Commercio

  • Superata la Germania, l’Italia terza nell’arredo

    Rallenta ma non si ferma la crescita del settore dell’arredo a livello globale, nel cui firmamento brilla la stella del Made in Italy, con il nostro Paese che scavalca la Germania e conquista il terzo posto dietro ai colossi Cina e Stati Uniti.

    L’incertezza economica, rileva l’Area Studi Mediobanca, dovrebbe contenere lo slancio del comparto al 5% nel 2023, dopo un 2022 e un 2021 cresciuti a doppia cifra, rispettivamente del 12% e del 14%. Le previsioni di lungo periodo sono comunque positive e stimano un incremento del giro d’affari globale dai 530 miliardi del 2022 a 690 miliardi nel 2027. La Cina, seppure in frenata, mantiene una leadership indiscussa, con il 37,1% della produzione mondiale e il 34,1% delle esportazioni. Seguono, a grande distanza, gli Stati Uniti (13,6%) e l’Italia che, grazie a una market share del 4,5%, scavalca la Germania (4,3%) al terzo posto. Dopo la Polonia il nostro Paese è il secondo esportatore dell’Ue a 27, a cui destina il 45,9% del suo export, e il quarto al mondo, alle spalle di Polonia, Vietnam e della solita Cina.

    Lo studio analizza anche i bilanci di 286 aziende italiane con un fatturato superiore ai 10 milioni. Nel 2021 l’aggregato ha realizzato ricavi per 14 miliardi (+23,8%) riprendendosi dal calo del 5% subito nel 2020 a causa della pandemia. Trend che dovrebbe essere continuato nel 2022, con un aumento del fatturato del 18%, più sul mercato estero (+20%) che su quello interno (+16%), mentre per quest’anno il 57% delle aziende prevede un incremento, seppur più contenuto, di fatturato ed export, il 32% un calo e l’11% uno stallo.

    “Qualità dell’offerta settoriale” e «specializzazione nell’alto di gamma” sono, a detta di Mediobanca, gli ingredienti del nostro “successo” all’estero, mercato da cui nel 2021 è arrivato il 55,2% dei ricavi, con l’Italia “punta di diamante” nel segmento da oltre 50 miliardi dell’arredo di lusso. Svecchiamento e carenza di forza lavoro qualificata, riorganizzazione della supply chain per ridurre la dipendenza dall’estero, specialmente di legno, e spinta sulla digitalizzazione per aumentare le vendite online sono invece le sfide che attendono il settore.

  • Boom degli acquisti online di prodotti di seconda mano

    Il re-commerce sta assumendo un ruolo sempre più importante nel mondo del retail, dove i consumatori tendono a cercare opzioni di acquisto sempre più convenienti e sostenibili. In particolare, secondo i dati del sondaggio recentemente riportato da TechCrunch circa l’82% dei consumatori a livello globale vende e/o acquista prodotti second-hand.

    I fattori che spingono i consumatori a optare per il re-commerce sono legati principalmente alla “caccia all’affare”, che consente loro di risparmiare attraverso l’acquisto di prodotti di marca ad un prezzo accessibile e/o di guadagnare grazie alla vendita di articoli di seconda mano, che costituisce per molti un’ulteriore fonte di reddito. In particolare, per Gen Z (13%) e Millennial (19%) il re-commerce è diventato una fonte di reddito primaria o secondaria (30% per entrambi). Altra motivazione è rappresentata dalla ricerca di stili di consumo più sostenibili: se pensiamo che solo nel settore dell’abbigliamento ogni anno vengono scartati o distrutti prodotti invenduti o in eccesso per un valore complessivo di miliardi di dollari, e ne consideriamo l’impatto ambientale (l’industria della moda contribuisce fino al 10% delle emissioni di gas serra a livello mondiale), è facile comprendere il riscontro positivo del re-commerce in termini di sostenibilità. Forbes USA rivela che il 62% di Millennial e Gen Z preferisce acquistare capi prodotti da marchi che integrano una strategia di sostenibilità. Tutti fattori che accelerano la crescita del mercato del re-commerce, che si prevede raggiungerà 289 miliardi di dollari entro il 2027 (+80% rispetto al 2021), crescendo 5 volte più rapidamente del mercato del retail complessivo. Questa tendenza che si sta verificando a livello globale, si sta riflettendo anche nelle abitudini di acquisto dei consumatori italiani: secondo il sondaggio realizzato da Lega Coop e IPSOS, presentato lo scorso maggio, circa 1 italiano su 2 ha acquistato almeno un prodotto usato negli ultimi 3 anni. In un mercato in cui il consumatore tende ad acquistare più spesso su canali digitali piuttosto che in negozi fisici, la maggior parte degli acquisti avviene tramite marketplace di re-commerce online (61%). Basti pensare che gli utenti trascorrono 27 minuti al giorno su queste piattaforme, poco meno del tempo che si trascorre su social come Facebook, Instagram o Snapchat (circa 30 minuti al giorno).

