Tasse

  • L’UE e l’immediato danno patrimoniale

    Al di là delle considerazioni relative alla tempistica ed al contenuto della ancora ipotizzata direttiva europea con oggetto una ulteriore “transizione green” da adottare per le abitazioni di classe energetica F e G (*), già ora si manifestano i primi effetti distorsivi sul mercato immobiliare.

    Il solo annuncio di un possibile adeguamento energetico da imporsi a circa il 65% degli immobili presenti sul territorio nazionale ha già determinato una perdita di valore proprio di quelle abitazioni oggetto di questi ipotizzati interventi strutturali in relazione ai costi aggiuntivi necessari per renderli a norma.

    Andrebbe ricordato, infatti, come molto spesso le abitazioni, specie se prime case, rappresentano la forma di investimento e di risparmio più adottata dalle famiglie, anche in funzione di un lascito patrimoniale a favore degli eredi. Gli stessi nuclei familiari accedono ai mutui presso gli istituti di credito attraverso i quali possono assicurarsi l’acquisto immobiliare non disponendo di ingenti risorse,

    Una della caratteristiche fondamentali perché questi finanziamenti rappresentino anche un investimento è data dalla “sicurezza”, o quantomeno dalla aspettativa, che il valore nominale dell’abitazione alla fine del mutuo sia quantomeno in linea con il costo complessivo dello stesso importo finanziato.

    Viceversa lo scellerato delirio ambientalista espresso dalla Commissione europea sta ponendo già ora le condizioni di un profondo danno patrimoniale, nella forma di una sostanziale differenza negativa tra il valore dell’impegno finanziato per l’acquisto ed il suo valore successivo espresso dal mercato, il quale determina una depatrimonializzazione in termini assoluti tanto del valore della abitazione quanto del risparmio privato.

    L’ Europa, ed il nostro Paese in particolare, stanno ancora oggi pagando le terribili conseguenze economiche e sociali della pandemia alla quale si aggiungono le conseguenze del conflitto ucraino.

    In questa situazione di estrema difficoltà ed incertezza imporre una visione assolutamente ideologica ad un bene fondamentale, come la casa, sul quale si basa parte dell’equilibrio familiare, rappresenta la assoluta incapacità di leggere ed interpretare le priorità dei cittadini e definisce senza ombra di dubbio la assoluta distonia della Istituzione Europea con i cittadini europei.

    (*) https://www.ilpattosociale.it/europa/il-tradimento/

  • Quali accise stiamo pagando?

    Mentre i prezzi dei carburanti impazzano e si attendono i risultati delle indagini della Guardia di Finanza chiediamo, insieme a tanti altri italiani, se le accise che stiamo ancora pagando si riferiscono ad avvenimenti ormai antichi quali la Guerra d’Etiopia del 1935-36, la crisi di Suez del 1956 o la ricostruzione del Vajont del 1963 o se invece sono giustificate dalla necessità di reperire fondi per eventi più recenti e, in questo caso, quali sono questi eventi.

    In molti riteniamo che sia giusto non far mancare il contributo dei singoli cittadini per aiutare la ricostruzione di territori colpiti, in questi ultimi anni, dalle catastrofi naturali che, per altro, in molti casi avrebbero potuto essere evitate o rese meno tragiche.

    Gli italiani chiedono di sapere quali accise stanno pagando, se è da identificare qualsiasi speculazione e mettere in atto tutto quanto necessario per impedirla è altrettanto vero ed evidente che una richiesta urgente di pagamento di accise può essere accettata dai cittadini solo se sui riferisce ad eventi che risalgano agli ultimi anni.

  • Le nuove convergenze parallele

    La storia della politica italiana ha partorito concetti in grado di andare oltre la logica fisica i quali, tuttavia, erano in grado di indicare un percorso finalizzato ad una ipotetica crescita del Paese.

    Il concetto di convergenza parallele partiva, in relazione ai due soggetti interessati, cioè la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista da una parte, dal rifiuto da parte del PCI alla realizzazione di uno Stato totalitario, e dall’altra alla caduta della pregiudiziale anticomunista della Democrazia Cristiana verso un compromesso nell’interesse dello Stato italiano.

