Commercio

  • La Cina rafforza la penetrazione in Africa

    Promozione della cooperazione tra i membri del Sud globale, contrasto del “protezionismo e del bullismo economico”, aumento dell’assistenza allo sviluppo dei Paesi africani e promozione di relazioni internazionali basate sull’uguaglianza e il rispetto reciproco. Sono queste le linee principali, contenute anche nella dichiarazione finale, emerse dalla riunione ministeriale del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac), che si è conclusa il 12 giugno a Changsha dopo tre giorni di lavori. L’iniziativa di Pechino, alla quale hanno partecipato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e i rappresentanti di 53 delegazioni africane, è stata l’occasione di rafforzare la penetrazione cinese nel continente in un momento di forte instabilità. Nel documento finale, i partecipanti ai lavori hanno riaffermato la volontà di “stabilizzare un mondo incerto con la certezza delle relazioni” tra la Cina e l’Africa, oltre che di promuovere un ordine multipolare equo, ordinato e fondato sul rispetto reciproco e sulla difesa dei diritti legittimi di tutti i Paesi. Particolare attenzione è stata attribuita all’attuazione dei dieci partenariati per la modernizzazione annunciati al termine del vertice Focac tenuto a Pechino lo scorso settembre, che incentivano la cooperazione in settori come l’industria verde, il commercio elettronico, l’intelligenza artificiale, la finanza e la sicurezza.

    Sul piano commerciale, la Cina si è detta pronta a negoziare un accordo di partenariato economico per lo sviluppo condiviso con tutti i 53 Paesi africani che intrattengono relazioni diplomatiche con Pechino. L’intesa estenderà l’esenzione dai dazi doganali al 100 per cento delle merci importate da questi Paesi. Quelli meno sviluppati beneficeranno, oltre che del regime di esenzione tariffaria, anche di agevolazioni al mercato e nelle procedure di ispezione, quarantena e sdoganamento. Il documento rilancia anche l’attuazione del Secondo piano decennale dell’Agenda 2063 dell’Unione africana e definisce il 2026 come l’Anno degli scambi tra i popoli di Cina e Africa. Nella lettera letta in occasione della ministeriale, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato che Pechino è disposta a garantire un regime di esenzione tariffaria per il 100 per cento delle merci provenienti da 53 Paesi africani con cui intrattiene relazioni diplomatiche, attraverso la negoziazione e la firma dell’Accordo di partenariato economico per lo sviluppo congiunto. “Nei 25 anni intercorsi dalla sua istituzione, il Forum sulla cooperazione Cina-Africa ha efficacemente guidato lo sviluppo vigoroso della cooperazione Cina-Africa, divenendo un modello di solidarietà e cooperazione nel Sud globale”, ha dichiarato Xi.

    Le rassicurazioni del presidente Xi sono state ribadite dal suo ministro degli Esteri, Wang Yi, che nell’intervento ha avanzato cinque proposte per promuovere lo sviluppo della cooperazione con l’Africa – inclusa l’esenzione dei dazi per i Paesi partner – invocando il “fermo sostegno su questioni che riguardano i rispettivi interessi fondamentali”, oltre che “un ulteriore rafforzamento della fiducia politica reciproca”. Wang ha inoltre auspicato collaborazione per garantire una “globalizzazione economica inclusiva” e la salvaguardia degli scambi multilaterali incentrati sull’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), annunciando che Pechino lavorerà per attuare le iniziative a sostegno della industrializzazione, della modernizzazione agricola e della formazione dell’Africa, oltre che sostenere il continente nello “svolgimento di un ruolo ancora maggiore” negli affari internazionali. Wang ha annunciato che la Cina lavorerà per attuare le iniziative a sostegno della industrializzazione, della modernizzazione agricola e della formazione dell’Africa, con cui sarà celebrato, nel 2026, l’Anno degli scambi tra i popoli. Infine, la Cina sosterrà il continente nello “svolgimento di un ruolo ancora maggiore” negli affari internazionali.

    A margine della ministeriale di Changsha il titolare della diplomazia cinese ha tenuto numerosi colloqui, tra cui quelli con gli omologhi di Tanzania (Mahmoud Thabit Kombo), Senegal (Yassine Fall), Angola (Tete Antonio), Kenya (Wycliffe Musalia Mudavadi), Sudafrica (Ronald Lamola), Gibuti (Abdoulkader Houssein Omar) ed Etiopia (Gedion Timotheos). Significativi, in particolare, sono apparsi gli scambi con il sudafricano ed il keniota. Al ministro Lamola Wang ha detto con tono rassicurante che Cina e Sudafrica sono “importanti Paesi in via di sviluppo con esperienze e obiettivi comuni”, e che “quanto più complessa è la situazione e più acute sono le sfide, tanto più i due Paesi dovrebbero unirsi e cooperare”. Allo stesso, modo, ha detto al keniota Mudavadi, Pechino “attribuisce grande importanza al ruolo e all’influenza del Kenya ed è disposta a rafforzare la comunicazione strategica e il coordinamento per salvaguardare insieme i diritti e gli interessi legittimi dei Paesi in via di sviluppo, oltre che le norme fondamentali delle relazioni internazionali”.

    Il Kenya è apparso del resto determinato a concludere nel più breve tempo possibile  – “entro fine giugno” ha auspicato dal ministro Mudavadi – un accordo di partenariato con Pechino, nell’interesse di assicurarsi presto finanziamenti a progetti di infrastrutture e progetti stradali utili a migliorare i trasporti. Sullo sfondo di scenari infrastrutturali si è articolato anche il colloquio fra Wang e l’omologo l’omologo della Tanzania, Mahmoud Thabit Kombo, al quale ha assicurato la volontà di Pechino di rilanciare la ferrovia Tazara fra Zambia e Tanzania. La ferrovia Tazara “è un simbolo della fratellanza e del sostegno reciproco” tra Africa e Cina, che è disposta ad infondere nuova vitalità al progetto, ha detto Wang. L’infrastruttura, che collega il porto di Dar es Salaam, nella Tanzania orientale, con la città di Kapiri Mposhi, nella provincia centrale dello Zambia, è stata interamente finanziata dalla Cina negli anni Settanta, con l’obiettivo di fornire allo Zambia una via d’accesso indipendente all’oceano.

