Processo

  • In attesa di Giustizia: Articolo 40

    No, articolo 40 non è il nome di un complesso rock e la rubrica questa settimana non si occuperà di musica: è una norma contenuta nel codice penale: prevede che “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

    La riflessione su questa regola nasce dal processo a carico di Matteo Salvini, in corso a Palermo, per i fatti legati al divieto di sbarco ad Agrigento dei migranti a bordo della imbarcazione Open Arms: sei anni di reclusione chiesti dalla Procura per sequestro di persona ed altri reati “minori”; a prescindere dalla considerazione che per fatti assolutamente analoghi, l’allora Ministro dell’Interno è già stato prosciolto in udienza preliminare a Catania, colpevole o innocente che sia, con lui al banco degli imputati manca qualcuno…

    I P.M. di Palermo sembrano essersi dimenticati che, prima di attraccare ad Agrigento, la Open Arms è stata filmata casualmente dall’equipaggio di un sottomarino della Marina Militare e non appariva in condizioni di pericolo imminente tant’è che il Comandante della Open Arms si allontanò in tutta fretta dal naviglio italiano ed altre opzioni di attracco e sbarco furono rifiutate: Tunisia, Spagna, Malta…abbastanza scontato se si ha a bordo un carico umano che, sembra,  non stia correndo alcun pericolo. La rotta è decisa verso Italia e Sicilia in particolare ed il resto è altrettanto storia nota, con qualche interrogativo.

    Perché un fatto che non è reato a Catania lo è a Palermo?

    Perché si sarebbe dovuto autorizzare l’ingresso di clandestini, già messi in salvo, sul territorio nazionale?

    Perché il Comandante della Open Arms non è a giudizio insieme a Salvini se, rifiutando diverse e più agevoli ed immediate opzioni di sbarco, ha ritardato l’attracco? Ammesso e non concesso che vi fosse una condizione di pericolo sin qui da escludere: ma se non c’era per lui…

    E soprattutto, perché non è sul banco degli imputati in Procuratore della Repubblica di Agrigento, per intenderci quello che è salito a bordo a farsi un giretto per accertarsi come stessero equipaggio e “passeggeri” e, nonostante tutto quanto premesso ed a lui noto, ha ritenuto poi che fosse in corso un sequestro di persone?

    Ecco, in base all’articolo 40 avrebbe dovuto immediatamente impedire che venisse protratta – anche di un solo minuto – la commissione del reato che ipotizzava (ed oggi costituente imputazione), liberando quelli che considerava prigionieri: lui stesso ebbe modo di dire che “la politica e l’alta amministrazione sono libere di prendere le scelte che ritengono opportune: alla magistratura resta la valutazione giuridica di quanto avviene su sfere e ambiti diversi. Ovviamente, qualsiasi limitazione della libertà personale deve fare i conti con il codice penale e di procedura penale, non si scappa”. Invece è tornato in ufficio a compilare scartoffie per una ventina di giorni prima di ordinare lui stesso quello sbarco che avrebbe dovuto e potuto disporre senza indugi, valendosi dell’ausilio della Polizia Giudiziaria: è come dire che un militare dei Carabinieri assiste a una rapina e invece che intervenire come il dovere e il codice penale gli impongono che fa? Prende il telefono, chiama la Polizia e se ne va…

    In fondo, però, di tutto questo ormai interessa poco: Patronaggio è stato promosso andando a dirigere una Procura Generale, dei migranti della Open Arms non sappiamo più nulla di preciso su dove sono e cosa fanno, la giustizia per Matteo Salvini oscilla come un pendolo tra indifferenza dei diversi esiti diversi già acquisiti ed incertezza su quelli futuri, provando a dimenticare (o fingendo di farlo) quanto è emerso dal primo libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti e cioè che Salvini doveva essere eliminato per via giudiziaria  disinteressandosi totalmente del fatto che la sua condotta non fosse penalmente rimproverabile.

    Il vero problema, come dimostrano anche le ultime vicissitudini dell’ex Governatore della Liguria, è che la giustizia non è malata, è una malattia che infetta il Paese.

  • In attesa di Giustizia: morire di burocrazia

    In carcere si muore, non solo dandosi la morte da sé: si muore anche di burocrazia, di udienze che vengono rinviate perché manca una notifica, si muore perché il servizio sanitario è lento in maniera esponenziale a soddisfare le esigenze terapeutiche dei detenuti: lo è per coloro che sono liberi, figuratevi per quella popolazione carceraria che viene sempre più vista come semplice carne da cannone.

    Scrivo solo poche righe questa settimana, il resto del lo lascio ad un avvocato che ha scritto una lettera struggente ad un suo assistito morto in detenzione domiciliare perché l’evidenza di un male inesorabile non è stata sufficiente per sospendere l’esecuzione ed avere trattamenti più adeguati e continui. Ma forse è stato meglio così, ora quell’uomo è finalmente libero.

    Un orologio.

    Me lo hai donato una settimana fa.

    Ho fatto in tempo a salutarti.

    A vedere un uomo di 72 anni divorato da quello che, per pudore, paura o vigliaccheria, non si vuol chiamare un cancro di merda.

    Un orologio ha segnato la tua fine. Oggi.

