Legge

  • Aumentano le pene per i maltrattamenti agli animali

    Finalmente è in vigore la nuova legge a tutela degli animali per la quale, interpretando il pensiero della maggioranza degli italiani, si sono tanto spesi l’on. Brambilla ed i componenti dell’Intergruppo parlamentare per i diritti degli animali.

    Come avevamo già scritto sul Patto, quando doveva ancora esserci la votazione finale, la legge riconosce a tutti gli animali lo status di esseri senzienti e che, come tali, hanno diritti che devono essere rispettati e tutelati.

    Le pene aumentano, anche quelle detentive, per i maltrattamenti, fino a due anni di carcere e trentamila euro di multa, e se l’animale è ucciso si può arrivare a quattro anni di carcere e sessantamila euro di multa.

    Se saranno riscontrate delle aggravanti, se il reato è commesso davanti ad un minore, se le immagini dei maltrattamenti sono diffuse via social, se sono più animali a subirli vi sarà un aumento di un terzo della pena.

    Alle organizzazioni criminali che organizzano gare, lotte, scommesse con e su animali e si arricchiscono con il commercio clandestino di cuccioli sarà applicato il codice antimafia sia livello personale che patrimoniale.

    Nella nuova legge vi è anche il divieto di tenere i cani alla catena.

    Un grande passo avanti è stato fatto mentre ancora c’è molto da fare per controllare meglio lo stato dei canili e dei rifugi, molti infatti sono dei lager, e per contrastare la triste piaga degli abbandoni e del randagismo ma siamo fiduciosi che si faranno altri passi importanti

  • Animali: aumentate le pene per chi li maltratta e li uccide

    Ormai è noto che la violenza contro gli animali dimostra la presenza, negli umani, di un’aggressività e una violenza interpersonale pericolosa per tutti, sia essa si sia già manifestata o che sia prodromo di comportamenti antisociali.

    Finalmente anche il legislatore si è accorto della necessità di riformare le norme e con la proposta di legge approvata, nei mesi scorsi, alla Camera dei Deputati si sono date nuove risposte, anche tenendo conto che la Cassazione aveva già dichiarato, in più pronunce, che gli animali vanno tutelati in quanto esseri viventi suscettibili di tutela diretta.

    Sono aumentate, per chi uccide animali, le pene detentive, con multe fino a trentamila euro, pene e multe che aumentano nel caso di sevizie.

    Sono finalmente aumentate anche le pene per i maltrattamenti, carcere e multe, così come quelle per le competizioni non autorizzare o per i combattimenti che, ovviamente, sono assolutamente vietati ma rappresentano ancora un grosso business per la malavita, saranno puniti anche coloro che parteciperanno come spettatori.

    Per tutti questi reati le pene aumentano se i fatti avvengono davanti a minori, nei confronti di più animali o i reati sono diffusi attraverso la rete.

    Altro traguardo raggiunto dalla legge è la maggiore punizione per chi uccide o ferisce animali altrui.

    Le associazioni, riconosciute dal Ministero della Salute, potranno impugnare giudizi cautelari, presentare appello e istanza di riesame in merito a sequestri.

    Le misure di prevenzione del codice antimafia diventano applicabili a chi organizza combattimenti tra animali o a chi organizza il traffico illegale di cuccioli, o di animali non in possesso del passaporto e del microchip.
    Nel caso di traffici illegali chi è sorpreso per tre volte a introdurre illegalmente animali perde anche la licenza di trasportatore o la licenza commerciale.

    La legge introduce anche il divieto di tenere cani alla catena e aumentano le pene pecuniarie per chi abbandona un animale o lo detiene in condizioni antigieniche e disagiate. Con il nuovo codice della strada l’abbandono di un animale porta anche la sospensione della patente.

    L’uccidere, il catturare o il detenere animali di specie protetta portano ad aumenti di pena.

    Ora bisogna che lo Stato, attraverso le forze di Polizia e la collaborazione con gli enti territoriali, intensifichi i controlli e dia anche il via ad una campagna di sensibilizzazione in sinergia con le meritevoli associazioni che da anni si battono in difesa dei diritti degli animali e del rispetto dell’ecosistema.

  • La lacunosa legge sui cani proposta dalla Regione Lombardia

    Mentre il mondo è sospeso in attesa delle conseguenze che porteranno, a noi  e alle future generazioni, gli accordi o disaccordi tra Trump e Putin, la vita continua e alcuni consiglieri regionali della Lombardia hanno dato vita ad una proposta di legge per alcune tipologie di cane, il loro benessere e la pubblica incolumità.

    La proposta, lacunosa, inesatta, pericolosa per certi aspetti, se fosse adeguatamente modificata potrebbe anche avere un senso se, con i suoi articoli, andasse a colpire il traffico illegale di cuccioli, la detenzione di animali utilizzati per combattimenti o per specifiche aggressioni, stanziasse i soldi necessari a rimettere a posto i canili pubblici e i rifugi privati, creasse spazi  ad hoc per i cani in città (quelli attuali sono ridicoli), mettesse  l’obbligo a chi vende un cane di consegnare i documenti vaccinali e dello stato di salute del cucciolo e della madre, che l’acquirente deve sempre poter vedere.