    Il terzo millennio ha visto, come molti avevano previsto, la fine dell’ideologia e dei progetti politici di ampio respiro sostituiti da visioni di basso cabotaggio finalizzate all’ottenimento del massimo consenso nella  prossima consultazione elettorale.

    Tuttavia, pur venendo meno il quadro ideologico e politico che partorì questo possibile scenario, il medesimo principio viene ora  applicato ma con altri obiettivi. Quindi, anche se all’interno di una contraddizione  evidente, le convergenze parallele vengono trasformate dalla classe politica in strumenti finalizzati al conseguimento di obiettivi di parte.

    Il governo in carica da poco più di tre mesi è riuscito in soli due Consigli di Ministri ad eliminare gli sconti fiscali dei carburanti per oltre 30 centesimi, non tenendo in alcuna considerazione di come, all’interno di un contesto europeo, l’economia italiana presenti il più alto tasso di inflazione ed in particolare nel settore alimentare, quello cioè maggiormente soggetto alle variazioni dei costi di distribuzione. Una decisione giustificata dapprima con la ricerca di fondi per i Comuni, quasi una tassa di scopo, e successivamente entrata nei rivoli  della spesa pubblica e quindi esentati dalla  definizione di un obiettivo.

    Gli effetti di tale decisione saranno disastrosi per quanto riguarda l’inflazione nel settore alimentare che si sta proiettando verso un +13% ed in particolare per quelle fasce di popolazione meno abbienti  costrette per motivi di lavoro utilizzare i mezzi privati.

    Al di là di ogni considerazione relativa alla coerenza tra le promesse elettorali e la realtà governativa di questa coalizione e della considerazione dimostrata verso i propri elettori, questa decisione ha ricevuto  l’appoggio persino di un esponente considerato l’economista del PD: Carlo Cottarelli. Il rappresentante del pensiero economico del PD ha sottolineato come sia stata giusta l’eliminazione di questo conto in quanto aiutava anche i “possessori di Ferrari”.

    E’ evidente che quando una manovra fiscale finalizzata all’aumento della pressione fiscale ottiene il favore dell’opposizione questa già sulla carta ha le stimmate per rivelarsi assolutamente contraria agli interessi dei paesi e dei suoi cittadini. Andrebbe infatti ricordato, tanto agli esponenti economici del governo in carica quanto a Cottarelli, il principio dell’utilità marginale decrescente del denaro sulla base del quale ogni diminuzione del carico fiscale applicato ad un bene di consumo determini un maggiore vantaggio immediato per le fasce di popolazione a medio e basso reddito.

    Contemporaneamente la loro sospensione, come quella attuata dal governo Meloni, non viene neppure recepita dalle fasce di popolazione ad alto reddito indicate in modo grossolano dai guidatori di Ferrari.

    Il concetto di nuove  convergenze parallele si dimostra quindi assolutamente attuale anche se nel precedente millennio era applicato ad una visione politica ed ideologica dello Stato, mentre ora viene utilizzato n modo subdolo ed intellettualmente disonesto con l’unico obiettivo di aumentare ancora di più la spesa pubblica che rappresenta da sempre la prima forma di potere nel nostro Paese (*).

    Questa convergenza di intenti tra maggioranza ed opposizione dimostra ancora una volta come, al di là quindi delle collocazioni meramente geografiche dei diversi partiti all’interno del Parlamento, questi si dimostrino uniti consapevolmente nella strategia  finalizzata a mantenere il proprio potere attraverso sia la costante crescita della spesa pubblica e, di conseguenza, del  carico fiscale come confermato dagli ultimi trent’anni della storia politica italiana. La logica politica ma soprattutto utilitaristica che sottende una  tale visione puramente economica e  contabile sostenuta dalla costante crescita della pressione fiscale risponde alla volontà di rafforzare l’esercizio del potere a spese del contribuente che ha visto nell’ultimo decennio ridursi il reddito disponibile del -12%. Contemporaneamente rappresenta la versione “moderna” di uno Stato Socialista.