    Il Corno d’Africa è stato oggetto di particolare interesse per il ministro degli Esteri cinese. Nell’incontro con l’omologo etiope Timotheos Wang ha sottolineato l’intenzione di “rafforzare la comunicazione strategica con l’Etiopia”, riconoscendo ai due Paesi il ruolo di “importanti rappresentanti del Sud globale e membri del gruppo Brics”. Pechino intende “promuovere uno sviluppo comune attraverso una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e salvaguardare gli interessi comuni attraverso l’unità e la cooperazione”, ha sottolineato Wang, secondo il quale Cina ed Etiopia dovrebbero rafforzare l’integrazione delle rispettive strategie di sviluppo ed esplorare il potenziale di cooperazione in vari settori, con particolare attenzione al comparto dei veicoli a nuova energia, delle industrie verdi, del commercio elettronico e dell’intelligenza artificiale. In modo simile, nell’incontro con l’omologo di Gibuti Wang ha affermato che la Cina è pronta a sostenere la trasformazione del Paese strategicamente posizionato sul mar Rosso in un polo commerciale e logistico regionale. “La Cina è pronta a collaborare con Gibuti per costruire una cintura di sviluppo economico e prosperità basata sulla ferrovia Addis Abeba-Gibuti e aiutare Gibuti a diventare un polo commerciale e logistico regionale”, ha detto il ministro cinese, confermando indirettamente così anche il sostegno alle ambizioni etiopi di accesso al mare. Wang ha inoltre assicurato che Pechino continuerà inoltre “a sostenere Gibuti nell’adempimento dei suoi doveri di presidente di turno dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), a sostenere l’unità e l’autosufficienza dell’Africa, a risolvere i problemi africani in modo africano”.

    La ministeriale Focac si è conclusa a poche ore dall’apertura della China-Africa Economic and Trade Expo, evento alla quarta edizione svoltasi dal 12 al 14 giugno, sempre a Changsha. Secondo i dati diffusi dall’Amministrazione generale delle dogane (Gac), la cooperazione economica e commerciale tra la Cina e l’Africa ha dimostrato una forte vitalità, beneficiando negli ultimi 25 anni di un rapido aumento del volume commerciale. Le importazioni e le esportazioni totali della Cina con i Paesi africani sono passate da meno di 100 miliardi di yuan (circa 13,9 miliardi di dollari) nel 2000 a 2.100 miliardi di yuan nel 2024, segnando una crescita media annua del 14,2%. La Gac ha pubblicato oggi anche l’indice commerciale Cina-Africa 2024, che ha raggiunto il record di 1.056,53 punti. Secondo Pechino, l’indice utilizza come parametro di riferimento l’anno 2000, fissato a 100 punti. Alla fine del 2024, la Cina è stata il maggior partner commerciale dell’Africa per 16 anni consecutivi e finora la crescita del commercio bilaterale ha continuato ad accelerare nel 2025. Secondo i dati precedenti forniti dalla GAC, il commercio cinese coi Paesi africani ha toccato un livello record nei primi 5 mesi di quest’anno, crescendo del 12,4% su base annua e raggiungendo i 963,21 miliardi di yuan.

  • La Cina si trincera dietro le terre rare per resistere a chi la sfida

    Quando ad aprile il presidente statunitense Donald Trump ha preso di mira la Cina con dazi altissimi, gli Stati Uniti hanno registrato un calo delle importazioni, divenute più costose e la Cina si è ritrovata con fabbriche inattive e carenza di dollari. La Cina, tuttavia, ha un asso nella manica: il monopolio su una serie di terre rare, minerali fondamentali per le principali industrie americane, tra cui quelle del settore della difesa, che ha bisogno di questi materiali per produrre caccia all’avanguardia come l’F-35.

    Nell’attuale guerra commerciale, la Cina ha vietato del tutto l’esportazione di terre rare, ma ha introdotto un regime di licenze che sta già provocando interruzioni nella catena di approvvigionamento. Normalmente, le aziende statunitensi si rivolgerebbero a fornitori di altri Paesi, ma l’attuale sistema di produzione delle terre rare è quasi interamente concentrato in Cina, responsabile di oltre il 90% di questi minerali chiave.

    Secondo un recente rapporto del Center for Strategic and International Studies, il Dipartimento della Difesa americano si è mosso per costruire una catena di approvvigionamento nazionale di terre rare – anche attraverso la concessione di sovvenzioni ad aziende in California e Texas – ma questi impianti devono ancora diventare pienamente operativi. Nel frattempo, anche Paesi come il Giappone e l’Australia stanno cercando di espandere la produzione di terre rare ma, per ora, non sono neanche lontanamente in grado di compensare il monopolio di fatto della Cina. “Lo sviluppo di capacità estrattive e di lavorazione richiede uno sforzo a lungo termine, il che significa che gli Stati Uniti saranno in svantaggio nel prossimo futuro”, si legge nel rapporto del CSIS.

    Il problema peraltro non riguarda soltanto la difesa e preoccupa anche l’Europa. Molti esportatori in tutto il mondo hanno già previsto ritardi a causa dei nuovi requisiti di esportazione introdotti dalla Cina e Tesla è stata una delle prime aziende ad aver dichiarato pubblicamente l’impatto dei divieti di esportazione della Cina sui suoi piani e sulla sua produzione.

