiegate nel settore pubblico. Questo incremento è attribuibile principalmente all’espansione dei servizi pubblici, in particolare nei settori dell’istruzione e della sanità, per far fronte alle crescenti esigenze della popolazione che invecchia.

    La spesa per il personale pubblico, che include salari e benefici, è aumentata del 4,1% nel 2024, a seguito di accordi sindacali e dell’espansione dei servizi (Statistisches Bundesamt, 2024; Financial Times, 2024).

    Questa forbice nella crescita evoca uno scenario in cui vi possa essere un aumento della spesa pubblica e del deficit fiscale, senza un corrispondente aumento del PIL, con potenziali implicazioni per la stabilità economica a lungo termine.

    Secondo i dati del Ministero delle Finanze tedesco, il rapporto debito/PIL dovrebbe salire al 64% nel 2024, rispetto al 63,6% del 2023. Sempre secondo il ministero, il rapporto debito/PIL della Germania è previsto in crescita, con un incremento di circa 3,2 punti percentuali tra il 2024 e il 2025, al fine di sostenere la spesa corrente e compensare le perdite fiscali derivanti dal calo produttivo.

    Questo incremento deriva da una serie di interventi fiscali volti a mitigare l’impatto dell’inflazione e della crisi energetica, tra cui il piano “Generational Capital”, che prevede un finanziamento di 12,5 miliardi di euro da destinare alle pensioni, e un pacchetto di supporto energetico dal valore di circa 200 miliardi di euro, che rappresenta il 5,2% del PIL nazionale[viii]

    Inoltre, la transizione energetica della Germania rappresenta una sfida economica ed infrastrutturale di grandi dimensioni, la cui giustificazione potrebbe essere messa in discussione dal suo costo.

    L’obiettivo della Germania di raggiungere la neutralità climatica entro il 2045 richiede investimenti in tecnologie verdi, infrastrutture energetiche e riconversione industriale per circa 450 miliardi di euro entro il 2045[ix].

    Oltre alla rete energetica, la decarbonizzazione dell’industria manifatturiera richiederà ulteriori finanziamenti. La Banca Centrale Europea[x] stima che la trasformazione del settore industriale tedesco per ridurre le emissioni di CO₂ potrebbe costare complessivamente fino a 1.850 miliardi di euro, una cifra che equivale a quasi la metà del PIL annuale della Germania.

    La pressione economica derivante da questi investimenti potrebbe avere impatti significativi sul bilancio pubblico e sul debito a lungo termine.

    Una Germania sempre più dipendente da politiche di indebitamento comune – un’idea che fino ad ora ha respinto con fermezza – potrebbe minare le fondamenta dell’UE stessa.

    Nel contesto di una crisi interna, l’opzione di rivedere o persino abbandonare alcuni degli impegni europei, inclusa l’unione fiscale e bancaria, non può essere esclusa.

    Storicamente, la Germania ha mantenuto una rigorosa politica di contenimento del debito, sancita formalmente con l’introduzione della “Schuldenbremse” o freno al debito nella costituzione nel 2009. Questa scelta riflette una cultura fiscale conservativa, basata sulla diffidenza verso un eccessivo ricorso all’indebitamento per evitare rischi di destabilizzazione economica. L’economista tedesco Hans-Werner Sinn ha ribadito più volte che la Germania non dovrebbe sostenere finanziariamente politiche, come il Green Deal europeo, se queste non portano benefici diretti e richiedono un aumento significativo del debito pubblico[xi].

    Con investimenti previsti di circa 1.850 miliardi di euro per la decarbonizzazione dell’industria, la pressione fiscale sulla Germania continua a crescere. Se il Paese decidesse di abbandonare o ridurre il proprio impegno in politiche ambientali europee di vasta portata, si creerebbe un divario tra le priorità della UE e le esigenze economiche interne. Tale approccio potrebbe spingere la Germania a limitare la propria partecipazione a progetti come il Green Deal, che comportano costi elevati senza ritorni immediati per l’economia nazionale. Markus Kerber, tra gli altri analisti, suggerisce che la Germania potrebbe orientarsi verso politiche ambientali interne, mirate alla riduzione delle emissioni nei settori industriali strategici, senza necessariamente allinearsi agli obiettivi europei [xii].

    Un possibile scenario di disimpegno progressivo dall’UE potrebbe derivare dall’accumulo di pressioni fiscali e dalla percezione di una crescente erosione della sovranità economica, legata al consolidamento delle decisioni europee in campo fiscale. Durante la crisi dell’eurozona, alcuni leader tedeschi ipotizzarono l’uscita dalla moneta unica per ripristinare la sovranità monetaria e fornire strumenti di supporto all’economia reale, qualora fosse divenuta insostenibile la permanenza nell’Euro. Questo riflette una tendenza a preservare la capacità decisionale nazionale, soprattutto per proteggere il settore industriale attraverso misure autonome.

