Carburante

  • Il contrabbando di carburante in Libia alimenta la guerra civile in Sudan

    Il capo del Consiglio presidenziale della Libia, Mohamed al Menfi, avvierà in settimana un’indagine sul contrabbando di carburante che starebbe contribuendo ad alimentare la guerra civile in Sudan. Lo riferisce il quotidiano britannico “The Guardian”, sottolineando che le accuse, che vanno dallo sperpero di denaro pubblico alla corruzione, non sono solo una questione interna libica. Secondo il giornale britannico, infatti, il contrabbando – favorito dalla cattiva gestione della National Oil Corporation (Noc) – “aiuta a fornire carburante alle Forze paramilitari di supporto rapido che combattono in Sudan”, come evidenziato in un recente rapporto presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Non solo. Parte del denaro potrebbe anche andare indirettamente al gruppo Wagner, sostenuto dalla Russia, ora rinominato Africa Corps.

    Sebbene la Libia sia un Paese ricco di petrolio, importa la maggior parte del suo carburante, dato che le raffinerie nazionali non producono abbastanza per soddisfare la domanda interna. Le autorità di Tripoli importano quindi il carburante dall’estero e lo distribuiscono in patria a prezzi fortemente sovvenzionati, tanto che il prezzo ufficiale per un litro di benzina è di 3 centesimi di dollari al litro. Gli oli combustibili, che comprendono gasolio da riscaldamento, gasolio e combustibili pesanti, sono venduti in media a un prezzo inferiore del 70 per cento rispetto all’acquisto da parte del governo. E secondo il “Guardian” il 40 per cento del carburante importato viene poi riesportato e contrabbandato fuori dal Paese con ampi margini profitto illecito.

    Secondo il governatore della Banca centrale libica, Al Saddiq al Kabir, i sussidi per il carburante sono aumentati da 20,8 miliardi di dinari (3,97 miliardi di euro) nel 2021 a 61 miliardi di dinari nel 2022 (11,64 miliardi di euro), denunciando uno “squilibrio, una distorsione e una cattiva gestione” del fenomeno. Un documento interno della Noc datato settembre 2023, citato dal “Guardian”, afferma che il costo gonfiato dei sussidi è diventato quasi la metà dell’importo delle entrate derivanti dalla vendita di petrolio e gas. Fonti citate dal giornale britannico affermano che la maggior parte del carburante importato proviene dalla Russia, tramite Paesi come la Turchia, e viene venduto illegalmente in Europa con ingenti guadagna dei contrabbandieri, mentre molti libici sono costretti a fare lunghe ore per fare rifornimento alle pompe di benzina.

  • Le difficoltà del 2023 non scalfiscono i conti dell’Eni

    Eni ha chiuso il 2023 con “risultati eccellenti”, nonostante uno scenario “incerto e volatile”. Con queste parole l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha commentato i conti finanziari del 2023 e del quarto trimestre resi noti qualche giorno fa. I risultati finanziari di Eni sono stati “eccellenti” con un Ebit proforma di circa 18 miliardi di euro e un utile netto adjusted pari a 8,29 miliardi di euro, nonostante un calo del 38% rispetto allo scorso anno. La generazione di cassa operativa con 16,5 miliardi di euro su base adjusted “prima dell’assorbimento del circolante ha assicurato un significativo surplus in aggiunta al sostanziale ritorno di cassa agli azionisti di 4,8 miliardi di euro, mantenendo un rapporto di indebitamento di 0,2” ha sottolineato Descalzi. I risultati confermano che nel 2023 “abbiamo superato tutti i nostri obiettivi” e soprattutto, “abbiamo continuato a lavorare nel percorso di transizione”. Nonostante la volatilita’ dello scenario caratterizzato dalla flessione dei prezzi del petrolio Brent (-5% rispetto al quarto trimestre 2022) e del gas (diminuiti del 57% nel mercato europeo), l’utile ante imposte adjusted del quarto trimestre 2023 di 3,2 miliardi di euro, pari a 15,1 miliardi di euro su base annua, “evidenzia la robusta performance conseguita dal Gruppo grazie alla efficace gestione industriale e alla disciplina finanziaria”. L’utile netto adjusted sul trimestre si attesta a 1,6 miliardi a fronte dei 2,5 miliardi dello stesso periodo del 2022 (-34%). L’utile netto è pari a 4,7 miliardi (-66%), sul quarto trimestre il dato è di 149 milioni (in diminuzione del 76%).

