UK

  • Usa, Inghilterra e Australia pronti a tesserare nuovi soci in Aukus

    Sulla scorta di fonti all’interno della struttura, il Financial Times ha anticipato che Stati Uniti, Regno Unito e Australia sono in procinto di tenere colloqui ufficiali per l’adesione di nuovi membri nell’alleanza militare Aukus. Secondo il quotidiano britannico, l’annuncio dei colloqui da parte dei ministri della Difesa dei tre Paesi sarà legato al “secondo pilastro” del patto, che impegna i membri a sviluppare congiuntamente l’informatica quantistica, la tecnologia sottomarina, quella ipersonica, l’intelligenza artificiale e la tecnologia informatica. È per ora esclusa, invece, la possibilità di un’espansione del primo pilastro, progettato per fornire sottomarini d’attacco a propulsione nucleare all’Australia. L’alleanza Aukus (acronimo inglese dei tre Paesi firmatari), ufficialmente entrato in vigore nel 2023, fa parte dei loro sforzi per contrastare il crescente potere della Cina nella regione dell’Indo-Pacifico. Pechino ha infatti criticato il patto Aukus, definendolo “pericoloso” e avvertendo che potrebbe stimolare una corsa agli armamenti regionale.

    Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sta cercando d’intensificare le partnership con gli alleati statunitensi in Asia, in particolare con Giappone e Filippine, nel contesto dello storico potenziamento militare della Cina e della sua crescente assertività territoriale. Mercoledì scorso l’ambasciatore statunitense a Tokyo, Rahm Emanuel, ha scritto in un articolo sul Wall Street Journal nel quale ha lasciato intendere che il Giappone “sta per diventare il primo ulteriore partner del secondo pilastro”. Secondo numerose fonti di stampa, inoltre, Biden e il primo ministro giapponese Fumio Kishida discuteranno dell’adesione giapponese all’Aukus in occasione dell’incontro che i due leader terranno mercoledì prossimo, 10 aprile, a Washington. L’Australia, tuttavia, è cauta nell’avviare nuovi colloqui di adesione finché non saranno compiuti ulteriori progressi nella fornitura di sottomarini a propulsione nucleare a Canberra, riferiscono le stesse fonti. Giovedì prossimo, 11 aprile, Biden, Kishida e il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. terranno inoltre un vertice trilaterale.

    Il mese scorso il portale web Politico, citando proprie fonti, ha riferito che Canada e Giappone potrebbero aderire parzialmente al patto Aukus tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025. Secondo le stesse fonti, al momento si starebbe valutando un accordo che consentirà a questi Paesi di sviluppare una cooperazione globale con i membri dell’alleanza nel campo delle tecnologie militari, compreso l’uso dell’intelligenza artificiale, di missili ipersonici e tecnologie quantistiche. Secondo Politico, i tre Paesi membri del patto hanno accelerato i preparativi per l’allargamento del partenariato nel timore che gli Stati Uniti possano ritirarsi dall’Aukus, qualora Donald Trump vincesse le elezioni presidenziali a novembre. “Cercheremo opportunità per attrarre altri alleati e partner stretti”, ha detto un anonimo funzionario dell’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

    Politico ricorda che anche la Nuova Zelanda e la Corea del Sud hanno espresso in precedenza l’interesse ad aderire all’alleanza. L’Aukus è un partenariato sulla sicurezza tra i governi australiano, britannico e statunitense, istituita nel settembre 2021 per condurre una serie di iniziative di difesa congiunta basate su due pilastri: il primo di questi prevede la fornitura all’Australia di una flotta di sottomarini d’attacco nucleare; il secondo è legato allo sviluppo congiunto di capacità militari in otto aree, tra cui i sistemi sottomarini, le tecnologie quantistiche, l’intelligenza artificiale, la sicurezza informatica e la guerra elettronica, gli aerei ipersonici e i loro intercettori, nonché le tecnologie di innovazione e scambio di informazioni.

  • Londra manda una cannoniera per prevenire l’Anschluss della Guyana da parte di Maduro

    Il Regno Unito si sta preparando a inviare una nave da guerra in Guyana per dimostrare sostegno diplomatico e militare verso l’ex colonia britannica a fronte delle rivendicazioni del Venezuela sul Territorio Essequibo, vasta regione guyanese ricca di risorse naturali. Lo ha confermato il ministero della Difesa all’emittente “Bbc”, precisando che la nave, la Hms Trent, prenderà parte a esercitazioni militari congiunte da svolgersi dopo Natale. L’imbarcazione si trova già nei Caraibi ed è attualmente impegnata in attività di pattugliamento contro i traffici di droga. Dispone di un equipaggio di 65 membri, ha una velocità massima di crociera di 24 nodi ed è armata con cannoncini calibro 30 millimetri. Può dispiegare anche droni ed elicotteri Merlin.

    L’invio della nave segue la visita a Georgetown del sottosegretario agli Esteri per le Americhe David Rutley, lo scorso 18 dicembre, il primo rappresentante di un governo del G7 a recarsi in Guyana dopo il referendum sull’annessione del Territorio Essequibo organizzato dal Venezuela lo scorso 3 dicembre. Rutley ha confermato “l’inequivocabile appoggio” di Londra alla Guyana e ha accolto con favore la promessa di Caracas di non ricorrere alla forza per annettere il territorio conteso. “La disputa – ha aggiunto – è risolta da 120 anni. I confini sovrani vanno rispettati ovunque”. Sempre la scorsa settimana il segretario agli Esteri, David Cameron, ha chiarito che il Regno Unito “continuerà a lavorare con i partner nella regione per assicurare l’integrità territoriale della Guyana e per evitare un’escalation”.