    Con un debito pubblico in crescita per finanziare politiche onerose come l’unione bancaria e fiscale, l’elettorato tedesco potrebbe spingere un futuro governo a riesaminare il ruolo della Germania all’interno dell’UE. Tale scelta permetterebbe una maggiore flessibilità nella definizione di politiche commerciali a difesa dell’industria locale, inclusi settori chiave come la produzione di veicoli e macchinari. Tuttavia, questa ipotesi di disimpegno avrebbe profonde ripercussioni sull’economia europea e segnerebbe un ritorno a pratiche protezionistiche, come esplorato da Wolfgang Streeck, il quale ha analizzato il declino della cooperazione monetaria europea e l’ineluttabile spinta verso un’indipendenza fiscale[xiii].

    La crescente instabilità politica in Germania potrebbe quindi incidere significativamente sul futuro dell’UE, specie in vista delle elezioni del 2025, con potenziali conseguenze sull’equilibrio e sulla coesione del progetto europeo.

    [i] – Handelsblatt, 2023. “Friedrich Merz Calls for Early Confidence Vote Amid Escalating Economic Crisis.” Disponibile su: https://www.handelsblatt.com

    [ii]  Teleborsa, 2024. Germania: Produzione Industriale in Calo a Settembre 2024. Teleborsa. Disponibile su: https://www.teleborsa.it/News/2024/11/07/germania-produzione-industriale-settembre-scende-piu-delle-attese-17.html [Accesso 7 novembre 2024].

    [iii] Bundesbank, 2024. Monthly Report on Germany’s Industrial Production Decline. Bundesbank. Disponibile su: https://www.bundesbank.de [Accesso 7 novembre 2024].

    [iv] Reuters, 2024. Volkswagen plans for major restructuring, including plant closures. Reuters. Disponibile su: https://www.reuters.com [Accesso 7 novembre 2024].

    Financial Times, 2024. Germany’s automotive industry faces restructuring amid electric vehicle transition. Financial Times. Disponibile su: https://www.ft.com [Accesso 7 novembre 2024].

    European Commission, 2023. Next Generation EU: Green Deal and transition funds for sustainable development. European Commission. Disponibile su: https://ec.europa.eu/info/index_it [Accesso 7 novembre 2024].

    Destatis (Ufficio Federale di Statistica tedesco), 2024. Germany’s industrial output data September 2024. Destatis. Disponibile su: https://www.destatis.de [Accesso 7 novembre 2024].

    Start Magazine, 2024. Automotive industry and its contribution to Germany’s GDP. Start Magazine. Disponibile su: https://www.startmag.it [Accesso 7 novembre 2024].

    [v] Le automobili elettriche, che richiedono meno componenti e manodopera rispetto ai motori a combustione interna, stanno riducendo la domanda di forza lavoro nelle linee produttive tradizionali. Le case automobilistiche tedesche stanno inoltre fronteggiando una forte concorrenza da parte di produttori asiatici e americani, come Tesla, che con l’apertura del suo stabilimento nel Brandeburgo introduce standard di produzione più agili, intensificando la competizione locale. Per mantenere competitività, le aziende tedesche stanno riducendo i costi operativi e ridimensionando le risorse, inclusi i posti di lavoro.    BMW e Mercedes-Benz, così come Volkswagen, stanno progressivamente tagliando personale nelle unità produttive tradizionali e investendo miliardi di euro in automazione e innovazione per riallinearsi ai nuovi mercati e normative. Tuttavia, la necessità di riconversione impone decisioni difficili con implicazioni per decine di migliaia di lavoratori.

    Il settore automobilistico rappresenta circa il 5% del PIL tedesco e contribuisce in modo significativo alle esportazioni nazionali. La perdita di competitività e la chiusura di stabilimenti potrebbe provocare una riduzione dello 0,5% del PIL a breve termine, con un impatto che si estenderebbe lungo tutta la catena di fornitura e sui servizi correlati.

    [vi] IAB, 2023. Long-term Unemployment in Germany and its Implications. Istituto per la Ricerca sull’Occupazione (IAB). Disponibile su: https://www.iab.de [Accesso 7 novembre 2024].

    BCE, 2024. Germany’s Employment Statistics: Official vs. Extended Unemployment Rates. Banca Centrale Europea. Disponibile su: https://www.ecb.europa.eu [Accesso 7 novembre 2024]. [vii] Statistisches Bundesamt (Destatis), 2023. Personal im öffentlichen Dienst 2023. Disponibile su: https://www.destatis.de/DE/Themen/Staat/Oeffentlicher-Dienst/Publikationen/Downloads-Oeffentlicher-Dienst/personal-oeffentlicher-dienst-2023-pdf.html [Accesso 7 novembre 2024].

    [viii] Reuters, 2024. German Debt Ratio Expected to Rise Slightly in 2024, Finance Ministry Reports. Disponibile su: https://www.reuters.com/markets/europe/german-debt-ratio-likely-rise-slightly-2024-finance-ministry-2024-04-24/ [Accesso 7 novembre 2024].