    48 chili. Quasi non ti avevo riconosciuto.

    Ma Claudio, che ormai la privacy può fottersi, oltre che un essere umano, era un mio assistito.

    Claudio che 10 anni fa, al primo colloquio in carcere, mi disse “ma te sei un regazzino!”

    E forse lo ero pure sette giorni fa. Per quell’uomo che ha trascorso quasi 30 anni senza libertà: la metà della vita.

    Claudio sbattuto tra carcere e casa. Ma non ancora libero. Ora forse sì.

    Claudio, una scuola di diritto.

    Uno sguardo verso quel mondo che questo ragazzino ha imparato anche grazie a lui.

    Claudio, che il carcere lo conosceva.

    Che conosceva anche quel mondo fuori dalle regole.

    Che non riconosceva i “delinquenti de oggi, senza valori. Che ammazzeno in quattro un regazzino. Non avranno vita semplice in carcere”.

    Claudio che a ‘sto regazzino, lo ha sempre rispettato per l’avvocato che sono.

    Che quando esagerava, chiedeva subito scusa.

    Claudio che scorsa settimana si chiedeva come poteva succedere che con 48 chili avesse ancora la detenzione domiciliare.

    Ed io a quei giudici, un paio di giorni prima lo dissi. Per beccarmi un rinvio a ottobre. Con cui ormai farò poco.

    Claudio che voleva morire libero.

    E gli volevo bene a quell’uomo d’altri tempi.

    A quel romano che sembrava uscito da una poesia di Trilussa.

    Che metteva le “e” nei verbi, come i vecchi romani.

    Conserverò quel dono con il ricordo di un uomo, in fondo, buono.  Perché lo era. Che non aveva mai ucciso o fatto male a nessuno.

    Sono triste, ma sereno che almeno ora é libero.

    Da una giustizia a tratti farraginosa. Da un male bastardo.

    Ciao Claudio.

    T’ho voluto bene. Ora posso dirlo.

    Riposa in pace.

    Ivan. Il regazzino. Il tuo Avvocato.

    In queste righe, in queste parole c’è tutta l’empatia di cui sa essere portatore chi non si limita a fare la professione di avvocato ma è Difensore nel profondo: nel profondo di un animo sensibile e tormentato perché la vita lo ha sottoposto a prove durissime come quello di Ivan Vaccari che deve essere un esempio perchè sa mettere in primo piano quell’essere fragile e tragico che è l’uomo, che difende l’uomo e non il reato che gli viene attribuito; Ivan Vaccari che è capace di provare e di trasferire quella pietas che esprime l’insieme dei doveri che si hanno verso gli altri uomini ma troppo spesso è dimenticata per quegli ultimi che sono solo “carne da cannone”.

  • In attesa di Giustizia: quinto grado

    Non bastano programmi televisivi che si arrogano il diritto di svolgere vere e proprie indagini parallele sui fatti di cronaca nera senza evitare di esprimere giudizi, generalmente di colpevolezza perché al pubblico piace sapere che il bene vince sempre ed i cattivi hanno una punizione segnata nel destino: per chi si perdesse qualche puntata, ci pensa la carta stampata a celebrare un quinto grado di giudizio alimentando la fame di gogna di quel popolo italiano nel cui nome – lo abbiamo ricordato molte volte – è amministrata la giustizia e dovrebbe, pertanto, ricevere un’informazione corretta in proposito stimolando la funzione di controllo di una comunità che aspiri ad essere democratica a tutela dei diritti del cittadino dinanzi alle prevaricazioni del potere

    Un’ennesima e recente esperienza dimostra – invece – che la cronaca giudiziaria, più che ad una doverosa e corretta informazione, sia intesa a sollecitare indignazione fomentando una pericolosa deriva illiberale che Tribunali e legislatore sono facilmente disposti ad assecondare: basti pensare al vergognoso sit in organizzato a Genova contro il Governatore agli arresti con provvedimenti in cui il Ministro della Giustizia ha affermato di far fatica a comprendere cosa ci sia scritto.

    Questa volta parliamo della concessione degli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, ad uno dei due ragazzi americani accusati per l’uccisione del Vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello, avvenuta nel luglio 2019 a Roma.

    Nessuno tra i cronisti ha ritenuto opportuno mettere in evidenza che si tratta di un imputato sotto processo (non ancora concluso) che ha già sofferto cinque anni di carcerazione preventiva e la cui pena, dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione, è stata dimezzata per una ragione giuridicamente ineccepibile: il suo ruolo è risultato essere quello del concorrente anomalo nell’omicidio. Il che, tradotto, significa che ha partecipato all’aggressione nei confronti del sottufficiale dell’Arma ma senza l’intenzione di uccidere. Una differenza non banale rispetto all’omicidio volontario tutt’ora contestato al suo coimputato, colpevole materiale di quella morte.

    La detenzione domiciliare con un dispositivo elettronico di controllo è – dunque – coerente con il tipo di responsabilità attribuita e proporzionata bilanciando la pena residua con quella già espiata in attesa di giudizio ed è stata disposta  presso l’unico domicilio disponibile in Italia, quello dei nonni che non hanno colpa se risiedono a Fregene: tutto ciò è diventato ghiotto pretesto per sollecitare su alcuni quotidiani sentimenti di rabbia e rancore, come si trattasse di un crimine impunito, con titoli del tipo “Il killer del carabiniere va ai domiciliari al mare”. Ovviamente silenzio circa su quella dinamica processuale che, come altre anche questa volta, la nostra rubrica cerca di rendere comprensibile anche a lettori non tecnici.