    (*) https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/ (novembre 2018)

  • Il 2023 si prospetta ‘nero’ per gli automobilisti

    Brutte notizie per gli automobilisti italiani, con il nuovo anno destinato ad aprirsi all’insegna dei rincari di prezzi e tariffe che potrebbero trasformare il 2023 nell’anno “nero” per i proprietari di auto e moto. L’allarme viene lanciato da Federcarrozzieri, ma trova riscontro nelle previsioni delle organizzazioni dei consumatori che puntano il dito su Rc auto e carburanti. Secondo l’associazione che rappresenta le carrozzerie italiane, sono in aumento non solo i costi delle riparazioni auto, ma anche i tempi di attesa per gli interventi. “Nel corso del 2022 sono esplosi i prezzi dei materiali di consumo delle carrozzerie come effetto combinato del caro-energia e del costante rincaro dei pezzi di ricambio, voce che incide per circa il 70% del costo medio delle riparazioni – spiega Federcarrozzieri – Gli operatori del settore sono riusciti solo in parte ad assorbire i maggiori costi a loro carico, con la conseguenza che nell’anno in corso i listini al pubblico relativi alle riparazioni hanno subito inevitabili rincari. Ulteriori aumenti sono previsti per il 2023, con i costi degli interventi destinati a salire in media del +15% rispetto a inizio 2022”.

    Federcarrozzieri sottolinea poi come la crisi delle materie prime e della componentistica abbia aumentato le difficoltà di approvvigionamento di ricambi e materiali, dilatando i tempi di attesa a danno degli automobilisti, che crescono fino al 20% rispetto allo scorso anno. “A fronte di tale situazione, un numero crescente di consumatori si sta rivolgendo per interventi di riparazione a carrozzieri improvvisati privi di qualsiasi autorizzazione, che per marginalizzare i costi ricorrono a ricambi di qualità inferiore, spesso eseguendo lavori in modo approssimativo così da ridurre i tempi, con conseguenze sia sulla qualità del servizio, sia sulla sicurezza stradale», afferma il presidente Davide Galli. Anche per questo Federcarrozzieri ha contribuito alla formulazione delle linee guida per la riparazione dei veicoli a regola d’arte che finalmente forniscono ai consumatori un agile strumento per comprendere e valutare la qualità della riparazione anche rispetto ai metodi di lavorazione e ai materiali utilizzati». Ma a rischio aumenti sono anche le tariffe Rc auto, che dopo la costante riduzione degli ultimi anni, sembrano destinate ad invertire la rotta.

    “Oggi il premio medio dell’Rc auto, al netto delle tasse, è di circa 310 euro – spiega Assoutenti – La situazione economica del Paese, caratterizzata dall’allarme energia e da una pesante inflazione, si ripercuoterà anche sulle polizze assicurative che rischiano di salire del +6% nel corso del 2023. Se si considera che in Italia circolano 43 milioni i veicoli assicurati, di cui 32,5 milioni di autovetture, la stangata sull’Rc auto solo per la categoria degli automobilisti raggiungerebbe nel nuovo anno la maxi-cifra di 605 milioni di euro”. “Dal prossimo 1 gennaio – ricorda poi il presidente Furio Truzzi – circa 2 milioni di assicurati rischiano di vedersi quadruplicati i premi delle polizze Rc auto in virtù dell’entrata in vigore della norma, introdotta dalla Legge sulla Concorrenza, che obbliga le imprese estere operanti in Italia ad adottare la procedura di risarcimento diretto. Una novità che potrebbe costare altri 400 milioni di euro alla collettività degli assicurati”.

    Il quadro si chiude con i carburanti: per effetto delle misure sulle accise introdotte dal Governo e indipendentemente dall’andamento dei prezzi alla pompa, un pieno di benzina nel 2023 costerà 6,1 euro in più, con ripercussioni solo sui rifornimenti pari a +146 euro all’anno ad automobilista, ricorda invece il Codacons.

  • L’inflazione e le politiche monetarie “flat”

    La seconda potenza economica mondiale, la Cina, ha ridotto i tassi di interesse come espressione di una strategia finalizzata ad offrire una nuova dotazione finanziaria alla crescita economica in progressivo rallentamento.

    La  strategia cinese nasce dalla consapevolezza e dalla  adozione del postulato economico che recita come solo perseguendo una crescita economica uno stato si dimostra in grado di sostenersi ed in primis garantire la spesa sociale.

