amministrazione

  • Chi è responsabile del degrado di Milano?

    Apprendiamo con piacere la decisione del comune di provvedere direttamente alla riqualificazione e ristrutturazione della Palazzina Liberty in Largo Marinai d’Italia a Milano.

    Quello che però ci chiediamo e chiediamo all’amministrazione del sindaco Sala, sapendo già che non avremo risposta, è quali giustificazioni dà il Comune di Milano, l’amministrazione, per aver lasciato cadere la Palazzina Liberty in tale spaventoso stato di degrado.

    La palazzina era già stata restaurata anni fa, vi si tenevano incontri culturali e politici, anche dal Consiglio di Zona, per alcuni anni era tornata agli antichi splendori e poi? Chi ha deciso di abbandonarla al degrado?

    Quanto era costata la precedente ristrutturazione?

    Come mai ora il Comune parla di un intervento del valore di circa 5 milioni di euro quando nell’ottobre del 2021 l’allora assessore del sindaco Sala aveva pensato di darla in concessione a privati in cambio di una manutenzione stimata intorno a un milione e duecentomila euro!

    Nell’arco di un anno e mezzo il costo è lievitato portando un aumento di tre milioni e ottocentomila euro?

    Chi è responsabile del degrado se non la stessa amministrazione? Ma a pagare ovviamente saranno i milanesi non certo gli amministratori trasandati e indifferenti.

    L’assessore alla Cultura, Tommaso Sacchi, ha definito la palazzina “un bene culturale così importante e identitario per la nostra comunità”, non osiamo pensare che fine avrebbe fatto la Palazzina Liberty se non fosse stato così, probabilmente l’avrebbero abbattuta disperdendone i pezzi ad uno ad uno.

    Egregio Sindaco, è un po’ di anni che ti occupi di Milano, prima con la Moratti e ora per conto tuo per la seconda legislatura, fare ogni tanto un giro per vedere i monumenti cittadini forse ti aiuterebbe a salvaguardare meglio la città e se provi a fare a piedi qualche marciapiede e strada poi ci dici come li hai trovati tra crepe e rattoppi pericolosi.

  • La percezione della guerra dimostrata dagli enti locali

    Nel mezzo di questi disastrosi tempi di guerra, con le terribili conseguenze umane sociali ed economiche, e dopo due anni di pandemia che hanno  messo in ginocchio buona parte delle attività economiche, le quali con le proprie tasse sostengono la spesa pubblica e quindi anche quella degli enti locali, emergono le ridicole priorità di molti Comuni in assoluto delirio come quello di Venezia che reintroduce, dal primo di aprile, il divieto di circolazione per gli euro 4 o quello della giunta di Milano che estende il divieto agli euro 5 per la zona B dal prossimo ottobre.

    Parallelamente, nel comune di Padova si cerca di avviare il folle allestimento della seconda linea del tram il cui costo calcolato al 2018 risulta essere di 335 milioni dei quali 235 forniti gentilmente del PNRR. Ovviamente ai sostenitori dell’impresa cittadina nella città del Santo sfugge la necessità di un ricalcolo dei costi ai valori attuali, quindi con una stima complessiva approssimativa molto vicina adesso ai 460/480 milioni di euro.

    Questo delirio delle istituzioni comunali, che si manifesta con l’assoluta sordità e distonia dei vertici politici e tecnici degli enti locali come a Venezia, Padova e Milano alle spesso drammatiche realtà economiche cittadine, dimostra come lo scollamento tra il mondo della politica e la vita quotidiana dei cittadini non possa venire più indicato molto semplicemente nella sola lontananza geografica tra i soggetti politici e le complesse realtà cittadine.

    In altre parole, la distanza tra la Roma centralista e le periferie amministrate non viene superata dalla semplice vicinanza geografica tra amministratori degli enti locali ed i propri cittadini. Troppo spesso, infatti, i vertici politici ed amministrativi dimostrano una assoluta incapacità culturale ed umana nella mancata sintonizzazione con il sentiment locale, tanto a livello nazionale quanto, e forse ancor di più, a livello locale.

