Processo

  • In attesa di Giustizia: l’incertezza della pena

    Nove anni sono la pena richiesta dal P.M. di Tempio Pausania per Ciro Grillo ed i suoi amici per violenza sessuale. A questa pena che – forse – verrà inflitta, ed in quel caso bisognerà scontare, vanno aggiunti i sei anni sin qui trascorsi dall’inizio dell’indagine oltre agli ulteriori tempi per il giudizio di appello ed – eventualmente, in Cassazione: un tempo che pesa  perché, in questo caso, è l’architrave della giovinezza, ma – soprattutto – perché misura la distanza incolmabile che continua ad esserci tra chi è giudicato e chi giudica…compresi coloro che non indossano una toga e hanno saccheggiato i social network per rinvenire e diffondere le immagini di un Ciro Grillo festaiolo, commentando ed insultando, dando voce alla solita compagnia di giro degli indignati in servizio permanente effettivo che meno sanno di una vicenda e – meno che mai – degli atti di un processo e più si sentono in diritto di pontificare. Una volta ci si limitava al popolo dei “Commissari tecnici”, quelli che avevano la soluzione tattica e la selezione di giocatori perfetta per portare al trionfo la Nazionale di calcio e ne parlavano al bar durante una partita a stecca: al giorno d’oggi la razza si è evoluta con legioni di genetisti, criminologi, esperti in dattiloscopia, balistica e persino in neuroscienze cognitive, sapientoni alimentati dal Davigo pensiero che credono che il concetto di certezza della pena equivalga a “più galera per tutti”.

    Nove anni di carcere sono una vita ma cinque serviti solo per concludere il primo grado di giudizio sono già una pena al termine della quale, chiunque sia l’accusato, sarà una persona diversa dal presunto autore di oltre un lustro prima: forse peggiore ma forse anche migliore. E, allora, come la mettiamo con la finalità rieducativa della pena? Quei nove anni sono troppo pochi o troppi? Sicuramente sono una vita e qui si ferma il codice per porsi la domanda forse più difficile: che cosa sanno davvero i Giudici di quei ragazzi, della loro idea – se ne avevano una – di che cosa è giusto e che cosa no? Per comprendere la difficoltà di una risposta ragionata e racchiusa in una sentenza basterebbe guardarli oggi a confronto le loro foto del 2019: volti ancora segnati dall’adolescenza, bambini cresciuti ed abituati a raccontarsi in tempo reale, a giocare con la realtà fino a sfumarne i contorni.

    E chi li giudicherà, prima ancora chi ne ha chiesto la condanna, non sono neppure gli stessi magistrati che hanno avviato e concluso tanto l’indagine quanto il processo: il Pubblico Ministeri è cambiato una mezza dozzina di volte, obbligando ognuno sopravveniente a studiarsi tutto un fascicolo di cui non sapeva nulla così come delle strategie originariamente allestite dal primo titolare, dei tre giudici che avevano iniziato il processo non ne è rimasto nemmeno uno ed anche in questo caso i cambiamenti sono stati plurimi ed in parte si spiega la inaccettabile durata.

    Ma questa è giustizia e come si spiega? Semplice: a Tempio Pausania non ci vuole andare nessuno o – quantomeno – nessuno vuole restarci oltre lo stretto necessario e, tutt’al più, la destinazione è buona solo per ottenere un ambito posto di direttivo (Procuratore Capo o Presidente del Tribunale) o semi direttivo (Procuratore Aggiunto o Presidente di Sezione) indispensabile per il progresso in carriera e verso circondari più ambiti mentre del Tribunale di Tempio è stata pure soppressa la Sezione distaccata di Olbia che, se non altro, offriva una più apprezzata prossimità alla Costa Smeralda. Il peggio è che la Sardegna è praticamente tutta nelle medesime condizioni dal punto di vista della organizzazione giudiziaria con l’eccezione di Cagliari nel senso che lì le cose vanno un po’ meno peggio.

    Chissà se di questi problemi, che sono autentici ed attuali del sistema e non limitati alla sola Sardegna, e conducono alla semi paralisi della giustizia, ci parlerà mai Sua Eccellenza Nicola Gratteri che ha ottenuto persino di avere un programmino tutto per sé su LA7 o se si limiterà alla tradizionale ostentazione della vanità del moralismo etico esaltata in tempi televisivi…chissà se saranno argomenti affrontati da Luciano Violante che si è accasato in RAI? Sventurata è la terra che ha bisogno di simili eroi.

    Intanto a Tempio Pausania si deciderà il futuro di un gruppo di ragazzi: ci sono voluti sei anni ma – in fondo -a un giudice che neanche c’era quando è iniziata questa vicenda, di quella generazione, dei sei anni, non gliene frega niente e c’è da temere che penserà: “hanno giocato, è andata male a lei ed è andata male a loro”. Però nove anni (più sei quindici e ancora non sappiamo cosa verrà) sembrano, e sono, una vita ma non giustizia.

