Brexit

  • Londra aggira la Brexit su scienza e ricerca

    Il Regno Unito non vuole rischiare di segnare il passo nel settore della ricerca d’avanguardia, né tanto meno di ridurre le potenzialità di collaborazione internazionale delle sue prestigiose università e così ha deciso di rimanere legata, almeno nell’ambito scientifico, all’Unione europea. A inizio settembre infatti è arrivata un’ulteriore conferma dell’approccio pragmatico adottato dal premier conservatore Rishi Sunak rispetto ai rapporti con Bruxelles nel post-Brexit con l’annuncio del rientro britannico in due ambiziosi programmi europei: Horizon, il più grande al mondo in ambito civile per la ricerca e l’innovazione, e Copernicus, creato per l’osservazione della Terra tramite i satelliti e leader di settore a livello globale.

    Londra ne era stata esclusa negli ultimi tre anni a causa dei dissidi sorti con l’Ue sul Protocollo per l’Irlanda del Nord e poi risolti di recente grazie all’intesa nota come Windsor Framework. Sempre Sunak aveva giocato anche in quel caso la carta del dialogo nei rapporti con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, rispetto alle dimostrazioni muscolari dei suoi due predecessori Tory, Liz Truss e Boris Johnson, cercando sempre di portare a casa risultati utili. «Abbiamo lavorato con i nostri partner dell’Ue per garantire che questo sia l’accordo giusto per il Regno Unito, sbloccando opportunità di ricerca senza precedenti, e anche per i contribuenti britannici», ha dichiarato Sunak facendo un riferimento, non casuale, alle casse dello Stato.

    Sì perché Londra accetta di pagare piuttosto salato la sua quota – stimata in un esborso annuo di 2,2 miliardi di sterline (più di 2,5 miliardi euro) – per partecipare ai 2 programmi da partner esterna all’Unione. La mossa può rientrare, a seconda dei punti di vista, in un nuovo esempio di ‘Bregret’, il neologismo creato per definire il rimpianto britannico dopo l’addio all’Ue e le contromisure introdotte per mitigarne gli effetti negativi; ma anche in un approccio piuttosto lucido da parte del Regno nel mantenere legami con l’Unione nei dossier considerati più strategici. Allo stesso tempo, pure Bruxelles saluta le intese di questo tipo come dei successi e lo ha fatto anche stavolta: «L’Ue e il Regno Unito sono partner e alleati strategici fondamentali e l’accordo di oggi lo dimostra. Continueremo a essere all’avanguardia nella scienza e nella ricerca globale», ha affermato la presidente Von der Leyen.

    I più soddisfatti sono comunque gli scienziati, a partire dal professor Paul Nurse, 74enne premio Nobel per la medicina nel 2001, che in un rapporto inviato nei mesi scorsi al governo Tory aveva lanciato l’allarme sui rischi rispetto a un abbandono britannico di Horizon. Oggi si è detto «entusiasta» per la notizia dell’accordo. Mentre in un comunicato congiunto l’Academy of Medical Sciences, la British Academy, la Royal Academy of Engineering e la Royal Society hanno salutato «un grande giorno per i ricercatori nel Regno Unito e in tutta Europa». In base all’intesa gli scienziati britannici potranno chiedere sovvenzioni e partecipare ai tanti progetti del programma Horizon. E’ esclusa invece la collaborazione di Londra all’interno di Euratom per lo sviluppo di tecnologia nucleare, in quanto il Regno vuole portare avanti la propria strategia nazionale.

  • Londra perde il suo appeal: 1400 ricchi in fuga nel 2022

    La Gran Bretagna con la sua  capitale Londra non è più al centro dei desideri e degli  interessi di tanti ricchi che preferiscono spostarsi altrove. La  capacità infatti di attrarre nababbi da tutto il mondo pronti a  investire in aziende, immobili di lusso e sfruttare i servizi  bancari della City si è affievolita negli ultimi anni.

    Secondo i dati di Henley & Partners, una società di consulenza sulla cittadinanza, nel 2022 circa 1.400 milionari hanno lasciato il Regno Unito. Prosegue, in base alla ricerca, una fuga iniziata poco dopo il voto nel referendum sulla Brexit nel 2016, che aveva sancito l’addio britannico all’Unione europea. Da allora si stima che circa 12 mila milionari siano partiti dal Regno per andare altrove temendo fra l’altro una perdita di centralità della metropoli a livello globale. Molti banchieri, ad esempio, sono stati di fatto costretti dai datori di lavoro a trasferirsi in un Paese europeo dopo che la loro società aveva spostato la sede in un hub finanziario del continente, come Amsterdam, Parigi o Francoforte.