    Viceversa, negli Stati Uniti, la Fed, dovendo fronteggiare una spirale inflazione endogena, cioè causata da una crescita interna ed avendo raggiunto il traguardo della piena occupazione (per ogni disoccupato ci sono disposizione due posti di lavoro) provoca inevitabilmente un aumento delle retribuzioni e dei prezzi.

    La massima autorità finanziaria, quindi, ha scelto di alzare i tassi d’interesse per raffreddare la spinta inflazionistica e contemporaneamente evitare la crescita  dei costi dei mutui immobiliari passati dal 12% della retribuzione media ad oltre il 20%.

    Emerge, così, evidente l’intenzione di non sottovalutare la possibilità di ritrovarsi nelle medesime condizioni economiche e finanziarie che portarono alla terribile crisi finanziaria dei sub prime.

    All’interno di questo contesto globale che esprime queste divergenti politiche economiche e monetarie dei due maggiori sistemi economici globali in Europa il presidente della Bce Laguarde ha scelto di alzare i tassi di interesse non tenendo in alcuna considerazione la specificità dell’inflazione europea.

    A differenza di quella statunitense, infatti, il fenomeno inflattivo europeo risulta di assoluta origine esogena,  quindi determinata dalla esplosione dei costi energetici e dalla minore reperibilità delle materie per la nostra industria di trasformazione la quale li acquista con difficoltà e a maggiori costi. Una deriva economica già ampiamente manifesta nel 2021 e quindi solo  in parte attribuibile, come invece si tende ad affermare, alla guerra in Ucraina.

    L’inflazione, va ricordato, rappresenta la tassa più discriminatoria in quanto colpisce soprattutto le fasce di reddito più basse essendo flat, cioè piatta. Prova ne sia la già evidente riduzione della spesa alimentare nel nostro Paese che fa segnare un -4,4%.

    La specificità europea, con una economia già in fortissima difficoltà, non viene presa in alcuna considerazione e la scelta di alzare i tassi di interesse senza alcuna compensazione fiscale finalizzata ad alleggerire l’impatto nei confronti degli operatori e dei consumatori risulterà responsabile  di un ulteriore rallentamento, se non di una vera e propria recessione economica dell’intero sistema industriale ed economico continentale. Gli strumenti finanziari necessari all’industria europea per avviare investimenti produttivi finalizzati ad un minimo di recupero della competitività determinata dall’esplosione dei costi energetici presenteranno infatti un costo maggiore e insostenibile soprattutto per il sistema industriale italiano formato dalle Pmi.

    Le politiche monetarie, di per sé, rappresentano da sempre una risposta tardiva a delle situazioni di mercato già evidenti e in forte evoluzione. La risposta della Bce, oltre ad essere tardiva, si dimostra anche assolutamente sbagliata ed offre il senso della assoluta lontananza dei vertici europei finanziari dalla realtà economica.

    Di fronte a due fenomeni economici sostanzialmente “flat”, come l’inflazione (1) accoppiata ad una politica monetaria restrittiva (2), i cui costi ricadranno sulle fasce più deboli  dei consumatori (1) e sulle aziende più esposte alla concorrenza estera (2), si dovrebbe affiancare una contemporanea strategia governativa in grado di adottare una politica di riduzione strutturale fiscale. Un alleggerimento fiscale generale il quale, per sua stessa definizione, garantirebbe maggiori vantaggi per le  fasce di reddito più basse piuttosto della attuale politica dei bonus fiscali.

    Contemporaneamente le stesse aziende italiane potrebbero recuperare una minima percentuale di competitività rispetto, per esempio, alle concorrenti francesi che hanno ottenuto un paracadute fiscale in relazione ai costi energetici (massimo +4%) ed anche con quelle statunitensi che si avvantaggiano di una bolletta energetica pari ad 1/7 di quella incombente sulle imprese italiane.

    Mai come in questo periodo difficile le soluzioni “flat” e semplicistiche si dimostrano assolutamente inconcludenti come le autorità politiche e finanziarie che le propongono.

