Ambiente

  • Cambiamenti climatici: il 2022 è stato il secondo anno con più incendi boschivi

    Dalla nuova relazione sugli incendi boschivi in Europa, Medio Oriente e Nord Africa 2022 pubblicata dal Centro comune di ricerca della Commissione, emerge che nel 2022 sono bruciati nell’UE quasi 900 000 ettari di terreni, corrispondenti approssimativamente alle dimensioni della Corsica. Secondo il sistema europeo d’informazione sugli incendi boschivi (EFFIS), il 2022 è il secondo anno peggiore dal 2000, preceduto solo dal 2017 con 1,3 milioni di ettari bruciati. La pubblicazione della relazione avviene nel contesto della presentazione odierna da parte della Commissione di una legge sul monitoraggio delle foreste che colmerà le lacune esistenti nelle informazioni sulle foreste europee e creerà una base di conoscenze sulle foreste.Per il terzo anno consecutivo, incendi boschivi senza precedenti hanno causato notevoli danni ambientali ed economici nell’UE e una tragica perdita di vite umane. Sebbene siano per lo più (96%) causati dall’azione umana, gli incendi sono aggravati dall’aumento dei rischi legati ai cambiamenti climatici. Gli incendi hanno colpito anche i siti Natura 2000, il serbatoio di biodiversità dell’UE, che rappresentano circa il 43% della superficie totale bruciata (circa 365 000 ettari su 900 000). Il numero totale di terreni bruciati nelle zone protette Natura 2000 nel 2022 è stato il più elevato degli ultimi dieci anni.

  • La Namibia è ormai quasi priva di acqua

    In Namibia si ricicla l’acqua usata per lavarsi per annaffiare le piante, perché pochi Paesi più di quello a Nord-ovest del Sud Africa soffrono maggiormente la siccità, grande quasi il triplo dell’Italia, abitato da una popolazione di 2,7 milioni di abitanti (è la seconda nazione al mondo per densità, dopo la Mongolia). Non c’è (ancora, forse), la Namibia vede un costante aumento della temperatura: da qui al 2040 il termometro salirà in media di 2,7° e le piogge già scarse, invece, diminuiranno ancora del 7%, con periodi di siccità sempre più frequenti e, di contro, sempre più inondazioni man mano che cambiano i modelli delle precipitazioni.

    La grande siccità del 2018-2019 ha provocato un crollo dei due terzi della produzione agricola e alla strage di 60mila bovini (di cui la Namibia è fra i primi allevatori del Continente e che conta per il 70% del settore agroalimentare interno) mentre l’impennata dei prezzi lasciava un terzo della popolazione senza alimentazione.

    Come riporta il Corsera, Thinus Pretorius, presidente dell’Organizzazione dei produttori di bestiame, non ci gira intorno: «La situazione è disastrosa, anche se ora pioverà un altro po’, la stagione è finita. Alcune zone non si sono neppure accorti che c’è stata». «Gli effetti del cambiamento climatico qui sono evidenti», aggiunge Erastus Ngaruka, consigliere tecnico dell’Agricultural Bank of Namibia. «Le piogge sono ormai diventate irregolari, e gli eventi associati – come le epidemie di malattie e parassiti o le inondazioni – sempre più comuni. Ogni stagione può presentare condizioni diversamente negative sulla produzione agricola, e gli allevatori devono imparare dall’esperienza per garantire che i loro animali sopravvivano fino all’anno successivo».

    La siccità colpisce anche i parchi nazionali, come l’Etosha (è grande come la Svizzera) e chi vive del turismo che la natura genera – una voce importante dell’economia locale – è preoccupato. A Solitaire, un paesino vicino al Parco del Namib, su una lavagnetta vicino alla pompa di benzina, il titolare della stazione di servizio ha scritto con il gessetto le precipitazioni in millimetri dal 2009: 160 un paio di stagioni fa, 45 quella successiva, 206 nell’ultima. Il ministro dell’Ambiente Pohamba Shifeta ha anche fatto i conti della serva: «Da qui al 2030 per combattere la crisi climatica, a cui siamo i più vulnerabili, servono 15 miliardi di euro». Non pochi, per il 90% arriverebbero dall’estero. Ma l’elenco delle 36 priorità – Shifeta ha rivendicato interventi dal 1992 – è già pronto.