    Su base annua, Eni ha conseguito un utile operativo adjusted di 13,8 miliardi di euro, in riduzione del 32% rispetto al 2022, che “riflette il minor contributo dei business E&P, anche per effetto del deconsolidamento delle società operative angolane conferite alla JV Azule nel terzo trimestre del 2022, e dei business della Raffinazione e della Chimica, in parte compensati dalla performance del settore GGP e dai risultati positivi dei business Enilive e Plenitude & Power” ha osservato il Gruppo. Il settore Ggp, ha spiegato Descalzi, “ha realizzato risultati record facendo leva sulla qualità del portafoglio, azioni di ottimizzazione e favorevoli accordi contrattuali”. Mentre Enilive, attiva nei business dei biocarburanti e dei servizi di mobilità, “ha ampliato la propria presenza internazionale attraverso l’acquisizione della partecipazione del 50 per cento nella bioraffineria di Chalmette negli Stati Uniti e l’accordo di joint venture con LG Chem per la realizzazione di un nuovo impianto in Corea del Sud” ha continuato ancora l’Ad. Intorno al tassello di Plenitude, in particolare, nelle giuste condizioni di mercato, l’Ipo di Plenitude “resta per Eni un’opzione anche dopo la cessione di una quota di circa il 9% al fondo Eip”. Lo ha detto il cfo Francesco Gattei, durante la conference call con gli analisti commentando i risultati del 2023 e del quarto trimestre, osservando che “continueremo a monitorare le condizioni di mercato nel 2024 e 2025”.

    Passando invece al quarto trimestre 2023, Eni ha conseguito l’utile operativo adjusted di 2,7 miliardi di euro con una riduzione del 23% rispetto al quarto trimestre 2022 dovuta principalmente al settore E&P (-17% a 2.431 milioni di euro) per “effetto della flessione del prezzo del petrolio e delle quotazioni del gas naturale, alla debole performance del business della Chimica”, ha sottolineato una nota del Gruppo, che ha registrato una perdita operativa adjusted di 237 milioni di euro, -172% rispetto al quarto trimestre 2022, a causa della flessione della domanda e dell’incremento della pressione competitiva da parte di prodotti più economici, nonché al significativo deterioramento dello scenario della raffinazione che ha determinato una sensibile riduzione dell’utile operativo della Raffinazione (-322 milioni di euro). Descalzi ha commentato a riguardo, infatti, che “siamo consapevoli della situazione della chimica e abbiamo fatto molto per cambiare ma ora sono necessarie radicali iniziative che vadano verso il cambiamento. Dobbiamo trasformare i nostri impianti. Dobbiamo fare qualche azione più forte perchè è un’area dove possiamo creare valore”. Tale trend è stato in parte compensato dai risultati record di Ggp (+614 milioni di euro il risultato operativo adjusted).

    Nel quarto trimestre 2023 la produzione di idrocarburi è stata in media di 1,71 milioni di boe/giorno pari a 1,66 milioni di boe/giorno nell’anno 2023, in aumento del 6 per cento rispetto al quarto trimestre 2022, +3% rispetto all’anno precedente. La produzione è stata sostenuta dal ramp-up in Mozambico, dallo start-up del progetto Baleine in Costa d’Avorio, dalla maggiore attività in Algeria che beneficia anche delle acquisizioni, in Kazakhstan a causa di eventi non pianificati verificatisi nello stesso periodo del ’22, nonché in Libia e Indonesia. Questi aumenti sono stati compensati dalla minore produzione dovuta al declino dei campi maturi. Nel confronto sequenziale, la produzione è in aumento di circa il 5% per gli stessi driver descritti in precedenza. A tal proposito l’ad ha commentato: “Abbiamo recentemente finalizzato l’acquisizione di Neptune che, con il suo portafoglio prevalentemente a gas, e sinergico ai nostri asset in Nord Europa, Indonesia e Nord Africa, costituirà un elemento chiave per i nostri piani di sviluppo. Nel 2023 abbiamo avviato nel rispetto dei tempi e dei budget i due rilevanti progetti Baleine in Costa d’Avorio e Floating Gnl Congo. Grazie agli straordinari successi esplorativi in Indonesia e in altre geografie abbiamo confermato la nostra leadership nel settore; al tempo stesso abbiamo conseguito il massimo livello di produzione rispetto all’intervallo obiettivo annunciato”.