  • In attesa di Giustizia: il Sogliolone d’oro

    Un grande penalista milanese che oggi non c’è più, Corso Bovio, negli anni ’90 del secolo scorso – segnati dal fenomeno di Mani Pulite e dal disinteresse creativo per le garanzie degli indagati – aveva istituito un premio: il Sogliolone d’Oro che veniva attribuito al Giudice per le Indagini Preliminari più appiattito sulle richieste della Procura, in particolare quelle di arresto; Corso si procurava una sogliola di plastica, di quelle che sono montate su una specie di cornice, hanno le pile e si dibattono a comando e andava a consegnarla personalmente all’onorificato di turno ed in quegli anni, qualcun altro, Dino Cristiani, penalista Presidente della Camera Penale di Pavia, spiegava che l’acronimo GIP stava per Giudice Inutile Preliminare, anche considerando l’inesistente funzione filtro disponendo il rinvio a giudizio anche con riguardo alle imputazioni più azzardate.

    Qualcosa però è cambiato: la Procura di Milano da qualche giorno ha aperto le ostilità con l’Ufficio GIP, chiedendo la ricusazione di due giudici perché non allineati con le ipotesi della Procura con buona pace della indipendenza della magistratura che implica anche quella dei giudici (che la Costituzione vuole tersi ed imparziali) dalle richieste dei pubblici ministeri. A finire sulla graticola sono stati Tommaso Perna e Roberto Crepaldi per due vicende diverse tra loro ma sintomatiche che quando il gip si spalma sulle ipotesi della Procura va bene – molto apprezzati, soprattutto, gli ordini di custodia in carcere con un copia-incolla delle richieste del P.M. – ma se ardisce distaccarsi dall’impianto accusatorio deve essere messo al bando in nome della infallibilità dell’organo inquirente.

    Perna è il giudice delle indagini preliminari che non ha accolto se non in parte assolutamente minima 150 richieste di arresto richieste dalla Direzione Distrettuale Antimafia che ipotizza un’alleanza Cosa Nostra-Camorra-’Ndrangheta nel Milanese. Secondo la Procura la colpa di Perna (contro il quale si spara a palle incatenate  chiedendo un’azione disciplinare ed inoltrando una denuncia penale a Brescia) è quella di essere stato citato in alcuni colloqui difensivi tra indagati e legali – vietate dalla legge –  come possibile destinatario di istanze di scarcerazione  poi respinte, ma tant’è…-  in seguito a legittime e usuali interlocuzioni tra difensori e giudice trasformate in grimaldelli per paventare la commissione di condotte penalmente rilevanti. Mah…

    Il GIP Crepaldi, invece, è destinatario di una sollecitazione ad astenersi avanzata dal P.M. Francesco De Tommasi, il magistrato che ha condotto le indagini sulla trentasettenne Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo per omicidio perché nel luglio del 2022 lasciò per una settimana da sola a casa la figlia di un anno, morta di stenti e di fame. De Tommasi aveva aperto un’indagine a carico di quattro psicologhe del carcere di San Vittore, di uno psichiatra e dell’avvocato della donna a processo in corso consentendo che ne fosse dato ampio risalto sui media. Tutto ciò aveva già condotto una Collega P.M, coassegnataria del fascicolo a rimettere la delega prendendo le distanze da De Tomasi mentre Crepaldi, attraverso un comunicato dell’ANM aveva stigmatizzato l’accaduto, senza entrare nel merito della vicenda, nell’ottica di un «sereno svolgimento del processo, a tutela di tutte le parti processuali». Il P.M. aveva già chiesto in precedenza che Crepaldi si astenesse dal giudicare in giudicare questo secondo filone d’indagine ma così non è stato e nel frattempo Crepaldi è diventato noto per aver rigettato la richiesta di arresto di alcuni avvocati perché a parere della Procura farsi pagare dai propri clienti se non producono il modello Unico o una busta paga equivale a commettere il reato di riciclaggio.

    Al netto delle valutazioni che si possono fare, vicende come queste dimostrano la necessità ed urgenza di separare carriere e funzioni inquirenti e giudicanti anche perché il vero problema sarà – una volta distinti i concorso e diversificati i CSM – modificare una diffusa mentalità: quella che fa vincere il Sogliolone d’Oro.

  • In attesa di giustizia: consigli per gli acquisti

    C’era una volta Tribuna Politica, oggi la si definirebbe un talk show ma era una rubrica – condotta da un bravissimo giornalista, Jader Jacobelli –  centrata esclusivamente sui temi della politica ed andava in onda sul Canale Nazionale e c’era solo quello, almeno i primi tempi nel 1961, mentre al giorno d’oggi il dibattito politico è affidato ad una quantità impressionante di trasmissioni che praticamente e senza soluzione di continuo danno vita ad una campagna elettorale permanente: tant’è che non c’è stato neanche il tempo di archiviare  polemiche e bollettini della vittoria dell’ultima tornata referendaria che, al netto delle notizie dal fronte, già ci si prepara alla prossima che riguarderà l’approvazione popolare della legge costituzionale sulla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati giudicanti: un referendum confermativo che non richiede il raggiungimento del quorum 50%+1 e l’A.N.M.  è già scesa in campo con uno spot visibile, peraltro, solo su YouTube.