  • Una app per scoprire quanto si può risparmiare sulla bolletta installando pannelli fotovoltaici a casa

    Dal 1990 ad oggi le attività economiche sono cresciute del 60% mentre le emissioni inquinanti sono calate del 30% e quindi gli scenari disastrosi sulle sorti del pianeta si sono già fatti meno probabili. A dirlo sono i ricercatori del JPR di Ispra, uno dei sei centri di ricerca dell’Unione europea che fanno capo direttamente alla Commissione europea e che forniscono all’esecutivo dell’Ue l’expertise tecnico-scientifica (non solo in tema ambientale) sulla base della quale vengono implementate le politiche comunitarie ed emanati regolamenti e direttive perché gli Stati vi diano seguito.

    L’obiettivo della neutralità climatica che la Ue si è posta per il 2050 resta però, a detta degli stessi ricercatori, estremamente ambizioso (e infatti la Cina l’ha fissato per il 2060 e l’India per il 2070), perché le misure per conseguirlo devono fare i conti con la realtà delle cose. Le emissioni legate alla produzione industriali hanno subito un deciso calo in seguito alla crisi economico-finanziaria del 2008, ma la maggior aleatorietà delle prospettive che il comparto produttivo vive da allora disincentiva chiaramente investimenti in maggior efficienza energetiche delle apparecchiature produttive, mentre il trasporto pubblico paga il suo stesso successo come alternativa meno inquinante per la mobilità: la maggior efficienza dei consumi conseguita è stata infatti tutta consumata dall’incremento della domanda di trasporto collettivo, Come dire che le singole corse consumano meno energia e dunque comportano meno emissioni, ma poiché le corse stesse sono aumentate per far fronte alla maggior richiesta il risultato finale in termini di impatto sull’ambiente non è sostanzialmente mutato.

    Discorso analogo vale anche per le abitazioni: la maggior efficienza dei consumi energetici per riscaldare ed illuminare gli spazi abitati (siano case piuttosto che uffici) è aumentata, ma nel contempo sono aumentati anche gli immobili. Diversamente che nel caso dei trasporti, però, per gli immobili l’incremento dei volumi abitati non ha ancora assorbito completamente le migliorie sul fronte dei consumi energetici e dunque il saldo è positivo: a fronte di un maggior numero di case e uffici, oggi, il loro impatto ambientale complessivo è inferiore a quanto si registrava in passato.

    Aiutano, su questo fronte, le migliorie dei pannelli fotovoltaici: più potenti e meno costosi man mano che la tecnologia progredisce, oggi sono venduti dai produttori con una garanzia di funzionamento di 30 anni e anche dopo 30 anni sono di norma in grado di avere un’efficienza pari all’80% di quella di un pannello appena uscito dalla fabbrica.

    Il Joint Research Center ha peraltro messo a punto un’applicazione, PVGIS (la si trova all’indirizzo web https://joint-research-centre.ec.europa.eu/photovoltaic-geographical-information-system-pvgis_it o semplicemente facendo una ricerca su Google digitando PVGIS) che consente di verificare quale è l’esposizione al sole di ogni singolo immobile, in base a dove esso si trova, e calcolare di conseguenza quanta energia si possa ricavare tramite l’installazione di pannelli fotovoltaici. Il calcolo tiene conto della radiazione solare, della temperatura, della velocità del vento, e del tipo di impianto fotovoltaico usato; l’utente può inoltre scegliere come sono montati i moduli (su un telaio a terra oppure integrati nella superficie di un edificio) e PVGIS può anche calcolare l’angolo e l’orientamento ottimale con le quali l’energia prodotta è il massimo su base annuale.

