Diritti umani

  • Libertà per il ‘Premio Sacharov’ Lorent Saleh

    “Vengo a parlarvi come una mamma coraggio, come una madre che sta soffrendo”. La voce di Yamile Saleh, è fioca, rotta dall’emozione e dal dolore di dover raccontare la storia che non avrebbe mai voluto raccontare, quella di suo figlio, del suo unico figlio, Lorent, prigioniero politico in Venezuela. Anche lui fa parte dell’opposizione democratica costituita dall’Assemblea nazionale (guidata da Julio Borges) e da tutti i prigionieri politici figuranti nel ‘Foro Penal Venezolano’ alla quale il Parlamento europeo ha conferito il Premio Sacharov 2017.

    Lorent Saleh, a differenza di altri oppositori, ha avuto poco spazio per farsi sentire e da quattro anni, da quando è stato imprigionato, a parlare per lui è sua madre che gira il mondo raccontando l’assurda storia di suo figlio e la drammatica situazione del Venezuela. Attraversato da una terribile crisi economica, conseguenza delle politiche di stampo socialista bolivariano perpetrate da Hugo Chavez, il Paese è sottoposto ad una violenta repressione da parte dell’attuale Presidente Maduro che continua a far incarcerare e torturare tutti i suoi oppositori che condannano pubblicamente il suo modo di fare politica e quello del suo predecessore.

    Sin dal 2007, da quando cioè era ancora un giovane studente, Lorent denuncia la continua violazione dei diritti umani e la repressione di chi la pensa diversamente dal regime (non siamo più davanti ad un semplice governo monocolore!). E’ lungimirante Lorent, che sollecita, lui iscritto ad una università privata, tutti i colleghi e amici che frequentano altre università del Paese a prendere coscienza di quanto sarebbe potuto accadere da lì a poco. Nel 2011, con altri giovani dell’associazione Juventud Activa Venezuela Unida comincia uno sciopero della fame per tutti i prigionieri politici del tempo e riesce ad ottenere la liberazione di 11 di loro. Subisce minacce sebbene nel denunciare la repressione avesse seguito la prassi. Decide allora di lasciare il suo Paese per raccontare da lontano e in libertà quanto stava accadendo in Venezuela, e sceglie la Colombia, dove si sente a casa, confidando in un incontro con il Presidente Santos che si stava preparando alla sua rielezione. Siamo nel 2014, Lorent riesce ad avvicinarlo e ad implorare un aiuto concreto per il suo Paese ma accade l’imprevedibile. Santos decide “di consegnare il ragazzo agli sbirri del regime”, come racconta la signora Yamile, e solo dopo tre giorni dalla cattura viene emesso il mandato di arresto. Viene così ‘deportato’ nella Tumba di Caracas, un edificio incompleto progettato da un famoso architetto e che il regime di Maduro ha trasformato in quartier generale del SEBIN (Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional). Qui, a 16 metri sotto terra, ci sono delle celle di 3 metri per 2, con un giaciglio in cemento, senza servizi igienici, per espletare i propri bisogni si deve chiedere il permesso, pigiando un bottone, che arriva dopo ore. L’unico segno di vita esterna, se così si può chiamare, è il rumore dei vagoni del treno, l’inizio e la fine della giornata sono scanditi dal passaggio del primo e dell’ultimo treno. Il silenzio indica che un altro giorno è passato, un altro giorno sottratto alla vita e alla libertà è stato cancellato dal calendario dei reclusi. Nella ‘Tumba’ ogni tipo di tortura fisica e psicologica è ammessa, Lorent all’inizio subisce violenze bianche, quelle cioè che distruggono mentalmente perché sono pari a lavaggi di cervello. Il 16 maggio 2017 però accade qualcosa di inaspettato, con una rivolta i criminali comuni chiedono di essere trasferiti in un carcere vero, Lorent riesce allora ad avvicinarsi alle telecamere della TV che sta cercando di documentare l’accaduto e denuncia le aberrazioni alle quali i detenuti ‘politici’ sono sottoposti e che in quell’inferno sotterraneo sono ci sono anche dei minorenni. Quelle parole sono la sua nuova condanna. Yamile arriva per la visita periodica, vede passare tutti ma non suo figlio: è stato trattenuto, le dicono. Lui ormai è il simbolo dell’opposizione al governo Maduro, deve rimanere nella Tumba.

    Ad oggi la signora Yamile non sa ancora quale sia il reale capo di accusa per il quale Lorent sia stato arrestato e imprigionato in quello che non è neppure un carcere. Cinquanta udienze rinviate e tante versioni fornite da esponenti della polizia: dall’aver scritto un volantino in cui denunciava le promesse non mantenute da Chavez, e per questo motivo non avrebbe dovuto lasciare il Paese, all’aver lavorato per l’ufficio passaporti da attivista politico. Sa solo che il regime ha rubato quattro anni di vita a suo figlio, anni in cui avrebbe dovuto vivere la vita di un ragazzo normale, anni in cui avrebbe potuto mettere su famiglia e lavorare. Non aveva ambizioni politiche Lorent e se solo lei avesse immaginato tutto il dolore che sarebbe scaturito da quella vicenda avrebbe impedito a suo figlio di esporsi in prima persona con dimostrazioni pubbliche e scioperi della fame. “Vengo a chiedervi di aiutarmi a far liberare mio figlio, grazie al Premio Sacharov, affinché possa vivere finalmente una vita normale”, è l’appello commosso della signora Yamile, che aggiunge “sarebbe opportuno che il Presidente Santos, che ha ricevuto anche il Premio Nobel per la Pace, prima di lasciare il suo incarico riconoscesse di aver sbagliato”. E poi l’invito rivolto a tutti, perché non si dia per scontato che non si possa perdere quanto di bello e prezioso ci abbia dato la vita: “Siate persone attente alla libertà, non lasciate mai che i vostri diritti siano calpestati”.