    Così mentre continuiamo a sostenere l’Ucraina e che al tavolo negoziale ci debba essere anche l’Europa, a pieno titolo, oggi con la regione Lombardia, ci occupiamo anche dei cani, con alcune osservazioni sulla proposta di legge.

    Fa onore alla Regione Lombardia cercare soluzioni che portino ad una migliore e più sicura convivenza tra esseri umani e cani.

    A volte però la fretta, o la conoscenza non approfondita del problema, producono errori che, se non corretti, causano danni per tutti.

    Non tutte le razze canine sono iscritte all’Enci perciò gli esperti Enci non devono poter valutare razze non iscritte presso l’ente.

    Qualunque norma non può ledere la libertà personale ed i diritti conseguenti.

    La proposta di legge non dice che la vendita di cani avviene non solo tramite allevatori di professione o amatoriali ma, purtroppo, anche via internet e attraverso canali criminali. Dovrebbe essere nota alla Regione la strenue e non sufficiente, per l’ampiezza del problema, sorveglianza ed attività delle forze di polizia e dei carabinieri per contrastare il traffico illegale di cuccioli provenienti dall’estero. Su questo aspetto la proposta di  legge non si esprime ignorando uno dei problemi più gravi, proprio in Lombardia, perché molti di questi cani importati illegalmente hanno problemi caratteriali in quanto sottratti anzitempo alla madre.

    Rende perplessi che si cerchi in modo surrettizio, e cambiandole nome, di rintrodurre una lista di cosiddetti cani pericolosi, lista già bocciata nel 2003.

    Non si parla in modo adeguato di rieducazione del cane, in caso di necessità, attraverso istruttori professionisti atti a reinserire l’animale anche nella stessa famiglia di provenienza.

    Non si parla di istituire l’obbligo, per gli allevatori, di segnalare, ad un apposito ufficio regionale, la  vendita di cani appartenenti alle razze considerate pericolose fornendo i dati del nuovo proprietario.

    Non si tiene in alcun conto la sensibilità del cane, essere senziente a tutti gli effetti e legato al proprio  conduttore, alla famiglia, da vincoli forti ed importanti per la sua serenità psicofisica.

    Non si affronta la copertura economica per la costruzione di nuove strutture dove i cani, sottratti al proprietario, dovrebbero essere collocati.

    Non vi è nessuna postazione in bilancio per ristrutturare i canili esistenti, purtroppo pieni di cani abbandonati, spesso con strutture fatiscenti e carenza di personale.

    Non si tiene in considerazione che i cittadini possessori di cani, già oberati da molti problemi per la vita in città, potrebbero, di fronte a nuove norme vessatorie, o che comunque implicano ulteriori disagi e perdite di tempo, rinunciare al possesso del cane, creando nuovi affollamenti nelle strutture, o decidere di non acquistarlo o salvarlo proprio dal canile.

    E’ ormai scientificamente provato che la convivenza con un animale è utile all’equilibrio delle persone e dei bambini, che gli animali sono una grande compagnia per le persone sole, pertanto non vanno prese iniziative, emanate norme che possano dissuadere le persone ad avere un cane.

    La lista dei cani, preparata dalla Regione, che devono essere osservati è preceduta da una serie di caratteristiche che dovrebbero far individuare i cani per i quali i proprietari dovrebbero seguire dei corsi e sottoporsi a degli esami, queste caratteristiche coincidono anche con quelle di animali che non sono nella lista e non coincidono con cani che sono nell’elenco, sono ignorate razze come il pastore tedesco, il pastore belga, il dobermann ma è inopinatamente inserito il cane lupo italiano,

    Il cane lupo italiano, presente oggi sul territorio italiano con poco più di duecento esemplari, è una razza tutelata dal Ministero dell’Agricoltura. Il lupo italiani non si può vendere, può essere solo dato in affido sotto il costante controllo del AAALI l’associazione che ne detiene la proprietà e ne ha la responsabilità anche per la riproduzione.

    Questo cane non ha nessuna delle caratteristiche descritte nella proposta di legge.

    Da queste brevi considerazioni si evince non solo la necessità di abolire la lista così come è stata redatta ma di addivenire a quelle modifiche ed aggiunte indispensabili a rendere la proposta di legge organica ed utile, in caso contrario sarebbe bene che i proponenti si occupassero di studiare meglio il problema e si occupassero, intanto, di altre urgenti necessità dei cittadini lombardi…

  • In attesa di Giustizia: liberté, egalité, fraternité

    Si è appena insediato il nuovo Presidente dell’ANM ed è subito contestazione tra gli stessi iscritti all’Associazione per aver osato suggerire l’apertura di un dialogo con il Governo in merito alle riforme sulla giustizia: un atteggiamento che fa il paio con quello assunto durante le Inaugurazioni dell’Anno Giudiziario, compreso quello – di cui la rubrica si è occupata nello scorso numero – dell’Unione delle Camere Penali. Muro contro muro: di alternative le Toghe non ne vogliono sentir parlare e chissà che non chiedano al nuovo vertice del sindacato di dichiararsi apertamente antifascista o, quantomeno, allinearsi al pensiero di Elodie al Festival di Sanremo esplicitando che piuttosto che votare Giorgia Meloni si farebbe tagliare una mano.

