Commercio

  • Chinese fashion giant Shein re-enters India five years after ban

    Chinese fast fashion app Shein has relaunched in India five years after it was banned by Delhi, under a deal with Indian firm Reliance Retail.

    An official from Reliance Retail, who did not wish to be named, told the BBC the firm has entered a long-term licensing deal with the parent company to sell products manufactured and sourced in India on the platform. The group has not yet made an official announcement.

    Shein’s re-entry to the Indian market comes with strict terms, which include saving all data within the country, India’s Commerce Minister Piyush Goyal said in December.

    In 2020 India banned Shein and dozens of other Chinese apps including TikTok.

    It said this was in response to data security concerns and it followed a spike in tensions with China after clashes between the two countries’ armies in a disputed Himalayan border area.

    The app was launched in India on Friday night and has so far been downloaded by more than 10,000 people. It is offering fashionwear for as little as 199 rupees ($2.30; £1.90).

    Shein is currently delivering to consumers only in the cities of Delhi, Mumbai and Bengaluru, but will soon offer services across India, according to a notification on the app.

    Over the last decade, Shein has gone from a little-known brand among older shoppers to one of the biggest fast fashion retailers globally. Today, it ships to customers in 150 countries across the world.

    Before the ban it became a big hit in India as it gave people a variety of options to buy trendy designs at an affordable price. The ban initially left a vacuum in the Indian market which was later filled by many local players.

    Experts say that with Shein India, Reliance Retail – owned by Indian billionaire Mukesh Ambani – is diversifying from its existing strategy of selling international brands through its flagship Ajio online retailer.

    The revival comes with strict conditions that give Reliance Retail full control over its operations and data while Shein will be a technological partner, Goyal told the Indian parliament in December.

    All customer and application data will be stored in India and Shein will not have any access rights, he said.

    Goyal also clarified that the app was banned in India, not the “sale of Shein-branded products”.

    Shein will use India as a “supply source for its global operations” and will help Reliance Retail in “building the network” and training Indian garment manufacturers, as it aims to promote export of textile and garments from India, an official from Reliance Retail said.

    Shein’s comeback under the deal with Reliance Retail is a rare exception to India’s ban on more than 200 Chinese apps over the last five years.

    At the time, Indian officials said the ban followed many complaints against the apps for “stealing and surreptitiously transmitting users’ data in an unauthorised manner”.

    ByteDance’s TikTok and popular combat and survival game PlayerUnknown’s Battleground (PUBG) were also banned.

    However PubG was later rebranded and launched for the Indian market under the name Battlegrounds Mobile India (BGMI), which is held by Krafton India.

  • La Commissione adotta misure per affrontare i rischi derivanti dalle importazioni di basso valore vendute tramite rivenditori online di paesi terzi

    Tali azioni fanno parte della comunicazione sul commercio elettronico “Un pacchetto completo di strumenti dell’UE per un commercio elettronico sicuro e sostenibile”, che la Commissione propone incoraggindo azioni, tra l’altro, nei settori delle dogane e del commercio, quali l’avvio di controlli doganali, la protezione dei consumatori e le leggi sui servizi digitali e sui mercati digitali.

    L’anno scorso, circa 4,6 miliardi di spedizioni di basso valore, vale a dire merci con un valore non superiore a 150 EUR, sono entrate nel mercato dell’UE per un totale di 12 milioni di pacchi al giorno. Si tratta del doppio rispetto al 2023 e del triplo rispetto al 2022 e molte di queste merci sono risultate non conformi alla legislazione europea. Questa crescita esponenziale sta sollevando numerose preoccupazioni. Principalmente, ci sono sempre più prodotti nocivi che entrano nell’UE. Inoltre, i venditori europei, che rispettano i nostri elevati standard di prodotto, rischiano di essere danneggiati da pratiche sleali e dalla vendita di merci contraffatte attraverso i mercati online. Infine, il gran numero di pacchi spediti e trasportati ha un’impronta ambientale e climatica negativa.
    In Europa, i consumatori dovrebbero sfruttare appieno il potenziale del commercio elettronico e avere accesso a prodotti online convenienti, economici, sicuri e di alta qualità. Allo stesso modo, le imprese europee dovrebbero beneficiare di condizioni di parità nel mercato unico.
    Nella comunicazione la Commissione illustra tutti gli strumenti di cui l’UE dispone già e mette in evidenza le iniziative attualmente discusse dai colegislatori. Propone inoltre nuove azioni congiunte per affrontare le preoccupazioni derivanti dall’aumento di prodotti non sicuri, contraffatti e altrimenti non conformi o illeciti che entrano nel mercato:

    Riforma doganale, compresa la richiesta ai colegislatori di adottare rapidamente il pacchetto di riforma dell’unione doganale proposto, consentendo la rapida attuazione di nuove norme per garantire condizioni di parità nel settore del commercio elettronico. Tali misure comprendono la soppressione dell’esenzione dai dazi per le parcelle di valore inferiore a 150 EUR e il rafforzamento delle capacità di controllo, quali una migliore condivisione dei dati e una migliore valutazione dei rischi.

    Misure mirate per le merci importate, compreso l’avvio di controlli coordinati tra le autorità doganali e le autorità di vigilanza del mercato, nonché azioni coordinate in materia di sicurezza dei prodotti, come la prima indagine a tappeto sulla sicurezza dei prodotti. Ciò dovrebbe portare all’eliminazione dal mercato delle merci non conformi e contribuire alla raccolta di prove per alimentare l’analisi dei rischi e le azioni complementari. I futuri controlli saranno intensificati per taluni operatori, merci o flussi commerciali, su base continuativa, alla luce dell’analisi dei rischi.

    Proteggere i consumatori sui mercati online, evidenziando le pratiche di commercio elettronico come una chiara priorità nell’applicazione della legge sui servizi digitali, nonché strumenti come la legge sui mercati digitali e quelli che si applicano a tutti gli operatori commerciali: il regolamento sulla sicurezza generale dei prodotti, il regolamento sulla cooperazione per la tutela dei consumatori e la rete per la tutela dei consumatori.

    Utilizzo di strumenti digitali, che possono contribuire a facilitare la supervisione del panorama del commercio elettronico attraverso il passaporto digitale dei prodotti e nuovi strumenti di IA per l’individuazione di prodotti potenzialmente non conformi.

    Protezione dell’ambiente, compresa l’adozione del primo piano d’azione sul regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili e la richiesta di una rapida adozione della modifica mirata della direttiva quadro sui rifiuti.

    Responsabilizzare i consumatori e i professionisti attraverso campagne di sensibilizzazione sui diritti dei consumatori, i rischi e i meccanismi di ricorso.

    Cooperazione internazionale e commercio, compresa l’organizzazione di attività di formazione sulle norme dell’UE in materia di sicurezza dei prodotti e la valutazione di eventuali elementi di prova relativi al dumping e alle sovvenzioni.

    La Commissione invita gli Stati membri a riunirsi per svolgere un ruolo forte come Team Europa al fine di migliorare l’efficacia delle azioni intraprese dalle autorità nazionali e dalla Commissione.

    Anche la rete di cooperazione per la tutela dei consumatori (CPC) delle autorità nazionali per la tutela dei consumatori e la Commissione hanno informato Shein dell’avvio di un’azione coordinata.
    Entro un anno la Commissione valuterà l’effetto delle azioni annunciate e pubblicherà una relazione sui risultati dei controlli rafforzati.
    Se i quadri e le attività di applicazione esistenti non saranno sufficienti e adeguati saranno prese in considerazione ulteriori azioni e proposte per rafforzare l’attuazione e l’applicazione delle norme dell’UE.

  • Quale politica industriale

    L’Unione Europea si trova all’interno di una crisi industriale senza precedenti dal dopoguerra ad oggi, espressione di una incapacità assoluta di comprendere come il mondo globale abbia modificato i mercati e contemporaneamente di una cieca applicazione dei precetti ideologici di natura ambientalista. Questa incapacità si esprime anche attraverso le analisi che ora, e solo ora, vengono propinate sulle soluzioni per evitare le ormai devastanti conseguenze, in termini occupazionali e sociali, che questa crisi inevitabilmente sta già producendo.