    La visita di Rutley e le parole di Cameron sono state fortemente criticate dai vertici venezuelani. Il presidente Nicolas Maduro ha invitato il Regno Unito a tenere “le sue sporche mani già dall’America latina”. Il ministro degli Esteri Yivan Gil ha accusato Londra di destabilizzare la regione. “L’ex impero invasore e schiavista – ha scritto su X – dopo aver occupato illegalmente il territorio della Guyana Esseqiba e aver agito in maniera subdola contro gli interessi del Venezuela, insiste nell’intervenire in una controversia territoriale che esso stesso ha generato”.

    Forte del mandato “sacro” ricevuto dal referendum consultivo di domenica 3 dicembre – con cui il governo ha visto riconosciute ad ampia maggioranza le rivendicazioni storiche sulla regione -, Maduro ha presentato un piano per rendere il “Territorio” un nuovo Stato del Venezuela, dando anche ordine di stampare e diffondere una nuova mappa geografica aggiornata. La zona, una ampia fascia di terra tra il fiume Esequibo e l’attuale confine orientale del Venezuela, è oggetto di una contesa iniziata oltre cento anni fa. Georgetown difende un confine territoriale stabilito nel 1899 da un tribunale arbitrale a Parigi, quando la Guyana era ancora una colonia britannica. Caracas rivendica l’Accordo di Ginevra, firmato nel 1966 con il Regno Unito prima dell’indipendenza della Guyana, che pose le basi per una soluzione negoziata e annullò il trattato del 1899. Il Venezuela ritiene che il confine naturale tra i due Paesi sia il fiume Esequibo, oggi margine orientale del Territorio. Nonostante la contrarietà del Venezuela, che in un primo tempo ammetteva la sola possibilità di un arbitrato bilaterale, il caso è dal 2018 nelle mani della Corte internazionale di giustizia (Cig). Respingendo una serie di obiezioni di Caracas, il tribunale Onu ha confermato di avere i titoli per decidere sulla contesa, avviando ora l’esame del merito.

  • La Corte suprema gela la Scozia: stop al referendum bis

    Un brusco stop alle ambizioni di rivincita referendaria portate avanti dalla leader indipendentista scozzese Nicola Sturgeon è arrivato dalla Corte suprema del Regno Unito. Il verdetto pronunciato a Londra nega infatti senza mezzi termini alla Scozia di poter convocare una nuova consultazione popolare (dopo quella del 2014 vinta dalla campagna pro unione) sulla secessione dalla Gran Bretagna senza il placet del Parlamento di Westminster. Sfuma quindi l’obiettivo indicato dalla First Minister nei mesi scorsi di andare alle urne già il 19 ottobre dell’anno prossimo, data del tutto simbolica proposta dall’indipendentista Snp con poche possibilità di diventare realtà vista l’opposizione del governo centrale. Nella lettura del verdetto il presidente della Corte, lord Robert Reed, ha rigettato su tutta la linea le argomentazioni giuridiche dei legali scozzesi: in modo unanime

    si afferma che la convocazione di un referendum sulla secessione, destinato ad avere effetti sul Regno Unito, non può passare attraverso la sola approvazione di una legge da parte dell’assemblea parlamentare di Edimburgo ma spetta al potere centrale di Londra. E’ stato anche respinto il richiamo al diritto all’autodeterminazione, inclusi i paragoni fra la Scozia e altre realtà come Quebec e Kosovo.

    Sturgeon si è detta “delusa” ma al contempo rispetta il responso dei giudici, i quali “non fanno le leggi” e si sono limitati ad “interpretare” quella esistente (lo Scotland Act). Alla sua prima dichiarazione è seguito poi il tentativo di rilanciare il programma indipendentista, con un piano b che resta comunque rigidamente nei confini legali ed istituzionali, evitando forzature come avvenuto in Spagna fra la Catalogna e Madrid. La First Minister punta tutto sulle prossime elezioni politiche del Regno, previste a fine 2024: quelle, a suo avviso, saranno un “referendum de facto” grazie a una grande vittoria del suo Snp. Quel voto è per lei il solo “mezzo democratico, legale e costituzionale con cui il popolo scozzese può esprimere la propria volontà”.