  • Sempre più “vizi italiani” in Europa

    Con notevole ritardo sembrava che la Commissione Europea avesse preso in considerazione l’ipotesi alternativa al blocco della vendita di automobili con motore a combustione interna, inserendo l’utilizzo di carburanti che abbiano un impatto di emissioni di CO2 praticamente nullo.

    In questo contesto l’Italia rappresenta l’eccellenza europea in quanto produce già oggi 1,7 milioni di tonnellate di biocarburanti derivanti dalle masse biologiche e quasi tutti dei destinati alla produzione di biodiesel.

    La Germania, viceversa, ha investito nella tecnologia dell’e-fuel del quale attualmente esiste un unico stabilimento di produzione in Cile. Nella lontana America Latina la tecnologia attuale si dimostra in grado di produrre 130.000 tonnellate all’anno (1/13 rispetto all’attuale produzione di eco carburanti italiani) di carburante e poi fissa come target entro un decennio la produzione a 550.000 tonnellate pari ad un terzo (1/3) della attuale produzione italiana del 2022.

    A causa di una strategia definita dalla pura convenienza politica tanto europea quanto tedesca,l’Unione europea ha scelto la tecnologia prodotta dal colosso delle automobili tedesco pur essendo questo già ora perdente in termini di volumi nei confronti di quello italiano.

    Sotto il profilo tecnico, tecnologico e potenziale, infatti, la scelta risulta assolutamente ingiustificabile e trova la propria “motivazione politica” anche nella inconsistenza istituzionale a supporto della proposta italiana espressa.

    Ancora una volta la classe politica italiana in Europa esce sconfitta e non solo a causa della sordità delle istituzioni europee.

    L’Italia se non trova alleati sarà battuta.

  • La deriva medievale di Milano

    In un periodo di grande crisi come quello contemporaneo causato dalla malefica sintesi tra i devastanti  effetti causati dalla pandemia e il conflitto ucraino anche in Germania si è voluto affrontare le conseguenze dell’inflazione la quale segna un tasso al +10%.

    Già durante il 2021 si è deciso di ridurre le aliquote Iva con l’obiettivo di ridurre l’escalation dei prezzi a cominciare da quello dei carburanti, vero e proprio volano inflattivo in particolare nel settore alimentare. Successivamente, proprio per tutelare le fasce di reddito meno elevato, si è introdotto l’abbonamento mensile a NOVE euro che permettesse l’utilizzo di tutti i mezzi pubblici senza limitazioni in considerazione della maggiore onerosità dei mezzi privati. Questo ha contemporaneamente permesso di ridurre le emissioni di Co2 di 1,3 milioni di tonnellate in soli tre mesi. Più recentemente sono stati inseriti a bilancio 200 miliardi di finanza pubblica straordinaria come ulteriore sostegno diretto alle imprese ed alle famiglie e ridurre così l’impatto della esplosione dei costi energetici.

    Nel nostro Paese, invece, si attende ancora, dopo DIECI mesi, una decisione relativa ad un salvifico “price cap” del gas mentre Francia, Spagna e Portogallo lo hanno imposto per legge già nei mesi addietro.

    Ecco, quindi che non si possa più considerare un caso se la Spagna e il Portogallo abbiano ora un tasso di inflazione inferiore del 50% rispetto al nostro (*) il quale viaggia al +11,8%, ma nel settore alimentare ha già raggiunto il +12,2% e le proiezioni parlano di un +13% .

    Questi drammatici differenziali dell’inflazione esprimono la deleteria strategia del governo Draghi adottata ciecamente anche dal governo Meloni, il quale pensa a dei bonus per gli animali domestici e nel frattempo aumenta il carico fiscale sui carburanti.

    In questo problematico contesto il sindaco di Milano ha chiuso ai meno abbienti, intesi come i proprietari di auto fino ad euro 5, l’ingresso alla città e quindi rendendo il lavoro più problematico ed oneroso. Non pago di rendere la vita lavorativa sempre più difficile alle fasce di reddito più basse aumenterà il biglietto urbano a 2,2 euro. L’effetto combinato delle due “decime medioevali” rende già ora la vita lavorativa delle fasce deboli della popolazione ancora più problematica.