    Da qualche tempo si sente affermare come l’Italia in particolare, ma vale anche per l’intero continente europeo, risulti deficitaria di una vera politica industriale, una affermazione sostanzialmente corretta che parte da una errata presunzione. È opinione diffusa che una strategia industriale espressa dai maggiori vertici istituzionali ed accademici si espliciti attraverso la scelta di privilegiare determinati settori industriali e di penalizzarne altri in quanto considerati indifendibili, come nel passato fu, per esempio, per il tessile abbigliamento. Quando, invece, una corretta politica industriale si dovrebbe esplicitare nella ricerca di assicurare le migliori condizioni all’interno delle quali il libero mercato possa premiare le eccellenze industriali che le diverse culture professionali ed industriali nazionali riescono ad esprimere.

    Per realizzare, quindi, un “ambiente” favorevole allo sviluppo di ogni potenzialità industriale e professionale molti individuano nella riduzione della burocrazia la principale soluzione, la quale certamente rappresenta il peso della intrusione delle istituzioni europee e nazionali nelle dinamiche economiche.

    Tuttavia la vera politica industriale non è rappresentata dalla scelta di quali settori privilegiare, come ora si ipotizza nel voler dirottare le competenze dall’automotive verso il settore aerospaziale, quando invece la sola politica industriale si traduce in una precisa ed articolata strategia di approvvigionamento energetico che possa assicurare le migliori condizioni di disponibilità energetica a costi competitivi e, di conseguenza, favorire ogni settore industriale all’interno del mercato globale.

    In questo senso, la stessa scelta di Stellantis di privilegiare la produzione di auto in Spagna (1.000.000) rispetto alla riduzione sotto le 500.000.000 auto prodotte in Italia (livello del 1956) nasce proprio dal costo energetico spagnolo che risulta inferiore del – 53% rispetto a quello pagato in Italia.

    Solo una politica energetica assicura quindi le condizioni favorevoli allo sviluppo delle potenzialità professionali, artigianali ed industriali di una nazione o di un continente, che, poi, altro non è se non la strategia energetica che Enrico Mattei aveva adottato con l’obiettivo di assicurare uno sviluppo al sistema industriale italiano attraverso un costo energetico competitivo.

    Non comprendere la validità di questa strategia rappresenta il peccato originale imputabile ancora oggi all’intera classe governativa quanto alla minoranza liberale, entrambe incapaci di comprendere le dinamiche speculative innescate dalla cessione di asset attraverso privatizzazioni o infantili liberalizzazioni ai fondi privati.

    Lo stesso approvvigionamento energetico dovrebbe rappresentare quindi settore di sostegno a favore delle più diverse realtà industriali e non una occasione di speculazione anche finanziaria come la Borsa di Amsterdam ancora una volta sta confermando.

    Anche perché solo il sistema industriale è in grado di avviare il moltiplicatore del valore aggiunto.

    In ultima analisi, l’unica politica industriale in grado di assicurare lo sviluppo ad un sistema industriale è rappresentata da una strategia di approvvigionamento energetico che esprima delle visioni a medio e lungo termine, e quindi lontana anni luce dai deliri ambientalisti, per altro assolutamente non tenuti in alcuna considerazione dalla principale economia in termini di emissioni: la Cina.

  • Record per il florovivaismo: giro d’affari di 3,2 miliardi

    Gli arrivi di fiori stranieri in Italia sono aumentate in quantità del 47% soprattutto per effetto delle triangolazioni dall’Olanda, che consentono l’arrivo nel nostro Paese di prodotti coltivati in Paesi extracomunitari, dove spesso non vigono le stesse regole europee in materia di tutela dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Benché il florovivaismo italiano abbia superato i 3,2 miliardi di euro di fatturato (+22% rispetto a 10 anni fa), conti 27.000 aziende e quasi 200.000 addetti nell’intera filiera, la concorrenza estera continua a preoccupare la Coldiretti, che ha espresso i suoi timori in occasione dell’Assemblea nazionale dei fiori made in Italy, organizzata a Sanremo in collaborazione con Assofloro, Affi (Associazione floricoltori italiani), Comune di Sanremo, Myplant&Garden e Camere di Commercio Riviere di Liguria, alla presenza del presidente nazionale di Coldiretti Ettore Prandini, assieme a Nada Forbici, presidente Assofloro, e Cristiano Genovali, presidente Affi.
    A pesare è soprattutto la concorrenza sleale dall’estero “guidata” dall’Olanda, che importa fiori da paesi extracomunitari per rivenderli sul mercato comunitario.