    Poco dopo l’intervento di Sturgeon a Edimburgo iniziava il confronto a Londra, col primo ministro britannico Rishi Sunak impegnato nel Question Time alla Camera dei Comuni. Dopo aver affermato che il giudizio di oggi è “chiaro e definitivo” – soprattutto se si considera che entrambe le parti s’erano impegnate nel 2014 ad accettare il risultato di quel referendum come responso valido per “una generazione” – il premier conservatore ha aperto a una più stretta collaborazione con l’esecutivo locale scozzese su una serie di questioni dall’economia alla guerra in Ucraina. Rassicurazioni che sono state respinte da Ian Blackford, capogruppo dell’Snp, secondo cui “la democrazia non sarà negata” nonostante la sentenza dei giudici. L’esponente indipendentista ai Comuni ha poi usato parole ancora più dure: “L’idea stessa che il Regno Unito sia un’unione volontaria di nazioni è morta e sepolta”. Blackford si è poi confrontato nella stessa seduta in un botta e risposta col ministro per la Scozia del governo Tory, Alister Jack. Ha insistito sulla tesi secondo cui il diritto a riaprire la questione sull’indipendenza deriverebbe dalla Brexit: approvata dopo il referendum scozzese del 2014 con il voto favorevole della maggioranza dei britannici, ma solo di una minoranza di elettori scozzesi. Mentre ha rivendicato al suo partito di avere “il mandato” democratico per continuare a chiedere un referendum bis sulla base dei propri consensi elettorali. Tesi, quest’ultima, bollata come “ingannevole” dal ministro Jack, secondo cui i risultati alle urne non rispecchiano necessariamente quelli referendari.

    Stando invece ai recenti sondaggi in merito alla secessione dal Regno gli scozzesi risultano spaccati quasi a metà, contro il risultato del 2014 in cui i no prevalsero sui sì con il 55,3% rispetto al 44,7%.

  • L’Irlanda, il nuovo corso del Regno Unito, le elezioni italiane: il pensiero dell’ex ministro degli Esteri irlandese Gerard Collins

    In Italia per qualche giorno, Gerard Collins, già ministro degli Esteri della Repubblica d’Irlanda, ha rilasciato questa intervista a ‘Il Patto Sociale’.

    In Italy for a few days, Gerard Collins, past former Foreign Minister of the Republic of Ireland, gave this interview to Il Patto Sociale.

    In Ulster i cattolici hanno superato i protestanti, cosa può significare per le relazioni tra Repubblica d’Irlanda e Ulster?

    Il fatto che i dati demografici siano cambiati e che la popolazione cattolica sia passata davanti a quella protestante non influirà in alcun modo sui rapporti tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord.

    Questa relazione si basa sull’Accordo Anglo Irlandese (1998) che ha funzionato per 25 anni e continuerà a farlo in futuro

    In Ulster, Catholics have surpassed Protestants, what can this mean for relations between the Republic of Ireland and Ulster?

    The fact that the demographics have changed and that the Catholic population has moved ahead of the Protestant population will not in any way affect the relationship between the Republic of Ireland and Northern Ireland.

    This relationship is based on the Anglo Irish Agreement (1998) which has worked for 25 years and will continue to do so in the future.

    Dalla regina Elisabetta a re Carlo III, da Boris Johnson a Liz Truss, come si valuta a Dublino la transizione in corsi nel Regno Unito?

    Il popolo irlandese ha sempre tenuto in grande considerazione la regina Elisabetta. Come capo della monarchia britannica, è stata accolta calorosamente dalle molte persone che ha incontrato in molte parti del paese quando ha fatto una visita di Stato – la sua prima e unica durante il suo regno – nel 2011. Il suo interesse personale per l’allevamento e le corse di cavalli da corsa ha colpito positivamente le corde del popolo irlandese.

    Il passaggio al re Carlo III non dovrebbe fare alcuna differenza sul modo in cui il popolo irlandese vede la monarchia. È ben noto e rispettato in Irlanda, come membro della monarchia britannica, avendo fatto diverse visite negli ultimi decenni.

    Per quanto riguarda Boris Johnson e Liz Truss – purtroppo, sotto Johnson, il rapporto tra i due governi era litigioso ma ci sono già alcune indicazioni che Liz Truss e il suo governo si impegneranno e lavoreranno per migliorare la situazione così da ripristinare un buon rapporto di lavoro con il governo irlandese.

    From Queen Elizabeth to King Charles III, from Boris Johnson to Liz Truss, how does Eire evaluate the transition thats taking place in UK?

    The Irish people always held Queen Elizabeth in high regard. As Head of the British monarchy, she was warmly welcomed by the many people she met in many parts of the country when she paid a State visit  – her first and only during her reign – in 2011. Her personal interest in racehorse breeding and racing struck a positive chord with the Irish people.

    The transition to King Charles III should not make any difference as to how the Irish people view the monarchy. He is well known and respected in Ireland, as a member of the British monarchy, having made several visits over the past decades.

    With regard to Boris Johnson and Liz Truss – regrettably, under Johnson, the relationship between the two governments was fractious but there are already some indications that Liz Truss and her government will reach out and work towards improving the situation which will restore a good working relationship with the Irish government.

    Il nuovo governo britannico vuole rivedere quanto concordato con alla Ue circa lUlster. Che aspettative avete? Avete avuto contatti da Londra?

    È molto importante ricordare che il governo del Regno Unito ha concordato – voglio sottolinearlo, ha concordato  –  un accordo di recesso dall’Unione Europea e lo ha firmato.

    Tuttavia, a causa di macchinazioni politiche all’interno del grullo parlamentare del partito al governo del Regno Unito (che hanno portato a una rivolta alla Camera dei Comuni), il governo del Regno Unito ha cercato di rinegoziare l’accordo di recesso con l’Unione europea a diverse condizioni. Non essendo riusciti a farlo, hanno ritardato discussioni significative su come raggiungere un compromesso.

    Si spera che il nuovo Primo Ministro Truss sia più positivo al riguardo rispetto all’ex Primo Ministro Johnson.