  • Sette call center nel mirino dell’’Antitrust

    L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) ha avviato, anche grazie all’attività investigativa svolta dalla Guardia di finanza, sette procedimenti istruttori nei confronti di società di call center che promuovono la conclusione di contratti nel settore dell’energia (Action Srl, Fire Srl, J.Wolf Consulting Srl e Noma Trade Srl) e nel settore delle telecomunicazioni (Entiende Srl, Nova Group Srl e My Phone Srl). L’intervento ha l’obiettivo di contrastare il fenomeno del telemarketing scorretto, ben noto all’Autorità alla quale ogni giorno arrivano numerose segnalazioni che lamentano la ricezione di telefonate per concludere contratti sulla base di informazioni ingannevoli. I call center coinvolti nelle istruttorie avrebbero contattato i consumatori proponendo l’attivazione di contratti di energia e di telefonia, sulla base di informazioni ingannevoli circa l’identità del chiamante, l’oggetto della telefonata, la convenienza economica delle offerte commerciali proposte. Peraltro spesso sarebbero state usate numerazioni camuffate con la tecnica del cosiddetto Cli spoofing che consente di manipolare l’identificativo del numero di telefono. Le modalità di telemarketing sarebbero varie, tutte accomunate dalla trasmissione di informazioni non trasparenti e ingannevoli. In particolare, nel settore dell’energia è emerso che gli operatori telefonici si presenterebbero spesso come dipendenti dell’attuale fornitore o di Autorità di regolazione e controllo e definirebbero poco convenienti le tariffe applicate.

    In altri casi presenterebbero problematiche tecniche o difficoltà nello switching in atto che renderebbe necessaria la stipula di un nuovo contratto di fornitura. Nel settore delle telecomunicazioni, invece, durante le telefonate – per indurre il consumatore a cambiare operatore – verrebbero prospettati falsi disservizi sulla linea o imminenti rincari di prezzo del servizio da parte dell’operatore dell’utente chiamato. Altre volte i consumatori sarebbero indotti ad attivare una nuova offerta (con un altro operatore o anche con quello con cui si è già contrattualizzati), dopo che sono prospettate condizioni contrattuali particolarmente favorevoli che poi si rivelano false. L’Autorità ricorda che, insieme ad Arera, ha promosso la campagna di comunicazione “Difenditi così” per sensibilizzare il consumatore sui propri diritti e sugli strumenti di difesa dai call center insistenti e aggressivi. Sul sito www.difenditicosi.it è possibile trovare tutte le informazioni a riguardo. Attivo anche il numero verde gratuito dell’Agcm per la tutela del consumatore 800.166.661 (dal lunedì al venerdì, h. 10-14). Ieri sono state svolte ispezioni presso le sedi delle società coinvolte nell’istruttoria, in collaborazione con il Nucleo speciale della Guardia di finanza. A tal proposito, il presidente dell’Autorità, Roberto Rustichelli, ha dichiarato: “Esprimo vivo apprezzamento per il lavoro svolto dalle donne e dagli uomini del Nucleo speciale Antitrust e dei reparti territoriali della Gdf delle province di Napoli e Caserta”.

  • L’anno scorso l’Italia ha venduto all’Algeria beni per 14 miliardi

    Il volume degli scambi commerciali tra Italia e Algeria ha raggiunto nel 2024 un valore di quasi 14 miliardi di euro. Secondo i dati diffusi dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) e dall’Agenzia italiana per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice), ottenuti da “Agenzia Nova”, le esportazioni italiane hanno toccato i 2,9 miliardi di euro, registrando una crescita del 2,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2023, mentre le importazioni italiane dall’Algeria si sono attestate a circa 11 miliardi di euro, con una diminuzione di oltre il 21 per cento. Il calo delle importazioni è stato determinato principalmente dalla flessione dell’acquisto di gas naturale, che rappresenta comunque la componente principale dell’import dall’Algeria. Nel 2024, infatti, l’Italia ha importato gas per un valore di 9,4 miliardi di euro, in calo del 23,5 per cento rispetto all’anno precedente. A questi si aggiungono oltre un miliardo di euro di prodotti derivati dalla raffinazione del petrolio, in aumento del 29,7 per cento, mentre le importazioni di petrolio greggio si sono fermate a 457 milioni di euro, segnando una contrazione del 42,3 per cento.

    Dal lato italiano, i prodotti maggiormente esportati verso l’Algeria sono stati i macchinari di uso generale, come turbine, pompe e apparecchiature per la fluidodinamica, per un valore di 285 milioni di euro, in crescita del 31,8 per cento rispetto al 2023. Seguono i macchinari speciali destinati ai cantieri edili, all’industria alimentare, alla lavorazione delle materie plastiche e alla stampa, che hanno raggiunto i 281 milioni di euro, registrando un incremento del 22,9 per cento. I veicoli a motore si sono attestati a 270 milioni di euro, con una flessione del 7,5 per cento rispetto all’anno precedente. Le esportazioni di prodotti derivati dalla raffinazione del petrolio hanno totalizzato 262 milioni di euro, in crescita del 23 per cento, mentre altri macchinari generali, tra cui impianti per il sollevamento e per l’industria chimica e petrolchimica, hanno raggiunto i 230 milioni di euro, con un aumento significativo pari al 41,4 per cento.

    Dal 2021, le relazioni tra Italia e Algeria hanno registrato un notevole rafforzamento, favorito dallo scambio di visite ufficiali tra i presidenti dei due Paesi, Sergio Matterella e Abdelmajid Tebboune, e dalla firma di numerosi accordi di partenariato strategico, basati sul principio del mutuo beneficio. Sebbene il settore energetico rimanga al centro dei rapporti bilaterali, la cooperazione si è progressivamente estesa anche ad altri settori, come ad esempio le auto (con l’apertura di una fabbrica Fiat a Orano) e l’agricoltura (con il progetto agricolo di Timimoun di Bf Spa) grazie alla volontà comune di diversificare gli ambiti di collaborazione. L’Algeria, da parte sua, ha sviluppato un piano per potenziare la commercializzazione dei propri prodotti energetici attraverso l’Italia, riconoscendo il ruolo strategico della penisola come hub di transito verso l’Europa. Parallelamente, l’Italia ha intensificato la propria presenza in Algeria non solo come cliente privilegiato per le forniture di gas, ma anche come investitore in settori chiave per la diversificazione economica del Paese nordafricano.