    Il Presidente del sindacato delle Toghe (quello che ha detto che servirebbero un paio di magistrati morti ammazzati per far risalire il consenso nei confronti dell’Ordine Giudiziario), forse, avrebbe gradito qualcosa di truculento come immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio con una voce narrante di sottofondo a sostenere la frottola che Falcone era contrario alla separazione delle carriere, invece la scelta è caduta su una attrice belloccia che ha imparato un copione per  presentare la giustizia italiana ai cittadini come un modello inimitabile che sarebbe dannoso riformare suggerendo che vi sia un pericolo insito proprio nella separazione delle carriere.

    Perché riparare qualcosa che non è rotto, fanno sostanzialmente recitare: il nostro sistema è già costruito in maniera geniale (addirittura!)…sottinteso “la separazione delle carriere creerebbe solo danni”.

    Probabilmente non ferratissima in diritto costituzionale, l’interprete passa a descrivere la genialata senza ricordare che, secondo le coordinate dell’articolo 111, la giustizia è assicurata da un meccanismo secondo il quale la prova si forma davanti a un giudice imparziale e terzo tra le parti – accusa e difesa – in contraddittorio tra di loro ed in posizione di parità davanti a quel giudice equidistante; la spiegazione – invece – è volta ad illustrare come il processo penale funzioni benissimo così proprio perché Pubblici Ministeri e Giudici sono colleghi ed Il P.M. è il primo, con profonda cultura della giurisdizione, ad assicurarsi che la Polizia Giudiziaria rispetti il codice durante le indagini, quindi fin dal primo momento in cui un cittadino finisce sotto processo;  poi c’è l’immancabile richiamo alla indipendenza della magistratura dal potere politico che garantisce Giudici e Pubblici Ministeri da interferenze esterne: tutti canoni che la Costituzione già prevede e che non sono messi minimamente in discussione della riforma.

    Manca solo di ricordare l’ultima trovata: separare le carriere comporterebbe un aumento di costi a carico delle esauste casse dello Stato per la necessità di istituire un secondo C.S.M. dedicato ai Pubblici Ministeri mentre sarebbe meglio parlare delle decine di milioni che vengono destinati alle riparazioni per ingiuste detenzioni ed alle stratosferiche prebende, mai rinegoziate, garantite agli operatori telefonici per intercettazioni che hanno un costo industriale vicino allo zero.

    Degli avvocati, nello spot, invece non si parla se non per dire che il loro compito è proteggere l’imputato. Proteggere da cosa, visto che la costruzione è geniale e i due protagonisti assoluti sono perfetti, indipendenti, equanimi e sorridenti?

    Il cittadino, dimenticando le centinaia di migliaia che hanno comperato i libri con le memorie/confessioni di Luca Palamara e quelli che hanno sottoscritto il disegno di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, a questo punto dovrebbe essere indotto tra non molti mesi a correre alle urne per bocciare la riforma.

    Al curatore di questa rubrica, che è un avvocato difensore, a questo punto viene da pensare ed anche da canticchiare le strofe di una melodia di Charles Aznavour “Ed io fra di voi, se non parlo mai…” giusto per inquadrare il ruolo di “protettore” in cui si trova precipitato, dopo tanti anni di studio e di fatica, oltre che di convinzione di essere parte essenziale del processo e della giustizia che non sempre è giusta.

  • In attesa di Giustizia: gli irresponsabili

    Al netto di nove mesi di gravidanza, in diciassette anni si conduce un figlio alle soglie dell’esame di maturità: qualcuno per il quale – magari – si è scelto di fargli anticipare l’inizio degli studi elementari in questi giorni è sui banchi ad affrontare le prime prove di quell’esame…e nello stesso periodo si conclude una vicenda processuale che, con buona pace dell’attesa di giustizia, ha l’età di quei maturandi.

    Stiamo parlando del procedimento che ha visto coinvolto il Gruppo Bancario Delta, una società di credito al consumo di Bologna che dava lavoro a circa mille persone (rimaste, rigorosamente, senza impiego): nelle scorse settimane il GIP di Forlì ha finalmente archiviato tutte le accuse mosse nei confronti dei vertici dell’azienda, con un’inchiesta partita nel 2008 a seguito del sequestro di un furgone portavalori con a bordo oltre due milioni e mezzo di euro che dalla filiale di Forlì della Banca d’Italia viaggiava alla volta di un istituto di credito di San Marino…Secondo il P.M. forlivese quel denaro era frutto di riciclaggio ed evasione fiscale di cittadini italiani detentori di conti correnti proprio nella Repubblica del Titano ed il Gruppo Delta era sospettato di essere il “braccio armato italiano” della Cassa di Risparmio di San Marino.

    Cinque arrestati con tanto di videoriprese per il successivo sputtanamento televisivo a puntate su Report…poi un lunghissimo silenzio e da un percorso giudiziario ancora più lento durante il quale ci sono stati trasferimenti del fascicolo ad altra Procura (Rimini) per competenza territoriale, di P.M. ad altra Sede o incarico, qualcuno è anche morto mentre già nel 2008 la Cassazione, affrontando il tema del sequestro dei due milioni e mezzo a bordo del furgone portavalori, avesse già espresso forti dubbi sulla sussistenza del reato di riciclaggio.