    Altrettanto ovviamente nessuno ha inteso ricordare l’immagine di questo giovane fotografato all’interno di una caserma che veniva predisposto all’interrogatorio del P.M. bendato e con le mani legate dietro la schiena con un garbato metodo di persuasione in salsa magiara.

    Ecco allora che altri titoli come Cerciello: un killer ai domiciliari. La moglie: giustizia al contrario ed a seguire un articolo che trasuda in alternativa malafede o ignoranza dei fatti e del diritto (forse entrambe), scegliete voi, parla di un’informazione disinteressata alla comprensione dei fatti che, però, possono esercitare una pressione indebita sui giudici, anche compromettendo la loro indipendenza e imparzialità, generando sfiducia nelle istituzioni e promuovendo sentimenti di vendetta piuttosto che di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: nel paese del diritto è talvolta buio fitto

    Nel libro dell’Apocalisse, il giorno del giudizio viene fatto coincidere con la fine del mondo; spigolando in un decreto legge in fase di emanazione proprio in quella che viene considerata la sua culla si direbbe che si voglia far corrispondere la fine del mondo del diritto e del giusto processo con il giorno in cui si celebra l’ultimo grado di giudizio e più nella sede giurisdizionale più alta del nostro sistema: la Corte di Cassazione, le cui decisioni sono finalizzate ad interpretare della legge e valutare la sua corretta applicazione.

    Così è se vi pare, e se non vi pare è così lo stesso: l’articolo 12 del Decreto Infrastrutture, intitolato modifiche al codice di procedura penale per l’efficienza del procedimento penale senza considerare che efficienza non è sinonimo di efficacia (che sarebbe preferibile), può ritenersi una sorta di iniezione letale somministrata al terzo grado del processo che trasforma la solennità della discussione davanti alla Corte di Legittimità, che si vorrebbe ricca di spunti e approfondimenti in contraddittorio, l’ultima fermata in attesa di giustizia, in un anodino scambio di e-mail tra i difensori, il Procuratore Generale ed il Giudice Relatore. Siamo di fronte alla mutazione genetica della Corte in un sentenzificio.

    I lettori penseranno: ma con le infrastrutture tutto questo cosa c’entra? Secondo le peggiori tradizioni della nostrana sciatteria normativa, questa disciplina che impatta sull’effettività del diritto di difesa è frammista, anzi in coda, alla regolamentazione di concessioni autostradali, al rafforzamento della capacità tecnica della fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, alle misure per il sostegno della presenza delle imprese italiane nel continente africano ed altre disposizioni totalmente disomogenee rispetto al rito penale.

    Una tecnica (parola grossa) normativa che richiama alla memoria la riforma del Testo Unico sugli stupefacenti comportante notevoli aggravamenti delle pene che fu inserita in un decreto legislativo avente ad oggetto aspetti organizzativi delle Olimpiadi Invernali del Sestrière con un eccesso di delega che non sarebbe dovuto sfuggire neppure a chi avesse studiato diritto costituzionale alle scuole serali…al buio ma che provocò per anni decine di migliaia di sentenze illegali prima che qualcuno se ne accorgesse ed alle quali fu solo in parte possibile porre rimedio. Andatelo a raccontare a chi ha scontato lunghe detenzioni a causa di una legge che, semplificando il concetto, non poteva neppure essere emanata. Non in quel modo, perlomeno, e fu fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale.

    Parola d’ordine, dunque: efficienza, l’efficacia può attendere. Pervenire ad un tale risultato è impossibile in un sistema in perenne debito d’ossigeno con le risorse umane ed economiche e allora cosa c’è di meglio che sfrattare – un termine diverso non sovviene – gli avvocati dalle aule di cui sono considerati, all’evidenza delle riforme e della prassi, un orpello fastidioso, purtroppo costituzionalmente irrinunciabile, che fa perdere tempo tanto è vero che vi è stato anche chi, recentemente e con la solennità derivata dello scranno di provenienza, ha sollecitato i difensori alla massima sintesi perché con la discussione sottraggono tempo alla camera di consiglio ed alla ponderata decisione dei ricorsi. Tradotto: cari avvocati, non servite a niente.

    Ed allora, addio alle aule sostituendo un turbinoso intreccio di posta elettronica ai difensori che le scriveranno con impegno e passione non meno che amarezza mentre i Sostituti Procuratori Generali potranno redigere requisitorie severe ma giuste da spedire comodamente dal terrazzo di casa mentre sorseggiano un limoncello dopo cena e la lettura delle quali stimolerà il furore intellettuale dei Giudici relatori che potranno esprimere la loro diuturna applicazione allo studio estendendo ponderate relazioni anche dalla vasca idromassaggio.

    Tutto o quasi può, quindi, farsi senza l’incomodo di dover far presenziare gli avvocati in udienza e  – in barba al diritto di difesa – sono stati anche sensibilmente ridotti i termini di legge per la proposizione di motivi di ricorso nuovi e memorie: così “si fa prima”. Il segnale che viene dato non è equivocabile.

