Europa

Boris Johnson nuovo Premier del Regno Unito

Ha ricevuto 92 mila voti contro i 46 mila di Jeremy Hunt

L’ultra della Brexit – come lo definisce “Il Sole 24 Ore” – ce l’ha fatta. La sua vittoria era prevista e la sua elezione non ha sollevato entusiasmi. E’ riuscito con il doppio dei voti rispetto al suo concorrente, l’attuale ministro degli Esteri Jeremy Hunt. Boris Johnson, 55 anni, allievo delle migliori scuole britanniche riservate alle élites, storico, giornalista, considerato “un gigante” dai suoi e “un clown” dai suoi detrattori,  sarà il nuovo leader dei Conservatori e il nuovo Primo Ministro britannico. Il suo bacino elettorale era rappresentato dai 160 mila iscritti al partito conservatore. La democrazia britannica! – si dice con ammirazione. Nella realtà, 160 mila Conservatori hanno scelto chi dovrà governare 66 milioni di cittadini. Lo smisurato rapporto dovrebbe far riflettere. Ma la democrazia britannica, altro mito inestinguibile, assicura stabilità al sistema e fiducia dei cittadini nelle istituzioni. L’elezione di Johnson, tuttavia, qualche perplessità la solleva. La sua vita privata, le acconciature della sua bionda chioma, il suo abbigliamento stravagante, i suoi svarioni ministeriali, le sue gaffe da ministro degli Esteri, hanno disseminato di chiacchiere i salotti londinesi e di gossip i giornali popolari. Anche la sua carriera è stata variegata e zigzagante: dal giornalismo, dove ha conosciuto licenziamenti e critiche feroci per la sua scorrettezza professionale, è passato alla politica. E’ diventato deputato conservatore nel 2001; tre anni dopo è stato licenziato come vicepresidente del partito da Michael Howard, allora leader Tory, per aver mentito su una relazione etra-coniugale e la nascita di una figlia illegittima. La sua disordinata vita personale non lo ha però danneggiato e nel 2008 è stato eletto sindaco di Londra e riconfermato per un secondo mandato nel 2012. Fu in questo periodo che la sua popolarità raggiunse alti livelli. Rieletto deputato nel 2015, è diventato ministro senza portafoglio nel secondo governo Cameron. Nel corso della campagna per il referendum del 2016 si è schierato a favore della Brexit e ha condotto una feroce campagna anti UE, paragonandola addirittura alla Germania nazional-socialista. Ha raccontato menzogne sui versamenti di Londra al bilancio dell’Unione e queste sue false notizie hanno certamente contribuito al successo della Brexit. Non ha dato tregua alla nuova leader Theresa May dopo le dimissioni di Cameron e si è dimesso egli stesso da ministro degli Esteri nel luglio del 2018, perché in disaccordo con il governo in ordine agli accordi negoziati con Bruxelles per l’uscita del Regno Unito dall’UE. L’accordo fu respinto per ben tre volte dal parlamento e nell’impossibilità di trovare altre soluzioni accettabili, la May è giunta alla sue dimissioni, avendo però sempre respinto l’ipotesi di una uscita no deal, senza accordo, ritenendola disastrosa. Ed è già storia di oggi. Johnson, al posto lasciato libero dalla May, si ritrova con gli stessi problemi e di fronte alle stesse scelte: uscire con o senza accordo? Rinegoziare o no l’accordo raggiunto dalla May? L’Europa non vuole rinegoziare, ma la nuova presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha dichiarato la sua disponibilità a concedere una nuova eventuale proroga al governo britannico, al di là del 31 ottobre, concordato con la May. Johnson dovrà vedersela con la questione che ha già bruciato due capi di governo e 43 fra ministri e sottosegretari. Ha davanti a sé cento giorni per sciogliere il nodo dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ed un primo segnale l’ha dato ieri l’altro il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, in diretta da una rete televisiva, annunciando la sue dimissioni. Domani, mercoledì, egli lascerà l’incarico di ministro delle Finanze, in totale disaccordo con la prospettiva di un’uscita no deal, che a suo parere sarebbe invece accettata dal nuovo premier, il quale ritiene che la scadenza del 31 ottobre è decisiva; ne va della tenuta delle istituzioni e dell’intero sistema politico, se non verrà rispettata – ha dichiarato. Entro quella data, per evitare il peggio, si dovrebbe anche trovare un’intesa sul back-stop, al fine di non creare un confine duro tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, tema questo che non ha trovato d’accordo i negoziatori di Theresa May e quelli europei. Ci sarà il tempo per fare in poco tempo ciò che non è riuscito in tre anni? Anche sul fronte dell’opposizione, nel Labour di Jeremy Corbyn si intravvedono novità. Corbyn, la cui ambiguità con le soluzioni della May sono da considerare magistrali, ha scritto in una lettera indirizzata agli iscritti del suo partito che sarà opportuno sottomettere a referendum i risultati, qualunque essi siano, a cui giungerà il capo del governo Johnson entro il 31 ottobre. E’ normale che sia il popolo a decidere in definitiva! Molti osservatori, però, non sono rimasti convinti da questa progettata iniziativa, Ritengono invece che la proposta serva ancora una volta a mascherare ciò che vuole veramente il partito laburista, ammesso che voglia veramente una soluzione rispetto ad un’altra. La leadership di Corbyn, tra l’altro, è stata scalfita da una lettera firmata da 65 lord laburisti e a lui indirizzata, in cui si denuncia la sua indisponibilità ad esercitare la sua funzione di leadership nei confronti di dirigenti del Labour che praticano l’antisemitismo. Non si dice apertamente che anche Corbyn è un antisemita, ma ci si appella alla sua negligenza nei confronti di chi lo è, per dichiarare menomata la sua leadership. Non è un’accusa da poco, ma temiamo che per il momento nulla verrà a modificare l’equilibrio di potere all’interno del Labour prima che si giunga ad eventuali elezioni anticipate. Noi ci meravigliamo, in negativo, di come le cose politiche vanno in Italia. Certamente non c’è da consolarsi di come le cose vanno anche in Inghilterra, la patria della democrazia per eccellenza, se le eccellenze politiche odierne rispondono al nome di Johnson e di Corbyn.

 

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