    Gli investimenti italiani in Algeria sono in crescita, a testimonianza della volontà politica di consolidare il partenariato economico, anche alla luce del Piano Mattei promosso dal governo italiano. Tale iniziativa strategica punta a favorire uno sviluppo sostenibile in Africa, attraverso progetti concreti nei settori dell’energia, delle infrastrutture, dell’agricoltura e della formazione. Vale la pena sottolineare che ad Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, è largamente riconosciuto in Algeria un altissimo ruolo di sostegno, amicizia e vicinanza durante gli anni della guerra di liberazione nazionale (1954-1962). Infatti, Mattei ha storicamente sostenuto sia il Fronte di liberazione nazionale, sia il governo provvisorio della Repubblica algerina, al quale ha fornito un apporto significativo all’interno dei negoziati degli Accordi di Evian. Il suo nome evoca anche il numero elevato di studenti algerini, futuri quadri e dirigenti dell’industria petroliera ed energetica, formati su sua iniziativa nelle scuole dell’Eni a San Donato Milanese.

  • Aumenta l’export dell’Italia fuori dalla Ue

    Secondo i dati diffusi dall’Istat sul commercio estero dell’Italia, al momento disponibili verso i soli Paesi extra Ue, nel primo trimestre del 2025 l’Italia ha esportato beni per 76,3 miliardi di euro, registrando – rispetto al primo trimestre del 2024 – un incremento del 3,1 per cento. Lo riferisce la Farnesina in una nota. Sempre nel primo trimestre del 2025 l’Italia ha importato beni per 65,2 miliardi di euro, registrando rispetto al primo trimestre del 2024 un incremento dell’11,7 per cento. Il saldo commerciale del primo trimestre del 2025 con i Paesi extra Ue è stato positivo e pari a 11,2 miliardi di euro. Al netto del settore energetico (in deficit di 13,2 miliardi di euro), l’avanzo commerciale è stato pari a 24,4 miliardi di euro. A livello geografico, al momento disponibile solo per i principali partner commerciali extra Ue dell’Italia, l’incremento in valore delle esportazioni ha coinvolto in particolare i seguenti Paesi o aree: Paesi Opec (+16,8 per cento), Medio Oriente (+13,7 per cento), Paesi Mercosur (+12,8 per cento), Stati Uniti (+11,8 per cento), Svizzera (+11,2 per cento), Regno Unito (+8,5 per cento), India (+5,6 per cento) e Giappone (+2 per cento). Hanno invece registrato una diminuzione le esportazioni verso Paesi Asean (-1,6 per cento), Cina (-11,2 per cento), Turchia (-18,3 per cento) e Russia (-18,7 per cento).

    A livello settoriale, al momento disponibile solo per raggruppamenti di beni, l’aumento delle esportazioni è sostenuto in particolare dalle maggiori vendite di beni di consumo non durevoli (+13,1 per cento) e beni intermedi (+4,7 per cento). L’incremento delle importazioni è stato generalizzato e più ampio per beni di consumo durevoli (+30,5 per cento) e non durevoli (+26,1 per cento) e beni intermedi (+10,9 per cento). Considerando il solo mese di marzo 2025, rispetto a marzo 2024, le esportazioni italiane verso i Paesi extra Ue hanno registrato una crescita del +7,5 per cento. Tale aumento è stato determinato soprattutto dall’aumento delle vendite di beni di consumo non durevoli (+20,7 per cento) e beni strumentali (+10,4 per cento). Anche le importazioni italiane verso i Paesi extra Ue hanno registrato un incremento dell’8,7 per cento, cui hanno contribuito i maggiori acquisti in particolare di beni di consumo, durevoli (+33,6 per cento) e non durevoli (+32,4 per cento).

  • Crollo delle borse come scialuppa di salvataggio

    Il crollo delle borse di questi ultimi due giorni va considerato in relazione anche alle dinamiche delle operazioni di borsa le quali vengono gestite al 75% dagli algoritmi, e quindi non esprimono una valutazione complessiva su un determinato momento economico come quello dell’introduzione dei dati da parte dell’amministrazione statunitense. Esattamente come ogni crescita degli indici di borsa il loro stesso recente tracollo deve essere considerato come un fattore relativo e non decisivo.

    Tuttavia emerge evidente come le maggiori perdite dei titoli riguardino quelle aziende che hanno fatto della globalizzazione priva di ogni regola, auspicata dal WTO, la propria chiave di successo. Queste aziende si sono prodigate nella ricerca, delocalizzando le produzioni, del costo del lavoro minore e contemporaneamente di quadri normativi a tutela dei lavoratori e delle prodotti meno impegnativi. In altre parole, la ricerca è stata imperniata sulla caccia di realtà economiche e statali che assicurassero un dumping salariale, fiscale e normativo.

    La vicenda dei dazi, in più, meriterebbe di essere approfondita ed interpretata in un’ottica che inquadri il dazio non solo come un fattore economico per rilasciare l’occupazione statunitense. La tanto contestata iniziativa dell’amministrazione Trump esprime al proprio interno anche una leva politica. In altre parole, il dazio, come una sua eventuale attenuazione, si dimostra uno strumento con l’obiettivo di invitare gli alleati occidentali ad acquistare i “Matusalem Bond”, titoli del debito americano a scadenza 100 anni che hanno l’obiettivo di azzerare la quota del 2,01% di debito americano ancora in mano alla Cina. Di fronte a questa scelta degli alleati occidentali ecco che la percentuale del dazio applicato dagli Stati Uniti potrebbe ridursi.

