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In attesa di Giustizia: atto di dolore

La violenza, irrispettosa di basilari garanzie e presidi normativi, della vicenda giudiziaria di cui si è offerta la cronaca la settimana scorsa, probabilmente ammorba ancora l’animo di chi ha avuto la pazienza di leggere l’articolo: uno dei troppi esempi di tracotanza riferibile a rappresentanti di quell’ordine giudiziario, trasformatosi in potere, che questa rubrica si fa un punto d’onore di andare ad illustrare per smuovere le coscienze raccogliendo e raccontando brandelli di storie di questo Paese, solo apparentemente minori, perché apparentemente isolate e meno conosciute.

Del resto, questo è il Paese che da culla del diritto nel settore della Giustizia ha perso la faccia, come scrive Raffaelle della Valle nel suo splendido libro sul processo ad Enzo Tortora, e non solo in seguito a quello che si deve considerare un archetipo da non emulare con il suo eclatante catalogo di abusi.

Questo è il Paese della rivoluzione giudiziaria, quella falsa ed incompleta, avviata dalla Procura di Milano nel 1992, ed è il Paese del “Sistema” svelato da Luca Palamara intervistato da Alessandro Sallusti. Lasciare traccia, più paradigmatica che esaustiva di certi accadimenti (oltre che di una legislazione arraffazzonata), è il compito che si è assegnato questo spazio periodico per impedire che quei “brandelli di storia” finiscano nel dimenticatoio nazionale pur essendo significativi di una realtà che non li vuole come fatti isolati.

Vero è che si è persino pensato di istituire la giornata della memoria degli errori giudiziari (il 17 giugno, quando nel 1983 venne arrestato Tortora) ma in quest’attesa – che, forse risulterà a sua volta vana – suonano struggenti le parole del Consigliere Antonio Padalino, un magistrato della cui vicenda processuale e soperchierie connesse vi è traccia su queste colonne, al termine del personale calvario culminato con un’assoluzione. E’ un vero e proprio atto di dolore, da affidare alla memoria ed alla riflessione dei lettori, che descrive come ci sia un drammatico prima e dopo nella vita di chi incappa nelle maglie della giustizia.

“Nonostante le sofferenze subìte sento però anche di dovere delle scuse,  esordisce Padalino.

“In molte occasioni mi è capitato di sentire persone, magari indagate, dire di essere vittime di ingiustizie, di processi mal fatti, di gogne mediatiche, di persecuzioni.

In tutte queste occasioni ho sempre pensato che si trattasse di lamentele pretestuose.

Questo era il mio ragionamento: io lavoro in un certo modo, rispetto le regole, ottengo in modo corretto i miei risultati e non perseguito mai nessuno, quindi sarà certamente così per tutti i miei colleghi.

Mi sbagliavo profondamente.

Mi scuso di aver ignorato le vittime innocenti di questo sistema: indagati, imputati, gente comune o eccellente, colpiti dal maglio di una giustizia di parte, autoreferenziale e proiettata verso un delirio di onnipotenza e in grado di distruggere vite, professionalità e calpestare esseri umani, colpevoli solo di essere un facile e magari utile bersaglio, da umiliare e mettere alla berlina su giornali e media compiacenti.

Non mi sono soffermato a riflettere sulle pericolose strade che il sistema aveva ormai imboccato, come il dominio delle correnti togate: grumi di potere che in questi ultimi anni hanno assunto il controllo assoluto della magistratura.

Le correnti non risparmiano nessuno, anche all’interno dell’ufficio di appartenenza, dove le carriere del singolo sono spesso condizionate dall’appartenenza a un gruppo.

Questo dominio incontrastato delle correnti ha portato al tradimento di princìpi che dovevano essere intangibili, al degenerare di un sistema, con devastanti danni per quel popolo italiano in nome del quale si celebra il rito della giustizia”.

E non paga mai nessuno, anzi, paga lo Stato quando viene riconosciuto – non sempre – che un imputato è stato vittima di una ingiusta carcerazione preventiva: non pagano giudicanti frettolosi ed approssimativi, non pagano pubblici ministeri che assumono le vesti di angeli vendicatori, non pagano i confidenti delle redazioni che fanno filtrare, con una vasta gamma di intenzioni tutt’altro che nobili, atti che dovrebbero essere coperti dal segreto investigativo o, quantomeno, da un opportuno riserbo.

Permane emblematica l’immagine di Enzo Tortora in manette tra due Carabinieri negli istanti subito successivi al suo arresto, sbattuta in prima pagina, trasmessa a reti unificate, come se fosse credibile che per una pura casualità, alle prime luci dell’alba, fotoreporter ed inviati della carta stampata e telegiornali si fossero convenuti senza una plausibile ragione, proprio alle porte dell’albergo romano ove il presentatore alloggiava e proprio quella volta che doveva essere messo ai ceppi. Un’operazione scientificamente mirata a far diventare gli inquirenti personaggi noti all’opinione pubblica (se mai le accuse fossero risultate provate) pronti ad incarcerare e far processare persino l’uomo il cui programma inchiodava ogni volta davanti al piccolo schermo quasi trenta milioni di italiani. Cavalieri senza macchia e senza paura dai quali sentirsi tutelati perché non guardano in faccia a nessuno…e nessuno ha avuto il benchè minimo rallentamento di carriera sebbene il loro contributo si sia risolto – appunto – nel far perdere la faccia non solo alla magistratura ma all’Italia intera.

Grazie, allora, al Consigliere Padalino per il suo atto di dolore, per le sue parole intrise di umanità e sincera comprensione: vox clamans in desertu, quasi un mantra da inserire tra le materie di studio per il concorso in magistratura e memorizzare nella consapevolezza, purtroppo, che quell’insegnamento potrà essere vanificato dai tanti, troppi, cattivi maestri.

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