    Si tratta spesso di prodotti come le rose in Kenya o in Colombia, che vengono coltivati grazie allo sfruttamento di minori e donne, oltre all’impiego di sostanze vietate in Europa da decenni. L’Olanda rappresenta il principale fornitore dell’Italia, con oltre i 2/3 del totale delle importazioni, e un incremento delle vendite del 55% in quantità nel 2023, secondo l’analisi della Coldiretti su dati Istat.

    “Dobbiamo salvaguardare il prodotto florovivaistico italiano applicando il principio di reciprocità per fare in modo che tutti i fiori che entrano nel nostro Paese rispettino le stesse regole di quelli nazionali in termini di rispetto dell’ambiente e di tutela dei diritti dei lavoratori – sottolinea Ettore Prandini, presidente di Coldiretti -. Ma occorre anche l’applicazione del Decreto 198/21 a tutela delle aziende agricole contro le Pratiche Commerciali Sleali, con la conoscenza dei costi di produzione e l’etichettatura d’origine per valorizzare il lavoro dei nostri florovivaisti. Per combattere gli effetti dei cambiamenti climatici e i sempre più frequenti attacchi di insetti alieni è inoltre necessario promuovere lo sviluppo delle soluzioni di agricoltura 5.0, comprese le Tea, le nuove tecniche genomiche”.

    Nel corso del Congresso si è parlato anche del progetto di estendere il sigillo di garanzia Firmato dagli agricoltori italiani (Fdai) dagli alimenti ai fiori, come garanzia della trasparenza della filiera produttiva in ogni sua fase, da un prezzo giusto alla sostenibilità, all’etica nei rapporti per garantire il giusto valore alla qualità della produzione italiana.
    Un’attenzione particolare viene data all’aspetto green, con una serie di soluzioni che assicurano il rispetto per l’ambiente.

    Si va dall’uso delle biomasse per alimentare gli impianti di riscaldamento delle serre – continua Coldiretti – al fotovoltaico per assicurare l’energia necessaria al rinfrescamento, fino alla soluzione del “flusso/riflusso” per ottimizzare e limitare l’impiego dell’acqua.

    L’utilizzo di materiale legnoso a chilometri zero nel substrato dei vasi assieme alla terra consente di sostituire l’uso della torba e della fibra di cocco.

  • Libia prima sponda dell’Italia per l’approvvigionamento di petrolio

    Nei primi sette mesi del 2024, i dati dell’Unione energie per la mobilità (Unem) sulle importazioni di greggio in Italia delineano un quadro interessante e complesso delle dinamiche commerciali internazionali. In cima alla classifica dei paesi fornitori si trova la Libia, che si conferma il principale esportatore di petrolio verso l’Italia anche nel secondo trimestre dell’anno in corso. Nel periodo tra gennaio e luglio, l’Italia ha importato un totale di 7,39 milioni di tonnellate di greggio libico, pari al 22,3% del totale nazionale. Questo dato rappresenta una crescita significativa del 28,6% rispetto all’anno precedente, sottolineando l’importanza della Libia come partner strategico per le forniture di energia, nonostante la fragile situazione politica interna. Il dato subirà probabilmente una flessione nel trimestre in corso a causa del blocco petrolifero in Libia durato per tutto il mese di settembre.

    Al secondo posto ci sono i paesi dell’ex Unione Sovietica, in particolare Azerbaigian e Kazakhstan, che insieme hanno esportato verso l’Italia 10,63 milioni di tonnellate di greggio, coprendo il 32% delle importazioni totali. Tuttavia, questi paesi mostrano andamenti divergenti: mentre le importazioni dall’Azerbaigian sono diminuite del 13,8%, quelle dal Kazakhstan hanno registrato una crescita significativa del 29,7%, evidenziando un rafforzamento delle relazioni energetiche tra Italia e quest’ultimo. La terza area geografica di rilievo è il Medio Oriente, con l’Iraq che ha esportato 3,03 milioni di tonnellate, rappresentando il 9,1% del totale, nonostante un calo del 30,9% rispetto al 2023. L’Arabia Saudita segue con 2,15 milioni di tonnellate, pari al 6,5% del totale, ma anche qui si nota un calo importante del 23,8%. Complessivamente, le importazioni dall’intera area mediorientale si attestano a 5,48 milioni di tonnellate, rappresentando il 16,5% delle importazioni italiane, ma con una contrazione del 27,1%.