    Sicuramente oltre alla Brexit ha giocato un ruolo molto importante il clima politico internazionale degli ultimi anni, che ha allontanato gli uomini d’affari dei Paesi emergenti. Fra le ragioni c’è sia la stretta relativa ai regolamenti sulla provenienza dei capitali esteri (incluse le norme antiriciclaggio) sia le sanzioni britanniche nei confronti di Stati entrati in cattivi rapporti con l’Occidente. Cinesi e arabi hanno investito in passato ingenti capitali nel Regno. Mentre Londra è stata a lungo un polo di attrazione per gli oligarchi russi, che insieme ad altri super-ricchi hanno acquistato proprietà di lusso contribuendo a gonfiare la bolla del settore immobiliare, fino a quando i rapporti con Mosca sono entrati in crisi, in particolare dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e la raffica di sanzioni contro gli imprenditori di spicco.

    Le presenze di milionari restano comunque ancora alte, se ne contano infatti ben 737 mila nel Regno, ma emergono nuove destinazioni preferite da molti ricchi in Medio Oriente, a partire dagli Emirati Arabi Uniti, e in Asia. Proprio gli Emirati, soprattutto Dubai, hanno attirato il maggior afflusso di milionari l’anno scorso secondo Henley & Partners. Fra i fattori interni che penalizzano la Gran Bretagna c’è l’instabilità politica emersa l’anno scorso con la compagine di governo segnata da ben tre cambi di leadership in pochi mesi e anche un’economia non certo in fase espansiva ma che anzi stenta a riprendersi in diversi settori ed è meno capace di attirare investitori e uomini d’affari.

  • La Brexit non ferma gli italiani, cresce il numero di residenti in Uk

    Nemmeno la Brexit o l’emergenza Covid sembrano ridurre la presenza degli Italiani nel Regno Unito, il cui numero – almeno fra i residenti registrati e più o meno stabili – continua al contrario a crescere a dispetto di qualche previsione. Lo confermano i dati degli ultimi 12 mesi censiti in uno studio aggiornato del Consolato generale a Londra e relativi a Inghilterra e Galles: territorio che da solo ricomprende un totale di connazionali iscritti all’Aire (Albo degli Italiani Residenti all’Estero) senza pari al mondo, superiore a quelli delle aree coperte da tutti i Consolati d’Italia negli Usa.

    I dati, illustrati dal console generale Marco Villani, indicano una presenza complessiva d’Italiani registrato solo in Inghilterra e Galles (in larghissima prevalenza a Londra) pari a 452.000 individui, oltre 30.000 in più rispetto all’anno precedente (al netto di tutte le partenze individuate o delle cancellazioni). La stima reale nell’intero Regno è tuttavia maggiore: tenuto conto che sono ben più di mezzo milione i connazionali che hanno chiesto alle autorità britanniche l’iscrizione al Settled Status, meccanismo creato per garantire ai cittadini Ue residenti sull’isola da prima della fine della transizione verso la Brexit il mantenimento dei diritti precedenti; e che a costoro vanno aggiunte le persone con doppia cittadinanza italiana e britannica, in ascesa costante in questi anni, fino a una somma approssimativa non inferiore alle 650.000 presenze circa.

    Villani ha sottolineato come questo non escluda la tendenza a un’interruzione almeno parziale post Brexit (e in era Covid) degli arrivi ‘stagionali’ o temporanei, molto comuni fra i giovani in passato; tendenza il cui effetto si è riverberato nei mesi scorsi in settori quali la ristorazione e l’ospitalità in genere. Ma ha comunque osservato che lo studio appare riflettere un elemento di maturazione della realtà italiana nel Regno, in prospettiva sempre più stanziale e sempre più orientata a rispecchiare una presenza crescente anche di ‘nuovi italiani’ non nati nella Penisola. Ha inoltre notato come la richiesta

    delle iscrizioni di studenti italiani nelle scuole e università dell’isola rimanga al momento elevata; mentre sul fronte del post Brexit ha escluso – almeno per ora – segnali d’allarme relativi al timore del possibile rifiuto del Settled Status ad alcuni richiedenti, rilevando come fino ad oggi l’Home Office (ministero dell’Interno) abbia mostrato semmai una certa “elasticità” rispetto alle stesse procedure di ritardatari, teoricamente a rischio di restare confinanti in una sorta di precario limbo legale.