    Sia dunque benvenuto “l’avvocato in Costituzione” per garantire l’effettività della tutela dei diritti e quello inviolabile alla difesa come proposto da un’altra riforma messa in cantiere ma purché lo faccia senza disturbare più di tanto il manovratore che ha già tanti pensieri che alimentano il tormento della decisione. Come diceva qualcuno: nel Paese del diritto è talvolta buio fitto.

  • In attesa di Giustizia: insurrezione ed amnesia

    Magistrati, Pubblici Ministeri, Giudici di Tribunale e delle Corti, toghe rosse della rivoluzione e delle legioni, ascoltate! L’ora segnata dal destino bussa alle porte delle nostre aule…l’ora, l’ora delle decisioni irrevocabili: la dichiarazione di guerra è già stata consegnata ai Presidenti di Camera e Senato!

    Così, in buona sostanza, suona la chiamata alle armi dell’Associazione Nazionale Magistrati nel giorno più buio della sua storia: l’approdo al Parlamento del disegno di legge di origine governativa sulla separazione delle carriere che, fino ad ora, era riuscita a prevenire ed evitare.

    Il Presidente dei pasdaran dell’ANM, Giuseppe Santalucia, accanito avversario la riforma, è uno che, non a caso, ha saltabeccato tra uffici inquirenti e giudicanti ed ha alle spalle una brillante carriera fuori ruolo come vice e poi capo dipartimento dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, senza contare altri incarichi di prestigio come magistrato addetto al Massimario della Cassazione (una struttura che con criteri quanto meno nebulosi seleziona le sentenze che vanno, poi, a blindare la giurisprudenza sulla base di precedenti decisioni) ed ha fatto esperienza anche presso l’Ufficio Studi del CSM, ed è proprio dalla voce di Santalucia che viene annunciata una mobilitazione articolata dell’intero Ordine Giudiziario.

    Dissotterrando l‘ascia di guerra, con minaccia di ricorrere ad un’astensione dalle attività giudiziarie senza precedenti, la magistratura associata intende, altresì, dar vita ad una campagna di sensibilizzazione del popolo italiano aggiungendone una nuova alle trite litanie con le quali viene ferocemente avversata questa riforma: la separazione delle carriere indebolirebbe le garanzie riservate ai cittadini dalla Costituzione, contrasta il loro interesse ad una giustizia giusta.

    Permane misterioso quale potrà essere in tutto ciò il contributo degli italiani che in tempi recenti hanno sottoscritto massicciamente un legge di iniziativa popolare proprio per la separazione delle carriere ed hanno votato una maggioranza parlamentare che l’aveva nel programma di governo…forse è un caso di amnesia ma le amnesie del sindacato delle toghe non finiscono qui: paventano una assimilazione del nostro processo penale al sistema americano – dove da sempre vi è la separazione delle carriere – che sarebbe privo di garanzie perché, tra l’altro, non è previsto il giudizio di appello, ed i P.M. sono sottoposti al potere politico. Per la verità, negli USA si può fare una sterminata quantità di appelli e ricorsi (persino per inadeguatezza della difesa mentre proprio da noi c’è la tendenza a marginalizzare gli uni e gli altri) e che i Pubblici Ministeri, diversamente da quanto accade ed accadrebbe in Italia anche dopo la riforma, siano connotati da una matrice politica perché elettivi, peraltro come i giudici. Tutto ciò a tacere del fatto che da quel sistema la nostra Cassazione, con il contributo dell’ufficio del Massimario di cui Santalucia ha fatto parte, stia mutuando il meccanismo della Corte Suprema che blinda i precedenti al punto che se è stato deciso che Gesù è morto di freddo da quella giurisprudenza è quasi impossibile discostarsi anche nei giudizi di grado inferiore. Amnesie.

    Naturalmente viene riproposto il timore della perdita di indipendenza della magistratura, non si sa bene in base a cosa posto che è assicurata dalla Costituzione sia ai giudicanti che ai pubblici ministeri in più articoli e con garanzie specifiche e che il giusto processo (articolo 111) sia affidato ad un giudice terzo, cioè senza “apparentamenti” con le altre parti. Ancora amnesie… In ultimo, la preoccupazione è che verrebbe limitata la possibilità di maturare esperienze diverse che arricchiscono il sapere e la cultura dei magistrati, come se la specializzazione in un settore debba essere vista un limite.

    L’ANM – così solerte in questo caso – sembra essersi dimenticata che anche altri problemi avrebbero meritato una civile mobilitazione da parte di coloro che amministrando la giustizia decidono della vita dei cittadini e, solo per citarne un paio come esempio, non si sono annotate manifestazioni di ansia con riferimento al fenomeno dei suicidi in carcere o alla mancanza di strutture adeguate per accogliere i condannati affetti da malattie mentali che vengono incarcerati senza adeguate terapie insieme agli altri detenuti. Amnesie, succede…

  • In attesa di Giustizia: metamorfosi e nemesi

    La magistratura associata preannuncia scioperi, sollevazioni di piazza e barricate contro il disegno di legge di origine governativa sulla separazione delle carriere dimenticando il dettaglio – non banale – che quel disegno di legge è stato controfirmato per autorizzarne la presentazione nelle Aule Parlamentari da Sergio Mattarella che, oltre che garante della Costituzione, è anche il Presidente del C.S.M.