  • L’iniquità del sistema fiscale

    Al di là delle posizioni politiche e delle diverse ideologie  nella loro  espressione  anche in campo economico e fiscale, risulta evidente che il parametro dell’equità di un sistema fiscale rappresenti il connotato fondamentale.

    In altre parole, un sistema fiscale per essere funzionale tanto ad  una ideologia socialista, in grado di ridistribuire le risorse attraverso servizi finanziati dallo Stato con i prelievo fiscale,  quanto ad una liberale, e quindi  attraverso aliquote il più possibile minime e  funzionali ad uno sviluppo economico ed investimenti privati,  deve comunque possedere l’equità complessiva nella sua applicazione. In più  l’equità del medesimo sistema fiscale va  valutata in rapporto agli effetti reali della spesa pubblica finanziata dalla stessa  fiscalità.

    Il nostro Paese negli ultimi trent’anni ha  visto ridurre complessivamente il reddito disponibile del -3,4%  mentre nello stesso periodo in Germania risultava aumentato del +34,7%. Questo semplice dato dimostra senza possibilità di diverse “interpretazioni politiche” come la strategia economica adottata dai diversi governi che si sono succeduti alla guida del Paese dal 1992 ad oggi  si sia  basata solo sull’auspicio degli effetti “benefici” generati dalla spesa pubblica in continuo aumento.

    Il minore il reddito disponibile, invece, a fronte di una esplosione tanto della spesa quanto del debito pubblico, che solo negli ultimi 11 anni è passato dai 1987 miliardi del novembre 2011 al 2755 odierni, dimostra la sostanziale iniquità del sistema fiscale nel suo complesso (fisco + spesa pubblica) i cui pessimi risultati  vengono giustificati con  la  bandiera dell’evasione fiscale la quale,  tuttavia, rappresenta un aspetto della stessa  iniquità fiscale.

    Ora, in piena campagna elettorale, proporre di inserire una nuova tassa per finanziare un obiettivo al pari  di proporre l’infantile sostituzione di una perfettibile progressione delle aliquote che si basa sulla utilità marginale decrescente (tassa successione e flat tax) rappresenta la conferma di come non ci si ponga il problema di raggiungere una maggiore equità fiscale e così ricollocando finalmente il nostro Paese all’interno dell’Europa per quanto riguarda il reddito disponibile.

    Ancora una volta , invece,  ci si pone come unico obiettivo quello di  aggiungere un ulteriore balzello fiscale per trovare una copertura finanziaria ai propri obbiettivi  elettorali , come quello di ottenere il consenso dei neo maggiorenni. Oppure di proporre una rivoluzione fiscale con  l’introduzione di una improbabile flat tax (*), dimostrando inequivocabilmente quale sia il modello economico di crescita adottato, ma soprattutto con effetti non ancora calcolabili per la finanza pubblica italiana, che porterebbe l’Italia ad essere il primo Paese del mondo occidentale ad adottare un simile sistema fiscale.

    In entrambi i casi la ricerca di un’equità fiscale come sintesi del prelievo ed effetto della spesa pubblica vengono sostanzialmente ignorati

    (*) adottata da  Belize, Bolivia, Mongolia, Bulgaria etc.

  • Fiscal Drag

    Mentre si scopre che i dipendenti del settore privato (15 milioni) assieme a quelli del settore pubblico (3,2 milioni) per ottenere i duecento (200) euro di “aiuti” dal governo, 16,6 euro al mese, dovranno compilare un apposito modulo, rendendo ancora centrale la burocrazia, si moltiplicano le dichiarazioni di esponenti del governo in carica nelle quali attribuiscono alla guerra in Ucraina l’impennata dei prezzi, in particolare quelli energetici.  Basterebbe ricordare come, al 23 febbraio 2022, il gas segnasse già un +537% al quale il governo aveva reagito con due risibili manovre di circa 8 miliardi tra il 2021/22, mentre lo stesso  governo, dall’inizio della impennata dei prezzi, espressione dell’inflazione in forte crescita, si trovi ad incassare (un arricchimento senza causa quindi) ogni mese circa 3,3 miliardi  (40 miliardi all’anno) grazie all’aumento nominale della base imponibile.