    Quanto infine alle pratiche consolari ordinarie, Villani ha tracciato il bilancio di un’istituzione la cui attività – ha detto – non s’è interrotta nemmeno nelle fasi acute della pandemia, incluso sul fronte dell’assistenza ai giovani connazionali in cerca di lavoro nell’ambito di tre progetti pilota o sul coordinamento delle consulenze mediche di specialisti italiani di fronte al dossier Covid. Attività che hanno portato fra l’altro al riassorbimento di tutti gli arretrati, salvo che per i passaporti (emessi a un ritmo salito a 36.000 all’anno, più di quanto non sia richiesto alla Questura di una città come Firenze), per i quali si prevede “un riequilibrio” nei prossimi mesi se il personale extra garantito dai piani Brexit della Farnesina potrà essere mantenuto. E non senza il parallelo l’avvio – fra i primi consolati al mondo – delle emissioni delle nuove carte d’identità elettroniche, che attraverso il sistema Fatenet permetteranno l’accesso diretto in rete a tutti una serie di documenti e pratiche pure agli italiani d’Oltremanica.

  • La Ue propone di tagliare dell’80% i controlli sulle merci dal Nord Irlanda all’Inghilterra

    La grande diatriba della Brexit va verso un nuovo capitolo di tensioni fra Londra e Bruxelles. L’Unione europea ha presentato un piano di proposte per migliorare la situazione del commercio dell’Irlanda del Nord e venire incontro a Londra, con una riduzione dei controlli dei beni in arrivo in Irlanda del Nord dal Regno Unito. Ma è probabile che il governo di Boris Johnson reputi insufficienti queste proposte, perché vuole che l’Ue ceda il controllo finale sulle dispute commerciali in modo che la competenza passi dalla Corte di giustizia Ue ad arbitrati indipendenti.

    Il vicepresidente della Commissione Ue, Maros Sefcovic, ha annunciato la serie di proposte pratiche per modificare il complicato sistema di dogane e controlli in Irlanda del Nord, che è territorio del Regno Unito ma che dopo la Brexit è rimasto parte del mercato unico Ue. In base alle regole in vigore finora, i beni in ingresso dal Regno Unito alla britannica Irlanda del Nord devono essere controllati per verificarne il rispetto degli standard della Ue. Secondo Sefcovic, le proposte consentiranno un taglio dell’80% dei controlli su cibo, piante e animali in ingresso in Irlanda del Nord e del 50% delle documentazioni doganali. Al centro del contendere c’è il cosiddetto Protocollo sull’Irlanda del Nord, siglato nell’ambito dell’accordo di uscita del Regno Unito dall’Ue. L’intesa era mirata a evitare il ritorno di un ‘confine duro’ terrestre fra la britannica Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, Stato membro dell’Ue (visto che l’isola è stata a lungo teatro di violenze settarie e che le postazioni di frontiera erano state eliminate come punto chiave dell’Accordo del venerdì santo del 1998). Ha previsto però l’introduzione di un complicato sistema di dogane e controlli fra Regno Unito e Irlanda del Nord, lamentato da Londra, tanto che il ministro britannico per la Brexit, David Frost, ha proposto un piano per un protocollo completamente nuovo.

    Per quanto positiva possa essere questa riduzione della burocrazia, Londra insiste anche su una altro cambiamento fondamentale: vuole che l’Ue ceda il controllo finale sulle dispute commerciali in modo che la competenza passi dalla Corte di giustizia Ue ad arbitrati indipendenti. Il ruolo della Corte di giustizia europea “deve cambiare se dobbiamo trovare degli accordi di governance con cui le persone possano convivere”, ha dichiarato Frost. Ma funzionari Ue, Stati membri ed Europarlamento non sono d’accordo con l’ipotesi che la Corte di giustizia europea perda preminenza su parte del suo mercato unico. Tutto questo sarà sul tavolo dei negoziati Ue-Londra che vedranno impegnati a Bruxelles il vicepresidente della Commissione Ue Maros Sefcovic, che incontrerà Frost. Una discussione che potrebbe protrarsi per diverse settimane. E sulla Corte di giustizia lo spazio di manovra di Sefcovic è stretto. Intanto, gli animi si sono scaldati ulteriormente quando Dominic Cummings, ex consigliere di Boris Johnson, ha suggerito che Londra non abbia mai inteso onorare l’accordo di ritiro che ha firmato. “Ciò indicherebbe che questo è un governo, un’amministrazione, che ha agito in malafede e questo messaggio deve essere sentito nel mondo”, ha dichiarato il premier dell’Irlanda, Leo Varadkar, all’emittente irlandese Rte. E ha rincarato la dose: “Questo è un governo britannico che non necessariamente mantiene la parola e non necessariamente onora gli accordi che fa”.