    Questa medioevale politica adottata senza un minimo di considerazione per il difficile periodo economico e sociale si dimostra in cristallino contrasto con la politica tedesca la quale invece ha reso più conveniente l’accesso al mezzo pubblico.

    Le risultanti di questa politica nazionale e locale non possono che dimostrarsi insostenibili per la cittadinanza italiana ed in particolare per quella meno abbiente. In più rappresentano l’espressione di una volontà chiara di un “nuovo ambientalismo ideologico” che ha molto in comune con la politica medievale delle decime e che è l’espressione ed il mezzo per schiavizzare nuovamente il popolo e contemporaneamente ghettizzarlo.

    (*) Spagna 6,8%, Portogallo 7,2%

  • Ukraine crisis: Why India is buying more Russian oil

    As calls continue for India to keep its distance from Moscow after the invasion of Ukraine, its oil purchases from Russia have more than doubled from last year.

    The Indian government has defended the move to buy Russian oil, and said what it buys from Russia in a month is less than what Europe buys from Russia in an afternoon.

    Why is India buying more Russian oil?

    India has taken advantage of discounted prices to ramp up oil imports from Russia at a time when global energy prices have been rising.

    The US has said that although these oil imports do not violate sanctions, “support for Russia…is support for an invasion that obviously is having a devastating impact”.

    UK Foreign Secretary Liz Truss also urged India to reduce its dependence on Russia during a trip to Delhi in March, which took place at the same time as a visit by the Russian foreign minister, Sergei Lavrov.

    Mr Lavrov told his Indian counterparts that Russia was willing to discuss any goods that India wanted to buy and urged that payments be made in roubles.

    Where does India get its oil?

    After the US and China, India is the world’s third-largest consumer of oil, over 80% of which is imported.

    But in 2021, only around 2% of its total oil imports (12 million barrels of Urals crude) came from Russia, according to Kpler, a commodities research group.

    By far the largest supplies last year came from oil producers in the Middle East, with significant quantities also from the US and Nigeria.

    In January and February, India didn’t import any oil from Russia.

    But so far, the amount of Urals oil contracts made for India covering March, April, May and June – around 26 million barrels – is higher than the quantity purchased during the whole of 2021, according to Kpler.

    What’s the deal India is getting?

    Following its invasion of Ukraine, there are now fewer buyers for Russia’s Ural crude oil, with some foreign governments and companies deciding to shun Russian energy exports, and its price has fallen.

    While the exact price of the sales made to India is unknown, “the discount of Urals to Brent crude [the global benchmark] remains at around $30 per barrel”, says Matt Smith, an analyst at Kpler.

    These two types of crude normally sell at a similar price.

    At one point in March, as the price of Urals crude continued to drop, the difference between them reached an all-time record, he adds.

    So “India is likely to purchase at least some of this [Russian] crude at a significant discount,” he says.

    What’s the impact of financial sanctions?

    Although the price is attractive, India’s big refining companies are facing a challenge trying to finance these purchases, because of sanctions on Russian banks.

    It’s a problem facing trade in both directions.

    One of the options India is looking at is a transaction system based on local currencies, where Indian exporters to Russia get paid in roubles instead of dollars or euros.

    The US has made clear its reservations with this, saying it could “prop up the rouble or undermine the dollar-based financial system”.

    Where else is India looking to buy oil?

    India’s oil imports from the US have gone up significantly since February, according to analysts at Refinitiv.

    However, market analysts say this may not be sustainable in the future as the US seeks to use its domestic oil production to replace supplies from Russia after its invasion of Ukraine.

    There are also suggestions that trade with Iran could resume under a barter mechanism which Indian oil refiners could use to buy its oil. This arrangement stopped three years ago, when the US re-imposed sanctions on Iran.

    But this is unlikely to resume without a wider deal reached in international negotiations with Iran over its nuclear programme.