    Come riportato da Forbes USA, si stima che le piattaforme di rivendita stiano progredendo ad un tasso di crescita annuale composto superiore al 34%. Il volume di rivendita di articoli di moda online negli Stati Uniti raddoppierà tra il 2022 e il 2026, quando raggiungerà i 23,92 miliardi di dollari. In quest’ottica “è importante per le aziende del mondo retail dotarsi di applicazioni e piattaforme digitali modulari e flessibili ispirati ai principi del Composable Business, per abilitare rapidamente nuovi servizi e modelli di business e per costruire un customer journey semplice, personalizzato e facilmente evolvibile”, secondo Francesco Soncini Sessa, Head of Strategic Alliances di Mia-Platform, tech company italiana che accelera la creazione di piattaforme e applicazioni digitali, e che nel settore Retail supporta le aziende nella costruzione di piattaforme omnicanale basate sui principi di Platform Engineering. “L’utilizzo di soluzioni componibili nel settore retail è diventato fondamentale per le aziende che vogliono rimanere competitive e soddisfare le esigenze in continua evoluzione dei propri clienti. Grazie a un’architettura modulare, i player del settore possono ottenere una maggiore agilità operativa, personalizzazione dell’esperienza cliente, capacità di innovazione continua ed efficienza operativa, aggiungendo, sostituendo o integrando facilmente nuove funzionalità e applicazioni senza dover riscrivere l’intera infrastruttura.”

  • UE-Kenya: conclusi i negoziati per un ambizioso APE con accento sulla sostenibilità

    L’UE e il Kenya hanno annunciato la conclusione politica dei negoziati per un accordo di partenariato economico (APE). L’accordo promuoverà gli scambi di merci e creerà nuove opportunità economiche, con una cooperazione mirata per accrescere lo sviluppo economico del Kenya. Si tratta dell’accordo commerciale più ambizioso dell’UE con un paese in via di sviluppo sotto il profilo delle disposizioni sulla sostenibilità, quali la protezione del clima e dell’ambiente e i diritti dei lavoratori.

    I negoziati si sono conclusi con una cerimonia ufficiale svoltasi a Nairobi, alla quale hanno partecipato il Vicepresidente esecutivo della Commissione europea e commissario per il Commercio Valdis Dombrovskis e il Ministro degli Investimenti, del commercio e dell’industria del Kenya Moses Kuria; era presente anche il Presidente kenyota William Samoei Ruto.

    L’UE è la prima destinazione delle esportazioni e il secondo partner commerciale del Kenya: gli scambi commerciali del 2022 avevano un valore complessivo di 3,3 miliardi di €, in aumento del 27% rispetto al 2018. L’APE creerà ulteriori opportunità per le imprese e gli esportatori kenyoti in quanto aprirà pienamente e in un colpo solo il mercato dell’UE ai prodotti kenyoti e incentiverà gli investimenti dell’UE in Kenya grazie all’accresciuta certezza del diritto e a una maggiore stabilità.