  • La Commissione accoglie con favore l’accordo politico sul rafforzamento del controllo sulle esportazioni di rifiuti

    La Commissione accoglie con favore l’accordo politico raggiunto tra il Parlamento europeo e il Consiglio sulle spedizioni di rifiuti, che garantirà che l’UE si assuma una maggiore responsabilità dei rifiuti che produce e non esporti le proprie sfide ambientali in paesi terzi. Le norme agevoleranno inoltre l’uso dei rifiuti come risorsa. L’accordo contribuisce all’obiettivo del Green Deal europeo di ridurre l’inquinamento e promuovere l’economia circolare.

    Sarà vietata l’esportazione di rifiuti di plastica dall’UE verso paesi non appartenenti all’OCSE. Solo se sono soddisfatte rigorose condizioni ambientali, i singoli paesi potranno ricevere tali rifiuti cinque anni dopo l’entrata in vigore delle nuove norme. Alla luce dei problemi globali legati all’aumento della quantità di rifiuti di plastica e alle sfide per una loro gestione sostenibile, con questa misura i legislatori dell’UE mirano a prevenire nei paesi terzi il degrado ambientale e l’inquinamento causati dai rifiuti di plastica prodotti nell’UE.

    Altri rifiuti idonei al riciclaggio saranno esportati dall’UE in paesi non appartenenti all’OCSE solo se questi ultimi garantiranno di poterli smaltire in modo sostenibile. Al tempo stesso, grazie a moderne procedure digitalizzate,sarà più facile spedire rifiuti destinati al riciclaggio all’interno dell’UE. Saranno inoltre rafforzate l’applicazione delle norme e la cooperazione nella lotta contro il traffico di rifiuti.

  • La Befana europea scrive al Sindaco di Bologna

    Riceviamo e pubblichiamo una lettera della Signora Adriana Palleni

    Caro Sindaco Matteo Lepore,

    ieri, uscendo dalla libreria Feltrinelli in piazza Ravegnana, sotto le due torri ho notato che non c’è più l’ultima panchina rimasta dove mi sedevo per recitare la filastrocca della befana europea…Cosi sparisce l’ultima panchina rimasta e certamente sarà per motivi di sicurezza ora, per le altre panchine da qualche anno sono sparite. Ma questa era speciale, ho fatto una piccola magia ……Ora  tutto è incerto ancora circolano dal lato destro quegli orribili enormi pesanti bus che fanno vibrare tutta strada maggiore, abitazioni comprese, e le timide colonnine della Basilica dei Servi inguainate da orribili fermagli di acciaio per potersi reggere…La befana EU è ecologista e chiede stop al traffico nel centro storico medievale, chiede di ridisegnare la città anche con la presenza dei suoi abitanti e cittadini per avere un futuro dove i bambini e gli anziani e, perchè no, anche tutte le fasce di età possano viverci in serenità con meno polveri sottili da respirare e meno inquinamento acustico per godere della bellezza dell’arte passata e il futuro sereno e di pace…Questa è la bellissima città in cui vorrei abitare e vivere ….

    Ciao la befana EU Adriana Palleni

    La nostra è una piccola associazione in difesa dell’ambiente e tutela della salute e desidera partecipare alle future scelte che ridisegnano il centro storico

    Associazione comitato cittadini indipendenti città del tricolore via Broccaindosso 2– 40125 Bologna Italia EU info+39.051.226251

  • Il dilemma africano tra fossili e rinnovabili

    L’Africa paradiso mondiale delle energie rinnovabili, che attraverso i “crediti di carbonio” si fa finanziare i suoi progetti green dai paesi più ricchi. Oppure l’Africa nuova frontiera delle fonti fossili, petrolio e gas, sempre più ricercate da un mondo in crisi energetica. Quindi, puntare sulle rinnovabili o sulle fossili per sostenere lo sviluppo del continente? E’ questo il dilemma intorno al quale ruota il primo Africa Climate Summit, che si è aperto a Nairobi. Un vertice sul clima al quale partecipano gli stati africani, ma anche leader dei Paesi ricchi che nel continente possono e vogliono investire.