    Finalmente, si fa per dire, nel 2021 fu emesso un decreto di rinvio a giudizio bocciato clamorosamente dal tribunale perché l’imputazione non risultava enunciata in forma sufficientemente chiara impedendo il corretto esercizio del diritto di difesa: come dire che in tutti quegli anni non si era stati in grado neppure di chiarire di cosa avrebbero dovuto essere accusati coloro che erano stati arrestati, indagati e rinviati a processo. Ci sono voluti altri tre anni perché nel gennaio 2025 venisse richiesta l’archiviazione per tutti gli indagati perché il fatto non costituisce reato e così si è finalmente giunti alla conclusione di cui si è detto all’inizio a costo del commissariamento giudiziario di Delta seguito dal fallimento, la perdita del posto di lavoro dei dipendenti e circa settecento milioni di euro andati in fumo.

    Qualche riflessione di carattere generale si impone circa la irresponsabilità civile dei magistrati.

    Come si sfoga in un’intervista al Foglio il Prof. Massimiliano Annetta che ha difeso alcuni degli indagati la responsabilità civile dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni infatti esiste, ma molto raramente sfocia in provvedimenti che vanno a intaccare le loro tasche. Al pari degli altri dipendenti pubblici, è una responsabilità indiretta: grava cioè sullo Stato. Quando però lo Stato cerca di rivalersi sulla toga ritenuta responsabile dell’errore, resta a mani vuote. Dal 2010 ad oggi su 815 azioni di rivalsa avviate dal presidente del Consiglio, solo 12 magistrati sono stati condannati (circa l’1,4 % del totale). Intanto, a giudicare sono i loro colleghi; inoltre, per arrivare a una sanzione nei confronti della toga, il giudice ordinario deve dimostrare che il provvedimento giudiziario contestato sia stato adottato con «dolo» o «colpa grave», oppure in seguito «a diniego di giustizia», inteso come il rifiuto, l’omissione o il ritardo nel compimento di atti del loro ufficio.

    Fin quando resterà in vita la clausola che esonera i magistrati dalla responsabilità per l’interpretazione delle norme o la valutazione dei fatti e delle prove sarà impossibile chiedere conto degli errori che danneggiano i cittadini e le imprese. Questo è, con buona pace di vite (anche di impresa, che’ pure le imprese si possono uccidere) distrutte.

  • In attesa di Giustizia: ragionevoli dubbi

    Passa tutto in secondo piano: i referendum, i dazi minacciati da Trump, Gaza…i media sembrano interessati più che altro alle nuove indagini sull’omicidio di Chiara Poggi che mettono in dubbio il teorema, alimentato da non pochi pregiudizi elaborati dalla Cassazione e nel secondo processo di appello, su cui è fondata la condanna di Alberto Stasi che, sintetizzato, consiste in un “Poteva essere stato solo lui”.

    Se, oggi, quel ragionamento è messo in crisi è colpevole conseguenza del fatto che sia stato un processo indiziario? No perché il processo è innanzitutto logica e la valutazione degli indizi è la logica applicata al caso concreto ed è nota la distinzione tra indizio e congettura: tuttavia, nella pratica, possono verificarsi confusioni e ritenere indizio ciò che è solo una congettura. La colpa è di chi applica male le regole del processo accusatorio che si fonda sul confronto dialettico tra due parti, ciascuna delle quali si adopera a dimostrare la verità – o, meglio ancora, la sostenibilità – delle proprie asserzioni: un esito possibile è che non si raggiunga la prova della colpevolezza e l’imputato debba essere assolto. Il processo di impostazione accusatoria, cui è per natura connessa un’esplicazione totale del diritto di difesa, non offre certezza della scoperta del colpevole e per condannare vale la risalente regola di giudizio in dubio pro reo ovvero oltre ogni ragionevole dubbio avendo escluse tutte le implausibili alternative, regola sinteticamente tradotta nell’acronimo BARD (Beyond Any Reasonable Doubt) in omaggio al sistema cui il nostro si ispira, dimentichi che il diritto romano già conosceva il rito accusatorio. In sintesi, per affermare la responsabilità penale servono certezze mentre l’assoluzione si fonda sul dubbio: un principio che, pur di incontrovertibile civiltà, buon senso ed aderente al dettato costituzionale, si è ritenuto necessario – per rafforzarlo – inserire esplicitamente nel codice: tutti concetti che non è sempre agevole far metabolizzare ad una Corte d’Assise dove il problema sotteso al processo indiziario è maggiormente avvertito perché, il più delle volte, si giudicano quei fatti di sangue che appassionano il grande pubblico e animano i dibattiti televisivi e sono celebrati da un collegio di cui fanno parte (preponderante) sei giudici popolari estratti a sorte da elenchi di cittadini: questi ultimi devono avere il requisito minino del titolo di scuola media inferiore per la Corte di Primo Grado e scuola media superiore per l’Appello. Fino al 1951 contro le sentenze della Corte d’Assise non era previsto l’appello ma solo il ricorso per Cassazione sul presupposto che la Corte d’Assise è la massima espressione della partecipazione del popolo alla giurisdizione, un popolo è unico e sovrano che, a quel tempo, su circa 47.000.000 di abitanti 7.500.000 abbondanti erano analfabeti, oltre13.000.000 privi di titolo di studio ma sapevano leggere qualcosa, quasi 25.000.000 disponevano della licenza elementare, poco più di 3.500.000 di quella della media inferiore, mentre i diplomati erano 1.380.000 malcontati ed i laureati meno di mezzo milione. Oggi, i numeri sono ben diversi e su quasi 60.000.000 di abitanti il 42% della popolazione tra 18 e 74 anni ha un diploma di scuola superiore ed il 41% la licenza media, il 29% ha una laurea…ma il problema non è solo del grado di scolarità ma della suggestione che un po’ tutti possono subire in taluni occorsi rimane immutato.