  • L’Italia punta sull’Africa per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo

    La “campagna del gas” avviata dal governo italiano per ridurre la dipendenza energetica da Mosca procede a ritmo sostenuto, e dopo l’Algeria e l’Egitto, è stata la volta dell’Angola e del Congo. Costretto a casa dal Covid-19, il premier Mario Draghi ha dovuto dare forfait alla missione e così la delegazione è stata guidata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e dal titolare della Transizione ecologica Roberto Cingolani, accompagnati dall’ad di Eni Claudio Descalzi. Il 20 aprile firma a Luanda di una joint-venture ad ampio raggio nel settore energetico per la produzione di materie prime (petrolio, gas naturale e gas naturale liquefatto) spingendo anche sulle fonti rinnovabili. Successivamente la lettera d’intenti per rafforzare la cooperazione energetica tra Roma e Brazzaville cui si aggiunge anche un accordo ad hoc firmato da Eni con il ministro congolese degli Idrocarburi che dà ufficialmente il via all’estrazione di Gnl nel 2023. Proprio nell’ottica di rafforzare la cooperazione nel settore energetico, Roma sta usando le ottime relazioni che il gruppo energetico italiano ha costruito in circa 70 anni di presenza in Africa, dove è leader sia in termini di produzione che di riserve.

    L’intenzione del governo italiano è di sviluppare un progetto già avviato da Eni nel paese africano, provando così a rendere indipendente il nostro Paese dalle forniture di Gazprom prima ancora che in sede europea si trovi una posizione unica sul pagamento delle forniture. L’anno scorso il gigante russo energetico ha garantito oltre 29 miliardi di metri cubi di metano. Il gas aggiuntivo dei giacimenti angolani e congolesi arriverebbe sotto forma di Gnl, gas naturale liquefatto, e proprio per questo il Governo italiano sta lavorando anche a un maggior utilizzo dei terminali di gassificazione, che in Italia attualmente sono tre. Peraltro i piani di Eni prevedono una crescita di investimenti e attività nei Paesi africani nei prossimi anni: a sud del Sahara i principali hub dell’Eni si trovano in Congo, Angola, Nigeria e Mozambico, aree in cui le attività estrattive sono aumentate in modo considerevole.

    Nel 2020, la produzione annuale di gas della società guidata da Descalzi è ammontata a 1,4 miliardi di metri cubi mentre quella complessiva di idrocarburi è stata pari a 27 milioni di boe. Con l’accordo siglato ora, viene impresso un sensibile colpo d’accelerazione alla produzione di gas in Congo: tramite lo sviluppo del progetto di gas naturale il cui avvio è previsto nel 2023, si punta a ottenere una capacità a regime di oltre 3 milioni di tonnellate/anno (oltre 4,5 miliardi di metri cubi/anno). L’export di gnl permetterà così di valorizzare la produzione di gas eccedente la domanda interna congolese. La Repubblica del Congo ed Eni hanno anche concordato la definizione di iniziative di decarbonizzazione per la promozione della transizione energetica sostenibile nel Paese. L’ad di Eni ha spiegato che così facendo il Congo è diventato “un laboratorio di energie future con tecnologia italiana. Per questo – ha aggiunto – è un momento importante per entrambi i Paesi e anche per la nostra società”. Descalzi ha ricordato che Eni è l’unico produttore di gas ma che ora “stiamo ampliando la nostra attività a tutta la parte agricola per creare biocarburanti, al solare, all’economia circolare”.

    Soddisfatto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che, in conferenza stampa, ha sottolineato come l’operazione di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia rappresenti per l’Italia una “priorità”. Non solo, ma il governo italiano sta lavorando “duramente” anche sull’istituzione di un tetto al prezzo del gas europeo, su cui alcuni Paesi dell’Eurozona hanno espresso perplessità. E invece, ha sottolineato, “per noi rappresenta una priorità – ha aggiunto – e ci aspettiamo sostegno su questo”. Anche il titolare del dicastero della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha rilevato l’importanza dell’accordo in Congo in questo senso e “l’Italia è uno dei paesi più virtuosi” in questo percorso. Parole di apprezzamento per l’intesa in Congo sono state espresse dal ministro congolese degli Affari esteri, della francofonia e dei congolesi all’estero Jean-Claude Gakosso che ha così commentato: “Si dice che tutto il mondo passa attraverso l’energia. Siamo felici di concludere accordo con l’Italia, e anche con Eni che qui si è dedicata anche in altri campi come la ricerca. Ma oggi si apre una strada nuova, quella della transizione energetica, una sfida che Eni è riuscita a cogliere”. Dopo la firma al ministero degli Affari Esteri, la delegazione italiana è stata ricevuta dal presidente della repubblica del Congo, Denis Sassou N’Guesso.