    E’ una scenario che, in altri tempi, avrebbe visto Piercamillo Davigo schierato in prima fila in questo agone, possibilmente nei talk show che gli garantiscono assenza di contraddittori e non gli impongono limiti alla ben nota incontinenza verbale, nonchè sparando a palle incatenate contro la riforma ed il Ministro della Giustizia dalle colonne del Fatto Quotidiano.

    Invece tace, perlomeno più del solito: l’alfiere della eliminazione del secondo grado di giudizio – probabilmente suggerito in tal senso dai suoi eccellenti difensori – è stato impegnato nel seguire la stesura del corposo ricorso per Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che, confermando la condanna in primo grado per rivelazione di informazioni su indagini in corso coperte dal segreto istruttorio, ha messo il carico da novanta sulla sentenza del Tribunale che il  nostro aveva educatamente commentato affermando al cospetto dell’inclita utenza di intellettuali che si abbevera al podcast di Fedez che “a Brescia non sempre le cose le capiscono”.

    La motivazione è stata durissima e, tra i tanti passaggi, è dato leggere che: “Piercamillo Davigo si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta in una serie di irrituali ed illecite confidenze che hanno poi sortito una fuga di notizie senza eguali precedenti”, “violazioni tutt’altro che formali” “Un’opera diffamatoria contro Sebastiano Ardita”. Quest’ultimo era un componente del C.S.M. ed ex sodale proprio di Davigo nella costituzione della corrente nuova della magistratura che gli faceva capo: ma si sa, i regolamenti di conti tra magistrati sono molto cruenti in quella che – ora sappiamo – è un’allarmante frequenza.

    Insomma, siamo al cospetto di una metamorfosi che lo stesso Davigo dovrebbe definire una “Berlusconizzazione”: per salvarsi, prima attacca i giudici poi impugna tutte le loro decisioni e, senza entrare in dettagli complicati per i lettori (anche un po’ superflui), è pronto a smentire se stesso ricorrendo ad argomenti difensivi ad assetto variabile.

    Ad una metamorfosi fa il paio la nemesi: infatti, la giurisprudenza sulla quale si fonda la sua condanna è frutto della costante elaborazione di principi risalenti in buona misura proprio a quella Seconda Sezione della Corte di Cassazione che Davigo ha presieduto per anni.

    Rispettiamo il principio di non colpevolezza ma, in Cassazione, troverà a contrastare le sue ragioni una dottrina che da qualche anno suscita perplessità nei nemici di un tempo, gli avvocati: la forza del giudicato (inteso come interpretazione di principi diritto stabilizzatasi che preclude, salvo casi eccezionali, ripensamenti), un concetto “all’americana” estraneo alla nostra tradizione, ed i limiti alla valutazione nel terzo grado di giudizio della cosiddetta doppia conforme…cioè a dire che se un Tribunale ha deciso in un modo e poi una Corte d’Appello ne ha confermato la sentenza, anche qualora abbiano argomentato e messe per iscritto delle grossolane bestialità va bene così e la Cassazione, salvo rarissimi casi, dichiara inammissibile il ricorso.

    Metamorfosi e nemesi: manca solo che affermi che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca, tranne uno e sarebbe, tutt’al più, l’eccezione che conferma la regola. Sic transit gloria mundi.

  • In attesa di Giustizia: 2 giugno

    E’ iniziata, con prima tappa a Cagliari il 29 maggio, la maratona oratoria a livello nazionale della durata di due mesi organizzata dall’Unione delle Camere Penali: avvocati, docenti universitari, garanti dei detenuti e rappresentanti di associazioni, con interventi della durata di un’ora ciascuno, si alterneranno a staffetta per giornate intere davanti ai Tribunali per informare e coinvolgere la società civile sul tema delle condizioni e dei suicidi nelle carceri che sono già oltre trenta da inizio anno.

    Vigilando redimere era il motto del Corpo degli Agenti di Custodia prima che venisse trasformato in Polizia Penitenziaria e, senza scomodare Cesare Beccaria, dice tutto: il carcere deve essere un luogo destinato alla rieducazione e non una discarica umana nella quale rinchiudere uomini e donne – in attesa di giudizio, così come i condannati – a marcire con la punizione aggiuntiva della mancanza di igiene, spazi vivibili e strutture adeguate sia sanitarie che volte al recupero per restituirli migliorati alla libertà.

    La Repubblica festeggiata il 2 giugno è, purtroppo, lontana da quella pensata e disegnata dai Padri Costituenti, è una Repubblica sotto processo che negli ultimi trent’anni ha visto sfumare la funzione essenziale della Giustizia attraverso il conflitto tra magistratura e politica e poi – o, meglio, nel frattempo –  quello interno all’Ordine Giudiziario con rese dei conti e contrapposizioni che sono emerse in una realtà ancor più desolante e preoccupante di quanto si era immaginato dopo le rivelazioni di Luca Palamara e l’analisi impietosa che dell’indagine a carico di costui ha fatto Alessandro Barbano (licenziato dopo solo un mese dalla direzione del “Messaggero”, forse perché troppo liberale) in un libro in cui illustra come il regime delle intercettazioni distrugge vite e sovverte le regole del potere.