    La volontà di persistere, anche all’ingresso nel terzo anno della peggiore crisi economica dal dopoguerra ad oggi, con i medesimi progetti di spesa come nell’applicazione dei protocolli restrittivi, ora assolutamente anacronistici, riguardanti la circolazione testimonia una presunzione ideologica senza limiti ed ovviamente impermeabile ad ogni circostanza emergenziale. In più emerge chiaro come sia stato assolutamente illusorio credere che la semplice vicinanza tra cittadini ed enti locali potesse rappresentare la via maestra per assicurare una buona amministrazione.

    Le giunte comunali e i quadri tecnico-amministrativi dei comuni di Venezia, Padova e Milano dimostrano esattamente il contrario e si delineano cristallina espressione di una volontà assolutamente autoreferenziale basata sulla disponibilità di risorse pubbliche destinate al finanziamento di opere lontane dalle priorità attuali dei cittadini così come attraverso le imposizioni di divieti finalizzati alla semplice certificazione della prova di esistenza in vita politica ed amministrativa.

    La crisi della politica, come qualcuno ha erroneamente indicato, non può essere attribuita solo ed esclusivamente alla lontananza tra le priorità di Roma Capitale e quelle dei propri amministrati ma trova una avvilente espressione anche nella insufficiente statura politica in primis dei sindaci e del management degli enti locali, i quali assieme rappresentano la peggiore sintesi politica, ideologica e amministrativa contemporanea.

  • Le riforme ‘anche’ se digitali

    Le riforme di ogni natura, anche se solo digitali, possono venire intese come la risultante di un intervento politico e governativo, utilizzando così risorse finanziarie ed umane, e dovrebbero possedere un importante e comune obiettivo individuabile nella maggiore inclusività offerta come effetto per la stessa popolazione, indipendentemente dal proprio livello culturale, sociale, economico o dall’indirizzo politico.

    In altre parole, la funzione di una riforma, oltre a fornire un maggiore senso di giustizia sociale, politica, economica e fiscale, dovrebbe anche essere rappresentata dall’abbattimento del maggiore numero di barriere tra i soggetti principali di uno Stato democratico mantenendo o magari migliorando l’equilibrio tra gli stessi.

    Anche nel caso della digitalizzazione della pubblica amministrazione l’obiettivo è quello di facilitare l’accesso e quindi il rapporto con i cittadini nella fornitura di un servizio pubblico, vera ragione fondativa della stessa P.A.

    Attraverso un miglioramento parziale oppure una riforma complessiva si dovrebbe confermare, esaltare e migliorare il rapporto democratico ed inclusivo, anche con l’introduzione di una diversa base tecnologica nei rapporti tra i soggetti interessati a seguito della modifica nel senso specifico verso il digitale.

    Le parole del ministro per l’innovazione del governo Draghi, Colao, vanno invece esattamente nella direzione opposta: “ID PAY: identità digitale totale entro il 2026. Tre quarti della popolazione italiana potrà accedere ai ‘propri diritti fondamentali ‘solo’ mediante accesso alla piattaforma digitale ID Pay”.

    All’interno di uno Stato che si definisce democratico un termine come “solo” sarebbe stato sostituito da un altro come “anche” il quale indicherebbe un’ulteriore opportunità offerta, dal 2026, alla complessa utenza di porsi e relazionarsi con la pubblica amministrazione.

    Il termine scelto dal ministro per definire e rafforzare l’impatto della riforma stessa presenta invece, in modo pericoloso, una volontà impositiva preferita ad un’altra maggiormente democratica ed al tempo stesso propositiva, mentre si avverte un declino verso uno Stato sempre più espressione delle proprie ed esclusive priorità fino alla sua assoluta supremazia nei confronti dei cittadini, declino che comincia proprio dal senso con il quale si intendono i nuovi rapporti introdotti con le stesse riforme.

    Il ministro Colao non può di certo venire indicato come l’espressione di una democrazia avanzata che non esclude nessuno ma semplicemente come l’espressione presuntuosa dell’avanzare verso uno Stato sempre più centrale ed etico.