    Bundesministerium der Finanzen, 2024. Public Spending and Economic Stimulus Measures for 2024. Ministero delle Finanze. Disponibile su: https://www.bundesfinanzministerium.de [Accesso 7 novembre 2024].

    Statistisches Bundesamt, 2024. Public Sector Employment Statistics. Ufficio Federale di Statistica Tedesco. Disponibile su: https://www.destatis.de [Accesso 7 novembre 2024].

    Financial Times, 2024. Germany’s Public Sector Wage Increase and Employment Growth. Financial Times. Disponibile su: https://www.ft.com [Accesso 7 novembre 2024].

    [ix] Bundesministerium für Wirtschaft und Klimaschutz, 2024. Energy Transition and Investment Projections for 2045. Ministero dell’Economia e della Protezione Climatica. Disponibile su: https://www.bmwk.de [Accesso 7 novembre 2024].

    [x] Banca Centrale Europea, 2024. Industrial Decarbonisation Cost Analysis for Eurozone. Banca Centrale Europea. Disponibile su: https://www.ecb.europa.eu [Accesso 7 novembre 2024].

    [xi] Sinn, H.-W., 2020. The Green Paradox: A Supply-Side Approach to Global Warming. Cambridge: MIT Press.

    [xii] Kerber, M., 2023. The German Response to European Fiscal Pressures and Sovereignty Issues. Journal of European Economic Policy, 12(4), pp. 245-267.

    [xiii] Streeck, W., 2017. Buying Time: The Delayed Crisis of Democratic Capitalism. London: Verso Books.

  • La sovranità ceduta

    Ancora oggi molti si dichiarano convinti che la sovranità nazionale trovi la sua massima espressione attraverso l’emissione di una valuta nazionale. Come logica conseguenza viene quindi considerata fondamentale la capacità della banca centrale nazionale di acquistare il proprio debito pubblico. Una visione decisamente manieristica e forse scolasticamente corretta ma che poteva risultare calibrata per un mondo ed un’economia divise in due blocchi ideologici, politici ed economici contrapposti.

    Una condizione ora decisamente venuta meno con il crollo del muro di Berlino e la creazione di un unico mercato con tutte le proprie contraddizioni. All’interno di un mercato globale economico e finanziario, infatti, andrebbe ricordato come il valore di una moneta non venga conferito dalla cifra scritta sulla banconota, quanto invece dal riconoscimento certificato dai mercati finanziari sulla base della valutazione relativa ai fondamentali nazionali, economici e politici contemporanei ed in prospettiva di medio e lungo termine.

    Viceversa, anche rimanendo in questa visione sovranista retromonetaria, si perde di vista quella che rappresenta il concetto reale di una vera sovranità strategica esercitata da uno Stato contemporaneo. Questa, infatti, trova la sua massima espressione nella complessa gestione dei Monopoli istituzionali rappresentati tanto dall’intero settore energetico quanto da quello delle comunicazioni e dallo stesso sistema della tutela e della difesa nazionale.

    Solo pochi mesi fa l’ex Presidente del consiglio Draghi ha dichiarato candidamente come il costo delle energie in Europa risultasse troppo elevato a causa della sospensione delle forniture di gas dalla Russia, una grande inesattezza visto che le importazioni di gas russo hanno raggiunto nuovi record anche grazie alla triangolazione di stati del medio oriente. Lo stesso ex presidente della Bce omette, in più, come, rispetto all’Italia, il costo energetico in Francia risulti inferiore del -73%, anche grazie alla nazionalizzazione di EDF, mentre la Spagna presenti una bolletta energetica, grazie all’adozione del Price Cap per il gas, inferiore del-53%. La Germania si avvale di un costo inferiore del -34% in ragione di un accordo con la Norvegia per la fornitura di gas valevole nei prossimi quarant’anni del valore di cinquanta miliardi.

    Sembra incredibile come, ancora oggi, si cerchi di nascondere le responsabilità di tutti i governi alla guida dell’Italia negli ultimi trent’anni i quali si sono prodigati nella cessione di quote di monopoli indivisibili a favore di gruppi finanziari molto spesso esteri, come pochi mesi fa è avvenuto per la TIM allo stesso fondo statunitense che ora acquisisce una quota rilevante di Enilive (Kkr).

    Nel settore della Difesa nazionale, poi, solo qualche mese fa Leonardo è stata oggetto di un’acquisizione di quote da parte di Blackrock, rendendo perciò possibile l’ingresso di interessi privati anche nel settore della Difesa nazionale.

    Tornando, quindi, al contesto globale la sovranità di una nazione si conserva esclusivamente attraverso la tutela di un sempre più complesso “sistema paese”, radicato sul territorio nazionale e incentrato su di una economia solida soprattutto nella propria componente industriale affiancata da una gestione nell’interesse nazionale in settori strategici come quelli delle telecomunicazioni dell’energia e della difesa nazionale. Una strategia nazionale che preveda anche un senso dello Stato oltre alle competenze strategiche, mentre in passato, esattamente come ora, tutti i governi hanno operato contro il mantenimento della sovranità in questi fondamentali asset istituzionali, forse per leggerezza politica (?) o peggio a causa di servire interessi privati (?) o anche solo con il banale obiettivo di trovare una pezza alla legge di bilancio dell’anno in corso (?).