    Il Kenya fa da apripista negli sforzi di sostenibilità del continente africano ed è un alleato affidabile nella lotta ai cambiamenti climatici. Insieme all’UE, all’Ecuador e alla Nuova Zelanda, il paese africano è alla guida della coalizione dei ministri del Commercio sul clima, un’iniziativa avviata quest’anno. L’APE UE-Kenya si basa su questi solidi risultati ed è il primo accordo con un paese in via di sviluppo che rispecchia il nuovo approccio dell’UE in materia di commercio e sviluppo sostenibile. L’accordo contiene solidi impegni in materia di commercio e sostenibilità, tra cui disposizioni vincolanti su diritti dei lavoratori, parità di genere, ambiente e lotta ai cambiamenti climatici.

    L’accordo è equilibrato e tiene conto delle esigenze di sviluppo del Kenya, lasciando al paese un periodo più lungo per aprire gradualmente il proprio mercato, dandogli garanzie sull’agricoltura e proteggendo il suo settore industriale in fase di sviluppo. È stato inserito un capitolo dedicato alla cooperazione economica e allo sviluppo, volto a rafforzare la competitività dell’economia kenyota. Insieme all’assistenza allo sviluppo fornita dall’UE, questo contribuirà allo sviluppo delle capacità e agevolerà il Kenya nell’attuazione dell’APE, aiutando nel contempo gli agricoltori locali a soddisfare le norme dell’UE e a cogliere le opportunità offerte dal presente accordo.

    L’APE dovrà essere sottoposto a revisione giuridica ed essere poi tradotto prima che la Commissione lo presenti al Consiglio per la firma e la conclusione; dopo l’adozione del Consiglio, l’UE e il Kenya potranno firmare l’accordo; successivamente, il testo sarà trasmesso al Parlamento europeo, che dovrà approvarlo.  Le parti potranno quindi decidere di applicare in via provvisoria parti dell’accordo, che entrerà pienamente in vigore una volta ratificato dal Kenya e dagli Stati membri dell’UE.

    L’accordo di partenariato economico tra l’UE e il Kenya mira ad attuare le disposizioni dell’APE UE-Comunità dell’Africa orientale (EAC) e sarà aperto alla futura adesione di altri paesi dell’EAC.

    L’APE e i suoi ambiziosi impegni rappresentano un risultato fondamentale del riesame della politica commerciale svolta dall’UE nel 2021 e della sua politica commerciale con l’Africa; l’accordo aiuta l’UE ad approfondire e ampliare gli attuali accordi commerciali con i paesi africani e a rafforzarne gli obiettivi di sostenibilità.

  • La rupia indiana sta assumendo un ruolo alternativo

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi il 17 maggio 2023

    L’India sta accelerando il processo verso l’utilizzo delle monete locali, ovviamente anche della sua valuta, la rupia, nei commerci internazionali. Poiché l’India non è vista come un nemico, come la Russia, né un pericoloso concorrente, come la Cina, ciò potrebbe, e dovrebbe, essere da stimolo per l’Unione europea e per i singoli Paesi europei, Italia in primis, a immaginare e proporre una possibile riforma del sistema monetario globale, basato appunto su un paniere di monete importanti. Ci sarebbero dei forti alleati.

    Secondo esperti politici indiani «le sanzioni hanno creato un nuovo mondo di paesi che cercano di commerciare utilizzando le proprie valute invece del dollaro Usa». Essi affermano anche che le sanzioni hanno danneggiato paesi terzi, come l’India, responsabili soltanto di avere dei rapporti commerciali con chi, per svariati motivi, è stato oggetto di sanzioni.

    Ad esempio, il Venezuela e l’Iran sono ricchi di petrolio e in passato sono stati i principali fornitori dell’India. Il commercio fu di fatto fermato a causa delle sanzioni statunitensi. Anche il Myanmar ha subito diverse sanzioni, inasprite dopo il recente colpo di stato. A pagarne le spese è stato anche il commercio indiano.

    L’India fa sapere di essere stata anch’essa colpita dalle sanzioni occidentali dopo i test nucleari del 1974 e del 1998. Com’è noto, le sanzioni vietano a persone fisiche e società (comprese le banche) di fare determinate transazioni con controparti nei paesi target. Poiché gran parte del commercio globale è in dollari, le società e i paesi sanzionati non possono più accedere al sistema bancario statunitense e sono, quindi, esclusi dal commercio globale. Ciò rende le aziende diffidenti nel fare affari con paesi sanzionati e rende efficaci le sanzioni statunitensi, anche se molti governi non le riconoscono.