    Ecco, da trent’anni a questa parte le riforme, quelle strutturali e ragionate, l’adeguamento degli istituti penitenziari ai canoni costituzionali, il rispetto per le vite umane, hanno subito l’effetto di bracci di ferro come quello tra i magistrati e Berlusconi la cui morte non ha chiuso la partita; e poi, populismo normativo con leggi che sono meri spot elettorali, l’assalto al Quirinale con la sconclusionata inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia, le lotte intestine alle correnti per l’aggiudicazione delle Procure più ambite e chi più ha memoria più ne metta.

    Come dire: la storia d’Italia degli ultimi decenni si è scritta di più nei tribunali che nelle aule parlamentari e la deriva giustizialista non conosce confini: un esempio recentissimo si rinviene nella motivazione con cui è stata respinta la richiesta di scarcerazione dell’ex presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Paolo Signorini: “perché non si è mostrato consapevole del disvalore della sua condotta”, insomma non si è pentito a sufficienza, stia in galera. Il ragionamento è più da Stato etico che di diritto e ben potrebbe essere uscita dalla penna di un GIP di Teheran come se il carcere dovesse servire a questo.

    Vittime di un sistema, questo sì autoritario ed arroccato nella protezione del proprio debordante potere,   sono state le centinaia di persone arrestate e assolte durante la stagione di Mani Pulite o sarebbe meglio dire mani grondanti di sangue se si considerano i quarantuno suicidi senza risposta risalenti all’epoca di Tangentopoli che ha segnato un modo di intendere la carcerazione preventiva che continua a mietere capri espiatori senza colpa né peccato mentre in carcere si continua a morire per una disperazione che non di rado è frutto della consapevolezza di patire ingiustamente quel tormento in condizioni che hanno indignato i partner europei o per sfiducia nella giustizia.

    Troppe sono le morti di chi lo Stato dovrebbe salvaguardare e recuperare, morti che sono delle ferite inferte alla democrazia e non solo “possibili fonti informative perdute” come ritiene, mostrando ripugnante insensibilità Piercamillo Davigo.

    Ma lo spirito di Einaudi e di quelli come lui che costituirono la classe dirigente del miracolo del dopoguerra è pur sempre nel DNA di questo Paese e dovrà pure tornare a manifestarsi insieme a quella disciplina ed onore che la Costituzione pretende dai cittadini, dunque anche i magistrati, cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di impiegare nel loro adempimento…in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: R.I.P.

    Se il Governo, per la parata del 2 giugno, avesse fatto sfilare la portaerei Trieste nel Mar Nero e sbarcare il Battaglione San Marco a Odessa avrebbe generato meno apprensione che approvando il D.D.L. sulla separazione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri…almeno tra la magistratura associata e nelle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano.

    Così è, se vi pare: dopo decenni di discussione dopo la promulgazione del codice che regola il processo penale nel 1989 con cui meglio si adatterebbe, quella che è una regola ordinamentale in molte democrazie occidentali di tradizione liberale, come il Regno Unito, sembra che stia per diventare legge anche da noi.

    L’Associazione Nazionale Magistrati, in nome della indipendenza ed autonomia della magistratura si paluda da intemerato paladino di questi principi che non sono messi in discussione da un progetto di riforma che, per il divieto imposto da più di un articolo della Costituzione, non potrebbe neppure sottoporre il Pubblico Ministero al controllo del Ministro della Giustizia condizionando o impedendone le iniziative.

    Ma, allora, se questa riforma non è un rischio per la democrazia – non è credibile che gentiluomini che i genitori hanno fatto studiare e praticano la giurisprudenza non lo comprendano – qual è o può essere il timore che attanaglia un gran numero (non tutti…) di appartenenti all’Ordine Giudiziario?

    A pensar male si fa peccato ma, a volte, non si sbaglia: le ansie sono, forse, di natura diversa? Magari quella perdita di chance che deriva dal poter transitare da una funzione all’altra senza insormontabili ostacoli traguardando l’obiettivo di sempre nuovi incarichi direttivi che sono anche la rampa di lancio verso prestigiose e ben remunerate posizioni fuori ruolo, elezioni al C.S.M, candidature…?

    In due parole può essere una questione di denaro e potere legati al raggiungimento di questi risultati di carriera per i quali il merito conta molto meno degli accordi spartitori tra le correnti della magistratura. Queste ultime sono tutte guidate da Pubblici Ministeri che – a loro volta – acquistano visibilità grazie ad inchieste gestite senza rispetto della riservatezza e spesso sviluppate applicando al contrario il criterio di Eudosso – un matematico dell’Asia Minore del V secolo A.C. – utilizzato per calcolare la superficie di figure geometriche irregolari: delimitano e misurano la superficie del teorema accusatorio come se gli indagati fossero già colpevoli conclamati, poi iniziano a centellinare dettagli alla stampa lasciando credere che si stiano avvicinando sempre più ad una verità assoluta facendo crescere interesse ed indignazione moralistica negli specialisti dei giudizi a priori e dando l’impressione che la quadratura del cerchio sia ormai prossima.