    Al summit di Nairobi va in scena lo scontro fra i Paesi che non hanno grossi giacimenti di idrocarburi, e quindi puntano sulle rinnovabili, come Kenya, Sudafrica, Egitto ed Etiopia, e quelli che invece hanno ricche riserve di gas e petrolio, e vogliono sfruttarle per sostenere il loro sviluppo, come Nigeria, Senegal, Angola e Mozambico. I primi vogliono sviluppare in Africa il mercato dei Carbon Credit, cioè il finanziamento di progetti green nel continente per compensare le emissioni dei paesi ricchi, e vogliono imporre una carbon tax a livello globale, per sostenere la finanza verde. Gli stati africani ricchi di oil&gas invece non vogliono perdere questa bonanza, e chiedono vincoli meno stringenti sulle emissioni e nessuna carbon tax.

    I Paesi africani producono solo il 4% della CO2 mondiale, ma sono i più colpiti dagli effetti del riscaldamento globale, cioè desertificazione ed eventi climatici estremi. Fenomeni che in quei paesi provocano morte, miseria, guerre, e migrazioni. L’Africa, continente assolato e ricco di foreste, ha enormi potenziali per lo sviluppo delle fonti rinnovabili, che potrebbero dare energia a buon mercato e milioni di posti di lavoro ai suoi abitanti. Alla Cop27 di Sharm el-Sheikh dell’anno scorso, Paesi africani e istituzioni finanziarie hanno lanciato la Africa Carbon Markets Initiative: un’alleanza per arrivare nel 2030 all’emissione nel continente di 300 milioni di crediti di carbonio all’anno, per generare 6 miliardi di dollari di reddito annui. Ma al tempo stesso, molti Paesi africani galleggiano su gas e petrolio, ricercatissimi dai paesi ricchi, e ancora più da quelli emergenti. Fonti fossili che peggiorano l’effetto serra, ma che generano ricchezza immediata. Una ricchezza che permette di far uscire dalla miseria larghi strati della popolazione africana, e quindi generare consenso politico ai governanti.

  • Alert di A2a: per l’emergenza idrica servono 48 miliardi in 10 anni

    All’Italia serve un pacchetto d’investimenti da 48 miliardi in dieci anni per superare l’emergenza idrica, recuperare acqua per le esigenze di famiglie, agricoltura, industria e idroelettrico. “Il 2022 è stato un anno orribile, con la minore quantità d’acqua degli ultimi 60 anni. Ed è un trend che continua”. A lanciare l’allarme è l’amministratore delegato di A2a, Renato Mazzoncini, alla luce dei dati che emergono da uno studio realizzato con The European House-Ambrosetti e presentato durante il Forum di Cernobbio.

    La siccità record del 2022 ha ridotto la disponibilità di risorsa idrica naturale di 36 miliardi di metri cubi (-31% sul 2021), un volume comparabile a 60 volte il Lago Trasimeno. Di questi, 7,1 miliardi di metri cubi sono di acqua consumabile (-34%), pari al consumo di 14 milioni di cittadini. La siccità ha inoltre ridotto la produzione idroelettrica a un valore che non si vedeva dal 1954 (30,3 TWh rispetto alla media del decennio 2012-2021 di 48,4 TWh), ma con una potenza installata di 3 volte inferiore a quella attuale.

    I dati mostrano che siamo “vicini a un punto di non ritorno” per una risorsa che contribuisce al 18% del Pil Italiano, pari a 320 miliardi di euro l’anno, e senza la quale “non c’è futuro”. Ma in futuro, avverte Mazzoncini, “avremo sempre meno acqua” perché  “i cambiamenti climatici, gli sprechi e una gestione poco oculata hanno messo a rischio questa risorsa, come denunciato anche dall’Onu”. E se il 2022 ha visto picchi di anomalie termiche e una crescita della frequenza di eventi estremi, dalle piogge intense agli allagamenti, nella prima metà del 2023 gli eventi idrici estremi sono più che raddoppiati.