    Il governo irlandese e i governi dei 27 Stati membri dell’Unione europea esortano il Regno Unito ad avviare discussioni significative con la Commissione europea.

    The new British government wants to review what has been agreed with the EU about Ulster. What are your expectations? Have you had any contacts from London?

    It is most important to remember that the UK government AGREED to a Withdrawal Agreement from the European Union and signed off on it.

    However, because of political machinations within the UK government parliamentary party (resulting in a revolt in the House of Commons), the UK government then tried to re-negotiate their withdrawal agreement with the European Union on their terms. By having failed to do so, they have delayed meaningful discussions on how to reach a compromise.

    Hopefully, new Prime Minister Truss will be more positive in this regard than former Prime Minister Johnson.

    The Irish government and the governments of the 27 European Union Member States I urge the UK to begin meaningful discussions with the EU Commission.

    Il Regno Unito fornisce all’Ucraina più armi di tutta la Ue. Può essere Londra a determinare la politica estera di tutta la Ue, da cui è uscita?

    Per quanto riguarda la fornitura di armi all’Ucraina, il Regno Unito deve essere elogiato per i suoi sforzi – come nazione unica e come membro della Nato. Si spera che eserciterà la loro influenza sui loro colleghi nella Nato per fare tutto ciò che è in loro potere per risolvere la questione. Tuttavia, non è possibile essere d’accordo sul fatto che il Regno Unito determini la politica estera dell’Unione europea poiché, dopo la Brexit, il Regno Unito ha perso la sua posizione nell’Unione europea sulla politica comune.

    The UK gives Ukraine more weapons than the whole EU. Could it be London that determines the foreign policy of the whole EU, from which it left?

    With regard to the supply of weapons to Ukraine, the UK must be commended for their efforts – as a single nation and as a member of Nato. It is hoped that they will exercise their influence on their colleagues in Nato to do all in their power to resolve the issue.

    However, it cannot be agreed that the UK determine European Union Foreign Policy as, since Brexit, the UK has lost its position in the European Union on Common Policy.

    Quanto interessa il passaggio dal governo Draghi a un nuovo governo, quasi certamente guidato da Giorgia Meloni, in Italia?

    Le ultime elezioni italiane sono state estremamente interessanti sotto diversi punti di vista. Il fatto che l’Italia abbia eletto un governo di destra è interessante, così come il fatto che circa il 40% degli italiani abbia scelto di non votare. È anche interessante notare che molti dei candidati avversari della signora Meloni in cerca di alte cariche erano stati associati al governo Draghi. È importante e interessante notare che il voto personale della signora Meloni del 26% è in enorme aumento rispetto al 4% delle elezioni precedenti. Il suo programma elettorale che include profondi tagli alle tasse e un aumento dei pagamenti delle pensioni è interessante dato che questi programmi richiedono enormi finanziamenti. Ovviamente i poveri erano i suoi più grandi sostenitori. La signora Meloni avrà bisogno dell’accordo dei partiti della Coalizione al governo per realizzare le sue proposte elettorali. Infine, sarà importante il suo approccio con l’Unione europea.

    How interesting is the transition from the Draghi government to a new government, almost certainly led by Giorgia Meloni, in Italy?

    The latest Italian Election was extremely interesting from a number of points.

    The  fact that Italy elected a far right government is interesting, as is the fact that approximately 40% of the Italian people chose not to vote.

    It is also interesting that many of Ms. Meloni’s opposing candidates seeking high office had been associated with the Draghi government.

    Important and interesting to note is that Ms. Meloni’s personal vote of 26% is a huge increase from the 4% in the previous election.

    Her Election Policy Programme which includes deep Tax cuts and an increase in pension payouts is interesting given that these programmes require massive funding. Obviously the poor were her greatest supporters.

    Ms. Meloni will need the agreement of the Coalition parties in government with her in achieving the fulfilment of her Election Manifest Proposals.

    Finally, her approach to her involvement with the European Union will be important in all respects.

  • La Truss esordisce sulle orme della Thatcher: via le tasse e Stato minimo

    Un taglio di tasse che, in questa dimensione e in un unico annuncio, non si vedeva dal 1972: esattamente mezzo secolo. Inizia col botto, e non senza polemiche, “la nuova era” di politica economica promessa dalla  versione riveduta e corretta del governo Tory britannico, passato due settimane fa, ultimo atto del regno di Elisabetta,  dalla leadership di Boris Johnson a quella – poco carismatica ma ideologicamente più radicale – di Liz Truss.

    L’occasione per mettere qualche carta sul tavolo è stato l’intervento con cui il neocancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, promosso a primo titolare delle Finanze di origini familiari africane nella storia isolana al numero 11 di Downing Street, ha illustrato alla Camera dei Comuni con la premier accanto quella che era stata presentata come una “mini manovra” aggiuntiva: una correzione di bilancio, fatta di misure pubblicamente preannunciate da giorni e imposta dagli effetti nel Regno del terremoto energetico globale aggravato dalla guerra fra Russia e Ucraina, da un’inflazione balzata al 10% e da una recessione che le ultime stime della Bank of England indicano aver fatto capolino in anticipo sul previsto già nel terzo trimestre del 2022. Ma che in realtà ha assunto le forme d’una svolta in piena regola: sulle orme del ricordo liberista di quella Margaret Thatcher addirittura superata per entità iniziale delle riduzioni fiscali.