    Il declino di un paese nasce dalla mancata integrità e consapevolezza relativa alle conseguenze del proprio operato di tutta la classe politica e dirigente negli ultimi decenni.

  • Classifica Coldiretti: Campania regione più spendacciona d’Italia per l’alimentazione

    E’ la Campania, “patria” della Dieta mediterranea, la regione dove si spende più per mangiare, davanti a Sicilia e Friuli Venezia Giulia, mentre in fondo alla classifica troviamo la Sardegna. Ad affermarlo è un’analisi Coldiretti su dati Istat relativi ai consumi delle famiglie nelle diverse regioni nel 2023. Complessivamente nelle case italiane si destinano mediamente 526 euro per il cibo, il 19% dell’intera spesa mensile, terza voce del budget dopo casa e bollette e affitti. Una percentuale che è però fortemente differenziata se si scende a livello regionale, tanto che i campani spendono quasi 200 euro in più dei sardi.

    Con una spesa media mensile di 614 euro i cittadini della Campania sono quelli che spendono di più per mangiare, secondo Coldiretti, destinando al cibo il 27% del proprio budget. Al secondo posto si piazza la Sicilia con 586 euro, mentre al terzo c’è il Friuli Venezia Giulia con 576 euro. Al quarto la Calabria (562 euro) che precede il Molise (555 euro), le Marche (547 euro), Basilicata (542 euro), Abruzzo (541 euro), Lazio (538 euro) e Umbria (530 euro). A seguire Valle d’Aosta (529 euro), Veneto (518 euro), Trentino-Alto Adige (518 euro), Piemonte (513 euro), Lombardia (507 euro), Toscana (505 euro), Emilia-Romagna (501 euro), Liguria (477 euro), Puglia (464 euro) e Sardegna, che chiude la graduatoria con 415 euro.

    Una classifica che vede dunque una netta prevalenza delle regioni del Sud nelle posizioni di testa, a conferma di un trend che vede il Meridione leader della spesa alimentare mensile con 551 euro, mentre le Isole si fermano a 542, il Centro a 528, il Nord Est a 518 e il Nord Ovest ad appena 505. Analizzando il dato nazionale, la voce più pesante nel carrello resta quella della carne e salumi – conclude Coldiretti – per i quali si spendono mensilmente 111 euro, davanti a pasta, pizza, pane e cereali (83 euro) e verdura con 69 euro.

  • La complessità sistemica

    Ho sempre considerato l’economia come un sistema complesso il quale, pur imboccando una direzione molto spesso di natura ideologica, cerca di trovare un equilibrio, senza mai raggiungerlo.

    La complessità di una economia raggiunge la propria massima espressione all’interno di un mercato globale, come quello contemporaneo, all’interno del quale agli effetti delle azioni politiche dei singoli stati ed economiche e strategiche delle aziende si uniscono quelli generati dagli operatori finanziari completamente svincolati da un indirizzo politico (private equity), oppure espressioni di nazioni che attraverso le operazioni finanziarie intendono indirizzare verso un proprio interesse politico il mondo economico e politico (fondi sovrani).

    La novità contemporanea emerge proprio dalla dotazione finanziaria di questi nuovi soggetti finanziari i quali raggiungono anche tre volte il PIL dell’Italia.

    In questo contesto, quindi, tanto la politica governativa, intesa come “Arte del governare” ma soprattutto il confronto tra i diversi schieramenti ideologici, da sinistra a destra passando per un ipotetico centro liberale, si ostinano nell’individuazione ed applicazione di pochi e semplici principi troppo spesso scolastici ed ideologici, come la semplicistica soluzione finalizzata alla salvezza ed alla salvaguardia e rinascita di un sistema paese, viceversa complesso.

    Sembra incredibile come ancora oggi si tenda ad individuare nel semplice aumento della spesa pubblica, senza prendere in alcuna considerazione la propria efficienza la quale di fatto risulta inversamente proporzionale alla sua entità, la via maestra per risollevare le sorti economiche nazionali ed europee. Basti pensare alla ricetta Draghi, il quale Individua in un nuovo debito comune la via della rinascita dell’intero contenente europeo.

    Per contro, in modo altrettanto manieristico, dalla parte opposta dello schieramento politico viene indicata come salvifica la semplice riduzione del ruolo dello Stato all’interno dell’economia, e quindi si demanda al solo ed unico ruolo fondamentale ed esclusivo del mercato la possibilità di ritrovare la via dello sviluppo.

    Come spesso succede entrambi gli schieramenti rappresentano le divisioni ideologiche espressione di un approccio culturale banale e rappresentativo di un’economia mondiale divisa ancora dal muro, non solo ideologico, di Berlino.