  • Olimpiadi invernali 2026 Cortina d’Ampezzo: avanti piano, praticamente fermi

    Dalla prima e dalla terza pagina del Il Sole 24 Ore di martedì 21 settembre emerge evidente come per le opere infrastrutturali legate alle prossime Olimpiadi di Cortina d’Ampezzo del 2026 il ritardo venga considerato possibile per la variante di Longarone. Questa, però, diventa una certezza per la realizzazione della galleria progettata da via Delle Guide Alpine in considerazione della invasività e difficoltà di realizzazione dell’opera.

    Fino ad ora i responsabili istituzionali e politici e dei vari enti preposti alla realizzazione delle opere legate alle Olimpiadi 2026 avevano assicurato il rispetto delle tempistiche anche con una certa indolenza. La conferma, viceversa, del ritardo ormai conclamato dimostra come questi abbiano finora semplicemente “giocato” in considerazione degli evidenti ritardi accumulati.

    Di fronte ad uno scenario disastroso, come dettagliatamente riportato da Il Sole 24 Ore del 21 settembre, il presidente del Coni assieme a cento persone dello staff nell’ultimo week end (17/19 settembre) ha “giocato” al curling e cenato in quota in Faloria, come se tutto andasse secondo i programmi, per la modica cifra di 70.000 euro a carico della fondazione la quale, non avendo ancora proprie risorse, ha aperto una linea di credito (fonte Il Fatto Quotidiano). Ennesima ed amara dimostrazione di come la complessa gestione della “macchina olimpica ampezzana” sia diventata decisamente un gioco politico-amministrativo romanocentrico assolutamente svincolato dalle complesse realtà montane.

    Questo impietoso scenario di distacco tra la dirigenza e la realtà ampezzana declina, poi, inesorabilmente anche verso il grottesco. Ritornando alla cruda realtà, infatti, a fronte di una situazione diventata problematica e prossimamente imbarazzante l’Anas richiede la nomina di un commissario con l’obbiettivo di velocizzare l’iter burocratico delle opere la cui tempistica preoccupa quanto, se non di più, della stessa loro realizzazione.

    Sembra incredibile come “tali signorotti” si dimostrino sicuri della insindacabilità del proprio operato in quanto viene candidamente omesso il fatto che già ci fosse stato un commissario per la realizzazione degli interventi straordinari in previsione delle Olimpiadi 2026. Il suo nome è Claudio Andrea Gemme ed è, guarda caso, anche l’attuale presidente della stessa “richiedente” Anas (una contraddizione in termini oltre che una mancanza di sensibilità istituzionale). Il presidente dell’Anas si palesa in forma di commissario nella Conca ampezzana ogni due o tre settimane dedicando solo poche ore alla funzione commissariale. Emerge quindi evidente come il proprio apporto relativo alla velocizzazione risulti nullo in considerazione anche dell’ennesimo allarme “ritardi” di questi giorni tanto da chiedere addirittura una ulteriore figura professionale a supporto del presidente dell’Anas presieduta dallo stesso commissario incaricato. La commedia del grottesco così manifesta pur nello splendido teatro della conca.

    La responsabilità, in questo caso, dei mancati traguardi raggiunti e della nomina dell’attuale inutile commissario quanto del ritardo certificato dei lavori straordinari di viabilità va attribuito interamente alla classe politica regionale e statale e alla dirigenza del CONI unito allo staff “manageriale” nominato ad hoc per le Olimpiadi 2026, fondazione in primis.

    Cortina d’Ampezzo merita di meglio di questo disarmante teatrino offerto da simili attori che la riducono ad un parco giochi di interessi lontani e spesso anche persino concorrenti.

  • Il default amministrativo

    Indipendentemente dagli obiettivi politici dichiarati dai diversi governi che si sono alternati alla guida del nostro Paese e che potevano essere addirittura opposti gli uni agli altri a seconda dell’orientamento politico, una caratteristica unisce tutte le cosiddette “riforme” fiscali ed economiche.

