automotive

  • L’insostenibilità economico-ambientale

    Qualsiasi esito di una strategia si basa sulla valutazione del pieno o parziale raggiungimento dell’obiettivo indicato anche in ragione dei costi sostenuti per il suo conseguimento, il tutto inserito in un contesto temporale.

    Questo principio vale soprattutto nella considerazione di una strategia economica all’interno di una macro area come l’Unione Europea, la quale si confronta con le dinamiche di un mercato sempre più globale.

    Ogni obiettivo strategico la cui valutazione si basi su parametri diversi, determina inevitabilmente l’ingresso di un ipotetico fattore ideologico come termine di riferimento. Ed è esattamente quello che sta accadendo in Europa con il settore Automotive.

    Da anni tanto a livello europeo quanto nazionale l’automobile rappresenta il nemico pubblico espressione anche di un becero individualismo e quindi da combattere non solo per l’inquinamento ma anche sulla base di valutazioni prettamente etiche.

    In questo senso si può interpretare la virata della Commissione europea la quale ha individuato nell’articolato mondo dell’Automotive il primo vero responsabile del cambiamento climatico quando invece questo rappresenta solo l’1% delle già risibili emissioni dell’Unione Europea che rappresentano il 6,7/7 % del totale delle emissioni europee.

    Inoltre questi cambiamenti climatici probabilmente possono ritenersi conseguenza non tanto dell’attuale livello di emissioni quanto di quelle dei decenni precedenti in quanto le automobili hanno ridotto negli ultimi vent’anni di oltre il 92% le proprie emissioni.

    Di conseguenza si considera legittimo ed assolutamente proficuo cercare di ridurre l’1% dell’inquinamento attribuibile all’automobile, un settore che rappresenta il 6,7% della occupazione europea.

    Contemporaneamente si rinuncia, sempre e solo sulla base di parametri ideologici, ad oltre il 7% del PIL e a 396 miliardi di tasse che il settore, nel suo complesso, versa nelle casse delle Nazioni e della stessa Unione Europea.

    Non paghi della apocalisse prossima ventura gli esperti di economia ambientalista sostengono come il supporto fiscale assicurato dal settore Automotive dovrebbe venire caricato alle società petrolifere, un delirio la cui sola idea creerebbe un tracollo finanziario molto simile a quello del ’29 e che non risparmierebbe alcun settore.

    La stessa crisi di Volkswagen, la quale ora si vede costretta a tagliare il 10% del proprio personale a causa degli avventati investimenti nell’auto elettrica come espressione della propria strategia speculativa che aveva adottato il delirio ambientalista della Commissione, ne rappresenta una pericolosa anteprima.

    In altre parole, quando pretendi di combattere l’1% di emissioni di un complessivo 6,7% dell’inquinamento attribuibile all’Europa, sacrificando scientemente il 7% del PIL espressione di un know how frutto di decenni di investimenti industriali e professionali, quando pretendi di lasciare senza lavoro oltre il 6,7% degli occupati assicurati dal settore Automotive e rinunciando a 394 miliardi di tasse, in più utilizzando le risorse fiscali per incentivare automobili made in China prodotte con l’energia assicurata dalle centrali al carbone a fortissimo impatto ambientale, allora è necessario assumersi le responsabilità del proprio delirio di fronte ai lavoratori ed ai cittadini europei.

    (*) https://amp24.ilsole24ore.com/pagina/AE8MlslB

  • L’Unione Europea ormai è una zona franca

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli, economista

    Risulta sempre più imbarazzante la perdita di  di sovranità dell’Unione Europea, e dei Paesi che la compongono, nei confronti delle due macroaree politiche ed economiche rappresentate dagli Stati Uniti e dalla Cina.

    I vertici dell’Unione Europea, attraverso l’adozione di un’ideologia integralista ambientalista, stanno annullando i primati tecnologici europei favorendo in modo suicida quanto invece viene esportato dal sistema industriale cinese per esempio nel settore automotive.

    Attraverso questa operazione l’intero sistema europeo economico, industriale, politico e sociale si trova a passare da una dipendenza nei confronti dei paesi arabi esportatori di petrolio, il cui unico obiettivo è rappresentato dalla ricerca di sempre maggiori risorse finanziarie ad una forma molto più invasiva e complessa di legame  nei confronti della Cina e del suo progetto di ingerenza internazionale.

    Le conseguenze di questa miopie strategia si manifestano attraverso una pesante situazione, ancora incompresa a livello europeo, rappresentata dal fatto che la Cina, attraverso questa progressiva dipendenza tecnologica, intende esercitare una propria influenza politica, strategica e militare nei confronti della stessa Europa.