    Negli anni ‘80, un altro periodo di forte inflazione, questo prelievo fiscale venne definito “Fiscal Drag”ed indicava l’extragettito fiscale dovuto alla applicazione di aliquote percentuali (quindi accise escluse) calcolate su di una base imponibile nel suo valore nominale  in costante aumento.

    Fino ad ora il governo Draghi ha ridotto in aprile le accise di 25 centesimi e, con il calcolo dell’Iva,  quindi di 30,5 centesimi al litro sul prezzo alla pompa dei carburanti, con un costo complessivo per le casse dello Stato di  circa 4.4 miliardi all’anno.

    Conti alla mano risulta impegnato per alleggerire la morsa dei prezzi solo l’11% dell’extragettito fiscale incassato con il Fiscal Drag nel solo 2022, ma già quantificabile anche nel  il secondo semestre del 2021, e contemporaneamente ci si dimostra granitici nella “strategia”  di aiutare l’economia con i soliti bonus fiscali i quali NON incidono minimamente nelle disponibilità dei cittadini e dei lavoratori.

    Si sceglie, quindi, la solita politica economica legata agli “effetti delle spesa pubblica sul benessere di cittadini” (A) preferita a quella di una riduzione immediata  della pressione fiscale la quale avrebbe  il merito di manifestarsi senza alcuna attesa in forma di una maggiore capacità di acquisto a parità di retribuzioni (B).

    Quest’ultima (B) indubbiamente sarebbe preferibile alla strategia (A) ma contemporaneamente avrebbe come conseguenza la riduzione dei margini di una spesa pubblica aggiuntiva che permettono le solite politiche di aumento dei dipendenti pubblici (+1,3 milioni min. Brunetta) in aggiunta agli inutili  bonus per settori specifici i quali attribuiscono un sempre maggiore  potere discrezionale e senza precedenti al governo e alla maggioranza che lo sostiene. Del Fiscal Drag, quindi, il governo utilizza solo l’11% delle disponibilità che il maggiore prelievo fiscale assicura (quindi già ampiamente pagato dai contribuenti) mentre il resto rimane nelle disponibilità del governo Draghi e della sua maggioranza con l’obiettivo di legare interi settori economici al sistema politico proprio attraverso il sistema dei  bonus fiscali.

    Solo per offrire un esempio, basti ricordare come il privilegiare uno specifico settore come quello automobilistico destinando degli  incentivi particolari  (per altro inutilizzati per le auto elettriche) determini inevitabilmente una  discriminazione verso altri settori economici non beneficiati da tale bonus come, per esempio, il settore calzaturiero che rappresenta un importante settore industriale con una importante  concentrazione di manodopera. In altre parole, dimostrando di avere compreso come all’interno di un periodo  di eccezionale difficoltà, cominciato nel  marzo 2020, si dovrebbero rielaborare le strategie complessive anche con cognizioni di base (gli effetti della politica fiscale) per alleggerire la spesa dei cittadini ed inserire nel complicato mondo economico un segnale realmente  deflattivo in un  mercato sotto pressione.

  • Del minimo salario

    In previsione delle prossime elezioni il mondo della politica cerca di mettere il proprio cappello sull’annosa questione del costo del lavoro e sul nuovo cavallo di battaglia considerato vincente: il  salario minimo.

    Ancora una volta, In altre parole, si sceglie o meglio si cerca di affrontare un problema complesso ed articolato attraverso l’introduzione di una nuova legge in aggiunta alla già frastagliata giungla normativa italiana, a testimonianza della “produttività”del ceto politico italico ed europeo.

    In questo complesso mondo i rapporti tra lavoratori  ed imprese andrebbe ricordato come la retribuzione netta, e quindi  percepita dal dipendente, rappresenti solo  il 40% del costo complessivo a carico dell’azienda, viceversa il restante 60% è costituito dagli oneri contributivi e dall’irpef sempre a carico dell’azienda.

    Così l’intenzione  di  modificare la quota percentualmente inferiore del costo complessivo produrrà un effetto minimale per chi percepisce la stessa retribuzione e, paradossalmente, aumenterà ancora l’onere complessivo a carico dell’azienda restando inalterata la quota fiscale relativa al 60% della retribuzione.