    Una valuta legale si basa sulla fiducia nel governo che la emette. Molti indiani affermano che il governo Usa ha abusato di questa fiducia. Non solo per le sanzioni ma anche per la creazione di denaro eccessivo attraverso l’aumento del proprio debito pubblico.

    L’India riconosce che Pechino desiderava da tempo che la sua moneta sostituisse il dollaro come mezzo di scambio internazionale. Nel 2016 lo yuan è stato aggiunto al paniere di valute utilizzate dal Fmi per calcolare i Diritti Speciali di Prelievo. Nello stesso anno ha creato l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la versione cinese delle istituzioni guidate dall’Occidente come la Banca mondiale e l’Asian Development Bank. L Aiib ha il supporto di oltre 90 paesi e l’India ne è il secondo maggiore azionista.

    Sebbene la sua economia sia più piccola di quella cinese, l’India ha maggiori possibilità di internazionalizzare la sua valuta rispetto alla Cina in quanto è ritenuta più orientata al mercato e più trasparente. L’India sostiene che le sanzioni occidentali contro Russia, Iran e Myanmar rimarranno a lungo e che in futuro altri paesi potrebbero essere presi di mira. Questo timore la sta spingendo a preparare sistemi di pagamento alternativi. L’obiettivo è creare sistemi paralleli che possano consentire il commercio, piuttosto che “sostituire” il dollaro.

    La rupia indiana può fornire uno di questi meccanismi. Lo ha già fatto in passato anche se in modo limitato. Infatti, fino al 1971 essa è stata utilizzata come valuta da molti stati del Golfo Persico, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, ecc. Poi, ripetute svalutazioni hanno spinto questi paesi a creare le proprie monete.

    Si presume erroneamente che l’imperialismo britannico abbia introdotto la rupia nel commercio internazionale, ma essa era una valuta commerciale già liberamente circolante molto prima dell’arrivo delle compagnie europee sulle coste indiane. Gli storici indiani hanno dimostrato che la rupia è stata utilizzata per 500 anni nel commercio con il subcontinente indiano, anche grazie alla presenza di un’influente diaspora commerciale indiana. La storia della rupia dal XVII all’inizio del XX secolo non ha esempi paragonabili nella Cina imperiale di quel periodo.

    Oggi, la United Payment Interface dell’India, un sistema di pagamento in tempo reale sviluppato dalla National Payments Corporation per facilitare le transazioni interbancarie e regolato dalla Reserve Bank of India, consente ai titolari di conti di effettuare pagamenti in rupie in diversi paesi: Singapore, Emirati Arabi Uniti, Mauritius, Nepal e Bhutan. L’India incoraggia attivamente il commercio bilaterale con il Bangladesh e lo Sri Lanka utilizzando la rupia. La banca statale, UCI Bank, che in passato ha facilitato il commercio con l’Iran, programma di espandere le sue attività nell’intera regione asiatica.

    Una nota conclusiva che riguarda l’Europa. Secondo una recente analisi pubblicata da Bloomberg, dall’inizio della guerra in Ucraina e dell’inasprimento delle sanzioni che hanno drasticamente ridotto le importazioni europee di gas e di petrolio dalla Russia, l’India è diventata in primo fornitore di prodotti petroliferi dell’Europa. Non dovrebbe sorprendere che Nuova Delhi importa petrolio principalmente dalla Russia. Resta ancora una domanda: come sono pagate le fatture, in euro, in rupie o ancora in dollari?

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Il vino piace in presenza, l’e-commerce segna il passo

    Segna il passo l’e-commerce di vino in Italia. Dopo il pieno durante il lockdown, che aveva portato – tra il 2019 e il 2021 – alla crescita monstre del 250% del business online in Gdo e in alcune tra le principali piattaforme digitali di vendita, il 2022 chiude con un calo del 15% nei volumi e addirittura del 23% nei valori. Un dato, rileva l’Osservatorio Uv-Ismea su base Ismea-Nielsen IQ – che monitora sia le vendite online dei retailer che quelle di Glovo, Amazon e similari sul web, meno vistoso ma comunque significativo, che segna un ritorno alla normalità anche per chi ha approfittato dell’anomalia pandemica per sostituirsi ai mercati tradizionali.