  • I diritti violati in Venezuela

    In occasione dei trent’anni del Premio Sacharov, martedì 19 giugno, alle ore 16,30, l’Ufficio del Parlamento europeo di Milano (C.so Magenta 59) ospiterà, nella Sala Conferenze, un incontro con Yamile Saleh, madre del prigioniero politico venezuelano Lorent Saleh, Premio Sacharov 2017, al quale parteciperà anche la presidente dell’Associazione VenEuropa, che si occupa dei rapporti tra Venezuela e Italia, Patricia Betancourt. L’evento sarà l’occasione per discutere di diritti e libertà in Venezuela che da mesi sta vivendo una difficile, quanto pericolosa, crisi politica e sociale. Nel 2017, durante la sessione plenaria a Strasburgo, il Parlamento europeo ha conferito il Premio Sacharov per la libertà di pensiero ai rappresentanti dell’opposizione democratica in Venezuela. L’opposizione è costituita dall’Assemblea nazionale (guidata da Julio Borges) e da tutti i prigionieri politici figuranti nell’elenco del Foro Penal Venezolano, rappresentati da Lorent Saleh, Leopoldo López, Antonio Ledezma, Daniel Ceballos, Yon Goicoechea, Alfredo Ramos e Andrea González.  All’Assemblea nazionale, che aveva una maggioranza contraria al governo, fu tolto il potere e, secondo il Foro Penal Venezolano, ci sono ancora centinaia di prigionieri politici nel paese. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani aveva così commentato la decisione relativa al premio: “Il Parlamento europeo è da sempre in prima linea per difendere e promuovere la libertà, la democrazia e gli altri diritti umani, dentro e fuori i nostri confini. Oggi abbiamo il dovere di denunciare, ancora una volta, l’inaccettabile situazione del Venezuela. Questo Parlamento vuole manifestare la sua vicinanza e rendere omaggio a tutto il popolo venezuelano”.

    Anche a Roma si svolgerà un incontro sullo stesso tema e con Yamile Saleh interverranno anche Betty Grossi, l’attivista italiana che fu arrestata nel 2015 in Venezuela, e Maria Claudia Lopez (VenEuropa).

  • L’Italia smette di essere il Paese più discolo d’Europa per i diritti umani

    Per la prima volta dal 2007 l’Italia non è più maglia nera per numero di condanne non applicate della Corte europea dei diritti umani: nel 2017 è passata dal primo al quinto posto, eseguendo un numero record di sentenze della Corte, il più alto mai registrato tra i 47 Stati. Emerge dall’undicesimo rapporto del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che tuttavia evidenzia come la maggior parte dei fascicoli chiusi, riguardi problemi non ancora totalmente risolti, e quindi ancora sotto esame a Strasburgo. Corte europea dei diritti umani e Consiglio d’Europa non sono organismi della Ue, va ricordato, ed esercitano la propria autorità anche nei confronti di Stati che non fanno parte della Ue.

    All’inizio del 2017 l’Italia era il Paese membro del Consiglio d’Europa  col più alto numero di sentenze pronunciate negli anni dalla Corte di Strasburgo in attesa di esecuzione, 2.350. Una mole di fascicoli che superava di molto quella del secondo e terzo paese in classifica, Russia e Turchia, che avevano rispettivamente 1.573 e 1.430 condanne non ancora eseguite. Oggi l’Italia si trova al quinto posto con 389 fascicoli ancora aperti, e si è allontanata molto dai Paesi che hanno preso la testa della classifica guidata ora dalla Russia con 1.689 casi pendenti, seguita dalla Turchia (1.446) e l’Ucraina (1.156). La Romania, al quarto posto, ha 553 sentenze in attesa d’esecuzione.

    Il cambiamento radicale della situazione italiana è dovuto alla chiusura, nel corso del 2017, di 2.001 fascicoli pendenti. Un numero record mai eguagliato da nessun altro degli Stati membri del Consiglio d’Europa, e tanto più impressionante se si considera che questa cifra è quasi la stessa di tutti i fascicoli chiusi dal comitato dei ministri in tutto il 2016 (2.066).

    Tuttavia, come evidenziato nel rapporto annuale del comitato dei ministri, la chiusura della maggior parte dei fascicoli italiani (1.700) è definita “parziale”, nel senso che i problemi che sollevavano le condanne della Corte di Strasburgo non sono stati totalmente risolti e le questioni, che riguardano il funzionamento della giustizia, continueranno ad essere esaminati fino a quando l’Italia non dimostrerà di aver adottato tutte le misure necessarie per ovviare alle violazioni indicate dai togati di Strasburgo.

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