    In tutte le strategie governative ha prevalso il principio della “parzialità fino all’esclusività” intese come l’intenzione di salvaguardare una parte od una fascia ed una percentuale di mercato di lavoratori o di industrie: come se le diverse crisi che si sono susseguite nel nostro Paese avessero colpito solo una parte dei contribuenti. Una visione veramente anacronistica se poi queste stesse politiche devono integrarsi in un mercato globale.

    In trent’anni anni le manovre economico finanziarie, magari abbinate a contemporanee riforme fiscali, si sono sovrapposte l’una all’altra ma soprattutto alle normative preesistenti. La semplice somma matematica di queste riforme, con le conseguenti nuove normative, ha creato un materasso legislativo di normative fiscali e, conseguentemente, un sistema di “fruibilità” amministrativa ora impossibile da dipanare.

    Solo per ricordare l’ultima prodezza del governo in carica basti pensare agli sgravi contributivi per le aziende del Sud che di fatto penalizzano tutte le altre imprese allocate nel resto del Paese. Ed ancora, si valuti l’ultima trovata del ministro Gualtieri con il ministro del lavoro Catalfo di assicurare l’azzeramento alla contribuzione per i giovani assunti (a costo dello Stato ed ovviamente a debito).

    Di fatto in questo modo, seguendo il principio della parzialità, nel favorire i giovani si penalizzano i professionisti di media età che hanno raggiunto con decenni di lavoro una professionalità fondamentale per riavviare il ciclo economico del nostro Paese.

    Come logica conseguenza di questa volontà programmatica di non tutelare chi esprime know how professionali acquisiti con anni di lavoro si destina il nostro Paese ad un veloce declino non avendo come primo obiettivo il valorizzare l’apporto culturale e valoriale della professionalità. A questo si aggiunga poi anche la presunzione da parte della stessa classe politica che il sistema amministrativo così com’era stato ideato ed organizzato venisse considerato in grado di sopravvivere nella sua essenza indipendentemente dalle professionalità che in esso operano. In altre parole, il sistema amministrativo gode di una presunta supremazia nella considerazione della propria sopravvivenza rispetto anche a chi in suo nome opera. Questa presunta supremazia del sistema amministrativo rispetto ai propri componenti ha permesso alla stessa classe politica di nominare amici e lacchè di ogni sorta, come questa crisi sta dimostrando, assolutamente inadeguati e con esperienze professionali nel mondo reale praticamente assenti.

    Il fallimento amministrativo reso ormai evidente dalla lontananza assoluta tra le reali esigenze, anche in materia sanitaria, in un periodo emergenziale e le scelte del governo (per esempio relative ai monopattini e ai banchi a rotelle) nasce dalle nomine politiche e clientelari nelle posizioni apicali della pubblica amministrazione. La spesa pubblica stessa diventa un patrimonio politico legato ad obiettivi che vengono assicurati dalla stessa burocrazia di nomina clientelare.

    Si aggiunga, poi, come lo stesso processo della digitalizzazione si sia rivelato semplicemente come il sostanziale trasferimento dell’onere sia digitale che cartaceo all’ utenza. Una giungla normativa, quindi, unita ad un uso specifico dell’intero sistema amministrativo per il conseguimento di obiettivi politici rappresentano il fallimento sostanziale della macchina amministrativa. Da sempre il vero potere in Italia viene rappresentato dalla gestione del credito così come della spesa pubblica che rappresentano una vera e propria diarchia italiana (https://www.ilpattosociale.it/attualita/la-vera-diarchia/).

    La parziale e poco obiettiva gestione della spesa pubblica inoltre ha determinato degli squilibri anche nella macchina amministrativa i cui effetti disastrosi risultano più evidenti in un momento di crisi sanitaria come questa. La responsabilità va attribuita all’intera classe politica che ha gestito la macchina amministrativa come braccio operativo della spesa pubblica per conseguire obiettivi parziali, troppo spesso espressione di interessi particolari e molto lontani da quelli più generali dell’intera popolazione italiana.

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