  • Brexit done: dall’1 ottobre anche gli europei devono esibire il passaporto per sbarcare sull’isola

    Il passaporto vaccinale anti-Covid no, quello ordinario sì. D’ora in avanti ai cittadini europei che vogliono entrare in Gran Bretagna non basterà più la carta d’identità. La misura, prevista negli accordi post-Brexit, era stata annunciata un anno fa ma è comunque destinata a causare un piccolo turbamento a chi era abituato a viaggiare nel Regno Unito con leggerezza e senza code eccessive alla dogana.

    Il provvedimento riguarda tutti i cittadini dell’Ue, dell’Area economica europea e della Svizzera, che vengono quindi equiparati ai viaggiatori stranieri di qualsiasi altra parte del mondo. Non si applica, invece, ai milioni di cittadini comunitari che si sono registrati all’Eu Settlement Scheme creato dal governo per garantire ai residenti i diritti acquisiti prima del divorzio di Londra da Bruxelles. Costoro potranno continuare a utilizzare le carte d’identità per entrare in Gran Bretagna almeno fino al 2025, anche se la maggior parte già mostra il passaporto alla dogana. Per ora, invece, i cittadini comunitari possono fare a meno del visto. Almeno per viaggiare nel Regno Unito e restarci fino a tre mesi. Per un periodo più lungo, nel caso in cui si intenda soggiornare per ragioni di lavoro o di studio, occorreranno invece visti analoghi a quelli richiesti attualmente agli stranieri non comunitari.

    La ministra degli Interni Priti Patel ha di recente spiegato che la scelta è stata determinata dalla volontà di impedire che “criminali” entrino in territorio britannico grazie a documenti falsi. Secondo dati del ministero, infatti, le carte d’identità sono quelle in assoluto più contraffatte e l’anno scorso la metà delle copie illegali erano proprio di carte europee e svizzere. “Il Regno Unito è orgoglioso della sua storia di apertura nei confronti del mondo e continuerà questa tradizione”, ha detto la ministra. “Ma dobbiamo reprimere i criminali che cercano di entrare illegalmente nel nostro Paese utilizzando documenti falsi. Mettendo fine all’uso di carte d’identità non sicure – ha sottolineato – rafforziamo i nostri confini e riprendiamo il controllo del nostro sistema migratorio”.

    D’altra parte l’esigenza di una stretta sulla libertà di movimento è stato uno dei fattori determinanti che hanno portato alla scelta della Brexit nel referendum del 2016. Per evitare caos e spiacevoli incidenti, nell’ultimo mese le ambasciate di quasi tutti i Paesi Ue hanno avvertito i loro connazionali dell’obbligo di avere con sé un passaporto valido prima di intraprendere un viaggio nel Regno Unito.

  • Una sentenza dell’Alta corte di Belfast getta le premesse per l’unificazione delle due Irlande

    Una sentenza dell’alta corte di Belfast apre di fatto la via della riunificazione irlandese, con uscita dell’Ulster dal Regno Unito. I magistrati della capitale dell’Irlanda del Nord hanno infatti giudicato legale il protocollo sull’Irlanda del Nord nell’ambito dell’accordo sulla Brexit, dando torto agli unionisti che avevano fatto ricorso contro il testo che prevede un trattamento doganale specifico per la provincia da 1,9 milioni di abitanti.

    Secondo i ricorrenti, lasciare l’Irlanda del Nord nell’Unione doganale Ue viola gli atti di fondazione del Regno Unito (1800) e l’accordo di pace del Venerdì santo (1998). Il giudice dell’Alta corte ha respinto questi argomenti, dichiarando che l’accordo di uscita dall’Unione europea entra sì in conflitto con gli atti dell’Unione del 1800 ma che l’accordo firmato nel 2020 prevale su una legge vecchia più di due secoli. Rispondendo alle domande del question time in Parlamento, il premier Boris Johnson ha assicurato che “niente comprometterà la posizione dell’Irlanda del Nord all’interno del Regno Unito. Vigileremo per far rispettare questo principio”.

