In attesa di Giustizia: parole in libertà
Nei giorni scorsi ha fatto scalpore la sentenza – e le polemiche che l’hanno accompagnata – che ha definito il processo di appello a carico di Antonio Ciontoli.
Per chi non avesse memoria del nome o del fatto, ricordo che si tratta della triste vicenda di un ragazzo, Marco Vannini, ucciso dal padre della sua fidanzata con un colpo di pistola mentre la vittima stava facendo un bagno nella vasca della casa dell’imputato.
Colpo che si è detto essere partito accidentalmente, ritardo ed affermazioni fatte al numero di emergenza del tutto inesatte sulla dinamica, coperture in ambito famigliare volte a giustificare l’accaduto: questo il contesto in cui si è – dapprima – ritenuta l’ipotesi di omicidio volontario condannando il responsabile principale alla pena di quattrodici anni di reclusione. In appello, come detto, la sentenza ha suscitato indignazione per la derubricazione del reato in omicidio colposo con la conseguente riduzione della pena a cinque anni di carcere: si badi, obiettivamente meno, per un fatto comunque molto grave, di quanto si rischi per un omicidio colposo “stradale” per il quale le pene sono molto più elevate. E qui è la legge ad essere sbagliata, ai giudici compete applicarla così com’è.
Giornali, trasmissioni televisive, radiofoniche, socialnetwork, hanno dato voce al dolore comprensibile dei famigliari della vittima ed alla loro delusione: e le parole in libertà in merito a questa decisione di conduttori, giornalisti, “leoni da tastiera” non si contano; del resto viviamo tempi in cui tutti ci permettiamo di affermare tutto anche e soprattutto riguardo cose che non conosciamo. In particolare, questa volta non conosciamo i motivi della decisione perché della sentenza è stato – come è normale che sia – letto solo il dispositivo ma è bastato per gridare allo sdegno ovunque.
Parole in libertà con un intervento, sbagliato nella forma ma giusto in concreto, anche da parte del Presidente della Corte che ha contribuito a dare il senso di un’ingiustizia perpetrata ai famigliari della vittima.
Il Magistrato era stato sovrastato nella lettura della decisione dal tumulto levatosi nella folla presente, impedendogli di proseguire: tecnicamente un reato di interruzione di pubblico servizio che, avendo come protagonista un giudice di Roma, dovrebbe essere giudicato, per previsione del codice, dal Tribunale di Perugia. Donde la battutaccia, anche carente di stile, sulla possibilità di mandare tutti a “farsi una passeggiata a Perugia”. C’erano altri modi sia per riportare la calma in aula che per segnalare il rischio di una incriminazione.
Al di là di questo, la lettura di un dispositivo è ancora insufficiente per scatenare la rivolta contro una sentenza che si potrà dire palesemente ingiusta solo dopo averla letta completa di tutte le argomentazioni in diritto che hanno guidato la decisione, usando il cervello e non lo stomaco. Altrimenti qualsiasi considerazione continuerà ad essere solo un insieme parole in libertà.
Ogni valutazione, resti dunque sospesa: rendere giustizia non significa punire a tutti i costi, significa ricostruire una verità, che è processuale, non sostanziale, cioè basata sulle prove che vengono raccolte.
Può piacere o non piacere ma cosi è e così deve restare a garanzia di chiunque a qualsiasi titolo sia coinvolto nel processo, buono o cattivo esso possa sembrare.
A tutti noi resta nell’anima la disperazione di una madre, ma non ci sfugga mai che rendere giustizia è tanto difficile da togliere il sonno a chiunque.