    Questa opzione va ovviamente introdotta all’interno di un’ottica che inquadra la Cina come il vero pericolo in un prossimo confronto bellico, anche in considerazione delle recenti manovre che hanno visto un inaspettato aumento della potenzialità militare del colosso cinese che potrebbe addirittura anticipare una possibile invasione di Taiwan, una volta fissata al 2030.

    L’Unione Europea in questo contesto si rivela ancora una volta spettatrice ignara, confermando come reciti il ruolo di una istituzione marginale ed espressione di competenze politiche economiche e strategiche assolutamente insufficienti, quindi non in grado di comprendere le dinamiche geopolitiche e tanto meno il proprio ruolo sempre più marginale.

    In questo contesto si aggiunga come nel nostro Paese si continuino ad aumentare la pressione fiscale, ora al 50,6% (+1,5 rispetto al 2023) come certificato dall’ISTAT, e, a doppia cifra ormai, il costo dell’energia.

    L’effetto paradossale dei dazi statunitensi si rivela, quindi, come la scialuppa di salvataggio per una classe politica europea che ha investito nel delirio ambientalista con il Green Deal ed ora ha la possibilità di trovare un capro espiatorio, individuato appunto nell’introduzione dei tassi, per nascondere la propria responsabilità del disastro economico europeo.

    Contemporaneamente nel nostro Paese il governo trova nei dazi il fattore di distrazione di massa, in quanto fino ad oggi non si è dimostrato in grado di rispondere alle 24 flessioni costitutive della produzione industriale con una adeguata politica energetica che ponga le basi per un risveglio economico atteso ormai da due anni.

  • Il commercio con regole comuni rispettate strumento per impedire i conflitti

    Incertezza e volatilità rimangono alte, la politica dei dazi di Trump per ora ha portato solo effetti negativi nelle borse europee ed anche le statunitensi non sono scevre di problemi, mentre, ovviamente, continua a rafforzarsi l’oro, che non è solo un bene rifugio dei singoli ma, da tempo, è acquistato dai fondi sovrani vista l’incertezza sia economica che politica.

    Ha ricominciato a salire l’inflazione e non è da escludere che la diminuzione dei tassi di interesse degli ultimi mesi si trasformi invece in nuovi aumenti.

    Le conseguenze economiche le vedremo nei prossimi giorni e molto dipenderà anche dalla capacità delle imprese europee ed italiane di indirizzarsi su nuovi mercati e di saper rispondere in modo accorto ai dazi americani, certo è che se qualche paese pensa di poter uscire da solo dalla crisi sbaglia.

    La trattativa con gli Stati Uniti può avere successo solo agendo tutti insieme mentre sembra che Trump, per dividere l’Europa, potrebbe provare a stringere accordi con singoli stati.

    Il commercio, con regole comuni rispettate, è uno strumento per impedire guerre e conflitti e portare benessere e sviluppo, per questo proprio in questo momento sarebbe necessario che l’Europa si impegnasse per ottenere una riorganizzazione dell’Organizzazione mondiale del commercio, OMS, che da dopo l’ingresso della Cina ha dimostrato di non essere più all’altezza dei suoi compiti, problema del quale si parla da anni senza concludere.

  • La scommessa dei dazi americani

    Un eminente analista politico americano non pregiudizialmente ostile a Trump, Stephen Kotkin, dice di lui: “Trump è la quintessenza dell’America…non è un alieno che è atterrato da qualche altro pianeta… riflette qualcosa di profondo e duraturo nella cultura americana. Pensate a tutti i mondi che ha frequentato e che lo hanno innalzato. Wrestling professionistico, reality TV, casinò e gioco d’azzardo non sono più solo a Las Vegas o Atlantic City ma ovunque, incorporati nella vita quotidiana. Cultura della celebrità. I social media. Tutto questo mi sembra l’America. E sì, anche la frode, la menzogna sfacciata e la roba di P. T. Barnum, imbonitore di Carnevale. Questo è un pubblico non piccolo, ed è da dove viene Trump e chi è”. Poco dopo, a scanso di equivoci, aggiunge: “E’ passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo avuto competenza e compassione ai vertici” (Purtroppo, detto per inciso, è successo lo stesso da noi in Europa).

    Tali considerazioni non possono essere dimenticate nel giudicare le sue scelte politiche, sia quelle annunciate sia quelle realizzate, e ciò in aggiunta al fatto che Trump non ha cultura politica e ragiona solo come un imprenditore. In particolare bisogna tenerne conto quando valutiamo la questione dei previsti dazi alle importazioni di merci verso gli Stati Uniti. In questo caso è ancora più evidente l’attitudine di Trump a giocare d’azzardo. Secondo l’interpretazione più accreditata la sua è una scommessa, seppur rischiosa e potenzialmente pericolosa sia per gli USA sia per quel resto del mondo che subirà le nuove tariffe doganali.

    Non si può, comunque, dimenticare che gli USA soffrono oggi di un forte deficit commerciale negli scambi con l’estero e l’obiettivo dichiarato dal Presidente americano è di “trasformare ancora una volta l’America nella superpotenza manifatturiera del mondo”. Attualmente gli scambi con l’estero sono negativi per circa 920 miliardi di dollari, di cui circa 100 con la Germania e 40 con l’Italia (per noi gli USA sono il secondo mercato mondiale dopo la UE e le esportazioni costituiscono il 33,7% del nostro PIL). Interessante è anche sapere che durante il suo primo mandato aveva ereditato un minus di 503 miliardi, cifra che quattro anni dopo era diventata di 626 miliardi nonostante fosse riuscito a ridurre quella con la Cina di ben 39 miliardi. Pure Biden aveva provato a ridurre il deficit mantenendo i dazi imposti da Trump e perfino aggiungendone qualcuno di nuovo ma, anche per lui, il risultato finale fu negativo: le perdite aumentarono addirittura di quasi 300 miliardi. In entrambe le presidenze l’effetto di questo tipo di operazioni ha trascinato l’aumento dell’inflazione interna causata dal maggiore costo dei beni importati. Ciò senza un aumento generalizzato della produzione delle aziende manifatturiere locali.