    Proprio nelle stesse ore, tuttavia, anche in sede Ue è stato ribadito il fatto che tra le due Irlande non vi sia un confine presidiato da dogane, così che le merci possano girare liberamente secondo i principi della Ue cui appartiene l’Eire (controlli doganali sulle merci da/per l’Ulster e il resto del Regno Unito avvengono nel braccio di mare che separa le due isole). L’Unione europea ha infatti annunciato l’estensione per altri tre mesi del periodo di grazia con il Regno Unito sul passaggio di prodotti del settore agroalimentare, come salsiccia e carne fresca, fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna senza controlli di sorta. L’estensione, fissata al 30 settembre, segna il ritorno ad un’atmosfera più distesa fra le due sponde della Manica dopo che nei mesi scorsi era risalita la tensione fra Londra e Bruxelles sull’attuazione degli accordi del dopo Brexit su uno dei fronti più spinosi, quello appunto dei controlli al confine interno fra Irlanda del Nord e resto del Regno Unito. La proroga è in attesa di trovare soluzioni concordate che siano permanenti. L’Ue intende mantenere una frontiera aperta fra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda così come è previsto dagli storici accordi di pace del Venerdì Santo 1998 e non vuole allo stesso tempo compromettere l’integrità del mercato unico europeo. Il punto è che proprio per garantire questa frontiera aperta occorre che vi sia una frontiera doganale tra l’Ulster e il blocco composto da Inghilterra, Scozia e Galles. Insomma, secondo quanto stabilito in sede di accordo Ue-Uk sulla Brexit e riconosciuto valido dagli stessi magistrati nordirlandesi, l’Irlanda ‘britannica’ deve avere delle dogane col resto dello Stato di cui fa parte e non con lo Stato estero (l’Eire) con cui confina. Quanto questo renda difficile mantenere l’appartenenza al Regno Unito e agevoli invece la creazione di un unico stato irlandese è evidente.

  • Francia e Italia spingono per ridurre la proiezione di film e serie tv inglesi nella Ue

    Dalla guerra delle sogliole a ‘The crown’. L’Unione europea si prepara a sferrare un attacco alla Gran Bretagna sul fronte dell’intrattenimento. Secondo un documento che circola a Bruxelles e di cui il Guardian ha preso visione in esclusiva, su iniziativa della Francia alcuni Paesi membri – tra cui l’Italia – intendono approfittare della Brexit per ridurre la presenza di film e serie tv di produzione britannica da piattaforme on demand come Amazon e Netflix perché considerata “sproporzionata”.

    La notizia appare ferale non solo per i milioni di appassionati tanto di serie mainstream come ‘Bridgerton’ quanto di piccoli capolavori stile ‘Fleabag’ ma soprattutto per il settore. Il Regno Unito è infatti il più grande produttore europeo di programmi cinematografici e televisivi e, solo nel 2019-20, ha guadagnato 490 milioni di sterline dalla vendita di diritti internazionali a canali e piattaforme in Europa. Un dominio non soltanto economico ma anche culturale che Bruxelles, dopo la Brexit, vede come una minaccia. Da qui l’idea di approfittare di una revisione delle cosiddette ‘quote Ue’ per limitare l’influenza della Gran Bretagna su un mercato cresciuto moltissimo durante la pandemia di Covid. In base alla direttiva Ue in materia di servizi audiovisivi, infatti, almeno il 30% dei titoli su piattaforme di video on demand come Netflix e Amazon deve essere destinato ai contenuti europei. Una percentuale che la Francia vorrebbe alzare al 60% inserendo l’obbligo di destinare almeno il 15% dei fatturati delle piattaforme alla creazione di opere europee. Da queste quote, sostengono i promotori dell’iniziativa, devono essere esclusi i prodotti ‘made in the Uk’.

    “All’indomani della Brexit è necessario rivalutare la presenza del Regno Unito”, si legge nel documento intitolato ‘La presenza sproporzionata di contenuti britannici nella quota di video on demand europei e gli effetti sulla circolazione e promozione di diverse opere europee’. E ancora, “l’elevata disponibilità di contenuti britannici sui servizi di video on demand, nonché i privilegi concessi dalla definizione di ‘opere europee’, possono comportare una presenza sproporzionata di contenuti britannici e ostacolare una maggiore varietà di contenuti europei, (anche da Paesi più piccoli o lingue meno parlate)”.

    Un portavoce di Downing Street interpellato dal Guardian ha replicato che le produzioni britanniche continuano ad avere il diritto allo status di ‘contenuto europeo’, anche dopo l’uscita dall’Ue, in quanto “il Regno Unito appartiene ancora alla Convenzione europea sulla televisione transfrontaliera del Consiglio d’Europa”. Ma tant’è, la guerra è lanciata. La revisione delle quote è prevista fra tre anni ma l’iniziativa anti-Londra potrebbe subire un’accelerazione a gennaio, quando la Francia assumerà la presenza di turno dell’Ue, sostengono fonti europee, e potrà contare sul sostegno di Italia, Spagna, Grecia e Austria che hanno aderito all’iniziativa. Intanto la Commissione europea ha già avviato uno studio sui rischi che una programmazione di stampo “britannico” comporta per la “diversità culturale” dell’Ue. Una mossa che, secondo fonti diplomatiche, sarebbe un primo passo verso la limitazione dei privilegi per film e serie del Regno Unito.