    La premessa di una strategia da ‘o la va o la spacca’ per provare a ridare slancio all’economia dell’isola, fra scossoni geopolitici, conseguenze del post pandemia e danni collaterali del dopo Brexit. Strategia fatta del resto di deregulation e meno tasse, ma anche d’intervento pubblico a colpi d’extra deficit per assicurare il promesso congelamento delle bollette sull’energia per due anni alle famiglie e alle imprese. Nel quadro di un cocktail ad alto rischio che Kwarteng e Truss giudicano necessario correre, convinti di poter compensare gli esborsi, almeno a medio termine, con un rimbalzo del Pil; ma che suscita allarmi da più parti, in primis sulla tenuta delle finanze pubbliche.

    “Di fronte alla peggiore crisi energetica da generazioni, non possiamo non essere vicini alla gente, ha proclamato il cancelliere di genitori ghanesi a Westminster, difendendo i costi del blocco delle bollette: 150 miliardi di sterline a regime, con 60 miliardi di sovvenzioni governative ufficializzate per i soli primi sei mesi. Non senza rivendicare al contempo la scure fiscale come una cruciale terapia shock per la ripartenza.

    Ecco quindi spiegata la decisione di ridurre dal 2023 le aliquote sul reddito (dal 20 al 19% quella minima, dal 45 al 40 quella per chi guadagna dalle 150.000 sterline annue in su); di abolire l’imposta di bollo sulle transazioni immobiliari fino a 250.000 sterline (a 425.000 per chi acquista la sua prima casa); di cancellare l’incremento dell’1,25% sui contributi previdenziali della National Insurance e quello della Corporate Tax sui profitti delle aziende dal 19 al 25% predisposti dall’ex cancelliere Rishi Sunak in era BoJo dopo l’emergenza Covid per finanziare l’assistenza sanitaria e sociale; d’introdurre vendite tax free per i viaggiatori stranieri; d’eliminare il tetto fissato dal 2008 sui bonus di banchieri e top manager per ridare smalto all’attrattività della City.

    Scelte che economisti come Paul Johnson, dell’Institute for Fiscal Studies, giudicano “insostenibili”. Una perplessità che si estende anche ai mercati, a guardare il calo della sterlina a un nuovo minimo sul dollaro dal 1985.

    Di fronte a questi annunci, per varie ragioni, si indignano opposizioni e realtà impegnate nel sociale. Replicando a Kwarteng, la cancelliera dello Scacchiere ombra del Labour, Rachel Reeves, da un lato ha accusato il governo Truss di portare il debito pubblico a livelli “senza precedenti”; dall’altro ha denunciato gli interventi sulle tasse, paralleli alla decurtazione dell’Universal Credit per i più poveri, come una classica “ricetta conservatrice”. Destinata a “gratificare chi è già ricco”.

  • Brexit done: dall’1 ottobre anche gli europei devono esibire il passaporto per sbarcare sull’isola

    Il passaporto vaccinale anti-Covid no, quello ordinario sì. D’ora in avanti ai cittadini europei che vogliono entrare in Gran Bretagna non basterà più la carta d’identità. La misura, prevista negli accordi post-Brexit, era stata annunciata un anno fa ma è comunque destinata a causare un piccolo turbamento a chi era abituato a viaggiare nel Regno Unito con leggerezza e senza code eccessive alla dogana.

    Il provvedimento riguarda tutti i cittadini dell’Ue, dell’Area economica europea e della Svizzera, che vengono quindi equiparati ai viaggiatori stranieri di qualsiasi altra parte del mondo. Non si applica, invece, ai milioni di cittadini comunitari che si sono registrati all’Eu Settlement Scheme creato dal governo per garantire ai residenti i diritti acquisiti prima del divorzio di Londra da Bruxelles. Costoro potranno continuare a utilizzare le carte d’identità per entrare in Gran Bretagna almeno fino al 2025, anche se la maggior parte già mostra il passaporto alla dogana. Per ora, invece, i cittadini comunitari possono fare a meno del visto. Almeno per viaggiare nel Regno Unito e restarci fino a tre mesi. Per un periodo più lungo, nel caso in cui si intenda soggiornare per ragioni di lavoro o di studio, occorreranno invece visti analoghi a quelli richiesti attualmente agli stranieri non comunitari.

    La ministra degli Interni Priti Patel ha di recente spiegato che la scelta è stata determinata dalla volontà di impedire che “criminali” entrino in territorio britannico grazie a documenti falsi. Secondo dati del ministero, infatti, le carte d’identità sono quelle in assoluto più contraffatte e l’anno scorso la metà delle copie illegali erano proprio di carte europee e svizzere. “Il Regno Unito è orgoglioso della sua storia di apertura nei confronti del mondo e continuerà questa tradizione”, ha detto la ministra. “Ma dobbiamo reprimere i criminali che cercano di entrare illegalmente nel nostro Paese utilizzando documenti falsi. Mettendo fine all’uso di carte d’identità non sicure – ha sottolineato – rafforziamo i nostri confini e riprendiamo il controllo del nostro sistema migratorio”.