  • La ricerca ed il successivo progresso

    All’interno della nebulosa comunicativa generata dalla escalation di dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea ed anche del nostro governo, finalmente si trova una luce chiara in relazione al futuro della mobilità automobilistica. Herr Webber, membro del board of management della Bmw, dichiara: “Avanti con benzina e diesel… adeguati a rispettare le norme euro 7 operative dal 2025…”. Ecco perché sono assolutamente contrario all’imposizione normativa della transizione elettrica nel settore automotive decretata dall’Unione Europea e sorprendentemente adottata senza fiatare dal governo in carica italiano dal quale ci si sarebbe dovuto invece attendere perlomeno un fiato a tutela dell’eccellenza automobilistica italiana.

    Attualmente il settore automobilistico europeo detiene e con pieno merito il primato tecnologico nell’auto sia per le motorizzazioni diesel che benzina e contemporaneamente un supremazia mai messa in dubbio dalle aziende giapponesi o statunitensi incapaci anche solo di avvicinarsi ai nostri livelli sia nella efficienza quanto nella tutela dell’ambiente con la riduzione delle emissioni.

    In un contesto simile una classe dirigente e politica dotata di un minimo sindacale di preparazione dovrebbe tutelare queste eccellenze europee invece si intende azzerare questa supremazia europea ed italiana cancellando con un solo colpo ogni supremazia tecnologica frutto di investimenti economici e professionali, esattamente come avviene nei Gran Premi di Formula 1 con l’ingresso della safety car la quale, di fatto, aiuta i piloti che rincorrono il leader della corsa azzerando i distacchi. In più risulterebbe opportuno e sicuramente più proficuo per gli stessi esiti della ricerca mantenere aperte tutte le opzioni di motori a combustione interna come elettrici con l’obiettivo di mantenere ASSOLUTAMENTE LIBERA la ricerca (senza dimenticare l’idrogeno) invece di imporre in modo miope ideologico e falsamente interessato all’ambiente un limite temporale (2035) alla produzione dei motori endotermici e di fatto limitando la ricerca stessa in quella direzione. L’evoluzione e gli esiti della ricerca in ogni campo di applicazione devono per propria stessa definizione essere e rimanere contemporaneamente liberi da ideologie (*) massimaliste espressione di un nuovo e molto pericoloso talebanismo politico che ammorba l’Europa e il nostro Paese.

    (*) Ideologia: “Pensiero unico il quale per la semplice propria volontà di affermazione arriva anche a negare la realtà circostante ed i valori riconosciuti ad esclusivo sostegno del proprio pensiero.”

  • Eurexit: la Shell rinuncia al nome Royal Dutch e si traferisce a Londra

    Shell rinuncia all’apposizione Royal Dutch e si trasferisce in Gran Bretagna, dove porterà anche la residenza fiscale. Gli azionisti saranno chiamati a dare il via libera all’operazione il 10 dicembre che prevede anche una semplificazione della struttura azionaria, con un’unica linea di azioni. “In un momento di cambiamento senza precedenti per il settore, è ancora più importante avere una maggiore capacità di accelerare la transizione verso un sistema energetico globale a basse emissioni di carbonio. Una struttura più semplice consentirà a Shell di accelerare la realizzazione della sua strategia Powering Progress, creando valore per i nostri azionisti, clienti e società in generale” spiega il presidente di Shell, Sir Andrew Mackenzie ma la decisione ha spiazzato Amsterdam con il governo olandese che si è detto “spiacevolmente sorpreso” dall’annuncio.

    Il colosso petrolifero, una delle cosiddette Sette sorelle, fu costituita nel 1907 dalla fusione dell’olandese Royal dutch petroleum e della britannica Shell transport and trading; a controllarlo erano rimaste due holding distinte che nel 2005 si sono fuse e le azioni erano rimaste divise in due classi, A e B, che rappresentano le vecchie azioni Royal Dutch e Shell. A seguito della semplificazione, spiega il gruppo, gli azionisti continueranno a detenere gli stessi diritti legali, di proprietà, di voto e di distribuzione del capitale in Shell. Le azioni continueranno ad essere quotate ad Amsterdam, Londra e New York (attraverso il programma American Depository Shares), con l’inclusione dell’indice FTSE UK. Si prevede che l’inclusione nell’indice AEX verrà mantenuta.