    Il taglio del cuneo fiscale, viceversa, permetterebbe immediatamente e senza alcuna norma aggiuntiva il conseguimento immediato di un aumento della retribuzione, il che comporterebbe un conseguente primo aumento dei consumi. Questo taglio potrebbe risultare persino di due tipologie a seconda della matrice politico-ideologica adottata.

    Una prima potrebbe introdurre una riduzione del carico fiscale sulle retribuzioni  progressivamente inverso rispetto all’applicazione delle aliquote Irpef sui redditi  e così, di conseguenza, potrebbe risultare  maggiore  per i redditi inferiori fino a 28.000 e successivamente con tagli inferiori per i redditi superiori.

    Oppure, nel secondo caso, attraverso un semplice taglio lineare per tutte le fasce di reddito contando sugli effetti della applicazione del  principio dell’utilità marginale decrescente del denaro al crescere del reddito e, di conseguenza, ottenendo comunque un maggior vantaggio per le fasce di reddito più basse.

    Invece la politica cerca di porre il proprio cappello sull’intera questione con un risibile ed a basso impatto aumento del salario minimo venduto come il conseguimento di un grande  traguardo nel percorso di  equità sociale  il cui merito andrebbe attribuito al  ceto politico il quale si avvantaggerebbe, tra l’altro, del mantenimento delle risorse finanziarie messe a disposizione dalla stessa pressione fiscale sulle retribuzioni.

    Una situazione insostenibile tanto per le aziende quanto per i lavoratori ed  inquadrabile nel processo di un più ampio sostegno alla domanda interna e quindi di un aumento del reddito disponibile.

    Ancora una volta si sceglie di imporsi con nuove normative in settori complessi con l’unico obiettivo di confermare la propria esistenza in vita in particolar modo ora, in prossimità di diversi appuntamenti elettorali, assieme al mantenimento inalterato della disponibilità di risorse finanziarie destinate alla spesa pubblica.

    Un’altra problematica attuale, come quella delle retribuzioni, da oltre trent’anni in diminuzione in quanto  il nostro Paese è l’unico in Europa ad avere disponibilità di reddito in diminuzione (-3,4% rispetto alla Germania con un +34,7%), viene affrontata in modo superficiale a dimostrazione di quanto sia ormai siderale la distanza tra il mondo della politica e la realtà economica nel mondo del lavoro.

  • La Polonia blocca ancora la minimum tax Ue

    Il veto della Polonia tiene ancora al palo la minimum tax in Europa. Varsavia ufficialmente chiede che venga attuato insieme l’intero pacchetto sulla tassazione minima, sia cioè con la parte internazionale per la riallocazione dei versamenti fiscali in base al luogo di fatturazione (e non di sede) e sia con quella sull’introduzione dell’aliquota minima, come spiega anche un funzionario polacco secondo cui le due componenti “dovrebbero rimanere collegate”.

    Ma il nodo ancora da sciogliere sembrerebbe piuttosto il braccio di ferro sul via libera al Recovery polacco. La Commissione ha acceso da tempo un faro, congelando i fondi per la Polonia, in attesa di garanzie sull’indipendenza della magistratura. Varsavia potrebbe sbloccare la situazione con l’abolizione della sezione disciplinare della Corte suprema, che per Bruxelles mette a rischio l’autonomia dei giudici. Il voto sulla legge per l’abolizione è atteso in settimana. Anche la Commissione sembra credere in una schiarita, con il vice presidente Valdis Dombrovskis che ritiene il via libera al Recovery polacco “fattibile in tempi brevi, questione di giorni o settimane”.

    Ma intanto al consiglio dei ministri dell’Economia e delle finanze europei sulla minimum tax c’è stato un nuovo nulla di fatto. Il ministro delle finanze di Parigi, Bruno Le Maire, grande sponsor del pacchetto concordato con l’Ocse e volto a mettere fine alla competizione al ribasso tra i Paesi sulle tasse applicate alle imprese, si è detto “convinto” che ci sarà “un accordo con la Polonia” per poter varare all’unanimità la minimum tax al prossimo Ecofin del 17 giugno. “Ci sono dei punti sul tappeto che devono essere smussati da qui ad allora, tra questi il Pnrr (della Polonia), ma questo non è l’unico. La Polonia tiene molto al collegamento tra il pilastro Uno e il pilastro Due”, ha quindi ricordato. Sul tema Le Maire ha anche ringraziato il ministro delle Finanze italiano Daniele Franco: “Si tratta di una misura di giustizia, è nell’interesse di tutti che ci sia questa ottimizzazione fiscale – ha detto -. E ringrazio il ministro italiano delle Finanze per il sostegno dato su questo punto. L’Italia si è dimostrata un partner importante».