    In questo scenario, è necessaria “un’azione congiunta tra istituzioni, industria e cittadini” mettendo in campo investimenti sia sul ciclo idrico che sull’idroelettrico. In particolare, bisogna destinare risorse alle infrastrutture, agli acquedotti, per ridurre le perdite di acqua nella distribuzione, visto che oggi “l’Italia è il quarto paese europeo per perdite idriche: il 41,2% contro una media del 25%”, spiega il ceo, sottolineando che “dobbiamo scendere a una quota intorno al 20%”. Questo è possibile e, dal canto suo, A2a investirà quel che serve per salvaguardare questa risorsa. “Abbiamo un piano al 2030 che prevede 16 miliardi di investimenti, che non potranno essere tutti sull’acqua, ma penso che potremo investire 1 miliardo sull’idroelettrico e uno o anche di più sull’idrico”, assicura il numero dell’utility lombarda.

  • Entro il 2050 a rischio la metà dei terreni coltivati a caffè

    Una delle caratteristiche del caffè è che cresce solo nella cosiddetta fascia tropicale, soggetta a piovosità media e a specifiche temperature. Al variare di queste condizioni la produzione soffre. Con le temperature genericamente più calde, alcune coltivazioni vengono trasferite a quote più alte dove si possono trovare le condizioni originarie. E secondo uno studio condotto nel 2015 dalla Columbia University, entro il 2050 fino al 50% delle terre attualmente coltivabili a caffè non saranno più utilizzabili.

    Oggi oltre l’80% delle emissioni di carbonio nella catena di valore del caffè provengono dall’agricoltura, e non c’è letteralmente più spazio per aumentare i suoli coltivati: già la metà dei terreni abitabili sono utilizzati in agricoltura e non si può disboscare più. Dal canto suo, il caffè è confinato in una piccola area globale: 2 milioni di ettari. Dunque, per Andrea Illy, industriale del caffè, occorre «migliorare le pratiche agronomiche rigenerative» e «aumentare la biodiversità, creando cultivar particolarmente resistenti ai cambiamenti climatici, dalle alluvioni al caldo eccessivo». Da tempo impegnato nel promuovere la sostenibilità, Illy divide la poltrona di presidente della Regenerative Society Foundation con Jeffrey Sachs, e non si stanca di ripetere che «parte della soluzione è l’agricoltura rigenerativa: arricchire il suolo di carbonio organico nutre il microbiota del suolo, migliorando la capacità di fissare i minerali, produrre difese naturali e trattenere l’acqua». Ma questo significa investire nella ricerca, avere un approccio di risk management per mobilitare la finanza internazionale, una collaborazione pubblico-privata e trasparenza nell’utilizzo dei big data per valutare i rischi.

    Senza voler essere allarmisti, oggi uno studio di Edoardo Puglisi dell’Università Cattolica di Piacenza, ha dimostrato che le micro e nanoplastiche che si depositano sui terreni agricoli potrebbero ridurre la fertilità di questi. La loro presenza, infatti, influenza l’azione dei microrganismi che aiutano le piante ad assorbire i nutrienti fondamentali. «Come plastiche abbiamo studiato il polietilene e due bioplastiche, polibutirrato e bioplastiche a base di amido», specifica lo scienziato, sottolineando che si tratti di materiali che erroneamente i consumatori disperdono nell’ambiente ingannati dal fatto che sono compostabili.

  • Una domanda al Sindaco Sala

    Come si può conciliare l’idea di una Milano sempre più verde, a dimensione umana, fruibile sia da chi ci lavora, ci vive come da chi la frequenta per turismo con i gravissimi ritardi che anche la sua amministrazione, al secondo mandato, non è riuscita a risolvere mentre ad ogni pioggia il Lambro ed il Seveso esondano procurando danni economici immensi ed innumerevoli disagi?

    Forse prima delle piste ciclabili, che non hanno risolto il traffico e spesso lo hanno reso più difficoltoso per tutti, ciclisti compresi, non sarebbe stato necessario pensare a come impedire che metà città rimanesse periodicamente sotto l’acqua e il fango?

    Prima di rifare, per altro malamente, piazzale Lavater, giusto per fare un esempio tra i tanti, non sarebbe stato più saggio, pensando agli abitanti di Milano, occuparsi di realizzare subito le vasche necessarie al contenimento delle acque e tutto quanto, fin dal 1976, si sapeva che serviva per evitare i periodici allagamenti?