    L’annuncio e l’applicazione di nuovi e importanti dazi doganali non potrà che coinvolgere un ulteriore aumento dell’inflazione per i consumatori americani e una successiva possibile reazione speculare dei Paesi colpiti da quelle misure. È oggettivamente impossibile che Trump e il suo staff non abbiano calcolato queste probabili conseguenze ma, evidentemente, contano sul fatto che gli USA sono, e restano, il potere economico e militare più grande del mondo e tocca quindi a loro fissare le regole del gioco. Ecco dunque la scommessa: le nuove tariffe doganali americane dovrebbero mettere in ginocchio le economie di tutti i Paesi che vantano un attivo nella loro bilancia commerciale con gli USA. E tale effetto dovrebbe avvenire prima e in modo più pesante di quando e di quanto ne soffriranno i consumatori sul mercato interno a stelle e strisce. A questo punto, le controparti straniere cercherebbero di negoziare in qualche modo e gli americani potrebbero darsi disponibili a rivedere i dazi soltanto in cambio di un riequilibrio degli scambi bilaterali. In altre parole meno dazi se le controparti si impegnano a comprare più prodotti made in USA. Funzionerà oppure no? Chi soffrirà per primo o di più? Per ora, nessuno può rispondere con una verosimile certezza a questa domanda.

    Tuttavia, nelle menti di alcuni degli economisti trumpiani esiste anche un’altra teoria.

    Gli avversari della politica dei dazi (sono tanti anche negli USA) ricordano le conseguenze negative per l’economia interna e internazionale della Smooth-Hawley Tariff Act del 1930. Questa legge aumentò le tariffe doganali su più di 20.000 prodotti importati e contribuì in modo determinante alla crisi cominciata nel ’29. Secondo i sostenitori della nuova politica tariffaria c’è però una differenza fondamentale tra gli USA di allora e quelli di oggi. In quel periodo gli Stati Uniti avevano il più grande surplus commerciale del mondo ed erano la patria dei maggiori esportatori del pianeta. Contemporaneamente, i consumatori interni non erano in grado di assorbire con i loro consumi tutto ciò che le imprese americane producevano. Attualmente la situazione è esattamente il contrario: gli americani investono e consumano molto di più di quanto producono ed hanno oggi il più grande deficit commerciale della loro storia.

    I dazi sono effettivamente una tassa sui consumatori ma, aumentando il prezzo della produzione e di altri beni commerciabili, i dazi fungono implicitamente anche da sussidio per i produttori nazionali. Mentre nel primo caso gli Stati Uniti soffrivano di troppo risparmio e troppo poco consumo e dovevano quindi esportare tutto ciò che potevano nel resto del mondo (esattamente come oggi fa la Cina), oggi avviene il contrario: producono molto meno di quanto consumino. Tassando i consumi attraverso i dazi si sovvenziona così la produzione interna e si reindirizzerà necessariamente una parte della domanda verso l’aumento della quantità di beni e sevizi prodotti in casa. Ciò aumenterebbe il Pil degli Stati Uniti (e anche l’inflazione) con conseguente aumento dell’occupazione, salari più alti e meno debito. Le famiglie americane sarebbero in grado di consumare ancora di più in valori assoluti, anche se il consumo in percentuale del Prodotto Interno Lordo diminuisse.

    Come è ovvio, l’economia non è una scienza esatta (ma esistono le scienze “esatte”?) e, di conseguenza, ogni ipotesi è pura teoria che potrà essere verificata solo con i fatti. Ciò che è indiscutibile resta che l’attuale economia americana, pur essendo la più importante del mondo non è del tutto sana. Secondo la banca Mondiale nel 2023 gli Stati Uniti hanno avuto un PIL di più di 27 mila miliardi di dollari (le esportazioni incidono solo per circa l’11%), la Cina di 18 mila, la Germania 4500, il Giappone 4200 e l’Italia di soli 2200. Nello stesso tempo, tuttavia, il debito sovrano in rapporto al PIL è di ben il 144% e lo squilibrio commerciale resta il più grande del mondo. Non c’è allora da stupirsi che Washington sperimenti qualche tecnica per cercare di rimediare ad una situazione non idilliaca. Se il calcolo degli economisti trumpiani si dimostrerà corretto avrà avuto ragione Trump quando diceva che i consumatori americani dovranno soffrire un poco all’inizio ma poi torneranno a stare bene e perfino meglio di prima. Se invece si sbagliassero e i dazi fossero applicati e mantenuti, le conseguenze economiche negative per i consumatori americani saranno piuttosto pesanti.

    Comunque vada, seppur in misura diversa, tutti i Paesi del mondo ne soffriranno, a partire da quelli che attualmente vivono di esportazioni come Italia e Germania. Soprattutto sarà colpita la Cina a meno che riesca, come sta provando a fare da qualche anno senza risultato, a rilanciare i consumi interni in misura sufficiente da assorbire la locale sovrapproduzione.

  • La Cina controlla oltre un quarto dei porti commerciali africani

    Con un totale di 231 porti commerciali esistenti in Africa, le aziende cinesi sono presenti in oltre un quarto degli “hub” marittimi del continente, essendo azioniste attive di 78 porti in 32 Paesi. Lo evidenzia nel suo ultimo studio il Centro per gli studi strategici sull’Africa, istituto affiliato al dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, specializzato in ricerche focalizzate su sicurezza e geopolitica. Secondo lo studio, le aziende statali cinesi sono azioniste attive di circa 78 porti come costruttori, finanziatori o operatori diretti, con una predilezione per i terminal dell’Africa occidentale (35 porti), seguiti dalle coste orientale (17), australe (15) e settentrionale (11). Si tratta, osservano i tecnici, di una presenza molto più capillare rispetto a quella di altre regioni: a titolo di confronto, l’Asia ospita 24 porti costruiti o gestiti dalla Cina, l’America latina e i Caraibi dieci.