    Anche i due giudici togati che ne fanno parte devono avere qualifiche di grado particolari ma il dato appare irrilevante, visto il livello di professionalità acquisito (presuntivamente) con promozioni automatiche per il decorso del tempo.

    C’era, peraltro, un motivo recondito nel divieto di appellare le sentenze della Corte d’Assise fino a metà del secolo scorso, successivamente possibile sia per l’imputato che per il P.M.: evitare la confusione e stupore (quella cui assistiamo quotidianamente leggendo un giornale o guardando la televisione) che nel popolo – che con i suoi rappresentanti aveva pronunciato quelle decisioni – derivano da sentenze contrastati.

    Se oggi non è più così, solo nel 2017 è stato previsto il divieto – salvo che per tre limitate ipotesi di violazione di legge – di fare ricorso per Cassazione da parte del Pubblico Ministero dopo una doppia sentenza di assoluzione: il che costituisce ben più che il fondamento di un ragionevole dubbio.

    I dubbi sono, dunque, connaturati al processo indiziario: se non si possono trasformare in ragionate certezze l’assoluzione è una via obbligata…e se l’emergere di prove nuove ne fa sorgere su una colpevolezza già conclamata è giusto che un processo ricominci daccapo: il giudicato non è indissolubile, particolarmente se in favore del condannato ed è per questo che esiste l’istituto della revisione. Confidando di aver fatto, o almeno tentato, un’operazione di chiarezza, la rubrica ha cercato di tradurre per i profani i concetti sottesi a una basilare regola di giudizio perché a tutti potrebbe capitare di essere chiamati al ministero di giudice popolare ed è in nome di tutti i cittadini che vengono pronunciate le sentenze. E non solo quelle giuste.

  • In attesa di Giustizia: quarto grado

    Il titolo non inganni: questo non sarà un commento alla trasmissione condotta da Gianluigi Nuzzi su Rete 4, bensì all’esito dell’ultima (forse) intrapresa giudiziaria di Piercamillo Davigo, colui che sosteneva l’inutilità del giudizio di appello, che tutti i mali della giustizia sono prodotti da avvocati senza scrupoli che pur di guadagnarsi una parcella sommergono le Corti di appelli e ricorsi, ragione per cui ridare ossigeno al sistema è possibile solo eliminando le impugnazioni. Ce ne sarebbe anche un altro: eliminare la difesa, ma questo lo ha, probabilmente, lasciato intendere confidandosi in tutta sincerità solo con il suo fido sodale Marco Travaglio. Quest’ultimo, al pensiero, ha avuto un orgasmo suggerendo in seguito alla moglie di raccontargli delle favole in cui gli Albi degli Avvocati bruciano come in una scena di Farenheit 451 eccitandolo in modo da facilitare il pagamento del “debito coniugale”.

    Ma torniamo a Davigo: condannato in primo grado a Brescia per rivelazione di segreti di ufficio ha ricorso in appello smentendo se stesso anche a proposito del dogma che non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca. Sentenza confermata e successivo ricorso in Cassazione: rigettato anche questo e siamo ai canonici tre gradi di giudizio…non pago, Piercamillo ha chiesto ai suoi avvocati (ne ha due, idealmente superstiti dell’auspicato sterminio) di proporre ricorso straordinario per Cassazione che in pochi sapranno di cosa si tratta: è un istituto relativamente recente, introdotto nel 2017 su sollecitazione della Corte Costituzionale che mette in discussione il principio di intangibilità del giudicato ma solo in casi assolutamente eccezionali se si tratta di far porre rimedio ad un errore materiale o di fatto dei giudici stessi della Cassazione.

    E’ accadimento assai raro che “cane mangi cane” e, nello specifico, che i giudici di una Sezione della Corte dicano che i colleghi di un’altra abbiano preso fischi per fiaschi; i dati dell’annuario statistico del 2024 parlano chiaro: su circa 47.000 procedimenti definiti in sede di Legittimità i ricorsi straordinari costituiscono lo 0,9% e di questi solo 25 sono stati accolti tutti gli altri dichiarati inammissibili o rigettati: tra questi, nell’Anno del Signore 2025, c’è anche quello del Dottor Sottile: poker!