    Il non comprendere gli effetti di questa riduzione della  sovranità europea può essere espressione solo di una assoluta incompetenza interamente attribuibile agli attuali vertici istituzionale dell’Unione europea. Oppure di un rapporto mercenario espresso attraverso un subdolo traffico d’influenza, molto simile  a quanto successo per il Qatar, instaurato tra gli vertici europei. politici ed  istituzionali, e le nazioni interessate ad operare nel territorio europeo per il proprio unico interesse.

    L’ulteriore prova di questa regressione democratica trova la sua conferma dagli stessi vertici istituzionali del nostro continente i quali non sono neppure in grado di scegliere un esponente europeo da inserire ai vertici dell’Antitrust adottando una rappresentante statunitense.

    Così, dopo aver delegato l’intera strategia militare e di politica estera alla Nato, l’Unione Europea diventa ora la vera zona franca, annullando così ogni propria sovranità politica ed economica e, di conseguenza, anche sociale.

    Una zona franca dove le superpotenze statunitense e cinese possono esprimere la propria ingerenza  neocolonialista potendo contare sulla complicità mercenaria o supinamente  ideologica degli attuali vertici  istituzionali politici e dirigenziali della stessa Unione Europea.

  • BMW implementa la stampa 3D nel settore automotive

    Il primo luglio il BMW Group ha aperto ufficialmente il suo nuovo campus per la produzione additiva (additive manufacturing). Il nuovo centro riunisce la produzione di prototipi e componenti di serie sotto lo stesso tetto, insieme alla ricerca di nuove tecnologie di stampa 3D e alla formazione associata per l’implementazione globale della produzione senza utensili. Il campus, che ha comportato un investimento di 15 milioni di euro, consentirà al BMW Group di sviluppare la sua posizione di leader tecnologico nell’utilizzo della produzione additiva nel settore automobilistico. Parlando alla cerimonia di apertura, Milan Nedeljkovi, Board Member di BMW AG per la Produzione, ha dichiarato: “La produzione additiva è già oggi parte integrante del nostro sistema di produzione mondiale e si è affermata nella nostra strategia di digitalizzazione. In futuro, nuove tecnologie di questo tipo ridurranno ulteriormente i tempi di produzione e ci consentiranno di beneficiare ancora di più del potenziale della produzione senza utensili”. Daniel Schafer, Senior Vice President Production Integration and Pilot Plant del BMW Group, ha aggiunto: “Il nostro obiettivo è industrializzare sempre più metodi di stampa 3D per la produzione automobilistica e implementare nuovi concetti di automazione nella catena di processo. Questo ci consentirà di ottimizzare la produzione di componenti per la produzione in serie e di accelerare lo sviluppo. Allo stesso tempo, stiamo collaborando con lo sviluppo dei veicoli, la produzione di componenti, gli acquisti e la rete di fornitori, nonché con varie altre aree dell’azienda per integrare sistematicamente la tecnologia e utilizzarla in modo efficace”.

    L’anno scorso, il BMW Group ha prodotto circa 300.000 componenti con la produzione additiva. L’Additive Manufacturing Campus attualmente impiega fino a 80 collaboratori e gestisce circa 50 sistemi industriali che lavorano con metalli e materie plastiche. Altri 50 sistemi sono in funzione nei siti di produzione di tutto il mondo. L’accesso alle ultime tecnologie si ottiene attraverso partnership di lunga data con i principali produttori e università e scouting di successo per i nuovi arrivati nel settore. Nel 2016, la BMW i Ventures – il ramo di venture capital del BMW Group – ha investito in Carbon, società con sede nella Silicon Valley la cui tecnologia DLS (Digital Light Synthesis) ha raggiunto una svolta nei processi planari, utilizzando un proiettore di luce planare per consentire la produzione super veloce di componenti. Ulteriori investimenti sono stati fatti nel 2017, quando il BMW Group è stato coinvolto in Desktop Metal, una start-up specializzata nella produzione additiva di componenti metallici e nello sviluppo di procedure di produzione innovative e altamente produttive. La stretta collaborazione con Desktop Metal continua. Nello stesso anno, BMW i Ventures ha investito nella start-up americana Xometry, la piattaforma leader mondiale per la produzione su richiesta. Con la sua vasta rete di aziende manifatturiere specializzate in settori come la stampa 3D, Xometry offre un rapido accesso ai componenti. L’ultimo investimento è stato nella start-up tedesca ELISE, che consente agli ingegneri di produrre DNA componente contenente tutti i requisiti tecnici per la parte, dai requisiti di carico e restrizioni di produzione ai costi e potenziali parametri di ottimizzazione. ELISE utilizza quindi questo DNA, insieme a strumenti di sviluppo consolidati, per generare automaticamente componenti ottimizzati.