    In alcuni scali africani le aziende cinesi dominano l’intera impresa di sviluppo portuale, dalla finanza alla costruzione, alle operazioni e alla proprietà azionaria. Grandi conglomerati come la China Communications Construction Corporation (Cccc) si sono aggiudicati i lavori come appaltatori principali, assegnando in seguito subappalti ad aziende sussidiarie come la China Harbor Engineering Company (Chec): è questo il caso del porto nigeriano di Lekki, uno dei più trafficati dell’Africa occidentale, dove la Chec ha effettuato i lavori di progettazione e costruzione dopo aver ottenuto un prestito dalla China Development Bank (Cdb), acquisendo al termine una quota finanziaria del 54 per cento nel porto, che gestisce con un contratto di locazione di 16 anni. Oltre al porto di Lekki, in Africa occidentale le aziende cinesi detengono oltre il 50 per cento di quota nel terminal di Kribi, in Camerun (66 per cento) e in quello di Lomé, in Togo (50 per cento).

    In questo quadro si inserisce il più ampio piano di sviluppo, da parte di Pechino, di una connettività globale articolata lungo sei corridoi, altrettante rotte e diversi porti e Paesi del mondo: si tratta dell’Iniziativa Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri), progetto dal quale l’Italia si è sfilata a fine 2023 ma che continua a rappresentare per la Cina un progetto strategico di primaria importanza, e per l’Africa un’opportunità difficilmente trascurabile. Tre dei sei corridoi del piano cinese attraversano infatti il continente, approdando nell’Africa orientale (Kenya e Tanzania), nella regione egiziana di Suez e in Tunisia. Un fattore che conferma, una volta di più, il ruolo centrale che il continente africano riveste nelle ambizioni globali di Pechino. Nel piano quinquennale Bri (2021-2025), del resto, si sottolinea la volontà di trasformare la Cina in “un forte Paese marittimo”, parte di un più ampio ringiovanimento come “Grande potenza” dotata di “punti di forza strategici all’estero”. Nello sviluppo della Nuova via della Seta, Pechino ha inoltre progettato di collegare i nuovi corridoi commerciali e i 16 Paesi africani senza sbocco al mare ai porti, come strategia di affaccio su nuovi mercati.

    Lo studio si concentra anche sulle ripercussioni in termini di potere territoriale che la gestione di contratti di locazione operativa o di concessioni portuali alla Cina comporta. Tramite le sue aziende, Pechino detiene concessioni operative in 10 porti africani, assicurandosi un controllo strategico degli accessi. Oltre ai benefici finanziari dati dalle attività marittime, infatti, l’operatore portuale determina l’assegnazione dei moli, accetta o nega gli scali portuali e può offrire tariffe e servizi preferenziali per le navi e il carico della sua nazione. Il controllo sulle operazioni portuali da parte di un attore esterno – osservano i relatori del rapporto – solleva dunque preoccupazioni in termini di sovranità e sicurezza, motivo che ha spinto alcuni Paesi a vietare la gestione da parte di operatori portuali stranieri. Nonostante i rischi di perdita del controllo, tuttavia, la tendenza in Africa è quella di privatizzare le operazioni portuali per migliorarne l’efficienza. Fra i rischi collegati ad una gestione portuale affidata ad attori esterni c’è peraltro quello legato al supporto logistico ad attività militari. Il porto Doraleh di Gibuti, ad esempio, per anni promosso da Pechino con scopi unicamente commerciali, è stato ampliato per ospitare nel 2017 una struttura navale. Da quell’anno il piccolo Paese del Corno d’Africa ospita così la prima base militare cinese all’estero, con un modello che secondo alcuni potrebbe essere replicato altrove nel continente.

    La crescente presenza di aziende cinesi nei porti africani promuove inevitabilmente anche gli obiettivi militari di Pechino. In 36 dei 78 siti portuali in cui sono coinvolte le aziende cinesi – oltre il 46 per cento del totale – possono attraccare le navi della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione. È il caso dei porti di Abidjan (Costa d’Avorio), Gentil (Gabon), Casablanca (Marocco), Tamatave (Madagascar), Maputo (Mozambico), Tincan (Nigeria), Pointe-Noire (Repubblica del Congo), Victoria (Seychelles), Durban e Simon’s Town (Sudafrica). Alcuni di questi porti, si precisa ancora nel rapporto, sono stati negli anni anche basi di partenza per esercitazioni militari dell’Esercito Popolare di Liberazione. Tra questi ci sono i porti di Dar es Salaam (Tanzania), Lagos (Nigeria), Durban (Sudafrica) e Doraleh (Gibuti). Quest’ultimo ha coinvolto esercitazioni con l’Etiopia, Paese che dall’indipendenza conquistata dalla vicina Eritrea (1993) è ormai senza sbocco sul mare e persegue un’aggressiva campagna politica per riconquistarlo.

    Le truppe cinesi hanno anche fatto uso di strutture navali e terrestri per alcune delle loro esercitazioni, tra cui la base navale di Kigamboni in Tanzania, il centro di addestramento militare completo di Mapinga e la base aerea di Ngerengere, tutte costruite da aziende cinesi. La Awash Arba War Technical School ha svolto uno scopo simile in Etiopia, così come le basi di altri paesi. In totale, secondo il centro studi statunitense dal 2000 ad oggi l’Esercito Popolare di Liberazione ha effettuato in Africa 55 scali portuali e 19 esercitazioni militari bilaterali e multilaterali. Una presenza che si declina, oltre agli impegni militari diretti, anche nella gestione della logistica militare. Un caso fra molti è quello dell’impresa statale cinese Hutchison Ports, gruppo che detiene una concessione di 38 anni dalla Marina egiziana per gestire un terminal presso la base navale di Abu Qir, a nord-est di Alessandria.