    La vicenda argentina, con una crescita esponenziale della inflazione nonostante la cura del “mercato”, dimostra quanto possano essere complesse le soluzioni ad una crisi economica nata da una classe politica corrotta e che ha dominato la splendida nazione argentina.

    Contemporaneamente, nonostante i fondi del PNRR, gli effetti sull’economia reale italiana risultano addirittura negativi in termini di reddito disponibile, certificando una volta di più come l’utilizzo anche di finanziamenti straordinari, se non collegati ad un sistema efficiente di spesa, possono avere un effetto addirittura negativo.

    Per rispondere ad una complessità sistemica l’ideologia, in ogni sua declinazione, rappresenta la scelta decisamente più inappropriata.

  • Spesa sanitaria italiana quasi in linea con la media europea

    Nel 2023 l’Italia per spesa sanitaria pubblica pro-capite si colloca solo al 16esimo posto tra i 27 Paesi europei dell’area Ocse e in ultima posizione tra quelli del G7. La spesa sanitaria pubblica si attesta al 6,2 per cento del Pil, percentuale inferiore sia rispetto alla media Ocse del 6,9%, sia rispetto alla media europea del 6,8%. “Il tema del finanziamento pubblico per la sanità – ha dichiarato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – infiamma il dibattito politico da oltre un anno, coinvolgendo aule parlamentari e consigli regionali, vista l’enorme difficoltà di tutte le Regioni a garantire i livelli essenziali di assistenza e un’offerta adeguata di servizi e prestazioni sanitarie. E, secondo indagini e sondaggi condotti sulla popolazione, la sanità è diventata per tutti una priorità assoluta perché la vita quotidiana delle persone è sempre più gravata da vari problemi: interminabili tempi di attesa per visite ed esami, affollamento dei pronto soccorso, impossibilità di trovare un medico o un pediatra di famiglia vicino casa, inaccettabili diseguaglianze regionali e locali, migrazione sanitaria, aumento della spesa privata sino all’impoverimento delle famiglie e alla rinuncia alle cure”.

    A fronte di un Servizio sanitario nazionale (Ssn) sempre più in affanno nel garantire il diritto alla tutela della salute si sono moltiplicati i segnali istituzionali: la Corte dei Conti, la Corte Costituzionale e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio rilevano continuamente il sottofinanziamento del Ssn e ben 5 Regioni e successivamente anche le opposizioni hanno presentato disegni di legge per aumentare il finanziamento pubblico almeno al 7 per cento del Pil. Anche lo stesso ministro Schillaci ha recentemente dichiarato che il 7 per cento del Pil è il livello minimo sul quale attestarsi per il finanziamento della sanità pubblica. In vista della discussione sulla Legge di Bilancio 2025, la Fondazione Gimbe ha analizzato la spesa sanitaria pubblica 2023 nei paesi dell’Ocse al fine di fornire dati oggettivi per il confronto politico e il dibattito pubblico e prevenire ogni forma strumentalizzazione. La fonte utilizzata è il dataset Oecd Health Statistics, aggiornato al 23 luglio 2024, che riporta i dati 2023 per poco meno della metà dei paesi dell’area Ocse e quelli 2022 per i restanti paesi.

    Nel 2023 in Italia la spesa sanitaria pubblica si è attestata al 6,2% del Pil, un valore al di sotto sia della media Ocse del 6,9% che della media europea del 6,8%. Sono 15 i paesi europei dell’area Ocse che investono una percentuale del Pil maggiore dell’Italia, con un gap che va dai +3,9 punti percentuali della Germania (10,1% del Pil) ai +0,6 della Norvegia (6,8% del Pil). In Italia nel 2023 la spesa sanitaria pubblica pro-capite è pari a dollari 3.574, al di sotto sia della media Ocse (dollari 4.174) con una differenza di 600 dollari, sia soprattutto della media dei paesi europei dell’area Ocse (dollari 4.470) con una differenza di 896 dollari. In Europa ben 15 paesi investono più del nostro, con un gap che va dai +410 dollari della Repubblica Ceca (3.984 dollari) ai +3.825 della Norvegia (7.399 dollari).

    “Di fatto in Europa – ha commentato Cartabellotta – siamo primi tra i paesi poveri, davanti solo a Spagna, Portogallo e Grecia e ai paesi dell’Est, esclusa la Repubblica Ceca”. Dal 2010, per tagli e definanziamenti effettuati da tutti i governi, la distanza con i paesi europei è progressivamente aumentata sino a raggiungere dollari 623 nel 2019. Poi il gap si è ulteriormente ampliato, sia negli anni della pandemia quando gli altri paesi hanno investito molto più dell’Italia, sia nel 2023 perché di fatto la nostra spesa sanitaria è rimasta stabile. “Al cambio corrente dollaro/euro – precisa Cartabellotta – il gap con la media dei paesi europei nel 2023 raggiunge 807 euro pro-capite che, tenendo conto di una popolazione residente Istat al primo gennaio 2024 di quasi 59 milioni di abitanti, si traduce nell’esorbitante cifra di oltre 47,6 miliardi di euro”.