  • 1987 Common rail, 2018 Magneti Marelli: le pericolose similitudini

    L’obiettivo di chi gestisce una S.p.A quotata in borsa, semplificando, ovviamente, al netto della questione delle stock options riservate al management, è quello duplice di creare valore da distribuire attraverso la propria quota azionaria ai sottoscrittori del capitale e contemporaneamente riuscire ad aumentare il valore nominale delle azioni stesse accrescendo, in questo modo, il valore  patrimoniale dell’azienda stessa.

    In un mercato complesso, articolato e globale come quello attuale, è evidente come la politica di questa tipologia di  azienda quotata in borsa per assicurarsi dei piani di sviluppo a medio come a lungo termine (quella del breve è più dedicata all’aumento del valore nominale del titolo) debba trovare delle connessioni o, meglio, entrare all’interno di filiere complesse quanto competitive, nel caso produca dei beni intermedi, oppure attraverso la realizzazione di una filiera altrettanto articolata  del proprio prodotto finale. In altre parole, rimane difficile, se non economicamente insostenibile all’interno di un piano di sviluppo, la possibilità di gestire un’azienda senza avere una visione complessiva ed articolata del mercato di riferimento, ovviamente in un orizzonte mondiale nel quale per esempio il concetto di stagionalità viene superato dalla globalizzazione.

    Sono passati solo pochi mesi dalla morte di Sergio Marchionne il quale, attraverso la propria articolata attività e scelte strategiche, era riuscito, anche grazie allo spessore manageriale e credibilità personale, ad ottenere dei fondi statali dal Presidente degli Stati Uniti al fine di acquisire la Chrysler (sull’orlo del fallimento dopo la gestione Mercedes) ed attraverso questa operazione finanziaria inserire la FIAT nel piano di acquisizione salvandola dal tracollo finanziario ed industriale. Successivamente, nel  gennaio 2016, portò la Ferrari alla quotazione in Borsa con il fine  di creare per la holding familiare del valore aggiunto mantenendo il controllo della gestione: la quotazione quindi risultò funzionale alla elaborazione di piani di sviluppo articolati per la sfida dei mercati nel medio e lungo termine.

    Fedele a questa impostazione, che sposava felicemente le dinamiche della finanza e delle sue aspettative di remunerazione finanziaria alle complesse logiche industriali in quello che sarebbe stato  l’ultimo  periodo della propria vita, aveva individuato ancora nella quotazione della Magneti Marelli la strategia vincente per creare nuovo valore per la holding familiare ma senza escluderla dalla gestione delle politiche, soprattutto per l’innovazione tecnologica che sta rivoluzionando il settore dell’automotive come l’intero mondo dell’automobile. La quotazione quindi prevedeva, o perlomeno lasciava immaginare, la possibilità di mantenere, grazie al mantenimento della direzione strategica della Magneti Marelli, il settore dell’automobile come investimento principale della holding familiare.

    Dopo pochi mesi dalla sua scomparsa invece si è scelto di vendere la Magneti Marelli alla  giapponese Calsonic per un controvalore di oltre sei miliardi che verrà distribuito come dividendo straordinario (e forse una quota al mantenimento di un piano industriale nel settore automobilistico) ma che vede la perdita di know how strategico e soprattutto di capacità ed autonomia gestionale.

    La legittima scelta di vendere Magneti Marelli ricorda un po’ quella del brevetto del Common Rail realizzato dal centro studi della Fiat di Bari. Già nel 1986 il gruppo torinese aveva proposto la Croma i.d., che introduceva per prima l’iniezione diretta nel ciclo diesel, il massimo dell’innovazione tecnologica per quei tempi.

    Successivamente, e nella elaborazione di queste tecnologie tra il 1987 ed il 1990, il centro studi della Fiat di Bari creò il sistema common rail che vide una fase di  pre-industrializzazione nel 1990 proprio dalla Magneti Marelli. Questo pacchetto, allora fortemente innovativo, invece di creare valore all’interno di un’ottica di medio e lungo termine venne invece ceduto alla Bosh nel 1994 rendendo la casa tedesca leader mondiale nella applicazione di questa tecnologia nei motori Diesel e dando inizio alla marginalizzazione del gruppo torinese.

    In questo senso la cessione di Magneti Marelli risulta molto simile alla vicenda degli anni ‘90 ed  implicitamente potrebbe dimostrare una volontà di uscita del mondo dell’auto a pochi mesi dalla creazione del valore complesso dell’attività di Sergio Marchionne, che invece poneva l’auto al centro dei piani di sviluppo. Le pericolose similitudini tra le due cessioni del 1994 e del 2018 dimostrano come siano stati sufficienti pochi mesi per dimenticare l’insegnamento del manager canadese e ritornare alla vendita su piazza dei gioielli di famiglia che portarono la casa automobilistica torinese sull’orlo del fallimento poi evitato proprio dal compianto manager.

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