    Da Unione italiana vini invitano però a osservare il bicchiere mezzo pieno: «Anche con lo stop del 2022, rispetto al pre-covid in due anni il business del vino online è triplicato nei suoi volumi – ha detto il segretario generale di Unione italiana vini, Paolo Castelletti – adesso si dovrà assestare, consolidare. Deve lavorare sempre più sulla cultura delle specificità e sulle nicchie di enoappassionati, sulla qualità più che sulla quantità. Le referenze non potranno riflettere solo quelle che si trovano sugli scaffali». «Sul vino torna a prevalere la convivialità, sia nel consumo che nel rapporto di fiducia col produttore e con l’enotecaro» commenta il presidente di Feudi San Gregorio Antonio Capaldo. Ma per la cantina più importante del Sud «sarebbe un errore abbandonare il canale online che semplifica i rapporto tra addetti del settore, coinvolge nuovi consumatori nativi digitali, permette una comunicazione più esaustiva e quindi acquisti consapevoli». Certo è, rileva l’Osservatorio, che la discesa c’è stata, e a poco è servito abbassare i prezzi – l’e-commerce è stato l’unico tra i canali retail a diminuire i listini in tempi di inflazione – in media del -9,5%. Secondo le elaborazioni del campione Nielsen, lo scorso anno le vendite online sono equivalse a 10,2 milioni di bottiglie (da 0,75/litri), per un controvalore di quasi 52 milioni di euro. Poco in confronto ai volumi espressi in Gdo (l’equivalente di 1 miliardo di bottiglie), tanto se si considera che nel 2019 gli ordini online erano esattamente 3 volte di meno.

    Tra le tipologie preferite dal consumatore digitale, senz’altro le bollicine, che vincono di gran lunga nella proporzione tra bottiglie commercializzate dalla piattaforma rispetto al totale venduto per categoria. E non a caso è stato il Prosecco a registrare di gran lunga il record di vendite nel 2022, con quasi 1,2 milioni di bottiglie, seguiti dagli spumanti Charmat (no Prosecco) con 470 mila pezzi e dai Metodo classico (270 mila). Tra le Dop ferme, primeggia il Chianti, (251 mila bottiglie) con le Igt appannaggio di Lambrusco Emilia e di Terre Siciliane. Nell’analisi sui trend del triennio (2022 vs 2019), Uiv e Ismea rilevano come il vino online nel suo complesso sia cresciuto nei volumi commercializzati del 200%, con incrementi sopra la media per gli spumanti (+235%, con il Prosecco a +283%) e con i vini fermi a +191%. Diverso lo scenario dell’ultimo anno che segna una perdita tendenziale in volume (-15%) per tutte le categorie, a partire da quelle a denominazione (-21% per le Doc/Docg, -10,4% per le Igt) con un decremento meno marcato per i vini comuni (-5,1%).

  • Un mercato illegale che coinvolge 8 milioni di cuccioli

    La Commissione europea, assunti anche i dati forniti per il 2020 dall’eurogruppo per la difesa degli animali, ha avviato piani di controllo coordinati con il settore legato al controllo del traffico illegale di cani e gatti.

    Come abbiamo più volte denunciato, dalle pagine del Patto Sociale, il traffico illegale è una importante fonte di guadagno per le associazioni criminali.

    I dati europei evidenziano come, secondo le segnalazioni inviate al network antifrode, un terzo dei dati riguarda le movimentazioni illegali di animali domestici.

    Le stime ufficiali della Commissione europea parlano di un mercato illegale che coinvolge 8 milioni di cuccioli per un valore di un miliardo di euro. A questi dati, che si riferiscono al traffico illegale di animali da compagnia, va aggiunto l’immenso guadagno delle organizzazioni criminali che si occupano di combattimenti e competizioni tra animali con le correlate scommesse clandestine.

    Da non trascurare anche il business illegale legato al traffico di animali esotici.