  • Vendite in crescita per il biologico, ma la crisi dei consumi pesa

    Il mercato bio tiene, malgrado l’inflazione e le difficoltà economiche di molti italiani che preferiscono acquistare prodotti tradizionali e meno cari. A rivelarlo è l’indagine realizzata da Nielsen e presentata in occasione dell’assemblea dei soci di AssoBio. Il settore copre una quota del 2,9% di tutti i prodotti alimentari venduti in Italia e ha registrato un giro d’affari nella grande distribuzione, il principale canale di acquisto, di 2,1 miliardi di euro. Il 2023 si è chiuso con una crescita del 4,7% in valore della merce venduta, ma con una contrazione a volume dello 0,3% (-1,2% l’alimentare nel suo complesso). Il 2024, invece, è iniziato con una ripresa più sostenuta, anche grazie al rallentamento della corsa dei prezzi: la crescita è stata del 3,6% in valore e del 2,6% in volume. Le famiglie acquirenti sono 24 milioni, con una spesa annua media di 150 euro. Il consumatore medio di biologico vive nel Centro-Nord d’Italia, ha più di 50 anni e un reddito per lo più medio-alto.

    “L’Italia è un grande produttore, ma uno scarso consumatore”, afferma la presidente di AssoBio, Nicoletta Maffini. “Noi dobbiamo assolutamente fare di più. Bisogna lavorare insieme, imprese e istituzioni, per raggiungere obiettivi più importanti, più ambiziosi, non solo di mercato, ma anche di riconoscibilità del prodotto da parte dei consumatori, che ancora non hanno le idee chiare”.

  • I costi energetici della “democrazia”

    Non passa giorno nel quale le più alte cariche istituzionali nazionali ed europee non intervengano sul pericolo derivante dalle fake news considerate in grado, attraverso la forza dei social media, di condizionare l’opinione pubblica e, di conseguenza, sembrerebbe addirittura le elezioni.

    A questo appello comune tanto alla maggioranza che all’opposizione ovviamente fa riscontro una volontà di creare una sorta di controllo dell’universo mediatico attraverso istituti che applicherebbero un protocollo creando un controllo molto simile ad una sorta di censura.

    All’interno di questo contesto, quindi, con un presunto attacco alla democrazia, l’Italia si sta dilaniando a causa della contrapposizione squisitamente ideologica sulla riforma del Premierato e dell’Autonomia differenziata. Due involucri ancora vuoti al loro interno in quanto la prima non indica neppure il sistema elettorale attraverso il quale i cittadini potrebbero esprimere il proprio eventuale consenso, mentre la seconda rappresenta solo una cornice all’interno della quale non sono ancora chiaramente definiti non solo gli attori che dipingeranno la tela ma neppure i colori.

    Facendo un passo indietro rispetto all’attuale confusione istituzionale, nel maggio 2023 feci presente i pericoli ai quali sarebbe andato incontro il nostro Paese in relazione alla politica energetica adottata dal governo in carica, confrontandola con quella francese (*).

    Dopo poco più di un solo anno, nel giugno 2024, emergono evidenti gli effetti di quella disastrosa strategia energetica, confermata ancora oggi dall’intenzione di cedere altre quota delle principali società energetiche partecipate dal governo (**).

    In buona sostanza, dal 2023 al 2024 il differenziale pagato in più per l’energia elettrica dalle imprese quanto dalle famiglie italiane è passato, rispetto alla Francia, da un +27% (2023) ad un +71% (2024). Contemporaneamente lo stesso differenziale con la Spagna si è innalzato da un + 30% (2023) ad un +68% (2024) e con la Germania si passa da un +23% ad un +29% tra il 2023/24.

    Andrebbe, poi, ricordato come nel medesimo anno il costo dell’energia elettrica sia scesa in Italia del -10%, mentre in Germania si è ridotta del -18%, in Spagna del -59%, infine in Francia del -69%.

    All’interno di un contesto internazionale difficile e articolato, caratterizzato ancora dagli effetti della pandemia e da due conflitti in corso, questi numeri dimostrano come il futuro del nostro Paese sia fortemente compromesso da una scellerata politica energetica, basata sul principio speculativo nel quale i fondi privati esercitano un ruolo attivo acquisendo sempre maggiori quote delle principali società energetiche italiane.

    Risulta inevitabile e giustificata, allora, la flessione di 15 mesi consecutivi della produzione industriale e soprattutto la mancanza di uno scenario futuro proprio a causa di simili costi energetici rispetto alla stessa concorrenza europea.