    La separazione delle carriere, ahimè, prevede la creazione di due C.S.M.: uno per i giudicanti e l’altro per gli inquirenti con la conseguente perdita di controllo dei P.M. sui giudici, subalterni ai poteri correntizi (profondamente politicizzati) che, allo stato, ne gestiscono incarichi e progressi in carriera per le ragioni dette. E poi, senza vergogna, parlano di timore di finire sotto il controllo del Governo…

    Il Guardasigilli, presentando la riforma, ha ricordato che la separazione delle carriere era stata auspicata da Giovanni Falcone, suscitando incomprensibile indignazione, tra gli altri, quella di Alfredo Morvillo (ex giudice) che ha negato vibratamente che suo cognato abbia mai sostenuto la separazione delle carriere ed anche che: “sia gravemente offensivo definire i giudici come passacarte delle procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso. Ma risponde ad un’operazione portata avanti negli ultimi anni per diffondere sfiducia nella giustizia e quando in un paese viene meno la fiducia nella giustizia cominciano ad essere in pericolo anche le libertà democratiche”.

    Ecco, un pizzico di allarme fascismo non guasta mentre Morvillo, a proposito di sfiducia nella magistratura, sembra non avere mai sentito parlare dell’affaire Palamara né letto il documentatissimo libro “La gogna” di Antonio Barbano, soprattutto sembra non ricordare chi disse queste parole: “Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come è oggi, una specie di paragiudice. Chi, come me, chiede che giudice e P.M. siano invece due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico della indipendenza del Magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il P.M. sotto il controllo dell’esecutivo”.

    Questa riflessione appartiene a proprio a Giovanni Falcone: riposi in pace a patto di non guardare cosa accade quaggiù all’interno di quell’Ordine Giudiziario di cui è un martire e con il quale non ha nulla a che spartire.

  • In attesa di Giustizia: attacco alle garanzie

    Milàn l’è semper un gran Milàn: così si dice per sottolineare una sorta di eccellenza della città in diversi settori; con la locale Procura, dai primi anni ’90, vanta anche il primato nel calpestare le garanzie degli indagati: i trucchetti per eludere il termine di durata massima delle indagini prevista per legge svolgendole a totale insaputa dei destinatari, fascicoli con un unico numero di registrazione iniziale creando una sorta di discarica per centinaia di notizie di reato in cui la difesa è di fatto impossibilitata ad orientarsi adeguatamente, il “gioco a nascondino” delle prove a favore degli accusati (quello che ha determinato l’incriminazione del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale è solo il più noto) sono solo alcuni dei fantasiosi metodi con cui addomesticare i rigori della legge che, nel loro complesso, hanno preso il nome di Codice Ambrosiano, rimarcando una discontinuità rispetto al resto della penisola che tanto il carnevale quanto la Messa avevano già segnato.

    L’ultima tendenza è quella di indagare gli avvocati nell’ambito degli stessi processi in cui sono impegnati nella difesa: ecco così, poco dopo il caso legato al difensore di Alessia Pifferi, una richiesta di interdizione all’esercizio della professione per un anno nei confronti di due professionisti, collegata ad un’inchiesta per traffico di stupefacenti nella quale risultano assistere alcuni dei presunti trafficanti.

    Tale richiesta costituisce un attacco concentrico alle garanzie processuali, alla libertà dell’avvocato e all’esercizio del diritto di difesa che non sono generiche enunciazioni di principio ma canoni costituzionali.

    Ai due sventurati è stato attribuito il reato di ricettazione che consiste nel fatto di chi riceve denaro o altri beni provenienti da reato per procurare a sé o ad altri un profitto e ne sono sospettati per aver ottenuto il compenso per l’attività professionale svolta da parte di soggetti che si presume commercino droga.

    Impressiona per la sua natura l’ipotesi di accusa a carico di clienti che – probabilmente –  non presentano il Modello Unico all’Agenzia delle Entrate ma che dire, allora, se la difesa riguardasse un manager imputato di falso in bilancio o un imprenditore con il vizietto della bustarella, piuttosto che il produttore di salumi che falsamente certifica l’appartenenza al consorzio “Prosciutto di Parma” (sì, può essere un reato anche questo): gli esempi si sprecano e qui si arrestano per questioni di brevità.

    Fortunatamente, non solo a Berlino ma anche a Milano qualche giudice si trova ancora ed in questo caso il Giudice per le Indagini Preliminari cui era stata avanzata la richiesta l’ha rigettata con una motivazione ricca di riferimenti alla giurisprudenza, alle prove ed al buon senso laddove rimarca che il difensore dovrebbe addirittura rinunciare totalmente ai propri compensi allorquando l’assistito sia reo confesso.

    L’iniziativa della Procura, al di là della condivisibile decisione del giudice chiamato a vagliarla, ha determinato una ferma reazione dell’Ordine degli Avvocati di Milano, della Giunta dell’Unione e della Camera Penale di Milano rimarcando la prassi giudiziaria in inarrestabile deriva da quei principi costituzionali, che la magistratura sistematicamente disattende con buona pace della “cultura della giurisdizione” alla quale si dice appartenere anche il pubblico ministero.

    Emerge, viceversa una pericolosa assimilazione della difesa dell’indagato a quella del reato, se non ad una condivisione implicita di scelte criminali.