    Finirà qui? Davigo per il momento tace ma non è escluso che decida di andare oltre, dopo essersi ritrovato accanito sostenitore della fallibilità dei giudici e della incompetenza dei P.M.: sono lontani i tempi (gli “anni ’90) quando sosteneva che i giudici sono il meglio della società italiana ed i P.M. il meglio del meglio del meglio…Ora Davigo avrebbe la possibilità di chiedere un quinto grado di giudizio dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

    Dell’uomo che intendeva rivoltare l’Italia come un calzino è rimasto solo un ex magistrato che ha concluso la sua carriera commettendo un reato e che si godrà la lauta pensione (dopo aver fatto ricorso al T.A.R. ed al Consiglio di Stato anche contro il pensionamento, collezionando altre due sconfitte) da pregiudicato perché tale è secondo una brutale ma esatta definizione che segna la nemesi della tirannide delle manette, dell’egocentrismo e delle pretese purificatrici della società per via giudiziaria

    Ei fu…

  • In attesa di Giustizia: nella patria del diritto è talvolta buio fitto

    Per tre giorni, ad inizio mese, c’è stata astensione dalle udienze degli avvocati penalisti:  una categoria che lo fa per proteggere le garanzie e gli interessi degli altri e mai i propri e – quindi –  rinunciando a guadagni per protestare, per esempio, contro la soppressione dell’istituto della prescrizione voluta da quel raffinato giurista di Alfonso Bonafede ed acclamata dai Davigo d’Italia che rendeva i cittadini imputati per sempre, contro l’inasprimento assurdo delle pene per certi reati, contro l’idea di carcere come unica risposta per garantire la sicurezza che ha avuto come unico risultato l’aumento del numero degli ergastoli inflitti ma non è diminuito quello degli omicidi.

    Avvocati che, se non rispettano un termine processuale, nella maggior parte dei casi non c’è rimedio, la responsabilità è loro e pagano… se, invece, un giudice fissa in 90 giorni il termine per il deposito di una sentenza e la deposita dopo sei mesi, pazienza.

    Avvocati che, se per qualche motivo depositano una querela dopo tre mesi e un giorno dal fatto, la responsabilità è loro e pagano… se il P.M. – che dovrebbe concludere le indagini entro sei mesi – si fa vivo dopo tre anni e nel frattempo l’indagato non ne sa nulla, pazienza.

    Avvocati che, se per ragioni imprevedibili, arrivano in ritardo in udienza, il giudice chiama il processo, nomina un difensore immediatamente reperibile che non conosce gli atti e lo fa discutere, la responsabilità è dell’avvocato e paga. Se il P.M. tarda, lo aspettiamo. Se il giudice tarda, lo aspettiamo. Pazienza, due volte.

    Avvocati che, se sono malati possono chiedere un rinvio per legittimo impedimento, ma il giudice può decidere che non sono abbastanza malati e allora il processo si fa lo stesso, con o senza il difensore di fiducia e lo stesso giudice può anche decidere che per l’avvocato partecipare al funerale del proprio padre non sia una ragione valida di rinvio e che non lo sia neppure assistere un figlio in tenera età che deve subire un intervento chirurgico, perché poteva andarci l’altro genitore. E sì, è successo davvero ma la pazienza si va esaurendo.

    Avvocati che, se il giudice è in maternità da tre mesi ma nessuno ha avvisato – basta una mail – che ci sarebbe stato un rinvio, si sono spostati magari da Cagliari a Monza per fare il loro dovere e pazienza ancora una volta. E’ successo anche questo e anche di peggio.

    Avvocati che, se dimenticano di citare un testimone, la responsabilità è loro e pagano…se la Procura sbaglia cinque volte una notifica all’imputato o il tribunale non fa tradurre l’imputato in udienza, si rinvia e pazienza.

    E, ovviamente, se il reato si prescrive è colpa dell’avvocato che maliziosamente usa astuti cavilli per farla fare franca al suo assistito.

    Avvocati che se commettono un errore nella gestione del processo, la responsabilità è loro e pagano. Se un giudice tiene in carcere per anni un poveraccio che poi risulta innocente, pazienza e… pagate voi.
    Ed, a proposito di proteste, quest’anno abbiano anche assistito alla pantomima dello sciopero dell’A.N.M.: hanno scioperato, senza perdere un centesimo, contro una riforma durante il suo iter parlamentare, quindi contro un Potere dello Stato, per difendere privilegi di casta e rendite di posizione e per dimostrare che loro sono al di sopra di tutto, persino del potere legislativo a cui hanno dichiarato guerra solo perché non si allinea ai loro desiderata.

    Hanno detto, però, che era per difendere l’indipendenza della magistratura, la Costituzione e i cittadini, e invece hanno fatto solo i propri interessi, come sempre, e come sempre faranno a meno che qualcuno non gli faccia capire che loro non sono la legge ma sono al servizio della legge e la legge la fa il Parlamento che rappresenta i cittadini.

    Lo fanno e lo faranno gli avvocati, anche loro posseggono la Costituzione, l’hanno letta e studiata comprensiva degli articoli sul diritto di difesa, la presunzione di innocenza ed il giusto processo…Molti magistrati sembra di no: pazienza: così si spiega perché nella cosiddetta Patria del diritto è talvolta buio fitto.

  • In attesa di Giustizia: in nome del popolo italiano

    C’era una volta un giudice civile del Tribunale di Salerno che – forse mosso ad umana pietà dalla crisi economica che affligge chi non ha la fortuna di un impiego pubblico lautamente pagato – nominava commercialisti suoi amici come consulenti tecnici in materie che non c’entravano nulla con il loro settore: ingegneria, chimica, architettura, smaltimento di rifiuti e scarichi, gestione e manutenzione di impianti…e liquidava loro compensi molto generosi, fino a 230.000 euro. Per questo e altri motivi Corrado D’Ambrosio è stato rimosso dall’ordine giudiziario dalla Sezione Disciplinare del C.S.M. che lo ha giudicato responsabile di una lunghissima serie di illeciti deontologici.

