Il rischio è quello di sembrare ripetitivi ma una saga è scandita in più puntate, come quella del processo truccato noto come “ENI NIGERIA” riguardante – secondo la Procura di Milano – una mazzetta di entità mai vista ed impareggiabile in un raggio esteso sino ai confini della galassia, caso mai girassero tangenti anche su Nettuno e Plutone.
Ne abbiamo ricordato alcuni passaggi ed evoluzioni nel numero della settimana scorsa e proprio in questi giorni sono state depositate le motivazioni delle condanne a otto mesi di reclusione dei P.M. Spadaro e De Pasquale, ormai protagonisti assoluti di questa rubrica: motivazioni che fanno riflettere.
Non v’è dubbio che l’Autorità Giudiziaria di Brescia, competente per i reati attribuiti a magistrati di Milano, non si sia lasciata condizionare dall’altisonanza dei nomi iscritti sul registro delle notizie di reato né si sia fatta scrupoli nel rinviare a giudizio e pronunciare condanne ma…una differenza si nota proprio nelle motivazioni: implacabili con Davigo, ormai in pensione, e – invece – vagamente contraddittorie in alcuni passaggi della “sentenza De Pasquale”, ancora in servizio come Spadaro, si direbbe quasi in ossequio al noto principio “cane non mangia cane”.
Nella decisione bresciana è dato leggere, infatti, che De Pasquale e Spadaro nel processo a carico dei vertici dell’ENI hanno selezionato “chirurgicamente” gli elementi a favore della loro tesi stralciando quelli a discolpa degli indagati deliberatamente tacendo l’esistenza di risultanze investigative in palese ed oggettivo contrasto con i portati accusatori e ciò nonostante le esortazioni contrarie ricevute da altro magistrato in servizio presso la medesima Procura, Paolo Storari, che chiedeva – anche per iscritto con e-mail acquisite al giudizio e richiamate nella sentenza – di utilizzare i verbali da cui risultava che il grande accusatore dei manager ENI fosse un calunniatore…verbali che De Pasquale chiese che venissero “chiusi in un cassetto” perché ritenuti irrilevanti. Il Tribunale di Brescia ricorda che al P.M. non compete una simile valutazione arrogandosi una sfera illimitata di insindacabilità: è al giudicante che spetta ogni considerazione sulla rilevanza, affidabilità delle prove ed il conseguente impatto sul giudizio finale.
La sentenza di cui si tratta riporta nel dettaglio le prove “truccate” utilizzate nel processo Paolo Scaroni + Altri a partire dalla perizia su una chat attribuita all’AD di ENI che ne dimostrava la falsità, opportunamente esclusa dal fascicolo, alla “dimenticanza” della corruzione di un teste nigeriano da parte di Vincenzo Armanna (sempre lui!) per affermare il falso contro gli amministratori dell’azienda petrolifera per tacere, infine, del tentativo di far deporre costui per screditare lo sgradito Presidente del Tribunale che li stava giudicando facendolo apparire come corruttibile dai difensori degli imputati.
Un quadro inquietante, stomachevole, preoccupante per qualsiasi cittadino che dovesse anche lontanamente temere di finire nel tritacarne di questa…chiamiamola giustizia, senza offesa per la Dea Temi. Il Tribunale di Brescia definisce oggettivamente gravi questi comportamenti da parte dei P.M. milanesi ma subito dopo riconosce incomprensibilmente una buona fede di cui, negli elementi a carico che abbiamo sintetizzato (e non sono nemmeno tutti) non vi è traccia. E’ dato leggere che “tutto ciò non significa che si sia inteso perseguire ingiustamente degli innocenti e, quantomeno all’inizio, potevano esserci elementi investigativi che giustificavano il sospetto”. Già, all’inizio…ma poi? Quando si sono palesate evidenze contrarie al teorema accusatorio sono state cestinate ed allora il sospetto che si alimenta è ben altro.
Ma quale buona fede, ma mi faccia il piacere! Direbbe il Principe De Curtis, il Tribunale di Brescia invece sembra tentare di salvare il salvabile anche sostenendo che la oggettiva gravità delle condotte è attenuata dalla incensuratezza e che è ragionevole aspettarsi per il futuro la cessazione di comportamenti illeciti: a prescindere che con la legislazione attuale l’incensuratezza come valore fruibile per attenuare la responsabilità penale non potrebbe essere utilizzata neppure per nostro Signore prima di crocifiggerlo, aspettarsi che un servitore dello Stato si astenga in futuro dal commettere altri reati è il minimo sindacale, anzi, non avrebbe dovuto commetterli neanche prima e proprio per le qualità personali, il ruolo e la funzione svolta, lo spergiuro sulla costituzione, quelli già commessi “oggettivamente gravi” dovrebbero essere sanzionati con significativo rigore e non con una pena molto vicina al minimo previsto dal codice.
Leggendo la sentenza di cui è stato offerto un sunto sembra di poter ricavare due conclusioni: che questa volta non dovrebbero esserci colpevoli che l’hanno fatta franca nonostante una tendenza nel finale al cerchiobottismo e gli “ossimori scomposti” della motivazione. In fondo anche questa volta cane non mangia cane, però qualche morso pur sempre fastidioso è stato dato…morsi che De Pasquale e Spadaro non sono riusciti a dare al cane a sei zampe nemmeno barando.