    D’altra parte l’esigenza di una stretta sulla libertà di movimento è stato uno dei fattori determinanti che hanno portato alla scelta della Brexit nel referendum del 2016. Per evitare caos e spiacevoli incidenti, nell’ultimo mese le ambasciate di quasi tutti i Paesi Ue hanno avvertito i loro connazionali dell’obbligo di avere con sé un passaporto valido prima di intraprendere un viaggio nel Regno Unito.

  • Ripicca della Ue per Aukus: rinviato il negoziato per il libero scambio con l’Australia

    Non si sono ancora rimarginate le ferite aperte dal Patto Aukus. Nonostante la dichiarazione congiunta di Joe Biden ed Emanuel Macron e la riuscita del Consiglio commercio e tecnologia Ue-Usa di fine settembre, sono ancora diversi gli strascichi lasciati dal patto siglato tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti. A cominciare dalle trattative sull’accordo commerciale tra l’Ue e l’Australia, che hanno subito un rallentamento ma non uno stop. La Commissione europea conferma che “il round dei negoziati”, che era previsto per il 12 ottobre, “è stato rinviato di un mese” e la decisione è stata presa “qualche giorno fa”, ha riferito una portavoce dell’esecutivo Ue. La motivazione ufficiale è la necessità di approfondire i contenuti ma il sospetto è che Bruxelles voglia fare un dispetto al governo di Canberra.

    “Come abbiamo sempre detto la sostanza prevale sulla velocità, quando si tratta di negoziati. Questo mese in più ci consentirà di prepararci meglio per il prossimo negoziato. Posso anche confermare che questa non è la fine dei negoziati – ha aggiunto – ci sono questioni ancora aperte, come l’accesso al mercato, le regole di origine, gli acquisti pubblici, la proprietà intellettuale e lo sviluppo sostenibile. C’è ancora non poco lavoro da fare in queste aree e per questo abbiamo bisogno di un po’ di tempo per riflettere sui prossimi passi”. Il portavoce capo della Commissione, Eric Mamer, ha detto che non si tratta di una punizione, rispondendo a chi gli chiedeva se il rinvio fosse una ritorsione nei confronti dell’Australia per aver stretto il patto Aukus con Usa e Regno Unito e ritirato la commessa sui sottomarini alla Francia. “Non è nell’interesse della Ue punire nessuno, l’Australia è un partner dell’Ue con cui abbiamo dei negoziati sul commercio in corso. La sostanza dei negoziati richiede molti sforzi, non è insolito che venga presa una decisione come questa”, ha commentato.

    I negoziati con l’Australia vanno avanti dal giugno 2018, quando l’Ue, con la Commissione Juncker, aveva già deciso di puntare in quell’area del mondo. Da poco erano stati conclusi gli accordi con il Giappone e il Messico ed era entrato in vigore quello con il Canada. “Il futuro accordo tra l’Ue e l’Australia rafforzerà ulteriormente l’impegno dell’Unione nella regione Asia-Pacifico”, aveva detto all’epoca la Commissione europea. Il prossimo round negoziale, in videoconferenza, era previsto per la metà di questo mese. Un funzionario con conoscenza diretta della questione ha affermato che all’origine del rinvio c’è la tensione legata ai sottomarini, ma ha insistito sul fatto che le parti non sarebbero comunque state pronte a siglare l’intesa.

    Dall’altra parte del mondo, il ministro del commercio australiano, Dan Tehan, ha annunciato che restano in vigore i suoi piani di incontrare la prossima settimana la controparte dell’Unione europea, Valdis Dombrovskis, per discutere delle trattative sul libero scambio. “Comprendiamo la reazione francese alla nostra decisione sui sottomarini, ma alla fine ogni nazione deve agire nel proprio interesse nazionale – ed è ciò che l’Australia ha fatto”, ha affermato Tehan.

    Intanto, la Francia sembra continuare la sua battaglia attraverso relazioni bilaterali. L’Europa ha mostrato qualche segno di solidarietà ma non vuole essere coinvolta in una partita che riguarda una commessa commerciale di un paese. Il 4 ottobre il Segretario di Stato Usa Antony Blinken è atterrato a Parigi per presiedere la riunione del Consiglio ministeriale dell’Ocse e commemorare il 60° anniversario dell’organizzazione. Blinken ha colto l’occasione per “continuare le discussioni sull’ulteriore rafforzamento della vitale relazione Usa-Francia su una serie di questioni tra cui la sicurezza nella regione indo-pacifica, la crisi climatica, la ripresa economica dalla pandemia di Covid-19, le relazioni transatlantiche, e il lavoro con gli alleati e partner per affrontare le sfide e le opportunità globali”. La regione indo-pacifica, appunto, quella su cui sembrano convergere gli interessi delle potenze mondiali per i prossimi anni. E su cui sia il Patto Aukus che la Strategia Ue sull’Indo-pacifico puntano, cercando di tenere fuori le mire espansionistiche di Pechino.

