I Paesi poveri non ce la fanno a tirare avanti, anche se molti di essi posseggono un sacco di materie prime
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato il 2 novembre 2022 su ‘ItaliaOggi’
Il debito dei Paesi più poveri tra quelli in via di sviluppo è tornato a essere ad alto rischio. Lo afferma il recente studio del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) intitolato «Avoiding: too little, too late», si fa troppo poco e troppo tardi per evitarlo!
Lo studio si riferisce a Paesi che rappresentano quasi il 18% della popolazione mondiale e il 50% delle persone che vivono in povertà estrema. Pur essendo ricchissimi di materie prime e di altre commodity alimentari, essi rappresentano un misero 3% del pil globale. Sarebbero 54 i Paesi in via di sviluppo che necessitano di una riduzione urgente del debito pubblico, pena una imminente catastrofe umanitaria, emigrazioni incontrollate e guerre di vario tipo: 25 sono nella regione sub sahariana, 10 nell’America Latina e nei Caraibi.
L’aggravamento è dovuto al fatto che i suddetti Paesi emettono debito in dollari e, di conseguenza, subiscono le decisioni prese dagli Stati Uniti. Per esempio, l’aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed ha per loro un effetto negativo insostenibile. Da qualche tempo almeno 19 Paesi pagano interessi superiori del 10% rispetto a quelli dei Treasury bond.
Queste obbligazioni sono in caduta libera con un deprezzamento del 40-60%. Se si considerano tutte le economie in via di sviluppo, ben 26, circa un terzo, sono classificate «rischio sostanziale, estremamente speculativo o insolvenza».
Il peggioramento della loro situazione economica e sociale è confermato anche da un altro studio dell’Undp sul Multidimensional Poverty Index (mpi). Tale indice analizza la povertà combinando il livello del reddito pro capite con i diversi aspetti della vita quotidiana di persone in povertà: l’accesso all’istruzione e alla salute e lo standard di vita come alloggi, acqua potabile, servizi igienici ed elettricità. I dati di prima della pandemia e dell’impennata inflazionistica mostrano che 1,2 miliardi di persone in 111 Paesi vivono in condizioni di povertà multidimensional acuta. Questo è quasi il doppio del numero di chi è considerato povero perché ha un reddito inferiore a 1,90 dollari al giorno.
L’analisi evidenzia che oltre il 50% delle persone povere (593 milioni) non ha elettricità e gas per cucinare; quasi il 40% dei poveri non ha accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici; più del 30% delle persone povere è privato contemporaneamente di cibo, combustibile per cucinare, servizi igienici e alloggio. La maggior parte delle persone povere multidimensional (83%) vive nell’Africa sub sahariana (579 milioni) e nell’Asia meridionale (385 milioni).
L’Undp sostiene che la risposta del G20 sia del tutto inadeguata. Ricorda anche che, nella pandemia del 2020-2021, il G7 ha stanziato ben 16 mila miliardi di dollari. Lo stesso Fmi potrebbe espandere le sue linee di credito e accelerare la ricanalizzazione dei diritti speciali di prelievo. Perciò, volendo, «i problemi di liquidità non sono ingestibili».
Lo studio propone il coordinamento dei creditori, compresi quelli privati, e l’uso di clausole per le obbligazioni statali che mirino alla resilienza economica e fiscale. Si sostiene che in alcuni casi si debba cancellare il debito. Oggi mancano le assicurazioni finanziarie dei principali governi creditori per raggiungere un accordo. Perciò si proporrebbero i cosiddetti Brady Bonds, obbligazioni della durata di 30 anni, sostenute da Treasury bond, emesse negli anni Ottanta dai Paesi in crisi per finanziare il debito con le banche commerciali. Si ricordi il default dell’Argentina.
*già sottosegretario all’Economia **economista