    L’unità Eu Agri-Food Fraud Network (FFN) della Commissione europea ha recentemente incluso tra le sue competenze il benessere degli animali.

    Le violazioni riscontrate non solo procurano un danno alla salute, in molti casi la stessa morte degli animali, ma procurano anche un notevole danno economico dal punto di vista commerciale e fiscale ed un altrettanto danno dal punto di vista sanitario, sia per gli animali che per le persone.

    Per dare tutti un contributo alla lotta contro questi traffici non comperiamo animali sulla rete e denunciamo qualunque situazione che appaia poco chiara. Ogni animale messo in vendita deve avere un regolare libretto sanitario con le vaccinazioni effettuate e si devono poter conoscere i genitori.

  • L’Irlanda chiede alla Wto di regolamentare le etichette a Wto del vino

    L’Irlanda non cambia rotta e nonostante il parere contrario di 13 altri Paesi membri Ue, tra cui l’Italia, tira dritto: a inizio febbraio ha notificato all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) le norme tecniche sull’etichettatura ‘salutista’ degli alcolici. Il progetto di regolamento sull’etichettatura si applicherebbe a tutti i prodotti alcolici venduti in Irlanda, si ricorda nella notifica, siano essi prodotti localmente o importati. Pertanto – è questo il primo iceberg in rotta di collisione in questa inesorabile navigazione solitaria dell’isola verde – potrebbe costituire una barriera tecnica al commercio. Ed è proprio su questo punto che il ministro degli Affari esteri Antonio Tajani ha inviato una lettera al vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrowskis.

    Secondo Tajani, le nuove norme irlandesi sulle etichette “rischiano di essere una fonte di distorsione agli scambi internazionali, equivalente a una restrizione quantitativa”. Il provvedimento, sottolinea Tajani, oltre ad essere criticabile sotto il profilo del diritto europeo, “potrebbe innescare una reazione a catena che finirebbe con il danneggiare l’insieme dell’Unione”.

    Ma i tempi si fanno stretti anche per il fronte contrario agli health warning nelle etichette del vino: il periodo per la presentazione delle opposizioni scade dopo 90 giorni. E l’Italia non sembra star ferma a guardare: “Proporrò all’Irlanda – ha annunciato su Twitter il ministro dell’Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste, Francesco Lollobrigida – una mediazione che può aiutarli a rendere più chiara la loro etichetta e soprattutto garantire corretta informazione. Eccessi e abusi vanno combattuti, ma un uso moderato garantisce, come la scienza afferma, benessere. #sdrammatizziamo #difendiamolaqualità”, ha aggiunto il ministro.

    Nel gioco delle alleanze contro l’iniziativa irlandese, che tanto danno di immagine sta già creando al comparto, mettendo poi un’ipoteca sulle potenzialità di esportazione in terra irlandese, guarda oltreoceano l’eurodeputato Paolo De Castro (Pd). “Ora la battaglia – ha rilevato – si sposta a Ginevra dove dovremo trovare alleati a livello internazionale, a partire dagli Stati Uniti. Siamo in contatto – fa sapere De Castro – con la Missione statunitense a Bruxelles, affinché anche Washingthon possa sollevare osservazioni” in sede Wto.

    “L’Irlanda ha fatto il suo passo, ora – ha spronato il vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio (Lega) – tocca a noi. I Paesi contrari alle etichette allarmistiche devono fare fronte comune e presentare formale opposizione in quella sede entro i tre mesi previsti. A guidare questa coalizione non può che essere l’Italia”, ha affermato Centinaio.

    Per Federvini l’iniziativa irlandese “è basata su un approccio demonizzante delle bevande alcoliche, con indicazioni sanitarie che non distinguono tra consumo moderato e abuso”. Da qui l’appello al governo Meloni affinché “crei una coalizione di Paesi contro ogni discriminazione dell’alcol”. Secondo Ignacio Sánchez Recarte, segretario generale della Ceev, il Comitato europeo delle imprese del vino “in questa fase solo la Corte di giustizia dell’Unione europea sarebbe in grado di difendere” il mercato interno Ue. Mentre Coldiretti stima la conta dei danni: il blitz irlandese sulle etichette allarmistiche va fermato per difendere un prodotto simbolo del nostro Paese che è anche il principale produttore ed esportatore mondiale di vino, con oltre 14 miliardi di fatturato e dà lavoro dal campo alla tavola a 1,3 milioni di persone. “L’export rischia di essere penalizzato” è il grido d’allarme di Confagricoltura Bologna e per di più con un “messaggio fuorviante per il consumatore”.

