Attualità

La diversa velocità dell’inflazione

Molti organi ufficiali governativi, uniti ad altrettanti media nazionali, sottolineano, con malcelata soddisfazione, la minima riduzione del debito pubblico a gennaio 2023, pari a 2756 miliardi di euro (in flessione rispetto al dicembre 2022 che segnava 2762 miliardi), ma in forte aumento rispetto allo stesso periodo del 2022 con una crescita di oltre 41 miliardi di euro.

Questa risibile soddisfazione è assolutamente fuori luogo e tende, con colpevole miopia, a coprire il diverso effetto dell’inflazione sul valore nominale del PIL e del debito pubblico legato semplicemente alla diversa modulazione della sua velocità.

Il fatturato, infatti, si adegua immediatamente al crescere dei costi, con conseguenti adeguamenti dei prezzi, quindi il Pil  a prezzi correnti cresce (ma non quello a prezzi costanti) migliorando il rapporto con il debito pubblico, anch’esso crescente. Il miglioramento, ma si ricorda solo temporaneo, del rapporto debito pubblico/Pil nasce perciò solo dalla diversa velocità di adeguamento del debito rispetto al PIL generato dall’andamento della spirale inflattiva.

Come già evidenziato prima, mentre per i prezzi la maggiore crescita legata ai costi in salita generati dall’inflazione risulta immediato e seriale, l’effetto dell’inflazione per i costi del servizio al debito pubblico, anch’esso sempre in crescita, tende a manifestarsi solo con l’emissione a 12, 18 o 24 mesi dei titoli del debito pubblico che prezzano un mercato dominato dall’inflazione e dalle stesse aspettative, e quindi con tassi crescenti.

Sembra incredibile, infatti, come a questa soddisfazione assolutamente ingiustificata ed ingiustificabile, in quanto fornisce un alibi per un ulteriore aumento della spesa pubblica, di un migliorato rapporto tra debito pubblico e PIL, non si prenda nella giusta considerazione come i costi del servizio al debito per il 2025 potranno arrivare a cento (100) miliardi all’anno di soli interessi sul debito pubblico.

Se nel 2022 lo Stato italiano ha incassato 609 miliardi di tasse, e mantenendosi basso il tasso di crescita della nostra economia (*), mistificato solo da un maquillage di genesi inflattiva , la spesa per il servizio addebito si potrebbe avvicinare quindi  al 15-18% delle tasse incassate e al 5% del PIL. Senza considerare come la perdita di potere d’acquisto, in particolar modo per le classi della popolazione meno abbienti, seguita da un aumento esponenziale dei costi dei finanziamenti per le imprese e dei mutui per le famiglie, sempre legati alla crescita dell’inflazione, rappresenta un serio problema per una crescita strutturale della nostra economia.

In altre parole, l’inflazione, oltre ad una pia ed illusoria soddisfazione per un miglioramento temporaneo del rapporto debito PIL, rappresenta la peggiore tassa occulta. Viceversa, viene accolta con favore dalle classi governative prive di visione a medio e lungo termine, in quanto aumenta le entrate fiscali (Fiscal Drag +54 miliardi).

La diminuzione del potere d’acquisto della popolazione che assiste alla metamorfosi delle banconote in euro al valore di quelle del monopoli renderebbe necessaria una manovra fiscale per ridurre l’impatto della crescita dei prezzi. L’inflazione invece illude una classe politica incapace di procedere nella giusta direzione.

(*) Per il 2023 +1% obiettivo del governo mentre il Fmi ci accredita un +0,7% e +0,8% nel 2024

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