  • Londra non dimentica Hong Kong nelle mani di Xi Jinping

    Il Regno Unito ha sospeso gli accordi di estradizione con Hong Kong ed esteso alla sua ex colonia l’embargo sulle armi già in vigore per la Cina continentale dal massacro di piazza Tienanmen. Dopo il colpo inferto al colosso della telefonia cinese Huwaei e la promessa di visti a pioggia per gli Hong Kongers, Londra ha deciso di intensificare lo scontro con Pechino seguendo l’esempio, e la volontà, degli Stati Uniti. Le misure erano già state anticipate nelle scorse ore dallo stesso premier britannico Boris Johnson che ha espresso timore per la violazione dei diritti umani in Cina, anche se, ha sottolineato, questo non lo spingerà a diventare “sinofobo su ogni questione”. La conferma delle misure è arrivata dal ministro degli Esteri Dominic Raab. Parlando alla Camera dei Comuni, il ministro ha espresso preoccupazione per la nuova legge sulla sicurezza nazionale varata da Pechino e per i presunti abusi, perpetrati in particolare nella provincia dello Xinjiang, ai danni della minoranza uigura. Raab ha descritto le misure come ragionevoli e proporzionate: “Proteggeremo i nostri interessi vitali, difenderemo i nostri valori e faremo in modo che la Cina rispetti i suoi obblighi internazionali”. La decisione di Londra segue quella già presa da Usa, Australia e Canada che hanno sospeso gli accordi di estradizione perché la nuova legge sulla sicurezza “erode l’indipendenza giudiziaria di Hong Kong” permettendo alle persone estradate nella regione amministrativa speciale di essere processate nei tribunali continentali. L’embargo disposto da Londra vieta poi alle società britanniche di esportare armi potenzialmente letali, i loro componenti o munizioni, nonché attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione delle manifestazioni interne. Pechino ha contestato le nuove misure ancor prima che fossero state formalmente annunciate da Raab. L’ambasciatore cinese nel Regno Unito, Liu Xiaoming, ha detto alla Bbc che Londra si è fatta “comandare” dagli Stati Uniti e ha respinto le accuse delle violazioni dei diritti umani del popolo uiguro. “La gente dice che la Cina sta diventando molto aggressiva. È totalmente sbagliato”, ha detto Liu, “La Cina non è cambiata. Sono i paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, che hanno iniziato questa cosiddetta nuova guerra fredda contro Pechino”. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha “condannato con forza” le misure e ha chiesto al Regno Unito di “non fare ulteriori passi falsi per evitare altri danni alle relazioni tra Londra e Pechino”. Wang in particolare ha difeso la legge sulla sicurezza nazionale che, secondo il governo britannico, lede il principio ‘Un Paese due sistemi’ sui cui dal 1997 si è basata l’autonomia di Hong Kong.

  • La Brexit è sempre per aria mentre il giorno del ritiro si avvicina

    La Corte Suprema di Londra è riunita per decidere se la chiusura del Parlamento è legale, viste le incombenze che dovrebbero essere prese entro il 31 ottobre, data concordata tra RU e UE come termine ultimo per l’uscita. Il Parlamento ha votato una legge che vieta un’uscita senza accordo sul dopo.  Johnson continua ad affermare che l’uscita avverrà il 31 ottobre, con o senza “no deal”.  Ci si attendeva che lunedì scorso a Lussemburgo Johnson presentasse a Junker, ancora in carica come presidente della Commissione europea fino al 31 ottobre, le nuove proposte d’accordo che superassero quelle stabilite da Theresa May, sempre respinte dal Parlamento. Ma in realtà l’incontro di Lussemburgo è stato inutile perché Johnson non ha presentato proposte alternative e si è limitato a ripetere le cose che ripete da mesi: il 31 ottobre usciremo, con o senza accordo, la questione della frontiera tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda deve essere risolta senza nuovi agganci con l’unione doganale europea, la responsabilità del non accordo sarà dell’Unione europea, ecc. Una risposta indiretta l’ha espressa il presidente Junker arrivando alla colazione di lavoro con il premier britannico a Lussemburgo, accompagnato dal capo delegazione della Ue per la Brexit Michel Barnier: “L’Europa non perde mai la pazienza”- ha affermato. E a Strasburgo, alla plenaria del Parlamento europeo di oggi  (18 settembre n.d.r.)ha aggiunto: “Il rischio di un “no deal” è reale e permane. “Magari – ha detto – il ‘no deal’ alla fine sarà la scelta del governo britannico, ma non sarà mai la scelta dell’Ue. Un accordo è sempre auspicabile e possibile”. “La scadenza del 31 ottobre si avvicina a grandi passi, e abbiamo di fronte a noi più incertezza, non meno. Questa situazione piuttosto cupa non ci deve distrarre: la nostra priorità resta avere un ritiro ordinato e spero che riusciremo ad averlo”, lo afferma Tytti Tuppurainen, ministro per gli Affari europei della Finlandia, Paese che attualmente ha la presidenza semestrale di turno dell’UE, intervenendo nella seduta plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo. “In Gran Bretagna – continua la Tuppurainen – le opinioni restano divise. Solo il fermo rifiuto di un’uscita senza accordo ha aggregato una maggioranza. Malgrado ciò il governo britannico continua ad insistere sulle sue linee rosse, senza proporre soluzioni chiare alternative, per quanto riguarda le questioni più complicate, come il confine irlandese”. Johnson intanto continua ad aggrapparsi ad un unico ritornello, la promessa di portare a compimento la Brexit il 31 ottobre senza altri rinvii, a dispetto della legge anti “no deal”. Ma insiste anche a dire di volere una nuova intesa di divorzio con Bruxelles, senza “back stop” sul confine irlandese. Ma a giudicare dall’esito del suo deludente incontro a Lussemburgo con Jean-Claude Junker, ci sembra difficile raggiungere questo obiettivo. Johnson comunque sembra sperare in un aiuto di Angela Merkel, cancelliera di una Germania dove il mondo del business teme fortemente lo spettro di una Brexit dura e pesante, quasi come buona parte di quello britannico. Per telefono con la Merkel ha concordato l’impegno ad accelerare lo sforzo negoziale dell’ultimo minuto. Si farà in tempo prima del 31 ottobre, o bisognerà allungare ancora i tempi? Se in tre mesi il governo di Boris Johnson non è riuscito (o non ha voluto)a definire nuove proposte di negoziato, ci riuscirà a (o vorrà)  farlo in tre settimane?