    Mentre la politica si fronteggia su embrionali riforme costituzionali, contemporaneamente dimostra il proprio disinteresse rispetto ai disastrosi effetti causati dalla propria politica energetica, perfettamente in linea con quella dei governi precedenti, dimostrando, ancora una volta, di operare per il solo  rafforzamento del proprio potere i cui oneri ricadranno sulle spalle dei cittadini come costi aggiuntivi nelle bollette, i quali indeboliranno ancora di più il potere d’acquisto e, di conseguenza, la domanda interna, diventando così  la stessa politica energetica un elemento di stagnazione economica. Mentre le imprese italiane dovranno subire un ulteriore indebolimento della propria capacità competitiva all’interno di un mercato globale ed ovviamente una minore attrattività per gli investimenti esteri nel territorio italiano.

    Questo è il modello di “fake democracy”, intesa come una sorta di moto perpetuo, all’interno della quale la classe politica opera solo ed esclusivamente per il mantenimento delle proprie posizioni con costi sempre più insostenibili.

    (*) https://www.ilpattosociale.it/attualita/il-diverso-destino-di-italia-e-francia/

    (**) https://www.ilnordestquotidiano.it/2024/06/19/energia-elettrica-il-costo-italiano-tra-i-piu-alti-deuropa/

  • Lo Stato di minoranza

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    Come istituzione lo Stato dovrebbe rendersi interprete dell’interesse dei propri cittadini, grazie all’opera degli organi istituzionali titolari dei poteri esecutivo, legislativo e giurisdizionale.

    In altre parole, ci dovrebbe essere in uno stato democratico la completa e totale identificazione degli obiettivi statali con le aspettative della maggioranza degli amministrati. Questo tipo di risultato può venire ottenuto e soprattutto mantenuto solo all’interno di una democrazia diretta, nella quale i cittadini possano esprimere la propria opinione sulle più diverse questioni di ordine economico, fiscale, politico ed anche infrastrutturale come attualmente solo in Svizzera avviene.

    Viceversa l’entità statale elabora una propria indipendente priorità di obiettivi politici, economici e, nell’ultimo decennio, anche ambientali ed etici, questi ultimi sicuramente importanti ma comunque espressione di una minoranza, in virtù di una presunta superiorità intellettuale la cui sola legittimazione deriva dal semplice mandato elettorale.

    Come logica conseguenza in questo caso lo Stato non solo diventa una istituzione non più in grado di interpretare le necessità dei cittadini ma addirittura neppure interessata alla loro conoscenza, così da rendersi distaccato e lontano ed alla fine autoritario, infatti uno Stato minoritario si dimostra tale quando la propria classe politica manifesta interesse solo ed esclusivamente per le aspettative delle minoranze.

    In quest’ultimo caso le due forme di sostentamento e di mantenimento dello Stato vengono rappresentate dalla gestione della spesa pubblica sempre in continuo aumento. In più, a questa forma di potere si aggiunge la gestione del credito esercitata da un sistema bancario che sostiene, in complicità con lo stato, l’esplosione del debito pubblico (*).

    Per ottenere il mantenimento di questa diarchia, lo Stato inevitabilmente non cerca di migliorare l’efficienza della spesa pubblica, e conseguentemente il benessere dei propri cittadini, ma canalizza tutte le proprie attenzioni verso obiettivi ancora una volta politici ed etici come la lotta alla evasione, in quanto l’obiettivo principale non è quello di razionalizzare la spesa, in relazione alla cui efficienza l’Italia è al 123° posto dietro ad Haiti, ma di aumentare la dotazione finanziaria della stessa e di conseguenza il potere di chi lo gestisce.

    All’interno infatti di una spesa pubblica che ha raggiunto i 1.129 miliardi e ben oltre il 57% del PIL, avrebbe un effetto minimale il recupero anche dell’intera evasione fiscale e contributiva attuale attorno agli 82 miliardi di imponibile.

    La sua resa finanziaria risulterebbe di circa 42 miliardi, anche applicando l’aliquota massima, il recupero totale, in ultima analisi, si attesterebbe al 3,5% della spesa pubblica totale. Quindi affermare che la sola lotta all’evasione possa essere la soluzione per sanare gli squilibri ingiustificabili causati dalla stessa spesa pubblica rappresenta un controsenso o peggio la tipica espressione di uno Stato assolutamente minoritario.

    Con questo termine si definisce quella entità statale espressione di una democrazia malata con un sistema elettorale bloccato dagli stessi partiti all’interno della quale la delega non rappresenta più una garanzia di democrazia, ma semplicemente una cambiale in bianco che viene utilizzata per sostenere e sviluppare interessi particolari.

    In questo contesto ecco allora che Stato ponendo la sua attenzione e la propria tecnologia digitale nella sola lotta all’evasione, causata anche dai “materassi normativi” creati da ogni governo, in barba a qualsiasi tutela della privacy utilizza sempre più strumenti invasivi della legittima sfera personale (**) assumendo sempre più i connotati orwelliani. Mentre se il medesimo impegno venisse indirizzato nel combattere i reati “minori”, ai quali la pessima riforma Cartabia del governo Draghi ha annullato la procedibilità d’ufficio, probabilmente i reati contro il patrimonio potrebbero sicuramente essere contrastati con maggiore efficienza.