    Giustizia, dunque è fatta? Insomma…  non del tutto perché la decisione – arrivata a 15 anni dai fatti –  non è definitiva e D’Ambrosio continua a restare al suo posto: il processo disciplinare, infatti, fu sospeso obbligatoriamente nel 2010 in attesa dell’esito di quello penale, in cui il giudice è stato assolto in Tribunale da accuse di corruzione ed ha evitato il carcere per altri reati che gli erano stati attribuiti poiché si erano prescritti nel tempo intercorrente tra Primo Grado di Giudizio ed Appello: del resto che motivo c’era di accelerare la celebrazione delle udienze proprio contro un collega? Così, almeno, con i ruoli della magistratura perennemente sotto organico, D’Ambrosio ha potuto continuare a fare il magistrato pronunciando sentenze in nome del Popolo Italiano e pontificando in pubblico su temi della giustizia rilasciando interviste senza nascondere, per esempio, il suo personale favore rivolto ai referendum della Lega e del Partito radicale sulla separazione delle carriere: “il ruolo della pubblica accusa è assolutamente sproporzionato rispetto alle esigenze del sistema. Il P.M. è diventato un potere irresponsabile, ed è pericoloso per la democrazia”, diceva.

    Nei capi d’incolpazione redatti dalla Procura generale della Cassazione – che è l’organo d’accusa nel processo disciplinare – si legge che “con grave inosservanza dei doveri di correttezza e diligenza e agendo con negligenza grave e inescusabile, nominava, nelle cause da lui trattate, consulenti privi del profilo professionale e della competenza compatibili con i quesiti posti”, cioè, come si è detto, i commercialisti suoi amici. A causa della loro inadeguatezza, però, la consulenza “vera” era affidata ad ausiliari, nominati nello stesso momento o in un momento successivo: a loro veniva liquidato autonomamente l’onorario (facendolo rientrare nelle spese vive del consulente) ed in taluni casi senza neppure l’applicazione dei criteri di legge bensì a forfait. Ad esempio, nella causa nr. 1508/2010 D’Ambrosio nominava consulente tecnico d’ufficio il dottor Vittorio Marone, commercialista, per un incarico di natura ingegneristica-architettonica, liquidandogli un compenso finale pari a 130.000 euro non senza averlo autorizzato “ad avvalersi di un ausiliario con competenza specifica, l’ingegnere Luigi Iaquinta” al quale, pure, veniva liquidato un compenso nella misura di 65.569,56 euro.

    Sempre Marone veniva nominato, nella causa nr. 34809/2010, “per un incarico relativo alla valutazione sul corretto adempimento di contratto in materia di gestione e manutenzione di impianti, autorizzandolo ad avvalersi dell’ausiliario ingegner Luigi Panico: a quest’ultimo venivano liquidati 73.663 euro ed al commercialista 230.589,74.

    Il giudice radiato, a tacer del resto ha illegittimamente ed ingiustamente aggravato le spese del processo – che nel giudizio civile sono poste a carico delle parti – che avrebbero ledendone gravemente i diritti patrimoniali. Il tutto in nome del Popolo Italiano.

  • In attesa di Giustizia: procure della repubblica delle banane

    Tornano alla ribalta con nuove e mirabolanti intraprese due protagonisti assoluti di questa rubrica: i P.M. De Pasquale e Colace. La prima di queste vicende ruota attorno ad uno stralcio del procedimento Eni- Nigeria, cioè una tranche dell’indagine principale che per varie ragioni è pervenuta a giudizio separatamente ed è a carico di un uomo d’affari nigeriano,  Aliyu Alhaji Abubakar, ancora sotto accusa a Milano per i medesimi fatti già definiti con due sentenze irrevocabili di assoluzione nei confronti di tutti gli altri coimputati. A sostenere l’accusa si è rimaterializzato il P.M. Fabio De Pasquale nonostante la sua condanna in primo grado per omissione di atti d’ufficio nel troncone principale del processo e la retrocessione da procuratore aggiunto a semplice sostituto, confermata dal T.A.R..

    Siamo all’assurdo: all’udienza del 9 ottobre 2024, appena un giorno dopo la condanna di De Pasquale a Brescia che i lettori ricorderanno perché ne abbiamo trattato, a rappresentare la pubblica accusa si è presentato un altro magistrato, anticipando che il fascicolo – come opportunità avrebbe imposto – doveva essere  riassegnato a un nuovo pubblico ministero: il colpo di scena è arrivato l’11 aprile scorso, quando, in occasione dell’udienza fissata per le conclusioni, si è presentato in aula proprio De Pasquale che, di fronte alle obiezioni dei difensori ha chiarito che non c’era nessuna necessità di riassegnare il fascicolo, in quanto già affidato a lui…che, ha chiesto in questa occasione una condanna a cinque anni di carcere in base alle medesime prove che il Tribunale di Brescia ha ritenuto (con sentenza appellata, va detto) che siano state taroccate a discapito degli imputati nel troncone principale.