  • La storia dell’Ottocento si ripete

    Da molti anni le aziende della Silicon Valley vengono Indicate come le massime artefici nel futuro prossimo dello sviluppo economico e soprattutto sociale delle economie occidentali. Indubbiamente la digitalizzazione della pubblica amministrazione, come di molti sistemi industriali, ha offerto un ruolo sempre più centrale alle aziende di questo settore in continua evoluzione tanto da venire elette come le rappresentanti della nuova modernità e soprattutto del politicamente corretto.

    Esistono, tuttavia, aspetti importanti relativi a queste icone che troppo spesso non vengono considerati nella loro importanza.

    Il primo è sicuramente quello relativo agli indirizzi verso i quali i titolari di queste aziende dirigono i propri investimenti. Il patron di Microsoft è diventato uno dei maggiori latifondisti statunitensi contribuendo così di fatto alla morte dei piccoli e medi coltivatori ed allevatori.

    Viceversa, il titolare di Amazon ha acquistato il maggiore supermercato fisico, Whoole Foods, per oltre 13 miliardi di dollari confermando il proprio desiderio monopolistico da imporre al mercato ed esprimendo cosi la propria chiara volontà attraverso una politica di prezzi molto aggressivi nei confronti della distribuzione tradizionale che successivamente ha inevitabilmente portato al licenziamento di circa 18.000 dipendenti della stessa Amazon. A conferma della insostenibilità della politica di prezzi della major di e-commerce, adottata con l’unico obiettivo di togliere ossigeno alla distribuzione tradizionale.

    Dopo due anni di pandemia e un anno di guerra, i  cui effetti devastanti stanno mettendo in crisi persino questi giganti del web, anche Google ha deciso di ridurre la propria forza lavoro, “per dirottare i propri investimenti verso le principali priorità”, con una semplice e-mail lontana anni luce da una qualsiasi espressione di rispetto per i propri dipendenti.

    Tra latifondismo, volontà monopolistica e modalità spregevoli di licenziamento degne di coltivatore di cotone,  i simboli eletti a rappresentanti della nuova modernità e sempre all’interno del filone politico del “politically correct” assomigliano quindi sempre più alle vecchie e anacronistiche figure dell’ottocento.

    La storia si ripete.

  • Opium production in Myanmar surges to nine-year high

    The production of opium increased sharply in Myanmar, rising to a nine-year high, according to the UN.

    It touched nearly 795 metric tonnes in 2022, nearly double the production in 2021 – 423 metric tonnes – the year of the military coup.

    The UN believes this is driven by economic hardship and insecurity, along with higher global prices for the opium resin that is used to make heroin.

    The coup plunged much of Myanmar into a bloody civil war that still continues.

    “Economic, security and governance disruptions that followed the military takeover of February 2021 have converged, and farmers in remote, often conflict-prone areas in northern Shan and border states, have had little option but to move back to opium,” said Jeremy Douglas, the regional representative for the UN Office on Drugs and Crime (UNODC).

    The region, where the borders of Myanmar, Thailand, and Laos meet – the so-called Golden Triangle – has historically been a major source of opium and heroin production.

    The UN report released on Thursday said Myanmar’s economy was confronted by external and domestic shocks in 2022 – such as the Russia-Ukraine war, continued political instability and soaring inflation – which provide “strong incentives” for farmers to take up or expand opium poppy cultivation.

    Myanmar is the world’s second-largest producer of opium, after Afghanistan. The two countries are the source of most of the heroin sold around the world. Myanmar’s opium economy is valued at up to $2bn (£1.6bn), based on UN estimates, while the regional heroin trade is valued at approximately $10bn.

    But over the past decade crop substitution projects and improving economic opportunities in Myanmar have led to a steady fall in cultivation of the opium poppy.