  • In Irlanda del Nord continuano le tensioni per la Brexit

    Tornano a salire in Irlanda del Nord le fiammate, metaforiche e non, delle tensioni settarie, sullo sfondo d’un dopo Brexit che minaccia di far materializzare i fantasmi più temuti del passato. Per ora sono episodi circoscritti, ma il fuoco che da sempre cova sotto la cenere lassù non richiede chissà quali inneschi per poter dilagare e il clima dell’ultima settimana spaventa ormai quasi tutti nei palazzi del potere: da quelli locali di Stormont, sede del litigioso esecutivo regionale di grande coalizione guidato dalla first minister unionista del Dup, Arlene Foster, con al fianco come vicepremier l’alleata-nemica repubblicana dello Sinn Fein, Michelle O’Neill; a quelli londinesi del governo centrale (Tory e brexiteer) di Boris Johnson.

    Dopo varie nottate di scontri e violenze sparpagliatesi da Derry (Londonderry per i pretoriani lealisti del legame con Londra e la monarchia) ad altre località simbolo di quella che fu la sanguinosa stagione dei Troubles prima della storica pace del Venerdì Santo 1998, l’ennesimo tumulto è scoppiato a Belfast. A partire dai quartieri a maggioranza protestante e con corredo di cariche di polizia, aggressioni a giornalisti, assalto a un bus urbano incendiato nel cuore delle tenebre, coinvolgimento di attivisti radicali anche dalla trincea contrapposta delle roccaforti cittadine cattolico-repubblican-nazionaliste. Uno scenario da avvisaglie di guerriglia urbana che da quelle parti sarebbe avventato sottovalutare. E che ha indotto i leader politici delle fazioni rivali a convocare una riunione d’emergenza del governo locale per provare finalmente a contribuire ad abbassare i toni; prima di coordinarsi con il ministro britannico per gli affari nordirlandesi, Brandon Lewis, spedito urgentemente come plenipotenziario di Johnson a Belfast un po’ per mediare, un po’ per sopire, un po’ per ammonire.

    A fare da avanguardia ai disordini sono stati alcuni gruppi di unionisti ultrà: infuriati per la recente decisione della polizia locale (Psni) di non procedere penalmente contro la plateale violazione della restrizioni anti Covid perpetrata il mese scorso da centinaia di reduci e dirigenti repubblicani (Michelle O’Neill inclusa) in occasione del funerale d’uno storico ex esponente di spicco del braccio politico di quella che fu l’Ira. Episodio tutto sommato minore cui la stessa Arlene Foster aveva dato fiato gridando alle dimissioni del comandante della Psni, Simon Byrne, e gettando benzina sul fuoco. Ma che il Dup e lo Sinn Fein hanno alla fine accantonato, partorendo dopo il meeting straordinario di governo un comunicato congiunto in cui hanno condannato all’unisono come “assolutamente inaccettabili e ingiustificabili le devastazioni, la violenza, le aggressioni ai poliziotti”, promettendo sostegno alla Psni.

    Sullo sfondo, oltre al caso del funerale, restano però a far da autentico detonatore potenziale le conseguenze della Brexit: in particolare i rancori del fronte unionista verso l’accordo ad hoc firmato dal governo Johnson con Bruxelles per garantire il mantenimento del confine aperto fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda – previsto dalle intese del Venerdì Santo – anche a costo di accettare controlli amministrativi doganali sulle merci europee in transito alla frontiera interna fra Ulster e resto del Regno Unito: controlli dai quali Downing Street ha di fatto finora svicolato, tanto da spingere l’Ue ad avviare un’azione legale, ma che secondo le paure unioniste proiettano comunque un’ombra sulla sovranità britannica a medio-lungo termine sull’Ulster. Inquietudini che Lewis non ha esitato a dire di “comprendere da parte della comunità lealista”, non senza giurare sul rispetto di tutte le ‘linee rosse’ essenziali a tutela dell’unità fra Belfast e Londra e dell’integrità territoriale del Regno. Ma invocando pure “il dialogo e il processo democratico” quali uniche chiavi per salvaguardare, oltre gli interessi comuni, una pace pagata a caro prezzo. E per lasciarsi alle spalle una buona volta sia “la violenza settaria scatenata da una piccola minoranza”, sia l’incubo mai rimosso “del ricordo dei Troubles”.