    Gli avvocati di Abubakar sono insorti ed hanno presentato un esposto al ministro della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura ed ai vertici giudiziari milanesi, denunciando quanto accaduto osservando che neppure nel “nuovo” procedimento, a distanza di tempo e nonostante quanto poi verificatosi, De Pasquale ha mai depositato quegli atti favorevoli alle difese furbescamente nascosti: comportamento per il quale – a tacer della condanna penale – il C.S.M., bocciando la sua conferma a procuratore aggiunto, ha definito la condotta oggettivamente connotata da patente gravità. Comunque vada a finire, quel che resta è la considerazione che taluni hanno veramente la faccia come un’area anatomica nota per essere deputata alle deiezioni.

    Come Colace, recentemente sanzionato dal C.S.M. per una raffica di intercettazioni illegali e campione assoluto, quantomeno del Nord Ovest d’Italia, di flop giudiziari che – per il momento – resta al suo posto perché la decisione disciplinare è stata impugnata. L’uomo ha inventato una nuova modalità di argomentare la requisitoria finale in un procedimento concluso pochi giorni addietro avanti il Tribunale di Torino ed ha così singolarmente intonato le roboanti conclusioni di quello che potrebbe essere il suo canto del cigno: “Chiedo la condanna di tutti gli imputati anche se so che il Tribunale non potrà che assolvere”, così come è avvenuto.

    Per fermarsi alle ultime, dopo Bigliettopoli (imputati assolti) e Concorsopoli (imputati prosciolti in udienza preliminare) è, infatti, crollata anche questa inchiesta, denominata Sanitopoli, con quattro assoluzioni su cinque imputati: i primi accusati, in un’indagine avviata sette anni fa, di corruzione e turbativa d’asta per un appalto da 56 milioni dell’ASL TO3  ed, alla fine, è stata inflitta soltanto la pena a nove mesi di reclusione ad un finanziere per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Benvenuti nelle Procure della Repubblica delle Banane.

  • In attesa di Giustizia: femminismo punitivo

    Ad metalla, ad bestias!  L’ergastolo non basta: si è scatenata la querelle mediatica con un attacco frontale alla motivazione della sentenza di condanna di Filippo Turetta per l’omicidio della fidanzata, alimentata da indignati in servizio permanente effettivo che fomentano furori di piazza fuori luogo semplificando il senso di una decisione, attaccando giudicanti ed avvocati (per non farsi mancare mai nulla) nella più totale ignoranza del diritto.

    Lo scandalo, denunciato con informazione spazzatura, non è altro che l’applicazione di giurisprudenza stabilizzata e costante della Cassazione in tema di aggravante della crudeltà nel reato di omicidio. Cerchiamo di fare chiarezza partendo dal presupposto che ogni omicidio è espressione di una forma di crudeltà ma la “crudeltà” che era stata in origine contestata a Turetta è qualcosa di differente, è una circostanza aggravante del reato…e qui non guasterebbe anche una dignitosa conoscenza del latino – ma sarebbe pretendere troppo –  per meglio comprendere il significato di “circostanza”: qualcosa che sta intorno e che in diritto penale caratterizza una particolarità, negativa o positiva (sì: esistono anche le circostanze attenuanti per chi non lo sapesse) dell’azione nel commettere un reato. Dunque nel caso Turetta come in altri, qualcosa in più rispetto alla mera azione omicidiaria della quale deve essere valutata la modalità complessiva e l’intenzionalità soggettiva di infliggere un tormento aggiuntivo al dolore già generato dalla inflizione dei colpi.

    Questo qualcosa in più (quid pluris, per gli addetti ai lavori…) non sta, dunque, necessariamente nel mezzo usato o nel numero di ferite inferte per uccidere ma nella provocazione voluta di una sofferenza: si pensi, per esempio, all’incaprettamento tipico di esecuzioni mafiose o qualsiasi lesione letale che però, volutamente, cagioni la morte solo a seguito di una lenta e tormentata agonia.

    Femminismo punitivo, è questo che si vuole: inutile e fuori dalle regole? E’ comprensibile l’orrore provocato da taluni fatti di sangue non lo è lo stimolo a voler allontanare da noi un soggetto deviante dipingendolo a tutti i costi come un mostro che non solo uccide ma lo fa con crudeltà; certamente così  è più facile perché è anche un facile modo per autoassolverci in quanto si tratta di un ragazzo come tanti, ahimè cresciuto in una società che non ha saputo educarlo a gestire le proprie emozioni e ad accettare un rifiuto, un ragazzo che sicuramente non ha mai tenuto un coltello in mano e che in quel contesto ha agito in modo confuso e violento. Ma la crudeltà è un’altra cosa.

    Il terreno del dibattito è delicatissimo e scivoloso, in parte costruito e sorretto dalle emozioni ma prima di insultare e strepitare occorrerebbero almeno una decina di anni di studi giuridici, possibilmente non conseguendo il titolo abilitativo su Facebook o Chat CPT che consentono unicamente di iscriversi all’Albo degli Imbecilli, istruiti si fa per dire, da docenti poco meno che analfabeti: quelli che parlano di “reato penale”, per intenderci.

Pulsante per tornare all'inizio