    The annual opium survey conducted by the UN, however, shows that production in Myanmar has risen again. Opium production in 2022 has been the highest since 2013, when the figure stood at 870 metric tonnes.

    Since the coup the UN has also monitored even larger increases in synthetic drug production. In recent years, this has supplanted opium as the source of funding for armed groups operating in the war-torn border areas of Myanmar.

    However, opium requires a lot more labour than synthetic drugs, making it an attractive cash crop in a country where the post-coup economic crisis has dried up many alternative sources of employment.

    Opium farmers’ earnings grew last year to $280/kg, a sign of the attractiveness of opium as a crop and commodity, as well as strong demand. It is a key source of many narcotics, such as heroin, morphine and codeine.

    Opium poppy cultivation areas in 2022 rose by a third to 40,100 hectares, according to the report, which also pointed to increasingly sophisticated farming practices. Average opium yields have also risen to the highest value since the UNODC started tracking the metric in 2002.

    Mr Douglas said Myanmar’s neighbours should assess and address the situation: “They will need to consider some difficult options.”

    He added that these solutions should account for the challenges people in traditional opium-cultivating areas face, including isolation and conflict.

    “At the end of the day, opium cultivation is really about economics, and it cannot be resolved by destroying crops which only escalates vulnerabilities,” said Benedikt Hofmann, UNODC’s country manager for Myanmar.

    He added: “Without alternatives and economic stability, it is likely that opium cultivation and production will continue to expand.”

    According to an earlier UNODC report, prices for opium soared in Afghanistan last spring after the ruling Taliban announced a ban on cultivation.

  • In Italia 30mila piccole aziende a rischio usura

    In Italia 30mila piccole aziende del commercio e dei pubblici esercizi sono oggi a elevato rischio usura e altri eventi criminali. Il dato emerge da un’analisi di Confcommercio presentata nel corso della nona edizione della giornata nazionale “Legalità, ci piace!”. Lo studio ha calcolato il “costo” dell’illegalità per le imprese italiane del commercio nel 2021: quasi 31 miliardi di euro, che comprendono le perdite dirette di fatturato dovute a eventi come abusivismo commerciale e nella ristorazione, contraffazione o taccheggio patite dal settore regolare, le spese difensive, gli oneri in eccesso rispetto a una situazione di assenza di criminalità e i costi del cybercrime. La perdita complessiva annua del fatturato dei settori colpiti è del 6,3% del valore aggiunto, 4,7 miliardi in meno, e mette a rischio quasi 200mila posti di lavoro regolari.

    Le aziende si sentono meno sicure, specialmente nelle grandi città e nel Mezzogiorno. A preoccupare principalmente gli imprenditori è l’usura, fenomeno percepito in maggior aumento (27%), seguito da abusivismo (22%), racket (21%) e furti (21%). L’11% dei titolari delle aziende ha avuto notizia diretta di episodi di usura nella zona dove svolge l’attività, mentre il 17,7% è molto preoccupato per il rischio di esposizione a questi reati. Ancora una volta, i timori maggiori nelle città con il maggior numero di abitanti (22%) e al Sud (19%).

    Quella dell’usura, sottolineano da Confcommercio, è una questione che contribuisce a comprimere la crescita di lungo termine dell’economia. Ed è un fenomeno ancora caratterizzato da “numeri oscuri”: le denunce, 156 nel 2021, non rappresentano le reali dimensioni del problema. “Nonostante l’usura sia il reato maggiormente diffuso tra le imprese del commercio, della ristorazione e della ricettività, e nonostante quasi il 60% degli imprenditori ritenga la denuncia il primo indispensabile passo di fronte all’usura, questo è uno dei reati che emergono con maggiore difficoltà”, afferma il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli. “Le vittime – aggiunge – hanno bisogno della vicinanza delle istituzioni, del presidio del territorio delle forze dell’ordine. Ma hanno anche bisogno del nostro sostegno, della nostra prossimità operosa, tanto più in questo momento drammatico di crisi su crisi”. Anche perché sono proprio le crisi, secondo Sangalli, a costituire linfa vitale “dei fenomeni criminali, e in particolare dell’usura”.

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