    Non è però un addio all’Olanda: “Shell è orgogliosa della sua eredità anglo-olandese e continuerà a essere un importante datore di lavoro con una presenza importante nei Paesi Bassi – rassicura il gruppo -. La sua divisione Projects and Technology, le attività globali Upstream e Integrated Gas e il polo delle energie rinnovabili rimangono a L’Aia”. E poi ci sono i progetti eolici al largo delle coste olandesi, il progetto di costruzione di un impianto di biocarburanti a basse emissioni di carbonio su scala mondiale presso l’Energy and Chemicals Park di e del più grande elettrolizzatore d’Europa a Rotterdam.  “La semplificazione – aggiunge Sir Mackenzie – normalizzerà la nostra struttura azionaria sotto le giurisdizioni fiscali e legali di un singolo paese e ci renderà più competitivi. Di conseguenza, Shell sarà in una posizione migliore per cogliere le opportunità e svolgere un ruolo di primo piano nella transizione energetica. Il consiglio di amministrazione di Shell raccomanda all’unanimità agli azionisti di votare a favore della proposta di risoluzione”.

  • Addio alla scheda carburante

    Tra le novità di maggior impatto della legge di bilancio 2018 (Legge n. 205/2017) possiamo annoverare sicuramente la scomparsa della scheda carburante con effetto dal 1 luglio 2018. Anche in questo caso si tratta di misure varate dal legislatore per contrastare l’evasione fiscale.

    Tutti sappiamo che per dedurre i costi del carburante per autotrazione acquistato nell’esercizio di imprese, arti e professioni e per detrarre la relativa imposta sul valore aggiunto, ai sensi del DPR 444/1997 il soggetto acquirente è tenuto a compilare in modo analitico la scheda carburante che sostituisce a tutti gli effetti la fattura. Facciano attenzione i malintenzionati che proprio questa integrale sostituzione della fattura con la scheda carburante, tra l’altro, comporta l’estensione della normativa sanzionatoria di cui all’emissione di fatture false alle operazioni di falsificazione o manomissione delle schede carburanti.

    Nonostante le conseguenze insite nell’uso distorto delle schede carburanti, evidentemente il malcostume è diffuso tanto che il settore dei carburanti e della certificazione dei relativi corrispettivi presenta, ancora oggi, ampie sacche di evasione. Ed è proprio per questo, riteniamo, che la deducibilità del relativo costo e la detraibilità della relativa IVA subiscano delle decurtazioni legislative che, altrimenti, non troverebbero ragion d’essere.

    Tutto ciò non è stato sufficiente. Con l’intento appunto di contrastare questi fenomeni il legislatore ha imposto, con decorrenza 1 luglio 2018, l’obbligo di pagamento del carburante con moneta elettronica per consentirne la deducibilità del costo. Inoltre, con la medesima decorrenza, gli acquisti di carburante effettuati da soggetti titolari di partita iva dovranno essere certificati tramite fattura elettronica (anticipando l’obbligo della fattura elettronica generalmente previsto per il 1 gennaio 2019).

    Con riferimento alla tracciabilità dell’acquisto tramite moneta elettronica già era intervenuto il Decreto sviluppo del 2011 prevedendo l’esonero dall’obbligo di compilazione della scheda carburante per coloro che si impegnassero ad effettuare i pagamenti dei rifornimenti esclusivamente con carte di credito o di debito intestate al titolare dell’impresa. Nonostante tale previsione sia tutt’ora in vigore e non sia stata formalmente abrogata, di fatto lo sarà con l’entrata in vigore delle nuove norme più sopra presentate.

    Non pochi saranno i problemi pratici: si pensi alle possibili code connesse con i tempi di emissione della fattura elettronica, ai rifornimenti presso le stazioni automatiche.  Probabilmente una semplificazione in tal senso dovrà essere concessa ai contribuenti. Una soluzione operativa potrebbe essere quella di stipulare contratti di netting con le compagnie petrolifere: in modo semplice il contribuente potrebbe effettuare i rifornimenti nei circuiti convenzionati, pagare con l’apposita carta e ricevere a fine mese la fattura elettronica dei rifornimenti effettuati.

    Concludiamo con un’osservazione: se pur condivisibile lo spirito della norma, ancora una volta sembrano aumentare le difficoltà amministrative dei contribuenti senza comunque che venga a crearsi il legame tra la targa del mezzo e il relativo rifornimento di carburante che consentirebbe la certezza di escludere usi fraudolenti. Allo stato dei fatti, forse, sarebbe stato sufficiente rendere obbligatoria la tracciabilità dei pagamenti così come previsto dal regime opzionale istituito dal decreto sviluppo.

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