    Novelli influencers del diritto e della pubblica opinione, è bene che i P. M. si rendano conto che sono lontani i tempi di Mani Pulite e delle manifestazioni davanti al Palazzo di Giustizia con i cartelli “Di Pietro, Davigo, Colombo, fateci sognare”, che la schiera dei loro followers si sta drasticamente riducendo e tra questi non mancano i giudici.

  • In attesa di Giustizia: fine pena mai

    Si è concluso il processo a carico di Alessia Pifferi accusata dell’omicidio della piccola Diana, sua figlia, e si è concluso secondo un copione che sembrava già scritto prima ancora che iniziasse e che accadesse l’imprevedibile con la inusitata ed opinabile scelta del Pubblico Ministero di indagare – ad udienze in corso e con grande risalto – il difensore dell’imputata e le psicologhe di San Vittore sospettate di aver alterato gli esiti della osservazione diagnosticando disturbi della personalità che avrebbero potuto condurre ad una sentenza quantomeno mitigata dalla infermità di mente.

    Ma il popolo italiano (quello nel cui nome sono, o dovrebbero essere, pronunciate le sentenze), animato dal vizio populista di reclamare la forca una decisione l’aveva già presa senza abbandonare quello di etichettare gli avvocati e senza bisogno di essere ulteriormente condizionati.

    Sola nelle scelte tecniche e strategiche cruciali, criticata, indagata, insultata e minacciata, Alessia Pontenani ha mostrato un impegno come difensore che richiama al ricordo le parole di Ettore Randazzo – un grande avvocato che ora non c’è più – riferite ai colleghi che assistevano i presunti assassini di un collega ucciso per non essersi piegato ai desiderata di una cosca. Quelle frasi intense e intrise di sensibilità sono tornate alla mente modificate ed attualizzate: “non la invidio: difende una madre accusata di avere assassinato la sua bimba. La invidio: sventola il vessillo della Toga, ancora più bello e orgoglioso quando svetta tra le avversioni e le ostilità”.

    L’avvocato Pontenani ha fatto del suo meglio, optando per una difesa tecnica per nulla banale e scontata che era ed è l’unica coerente con la logica e le prove: ha sostenuto che si trattasse di un caso di morte come conseguenza non voluta di altro reato. Se quella madre avesse voluto sopprimere la sua creatura, vista come un ostacolo alla sua quotidianità, lo avrebbe potuto fare in moltissimi altri modi e momenti, ma non vi è prova che fosse quella la sua intenzione. Scellerata, anaffettiva, libertina…della Pifferi si possono certamente dare giudizi molto severi che possono essere tenuti in conto come contributo non esclusivo nella misurazione della pena e solo dopo avere attribuito la responsabilità per fatti penalmente rimproverabili correttamente qualificati secondo i parametri della legge: e quello della piccola Diana non è un omicidio voluto ma la conseguenza dell’abbandono –(fatto spregevole, non v’è dubbio, ed è un reato infamante anche quello) per dedicarsi altrove al fidanzato del momento – circostanza eticamente riprovevole, nessun dubbio anche in ordine a ciò – e non era neppure la prima volta. Pessima cosa, ma non era mai successo niente in passato e per una persona affetta da evidenti deficit cognitivi pur non essendo una malata di mente è stato sufficiente per riprovarci “alzando l’asticella”.

    E la volontà di uccidere la bimba da cosa si ricava, dov’è la prova di quello che si chiama “dolo di intenzione”? Colpevole, ma di un crimine diverso dall’omicidio volontario che prevede comunque pene severe.

    Alessia Pontenani, sostenendo questa tesi giuridicamente sensata ha sicuramente fatto riflettere i due giudici togati, sicuramente ha non ha convinto i sei “giurati” che, esprimendo il proprio voto, hanno seguito percorsi argomentativi diversi, impressionati dal fatto in sé, dalla crudezza dei dettagli; e non è colpa loro se per nulla si intendono di sovrapponibilità della fattispecie concreta a quella astratta ai fini della qualificazione giuridica del fatto, elemento psicologico del reato, differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente: questioni non sempre di agevole soluzione anche per i giuristi e complicatissime da chiarire in una camera di consiglio arroventata dalle emozioni, in una manciata di ore, con parole semplici.

    Alla fine, è parere del curatore di questa rubrica, ha prevalso la visione di una giustizia più da Stato Etico che da Stato di Diritto.

    La decisione della Corte deve, comunque, essere rispettata e se non condivisa la si appella. Indigna – invece – l’ondata di insulti e odio riversata sul difensore dalla solita accolita dei “leoni da tastiera” che, a modo loro, distinguono il mondo tra buoni e cattivi spostando l’asse dal mondo delle idee e del pensiero a quello degli schieramenti contrapposti.

    Alessia Pontenani che ha unicamente fatto il suo dovere non merita tutto questo come la sua assistita, forse, non meritava l’ergastolo: molti nemici molto onore, avrebbe detto qualcuno ma non è politically correct e, allora, a questo coraggioso avvocato sia dedicato in omaggio il pensiero di Bertold Brecht: “abbiamo scelto di sedere dalla parte del torto perchè da quella della ragione i posti erano tutti occupati”.

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