  • Theresa May si dimetterà il 7 giugno

    Dopo mesi di tira e molla, dopo numerosi tentativi da parte del suo partito di farla dimettere, dopo le innumerevoli richieste d’abbandonare il governo da parte dell’opposizione laburista, dopo i velenosi articoli della stampa contro la sua testardaggine a non voler rinunciare al governo, dopo innumerevoli dichiarazioni ostili nei suoi confronti e altrettanti ripensamenti, dopo le numerose dimissioni di ministri contrari alla sua linea politica ed all’accordo stabilito con l’UE, dopo le tre votazioni contrarie del parlamento sul compromesso stabilito con l’UE per evitare il no deal, Theresa May ha annunciato stamattina che si dimetterà il 7 giugno, a causa del fallimento di tutti i suoi tentativi di far passare l’accordo per l’uscita del RU dall’Unione europea. Era dunque una dimissione attesa, che però in queste ultime settimane era stata smentita più volte. Lei stessa aveva dichiarato che se ne sarebbe andata se fosse stato accettato l’accordo sull’uscita da lei concordato con l’UE. Ora se ne va, proprio perché l’accordo non è stato accettato dalla maggioranza del parlamento e da una larga parte di deputati del suo partito. Nel discorso in cui ha annunciato le sue dimissioni ha espresso un grande rimpianto per non essere riuscita a portare Brexit a compimento e ha ricordato che durante la sua permanenza al governo, dopo le dimissioni di Cameron, il deficit e la disoccupazione sono stati ridotti e che ha fatto tutto quanto era possibile per convincere, senza riuscirci, i parlamentari a trovare un accordo. Nel ringraziare per l’onore avuto nel guidare il governo, la voce le si è rotta in gola e certamente l’emozione le ha impedito di proseguire. Se n’è tornata rapidamente nella sua residenza, al 10 di Downing Street. Non ha avuto vita facile a questo indirizzo, con il parlamento sempre contro e con una buona parte dei suoi colleghi di partito che non hanno condiviso le sue scelte politiche. Un accordo con la dirigenza dell’UE lei, comunque, era riuscito ad ottenerlo, mentre il parlamento, nel respingere a maggioranza le sue proposte, non è mai stato in grado di proporre scelte alternative, diviso com’è sulla questione Brexit e all’interno degli stessi partiti ora maggioritari, i Conservatori e i Laburisti. Non conosciamo ancora, mentre scriviamo questa nota, l’esito del voto europeo che nel Regno Unito ha avuto luogo ieri, ma se le previsioni della vigilia si avvereranno, questi due partiti saranno probabilmente penalizzati dagli elettori. Se lo saranno meritato questo trattamento. Le loro divisioni interne li hanno indeboliti e resi incapaci di esprimere maggioranze, con conseguenze che riguardano tanto il futuro del RU, quanto quello dell’UE. Uscire dall’Europa senza un accordo sul dopo significa per la Gran Bretagna affrontare un futuro incerto e pieno di sfide, significa però, anche, una ulteriore debolezza per l’affermazione di una politica estera europea, oltre che ulteriori difficoltà per l’economia dell’UE. I tentativi della May, detti testardi dai suoi detrattori, per uscire con regole definite per il dopo, sono stati apprezzabili, sono stati uno sforzo encomiabile per evitare il caos. La “testardaggine” è stata l’ultima barriera contro la confusione e il disordine. Soltanto a Brexit conclusa si potrà valutare con obiettività il percorso del governo May su questo tema e giudicare serenamente la qualità del lavoro del Primo ministro per evitare il peggio e per mantener fede al risultato del referendum del 2016. La May s’è presa tutta la responsabilità del suo operato. Si può dire altrettanto del parlamento, che non ha fatto nessuna scelta? O del capo dell’opposizione, Corbyn, che ha sempre detto di no, senza mai proporre alternative, se non richiedere le dimissioni del Primo ministro e nuove elezioni politiche? Dov’erano le soluzioni per la Brexit in questi atteggiamenti? A urne chiuse, ciascuno trarrà le conclusioni che gli convengono, ma ridurre il tutto alla “testardaggine” della May ci sembra una scorciatoia impraticabile che non porta da nessuna parte. Con le dimissioni della May i problemi rimangono e la loro soluzione sarà affidata ai nuovi dirigenti che prenderanno il suo posto e che dovranno rispondere alle stesse domande: accordo o non accordo? Uscita dura o morbida? La responsabilità della May aveva scelto un accordo per un’uscita morbida. Vedremo che faranno i suoi successori.

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