  • Amsterdam supera Londra per appeal agli occhi degli investitori

    Londra non è più la capitale europea della finanza. Con la Brexit, Amsterdam attira più investimenti ed è diventata il nuovo principale ‘hub’ finanziario del Vecchio Continente. E questa è una diretta conseguenza della Brexit, in quanto la causa principale dello ‘shift’ è il divieto imposto alle istituzioni finanziarie con sede nell’Ue di investire oltremanica, perché Bruxelles non ha riconosciuto alle Borse e alle sedi di negoziazione del Regno Unito lo stesso status di vigilanza del suo. Il motivo? Essenzialmente perché Londra, a sua volta, non ha riconosciuto alcuna vigilanza europea alle aziende Ue che operano nella City. Ora si punta a riaprire il negoziato, ma non sarà facile farlo. E nel frattempo i capitali sono volati da Londra ad Amsterdam.

    Tuttavia, ci si chiede: perché questi capitali si sono rivolti principalmente ad Amsterdam e non a Francoforte o a Parigi? Secondo gli esperti esistono almeno due ragioni. La prima è che Amsterdam è molto più simile a Londra di Francoforte e Parigi, non solo per la lingua ma anche perché culturalmente l’Olanda è più simile alla City di Londra. Gli operatori finanziari si sentono più a loro agio lì che nelle altre sedi europee. La seconda ragione è più sostanziale: perché l’Olanda ha una fiscalità nettamente più vantaggiosa per il mercato dei capitali rispetto a quella delle altre capitali europee.

    L’Olanda viene equiparata cioè a un ‘paradiso fiscale’. Insomma, le grandi aziende, le cosiddette corporate, riescono ad avere accordi ad hoc, soprattutto per quanto riguarda le tasse sugli utili societari, con le autorità olandesi. Inoltre anche per quanto riguarda il trading azionario conviene di più spostarlo ad Amsterdam perché si pagano meno tasse. E questo indubbiamente pone un problema di fondo all’Unione europea: come fare a rendere più equo il ‘campo di gioco’? Ovviamente Amsterdam ha tutto l’interesse a lasciare le cose come stanno, visto che è diventata la calamita che attira la maggior parte dei capitali in uscita da Londra. Il Financial Times ha stimato uno spostamento immediato di 6,5 miliardi di euro verso l’Ue, non appena il periodo di transizione della Brexit si è concluso alla fine dello scorso anno. Si tratta di circa la metà del volume d’affari che le banche e gli intermediari londinesi avrebbero normalmente gestito se il Regno Unito fosse stato ancora un Paese membro. Come nota lo stesso Ft la strada verso l’unione dei mercati dei capitali in Europa è “ancora lunga”. A Bruxelles, il fulcro di questa strategia è l’Unione dei mercati dei capitali da tempo promessa, che mira a sbloccare i flussi di investimento transfrontalieri e ad aumentare l’accesso ai finanziamenti per le imprese europee.

    Il piano d’azione sull’Unione dei mercati dei capitali (Cmu) è stato lanciato dall’Ue a settembre del 2015 e deve ancora essere completato. In un rapporto, citato dal Ft, e preparato dal chief financial officer della Cmu, Kalin Anev Janse e da Rolf Strauch, il suo chief economist, si chiede un notevole potenziamento dei poteri di vigilanza dei due regolatori europei esistenti, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati e l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali. Questi due organismi, oltre ad avere un ruolo guida nella definizione delle normative su settori come la finanza verde e digitale, dovrebbero aumentare i loro poteri esecutivi e ottenere l’autorità di supervisionare direttamente i grandi partecipanti finanziari internazionali. “La sfida per l’Ue è definire e costruire un modello di vigilanza efficiente che armonizzi i mercati e garantisca la trasparenza e la protezione degli investitori”, afferma il documento. “Attualmente, pratiche di vigilanza divergenti nell’Ue ostacolano gli investimenti transfrontalieri”.

    Tutto ciò concorda con le ambizioni della Commissione europea, poiché l’Ue persegue la cosiddetta autonomia strategica nei servizi finanziari. Mairead McGuinness, commissario europeo per i servizi finanziari, ha assicurato che Bruxelles “punta sulla Cmu” e sta facendo “un sacco di lavoro” in questo senso.  Ovviamente esistono numerose raccomandazioni da parte di Bruxelles contro il dumping fiscale, dirette contro l’Olanda, ma anche contro Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo e Malta. L’obiettivo è quello di contestare le pratiche fiscali “aggressive”, che vanno a vantaggio delle grandi società, incentivandole a spostare la loro sede in Olanda. Uno strumento essenziale per Bruxelles per ridurre il dumping fiscale di Paesi come l’Olanda è il Recovery Plan. Tra gli obiettivi del Recovery infatti c’è una clausola, in base alla quale viene sostenuto che l’emissione di ingenti quantità di debito dell’Ue potrebbe aiutare a promuovere l’integrazione dei mercati dei capitali. In altre parole si tratterebbe di un ‘do ut des’: aiuti contro la pandemia in cambio di misure in favore di un più equo mercato europeo dei capitali. Ovviamente anche questa strada è stretta e lunga. Tuttavia non c’è dubbio che in una fase come questa, in cui l’agenda europea è dominata dalle questioni legate alla pandemia, uno scambio di questo tipo potrebbe servire ad ammorbidire la posizione delle autorità olandesi.