    Risulta evidente, quindi, come l’attuale entità statale ora rappresenti non più gli interessi della comunità, ma semplicemente lo strumento per il conseguimento di interessi particolari sostenuti finanziariamente attraverso la spesa pubblica e la gestione del credito.

    In fondo non si rileva una grande differenza nella elaborazione delle priorità, espresse anche in sede europea, tra le teocrazie islamiche e gli attuali asset istituzionali minoritari attualmente espressi sia dall’Italia che dalla stessa Unione Europea.

    (*) novembre 2018 https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/

    (**) giugno 2024 https://www.wallstreetitalia.com/anonimometro-gia-operativi-i-controlli-sui-conti-correnti/

  • La spesa pubblica ed il “capitalismo” relazionale

    Da decenni l’Italia viene criticata in ragione di un capitalismo familiare ormai superato, in contrapposizione ad una versione internazionale più manageriale, all’interno della quale le famiglie rappresentano la proprietà ma non più il braccio operativo.

    L’impresa contemporanea, e soprattutto l’industria attuale, propongono i propri prodotti e servizi all’interno di mercato globale, avvalendosi di un network di subfornitori, i quali entrano nella filiera consolidata fino a diventare partner esclusivi e talvolta ad avviare un vero e proprio processo di insourcing (*).

    Questo cambiamento organizzativo offre alle industrie la possibilità di competere contemporaneamente in tutti i mercati mondiali, caratterizzati da stagioni completamente diverse e quindi gestibili solo attraverso filiere produttive sempre più corte.

    Esiste, poi, il capitalismo relazionale, i cui attori principali sono rappresentati da personalità “imprenditoriali” che fanno capo ad interessi finanziari, assieme ad un mondo della politica il quale si trova a gestire la spesa pubblica con la consapevolezza di non doverne mai rendere conto, se non nei casi estremi, alla magistratura.

    Questa forma di capitalismo, la cui stessa natura e forza viene determinata dalla presenza di risorse finanziarie gestite dalla politica e frutto dei prelievo fiscale, rappresenta la peggiore versione di un capitalismo speculativo.

    Questo, infatti, avvalendosi di una catena di subappalti e cooperative molto spesso non determina alcuna ricaduta occupazionale stabile (il parametro fondamentale per valutare la validità di una strategia economica) a fronte di investimenti pubblici notevoli.

    Da questa semplice analisi emerge evidente come l’aumento della spesa pubblica negli ultimi trent’anni abbia tradito le proprie istituzionali funzioni e tanto più in quell’effetto redistributivo, su cui ancora oggi buona parte del mondo accademico e politico fanno affidamento.

    In altre parole, la spesa pubblica italiana (1.129 miliardi oltre il 57% del PIL) rappresenta semplicemente la prima forma di potere italiano, la seconda è rappresentata dalla gestione del credito (novembre 2018, https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/) la quale, trovandosi ora all’interno di un mercato globale, offre a chi ne usufruisca di utilizzare ogni leva della disperazione umana (come già detto subappalti e cooperative) con l’unico obiettivo di abbassare i costi e aumentare i profitti, anche grazie a strumenti normativi forniti dai committenti stessi, cioè dalla classe politica.

    Puntare, quindi, ancora oggi sulla centralità della spesa pubblica come motore economico e sui suoi effetti redistributivi rappresenta l’errore fondamentale comune al mondo politico ed accademico, come dimostra la perdita di potere d’acquisto negli ultimi trent’anni dei cittadini italiani a fronte di una esplosione della spesa pubblica, del debito e della pressione fiscale.

    La stessa vicenda relativa all’utilizzo dei fondi PNRR si è rivelata sostanzialmente una serie di  finanziamenti a pioggia dei più disparati progetti proposti da irresponsabili enti locali e lontano dalle ragioni istitutive per le quali i fondi avrebbero dovuto finanziare opere finalizzate all’aumento della competitività del sistema paese.

    Del resto, come anticipato, lo stesso andamento del reddito disponibile per i cittadini italiani che si è ridotto negli ultimi trent’anni del – 2,7%, mentre in Germania è cresciuto di oltre il +34% ed in Francia del +27%, dimostra la sostanziale “inutilità retributiva” della  della spesa pubblica e di ogni sua crescita.

    Un andamento confermato dagli ultimi dati relativi alle retribuzioni in Europa dal 2019 ad oggi che ha visto, a fronte di una diminuzione europea del -3% dei redditi disponibili, svettare l’italia con un -8% .

    Dati incontrovertibili che rappresentano  la conferma della sostanziale indifferenza economica di tale capitalismo relazionale il quale trova l’humus per la sua sopravvivenza nella presenza di una spesa pubblica assolutamente smisurata rispetto alle competenze di chi dovrebbe gestirla.

    (*) un processo avviato anni fa nel settore dell’alta orologeria Svizzera e che ha qualche evidenza anche in quello della occhialeria bellunese, i quali prediligono l’ottimizzazione dei tempi di produzione alla scelta strategica tra costi fissi e variabili.

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