  • Putin si fa la base navale in Sudan

    Il Sudan e la Russia hanno raggiunto un accordo definitivo sulla creazione di una base navale russa sulla costa sudanese del Mar Rosso. Ad annunciarlo è stato il ministro degli Esteri sudanese Ali Youssif, nel corso di una visita ufficiale a Mosca. “Sudan e Russia hanno raggiunto un’intesa sull’accordo riguardante la base navale russa”, ha detto Youssif in una conferenza stampa congiunta con l’omologo russo Sergej Lavrov. “Siamo in completo accordo su questa questione e non ci sono ostacoli. Abbiamo raggiunto un’intesa reciproca sul tema. Pertanto, la questione è molto semplice. Siamo d’accordo su tutto”, ha aggiunto, senza tuttavia fornire ulteriori dettagli. Il progetto per la costruzione di una base navale russa sulla costa sudanese del Mar Rosso è in cantiere da diversi anni e sembrava sul punto di essere finalizzato alla fine del 2020, tuttavia il colpo di Stato militare in Sudan dell’ottobre 2021 e il conflitto scoppiato nell’aprile 2023 hanno finito per congelarlo.

    Un primo accordo per la creazione di un punto di supporto logistico (Lsp) per la Marina russa era stato concluso nel 2017. Successivamente, nel novembre 2020, i due governi avevano firmato un accordo preliminare – della durata di 25 anni – per stabilire quello che è stato descritto come un polo logistico navale russo in Sudan, che dovrebbe arrivare ad ospitare un massimo di 300 militari e fino a quattro navi da guerra, comprese imbarcazioni a propulsione nucleare. Tuttavia, a causa dell’inerzia burocratica e dei cambiamenti nel panorama politico sudanese – culminati prima con il rovesciamento del presidente di lunga data Omar al Bashir e con il colpo di Stato militare dell’ottobre 2021, poi con lo scoppio del conflitto civile nell’aprile 2023 – il progetto è rimasto congelato e non è mai stato ratificato dal parlamento sudanese, che nel frattempo è stato sciolto.

    Il Mar Rosso, del resto, costituisce una rotta strategica di vitale importanza per il commercio globale, nonché un punto caldo dal punto di vista geopolitico. Per Mosca, in particolare, disporre di una propria presenza in quell’area sarebbe d’importanza prioritaria, a maggior ragione dopo aver perso – in seguito al rovesciamento del regime siriano di Bashar al Assad – la sua base militare di Tartus, che per anni ha costituito il suo avamposto nel Mediterraneo. È con questo obiettivo che, stando a fonti citate da alcuni media internazionali, negli ultimi mesi funzionari russi avrebbero visitato la città di Port Sudan, divenuta di fatto la capitale del Sudan dall’inizio della guerra, nel tentativo di stringere legami con entrambe le parti in conflitto. Se infatti all’inizio delle ostilità il Cremlino ha sostenuto le Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, con il quale ha per anni coltivato stretti legami nello sfruttamento delle miniere d’oro del Darfur, negli ultimi mesi la posizione di Mosca – mai resa ufficiale – sembrerebbe essere mutata, visti anche gli sviluppi della guerra che sembrano nel frattempo pendere a favore delle Forze armate sudanesi (Saf).

    Secondo l’Istituto per lo studio della guerra (Isw), con sede a Washington, in cambio del permesso di mantenere una presenza navale in Sudan, la Russia si sarebbe impegnata a fornire supporto militare alle Saf. Un cambio di rotta reso palese dalla visita a Port Sudan effettuata nell’aprile scorso dal vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov, che in quel frangente ha auspicato una maggiore cooperazione con il Sudan e ha espresso sostegno alla “legittimità esistente nel Paese rappresentata dal Consiglio sovrano”, il massimo organo di governo cui è a capo il generale Abdel Fattah al Burhan. In quella stessa occasione Bogdanov avrebbe anche promesso all’esercito sudanese aiuti militari “senza restrizioni”. Da allora, inoltre, Mosca avrebbe avviato le esportazioni di gasolio verso il Sudan, nel tentativo di cercare nuovi sbocchi dopo le sanzioni internazionali imposte in seguito all’invasione dell’Ucraina.

    Secondo gli analisti, la realizzazione di una base navale russa sul Mar Rosso sarebbe una logica continuazione delle azioni militari della Russia nel continente africano. Negli ultimi mesi, specie dopo la “cacciata” dalla Siria, Mosca ha ampliato la sua presenza in Libia, rafforzando le operazioni nelle sue quattro principali basi aeree: la base di Al Khadim, nell’est del Paese; la base di Al Jufra, nel centro; la base di Al Brak al Shati, a sud-ovest di Sebha, capoluogo della regione di Fezzan; e la base di Al Qurdabiya, a Sirte, nella zona centro-settentrionale. Queste basi ospitano una varietà di attrezzature militari, tra cui difese aeree, caccia MiG-29 e droni, e sono gestite da una contingente misto di militari russi e mercenari del gruppo Wagner, lontano dalla supervisione delle autorità libiche. Secondo fonti libiche consultate da “Agenzia Nova”, inoltre, Mosca ha recentemente ampliato la sua presenza con una nuova base militare, quella di Maaten al Sarra, al confine con il Ciad e il Sudan. Le immagini satellitari ad alta risoluzione pubblicate da Maxar Technologies a dicembre mostrano chiaramente l’estensione della pista e la costruzione di edifici che sembrano essere alloggi, confermando le informazioni in possesso di “Nova”.

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