    Un’altra area di rilievo è l’Africa, che ha fornito il 35,9 per cento del greggio importato dall’Italia nel 2024, per un totale di 11,94 milioni di tonnellate. La Nigeria emerge come il principale fornitore africano dopo la Libia, con 2,1 milioni di tonnellate e un incremento del 31,3%. Anche paesi meno tradizionalmente noti per l’export petrolifero, come il Ghana e il Camerun, hanno mostrato un ruolo crescente, con un aumento rispettivamente del 104,3% e del 42,3% nelle loro esportazioni verso l’Italia. Infine, un dato interessante riguarda le importazioni dagli Stati Uniti, che ammontano a 3,21 milioni di tonnellate, coprendo il 9,7% delle importazioni totali italiane. Sebbene ci sia stato un calo del 14,7% rispetto all’anno precedente, gli Usa rimangono un fornitore importante. In generale, il 2024 ha visto una lieve diminuzione complessiva delle importazioni di greggio in Italia rispetto al 2023, con un calo del 3,3%.

  • L’applicazione della politica commerciale garantisce prosperità e crescita alle imprese dell’UE

    Secondo la relazione annuale sull’attuazione e l’applicazione della politica commerciale dell’UE appena pubblicata, nel 2023 il valore degli scambi commerciali dell’UE coperti dalla vasta rete europea di 42 accordi con 74 partner è stato superiore a 2,3 miliardi di €, con un aumento di oltre il 30% negli ultimi cinque anni.

    Le esportazioni dell’UE verso i partner commerciali preferenziali registrano un aumento più costante rispetto alle esportazioni complessive – gli accordi preferenziali con Corea del Sud e Canada, ad esempio, generano ciascuno una crescita media delle esportazioni del 7% all’anno – e hanno reso l’UE più resiliente di fronte alle sfide globali, fornendo fonti di approvvigionamento più sicure e diversificate per le importazioni e mercati per le esportazioni.

    Tra il 2018 e il 2022 la Commissione europea ha inoltre eliminato 140 ostacoli alle esportazioni dell’UE in oltre 40 paesi, il che ha sbloccato ulteriori 6,2 miliardi di € di esportazioni dell’UE nel solo 2023.

  • Taiwan, Cina e USA

    Da più parti si sostiene che la scintilla che potrebbe dare inizio alla terza guerra mondiale originerà nell’estremo oriente e in particolare a Taiwan. È risaputo che questa isola, formalmente autodichiaratasi autonoma, è rivendicata dalla Repubblica Popolare Cinese come parte integrante del proprio territorio. Apparentemente, la quasi totalità degli Stati aderenti all’ONU condivide la posizione di Pechino e infatti tutti costoro dichiarano di sostenere l’idea che “la Cina è una sola”, cioè quella “Popolare”. La conseguenza è che, sempre formalmente, quasi nessuno Stato del mondo prevede l’esistenza di una Ambasciata propria a Taiwan né accetta di avere rapporti diplomatici ufficiali. Poi, come succede nella naturale ipocrisia della politica, molti, compresa l’Italia, vi tengono un “ufficio commerciale” e ospitano il corrispettivo taiwanese.

    Gli Stati Uniti raggiungono il massimo dell’ipocrisia quando alte cariche delle istituzioni politiche americane vi si recano senza informare Pechino e, da sempre, riforniscono quel Paese di armi di vario genere. Tutto ciò continuando a ribadire che la “Cina è una sola”: quella con capitale Pechino.

    Perché si ricorre a questo doppio standard così contraddittorio?