    Certo vi sono responsabilità anche delle amministrazioni precedenti ma più errori non fanno una ragione e se altri, che comunque non avevano sposato l’ideologia verde in modo oltranzista, non si sono mossi questa non è una giustificazione per Lei sindaco Sala.

    Così come non esistono giustificazioni per la mancata manutenzione del verde che ha portato al crollo di molti alberi centenari ed al depauperamento dei pochi giardini della città, a partire da quelli di corso Venezia e dei Bastioni.

    Oggi, e da molti anni, i cittadini che abitano in centro, grazie a Lei, devono pagare per entrare a casa propria con una evidente lesione della proprietà e della libertà individuale e gli abitanti di un’altra parte della città devono pagare per i danni subiti dalle inondazioni che si sarebbero potute evitare.

    Mentre si spendono denari pubblici per opere non di immediata urgenza quelle necessarie, da anni, non sono realizzate, la metà del patrimonio immobiliare pubblico è inutilizzabile in attesa di ristrutturazioni che non sono mai fatte come non è stato mai messo in cantiere un piano di edilizia popolare mentre dagli studenti ai lavoratori di alzano proteste per l’impossibilità di trovare alloggi a prezzi accessibili.

    Signor Sindaco pensa veramente di aver fatto il bene di Milano o non piuttosto di qualche gruppo politico ed economico?

  • Le auto a guida autonoma aumentano l’inquinamento

    Le auto a guida autonoma potrebbero aumentare in misura ingente le emissioni inquinanti e mettere seriamente a rischio l’ambiente nei prossimi anni. L’allarme è stato lanciato dal Massachusetts Institute of Technology, sulla base di uno studio sulle prospettive di diffusione dei veicoli senza pilota. A destare preoccupazione è la crescente potenza di calcolo delle vetture autonome, che comporta di conseguenza un crescente fabbisogno di energia per alimentare i sistemi di bordo. Il rischio, avverte il Mit, è che il consumo di energia schizzerà alle stelle facendo impennare anche le emissioni ad esso legate.

    Ad oggi le case automobilistiche hanno consolidato la guida semi-autonoma, il cosiddetto livello 2, che supporta i guidatori, dal mantenimento della corsia alla frenata automatica di emergenza. Il passo successivo è il livello 3, la guida altamente automatizzata, in cui la vettura può “guidare da sola”  ed effettuare manovre complesse come i sorpassi. In ogni caso, il guidatore umano dev’essere sempre pronto a riprendere il controllo del veicolo, qualora si verificassero circostanze che l’auto non sa affrontare.

    La strada verso la guida completamente autonoma – livelli 4 e 5 – richiederà ancora anni di ricerca e sviluppo, ma la strada appare segnata: le vetture completamente autonome saranno dotate di decine di sensori in grano di assorbire informazioni sull’ambiente esterno, che poi saranno processate per creare una serie di scenari e consentire all’auto di prendere la giusta decisione.

    Più è alto il livello di autonomia, maggiore è la mole di dati necessaria e la potenza necessaria per elaborarli. E, di conseguenza, cresce il fabbisogno di energia. Secondo il MIT, i sistemi di guida di un miliardo di veicoli autonomi (ciascuno guidato per un’ora al giorno con un computer che consuma 840 watt) genererebbe una quantità di emissioni equivalente a quella di tutti i data center attuali del mondo. Che corrisponde all’incirca all’inquinamento prodotto da un Paese come l’Argentina, più o meno lo 0,3% delle emissioni globali.

    Come soluzione il Mit indica il raddoppio ogni anno, fino al 2050, dell’efficienza degli hardware, per tenere i consumi di ogni veicolo autonomo sotto la “soglia critica” di 1,2 kW di energia per l’elaborazione dei dati. Lo scenario appare di difficile realizzazione, ma l’alternativa, concentrarsi sugli algoritmi rendendoli più semplici ed efficienti, potrebbe comportare una minore sicurezza dei veicoli.

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