  • Il Parlamento inglese ratifica l’intesa Johnson-von der Leyen sull’addio alla Ue

    Partita chiusa e vittoria netta per il premier britannico Boris Johnson. Mercoledì 30 dicembre la Camera dei Comuni ha infatti approvato l’accordo commerciale post-Brexit tra Regno Unito e Ue con 521 voti favorevoli e 73 contrari. A sostenere il ‘deal’ una maggioranza schiacciante di 448 deputati, in modo compatto il partito conservatore del primo ministro, e i laburisti di Keir Starmer, con una pattuglia di ‘ribelli’ che non si sono allineati. Contrari, per ragioni diverse, gli indipendentisti scozzesi, i libdem, i partiti nordirlandesi e il gallese Plaid Cymru. Il provvedimento è stato così indirizzato, già in giornata, verso la promulgazione reale (royal assent) dopo un passaggio procedurale alla Camera dei Lord. E BoJo esulta, parlando di “nuovo capitolo” nella storia del Paese.

    L’estenuante maratona negoziale e politica (interna ed esterna al Regno) apertasi dopo il referendum del 2016 sull’addio all’Ue si è quindi conclusa con un accordo raggiunto in extremis e che riceve i fondamentali via libera, britannico ed europeo, a poche ore dalla fine del periodo di transizione post-Brexit. Se Westminster chiude in giornata i suoi lavori sul complesso dossier europeo, da Bruxelles arriva la firma al ‘deal’ dei presidenti del Consiglio Ue e della Commissione, Charles Michel e Ursula von der Leyen, per conto dei 27 leader europei. Lo stesso ha fatto Johnson a Downing Street, commentando così su Twitter: “Firmando questo accordo, soddisfiamo il desiderio sovrano del popolo britannico di vivere secondo le proprie leggi, stabilite dal proprio Parlamento eletto”. Mentre il Parlamento dell’Unione deve ancora ratificare il trattato ma il passaggio appare piuttosto scontato e non ci dovrebbero essere insidie lungo il cammino finale.

    Dal primo gennaio, quando la Brexit entrerà nella sua piena fase, la Gran Bretagna lavorerà a stretto contatto con l’Ue all’insegna di una “nuova relazione tra eguali”, ha assicurato il premier Tory, spiegando che si andrà avanti “mano nella mano ogni volta che i nostri valori e interessi coincideranno”. Ai parlamentari Johnson ha ricordato che l’accordo di libero scambio con Bruxelles è stato negoziato a una “velocità sorprendente”. In meno di un anno, in piena pandemia, “perché creare certezza sul nostro futuro offre le migliori possibilità di battere il Covid e di riprendersi in modo ancora più forte l’anno prossimo”, ha aggiunto il primo ministro. In termini politici, il premier Tory può vantare di aver mantenuto le promesse, arrivando a una intesa con l’Ue entro la fine del periodo di transizione. Intesa che trova se non il plauso almeno il sostegno dell’opposizione laburista, finita col dividersi (ancora una volta) in materia di Brexit. Il loro leader Starmer ha parlato di un accordo “con molti difetti” ma l’alternativa sarebbe stata quella di lasciare il mercato unico e l’unione doganale senza alcun ‘deal’, facendo salire i prezzi e mettendo a rischio le imprese. La ribellione interna al Labour ha proporzioni comunque limitate: 36 deputati astenuti e uno solo contrario. Di avviso opposto, invece, gli indipendentisti scozzesi dell’Snp, la seconda forza di opposizione ai Comuni, e da sempre su posizioni anti-Brexit. Il loro leader a Westminster, Ian Blackford, ha condannato l’accordo come “un atto di vandalismo economico” e ha attaccato i laburisti per non essersi opposti.

    I giochi comunque sono fatti e, come ha ricordato lo stesso Johnson nel suo intervento, è giunto il tempo della libertà, da un controllo legislativo esterno al Regno, ma anche della responsabilità, per quello che Londra potrà fare contando solo sulle sue forze.

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