    È bene ricordare che la Taiwan attuale (già Formosa) nacque come Stato alla fine della guerra civile cinese che fu vinta dalle forze maoiste. La parte sconfitta, guidata dal gen. Chiang Kai-shek, vi si era rifugiata rivendicando di essere la vera Cina (e cioè la Repubblica di Cina, già esistente dal 1912 e membro dell’ONU) e sperando di potersi ricongiungere vittoriosamente, in un ipotetico futuro, con la madre patria continentale. Fino al 1991, la Repubblica di Cina ha continuato attivamente a sostenere di essere l’unico governo legittimo della Cina (e di rappresentarla tutta), e durante gli anni cinquanta e sessanta la sua richiesta venne accolta dagli Stati Uniti e da alcuni dei suoi alleati. Durante la Presidenza Nixon però le cose cambiarono perché gli Usa decisero di approfittare della rottura dei rapporti di Pechino con Mosca per stringere nuove relazioni con la Repubblica Popolare in funzione anti-sovietica. Dall’ottobre 1971 l’Assemblea dell’Onu, pure piena di nuovi Stati non tutti alleati con l’Occidente, ritirò così il riconoscimento di membro (e di titolare del Consiglio di Sicurezza) a Taiwan e lo concesse a Pechino. Subito, la maggior parte degli Stati mondiali ruppe le relazioni diplomatiche con Taipei e le allacciò a tutti gli effetti con Pechino. È da allora che la Cina Popolare viene riconosciuta da quasi tutti come la vera “unica Cina” e che Taiwan viene considerata un’entità “separata”, ma solo “temporaneamente”. In realtà, come vediamo tutti i giorni, la pratica è un’altra e, anche se non formalmente, tanti continuano a dialogare con Taipei come se fosse uno Stato a sé stante.

    Vediamo di cosa stiamo parlando: si tratta di un fazzoletto di terra molto vicino alle coste continentali cinesi, con un grande sviluppo economico ma con una popolazione di soli 24 milioni di abitanti (la Repubblica Popolare vanta un miliardo e trecento milioni di individui). Come mai una realtà così piccola potrebbe diventare la ragione di uno scontro bellico potenzialmente distruttivo per tutto il mondo? Perché gli USA continuano ad armarla mettendo già nel conto le reazioni fortemente negative di Pechino?

    Per comprenderlo occorre fare ricorso alla geopolitica. Gli Stati Uniti sono oramai da anni la potenza egemone nell’intero globo e, anche attraverso dei documenti ufficiali del governo, hanno ribadito di voler continuare ad esserlo nel futuro (A questo proposito, e non incidentalmente, dobbiamo ricordarci che noi italiani, come tutti gli europei, siamo stretti alleati degli USA e, seppur da una posizione molto minore, partecipiamo a questa egemonia e ne traiamo, in parte, i relativi vantaggi). Una delle caratteristiche di una posizione dominante è la sicurezza del controllo degli oceani e delle vie di comunicazione. La Cina è cresciuta incommensurabilmente dopo la morte di Mao Ze Dong e, con la sua economia e con i grandi investimenti effettuati nelle forze armate, sta insidiando di fatto l’egemonia americana. Come comprensibile, a Washington questo fatto non può piacere. È quindi giudicato necessario, da chi concorda con le posizioni americane, che in qualche modo la Cina di Pechino sia “contenuta”. Ecco quindi dove la geografia viene in aiuto.

    Per garantirsi anche nel futuro il controllo delle vie di comunicazione e “contenere” l’espansione cinese, gli USA hanno innanzitutto costruito un’alleanza con i Paesi che costituiscono la prima “catena” di isole che, all’occorrenza, potrebbero impedire alle navi cinesi di potersi affacciare sull’Oceano Pacifico. Si tratta a nord di Corea del Sud e del Giappone, al centro proprio di Taiwan e a sud delle Filippine, della Malesia/Borneo e del Vietnam. Tutti questi paesi hanno i loro motivi per diffidare di Pechino e i loro rapporti bilaterali con la Repubblica Popolare sono pieni di rivendicazioni contrastanti in merito a isolette di varie dimensioni oggetto di contenzioso. Inoltre, il Mar Cinese del Sud con le sue tante isole e i confini di sovranità marittima che ne derivano è ricco di petrolio, gas naturale e di fauna ittica, e oltre ad essere una importante via di navigazione può diventare sede di basi militari strategiche.