  • La coincidenza fiscale

    Già precedentemente si era accennato alla volontà dell’Unione Europea di spostare sugli immobili quella nuova tassazione aggiuntiva  con l’obiettivo di fornire nuove risorse finanziare all’Unione Europea, in considerazione anche delle conseguenze economiche causate dalla  pandemia ed ora della guerra in Ucraina.

    Contemporaneamente nel nostro Paese, quando ancora si dovevano affrontare i terribili esiti e conseguenze della pandemia in campo economico e si avvicinavano i primi venti di guerra, il governo in carica ha approvato con successo una riforma del catasto giustificandone l’aggiornamento con una ricerca di maggiore equità e di una maggiore  giustizia fiscale nella tassazione degli immobili. Una riforma definita ad impatto Zero, cioè lasciando inalterato il carico fiscale complessivo.

    Un adeguamento ed aggiornamento nell’accatastamento immobiliare comporta inevitabilmente, pur ad  aliquote invariate, un aumento delle entrate fiscali  e quindi come logica conseguenza, sempre che  l’obiettivo fosse rimasto quello di mantenere inalterato il gettito fiscale, si sarebbe dovuta prevedere ed allestire una diminuzione delle aliquote per gli  immobili già correttamente accatastati.

    Tornando alle strategie fiscali, probabilmente le due iniziative, quella  europea e quella  italiana,  possono venire considerate assolutamente “indipendenti ” e prive di alcuna sinergia tra le due autorità istituzionali tanto da considerare  questa casualità come una semplice “coincidenza  fiscale”.

    Al tempo stesso la riforma catastale, anche se  intesa come monitoraggio dell’asset stesso, si  potrebbe anche salutarla come inevitabile ma non si può non prendere in considerazione come questa stessa  rappresenti, all’interno delle strategie europee, il  veicolo ideale  per l’aumento dell’imposizione fiscale sugli immobili e specialmente per la prima casa.

    Una strategia fiscale la quale può assumere  dei connotati drammatici all’interno della specificità del nostro Paese. Basti ricordare in questo senso come in Francia il carico fiscale relativo alla prima casa risulti del 7,6  per mille (1.000), in Germania venga calcolata in modo molto simile al l’IMU, mentre in Italia va dal 2 al 7% (100).

    Ancora una volta, quindi, l’immensa differenza dell’insopportabile carico fiscale italiano sembra destinato a trovare una ulteriore conferma anche per possibile aumento della  fiscalità sulla prima casa imposta dall’Unione Europea grazie all’aggiornamento del catasto.

    Ancora una volta la classe politica della sua completezza non considera quindi la specificità fiscale italiana la quale presenta  una tassazione già ampiamente sopra la media. Contemporaneamente viene dimostrato, ancora una volta, come l’eccessivo carico fiscale complessivo  rappresenti Il primo motivo della mancata crescita economica  del nostro Paese.

    In più, anche se di genesi europea, ad un ulteriore aggravio fiscale dovranno venire imputate  le condizioni deterrenti  di quella crescita ancora oggi troppo debole nel  nostro Paese riducendolo a rappresentare l’ultimo nella classifica dei paesi nel raggiungimento dei livelli economici pre pandemia.

    L’azione combinata del carico fiscale nazionale unito ad una nuova imposizione fiscale europea probabilmente ridurranno ulteriormente le possibilità di quella crescita del  sistema economico italiano e contemporaneamente accresceranno il potere della classe politica governativa responsabile della gestione di  questa spesa pubblica.

    Questa coincidenza fiscale dimostra, ancora una volta, come la classe politica governativa italiana non abbia ancora compreso l’effetto devastante per il Paese di un ulteriore carico fiscale sulle potenzialità di crescita del sistema economico italiano.

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