    Poiché essere prudenti è un bene ma esserlo doppiamente lo è ancora di più, gli Stati Uniti hanno deciso di confermare una seconda “catena” di isole in grado di bloccare ulteriormente transiti giudicati possibilmente “inopportuni” anche da e verso l’Oceano Indiano. Ad est e a sud della precedente “catena” si è quindi rinforzata un’altra alleanza che comprende Guam, Palau, tutta l’Indonesia a partire dalla Nuova Guinea e l’Australia.

    A questo punto diventa comprensibile anche il perché la Cina si senta circondata in modo ostile e cerchi di reagire in qualche modo a partire dal “recuperare” il potenziale nemico più vicino: Taiwan, appunto.

    Pechino è la capitale di uno Stato di più di un miliardo di persone e, considerato che gran parte del suo territorio è desertico, vuole garantirsi la possibilità di nutrire i propri cittadini anche attraverso le importazioni continuative di generi alimentari. Nello stesso tempo sta cercando di far sì che la sua economia continui a svilupparsi e per farlo necessita di rifornimenti energetici che arrivano in gran parte dal Medio Oriente, quindi attraverso l’Oceano Indiano. Esattamente la stessa via che è indispensabile per garantire che le esportazioni che hanno indispensabilmente contribuito alla sua crescita degli ultimi trent’anni possa continuare a rimanere percorribile, qualunque cosa succeda.

    Non è un caso che i cinesi si siano impadroniti (contro la sentenza del Tribunale Internazionale del Mare) di qualche scoglio appartenente alle Filippine aumentandone artificialmente la superficie e installandovi basi militari. Anche tutti gli altri contenziosi aperti con Giappone, Vietnam, Malesia e Brunei puntano allo stesso scopo.

    L’indipendenza di Taiwan non è dunque una questione di confronto tra diversi sistemi di governo né una pura questione di principio. Rientra in un gioco molto più ampio tra una potenza egemone e una che punta a non rimanervi soggetta. Il Mar Cinese Meridionale è oggi il teatro della competizione strategica sino-americana. Come sempre in questi casi nessuno ha tutte le ragioni, ma nemmeno tutti i torti: ognuno dei protagonisti persegue il proprio egoistico interesse e ritiene che sia suo dovere (o necessità) il farlo.

    Come può risolversi la questione? Potrebbe continuare in un apparente stallo per anni ma poi la soluzione starà solamente in uno dei due modi possibili: o si troverà un accordo che consentirà una coesistenza pacifica o si arriverà a uno scontro bellico dalle dimensioni imprevedibili. Purtroppo, anche se non ne sento parlare, una situazione simile si verificò negli anni ’30 del secolo scorso con un Giappone in forte espansione e gli USA che non gradivano cedere il loro controllo sull’Oceano. Allora si cominciò con le sanzioni americane e si arrivò nel dicembre del ’41 a Pearl Harbour.

  • Terre rare ma non troppo: la Mongolia è lo scrigno della Cina

    La regione autonoma della Mongolia interna, che fa parte della Cina e non dello stato della Mongolia con capitale Ulan Bator, ha un valore strategico per la Cina: ricca di risorse naturali, ospita il più grande giacimento di terre rare della Cina, primo paese al mondo per riserve di tale risorsa che è essenziale per la fabbricazione di diversi tipi di microchip.

    L’area mineraria di Bayan Obo (ovest della regione) è considerata la “capitale delle terre rare”. Si stima che qui ve ne siano 100 milioni di tonnellate, cioè l’83% di quelle della Cina, che a sua volta possiede il 38% delle riserve mondiali. Si tratta soprattutto di quelle “leggere”, impiegate nello sviluppo di turbine eoliche, auricolari, microfoni, schermi lcd e al plasma, magneti, veicoli ibridi, videocamere, batterie ricaricabili, smartphone e missili guidati.

    Oggi la Mongolia Interna è abitata dagli han (17,6 milioni), dai mongoli (circa 4 milioni) e da altre etnie minoritarie. Il boom dell’estrazione mineraria e in particolare delle terre rare ha alimentato la crescita esponenziale della regione nei primi anni Duemila. Questo ha determinato tuttavia l’aggravarsi dell’inquinamento ambientale e l’accelerazione del processo di urbanizzazione. Pechino cerca di alimentare la crescita della regione coinvolgendola nel progetto “Una cintura, una via” (o Belt and Road Initiative) e allo stesso tempo, sta cercando di porre limiti all’estrazione, per non danneggiare eccessivamente l’ambiente.

    Pechino ha peraltro forti interessi economici anche con la cosiddetta Mongolia esterna, quella che il mondo conosce come lo Stato della Mongolia con capitale Ulan Bator, legati anzitutto al carbone, vero tesoro nazionale di quel Paese. Negli ultimi anni si sono registrate varie proteste nella capitale Ulan Bator perché funzionari pubblici sono sospetti di corruzione pro-Cina e di aver di fatto svenduto a Pechino quello che è il vero tesoro nazionale, il carbone appunto, per un valore di miliardi di dollari.

  • Indagine Eurobarometro: la maggior parte dei cittadini dell’UE beneficia del commercio internazionale

    Dalla terza indagine Eurobarometro sul commercio internazionale emerge che più di 6 europei su 10 ritengono di beneficiare del commercio internazionale: il loro numero è in aumento rispetto all’ultima indagine di questo tipo, risalente al 2019.

    L’indagine rivela che gli europei apprezzano i benefici apportati dal commercio internazionale (una più ampia scelta per i consumatori, prodotti più accessibili ecc.) ed evidenzia il deciso sostegno al ruolo dell’UE nel commercio mondiale, un forte interesse a far leva sulla politica commerciale per ottenere maggiori benefici sociali e una consapevolezza critica degli imperativi strategici imposti dalle tensioni geopolitiche. Il sostegno al ruolo centrale dell’UE nella negoziazione e nella difesa degli interessi degli Stati membri rimane forte: il 74% degli europei concorda sul fatto che si ottengano migliori risultati difendendo gli interessi commerciali degli Stati membri a livello dell’UE piuttosto che tramite azioni dei singoli Stati membri.

    L’82% dei cittadini dell’UE ritiene inoltre che per mantenere condizioni di parità siano necessarie norme commerciali internazionali. Cresce notevolmente anche la fiducia nella capacità dell’Unione di condurre la sua politica commerciale in modo trasparente e aperto: i cittadini si fidano sempre più della capacità dell’UE di muoversi in modo responsabile in un panorama commerciale mondiale sempre più complesso.

    Soddisfatto Valdis Dombrovskis, Vicepresidente esecutivo e Commissario per il Commercio, che commenta così i dati emersi dall’indagine: “l messaggio ci arriva forte e chiaro: l’UE deve difendere i cittadini dal commercio sleale e la politica commerciale dell’UE non deve occuparsi solo di importazioni ed esportazioni, ma deve anche svolgere un ruolo di protezione nei confronti dei consumatori, dei produttori e degli agricoltori europei, aumentare la competitività dell’UE e rafforzarne la sicurezza economica”.

  • Entra in vigore il nuovo regolamento sulle spedizioni di rifiuti

    In vigore dal 20 maggio il nuovo regolamento relativo alle spedizioni di rifiuti, che stabilisce norme più rigorose per l’esportazione di rifiuti verso paesi terzi. Il nuovo regolamento sosterrà l’economia circolare e garantirà che i rifiuti esportati dall’Unione europea siano trattati in modo sostenibile dal punto di vista ambientale. Migliorerà la tracciabilità e agevolerà le spedizioni di rifiuti destinati al riciclaggio nell’UE e nel resto del mondo.

    Nell’ambito del nuovo regolamento, da maggio 2027 saranno consentite ad esempio le esportazioni di rifiuti dell’UE verso paesi non appartenenti all’OCSE solo se tali paesi informano la Commissione europea della loro disponibilità a importare rifiuti e dimostrano di essere in grado di gestirli in modo sostenibile. La Commissione monitorerà inoltre le esportazioni di rifiuti verso i paesi OCSE e prenderà provvedimenti qualora tali esportazioni causino problemi ambientali nel paese di destinazione.

    Il nuovo regolamento prevede anche un’osservanza più rigorosa e una maggiore cooperazione nella lotta contro il traffico di rifiuti, uno dei reati ambientali più gravi, integrando così la nuova direttiva sulla tutela penale dell’ambiente, anche questa in vigore da lunedì.

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