    E’ vero che anche noi abbiamo tradizioni rivoluzionarie rammentate da qualche valoroso episodio risorgimentale come le Cinque Giornate di Milano ma certamente nulla di comparabile agli accadimenti del 1789 che, al netto di soperchierie come il processo a Re Luigi (da consegnare ad ogni costo alla “Madame”), gettarono le fondamenta per fare della Francia una solida democrazia. Anche ai giorni nostri, in un contesto politico e di riforma della Giustizia si registrano alcune analogie ma – soprattutto – delle differenze: da un anno circa al Ministero della Giustizia d’Oltralpe siede Eric Dupond-Moretti: avvocato penalista di grande notorietà, figura sgradita, per usare un eufemismo, alla magistratura francese che – detto per inciso non ha le carriere separate ma il Pubblico Ministero dipende dall’esecutivo ad ulteriore dimostrazione della infondatezza delle ansie italiche che dovrebbero, tutt’al più,  basarsi su presupposti diversi e, peraltro, insussistenti.

    E perché mai questo gentiluomo di chiara fama è così inviso all’Ordine Giudiziario tanto quanto il nostro carlo Nordio con l’aggravante di essere un avvocato? A causa, anch’egli, del programma di riforme che sta portando avanti sorretto però dall’appoggio bipartisan di tutte le forze politiche, nessuna delle quali è subalterna ai desiderata della magistratura associata, dei manutengoli della carta stampata che hanno giurato fedeltà alla Repubblica delle Procure e dei sodali di presunti avvocati transitati ineffabilmente dalla consolle di una discoteca a via Arenula e dei manettari con i polsi degli altri.

    Eric Dupond Moretti, inoltre, non subisce il condizionamento di magistrati fuori ruolo insediati in ruoli chiave al Ministero, come accade da noi, ed il potere politico è libero di esprimersi in linea con il programma di governo senza renderne conto se non al Parlamento ed ai cittadini: vuole una riforma delle regole per la diffusione delle immagini videoregistrate dei processi che non deve essere un diritto di cronaca assoluto ed incondizionato, ma deve essere preventivamente vagliata la sussistenza dell’interesse pubblico prima di dare il via ad una totalizzante gogna mediatica e deve essere munita di comprensibili e corrette spiegazioni all’ opinione pubblica delle peculiari regole processuali che vengono rappresentate…e tutto ciò mai prima che vi sia una sentenza definitiva, e le immagini non più replicabili dopo un periodo di cinque anni dalla sentenza e con il previo consenso delle persone interessate: altro che Quarto Grado, Chi l’ha visto? (o, meglio, Chi l’ha fatto?), Porta a Porta con i plastici delle scene del crimine e pseudo esperti d’accatto che argomentano di colpevolezza con disinvoltura da bar sport commentando il campionato di calcio.

    Un’altra area di intervento è la durata delle indagini, che il Ministro – ragionevolmente – non vuole che superino i tre anni, prorogabili a tre con adeguata motivazione solo se riguardano la criminalità organizzata.

    Violenta, poi, è stata la opposizione alla proposta di riforma del segreto professionale con divieto assoluto di intercettazione delle conversazioni tra cliente e difensore, anche quando questi rivesta il ruolo di mero consulente con un gruppo di lavoro all’opera per realizzare un protocollo ed un sistema tecnologico in grado di immediatamente interrompere il flusso comunicativo del soggetto intercettato quando questi entra in contatto con il proprio difensore.

    E su questi temi il confronto si surriscalda: “Gli studi legali sono dei luoghi sacri, non può esistere difesa senza segreto professionale”, dice il Ministro. “È in malafede e sta lavorando per i suoi amici avvocati”, accusa la locale Associazione dei magistrati; “Difendo lo Stato di diritto contro dei metodi da spie”, replica Dupond – Moretti, senza troppi giri di parole.

    Tutto il mondo è paese e non si può escludere che qualcuno, come accadrebbe da noi, che qualcuno alluda che così il Ministro “mette in pericolo la sicurezza del Paese”, o “favorisce la Mafia”; ma, la differenza non banale è che da noi, il Parlamento francese vota in coscienza ed assoluta autonomia in piena condivisione della riforma.

  • In attesa di Giustizia: sindrome da accerchiamento

    Ennesima tappa del conflitto dichiarato dalla magistratura associata alla riforma sulla separazione delle carriere è stata la mancata partecipazione dei vertici degli Uffici Giudiziari milanesi alla Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dell’Unione delle Camere Penali che, con sede unica come di consueto per il 2025, era stata organizzata proprio a Milano: la motivazione è stata che si sarebbe trattato di un contesto aprioristicamente ritenuto inteso a delegittimare la magistratura.

    Termini forti, frutto di fallace capacità divinatoria rispetto ad un evento prima ancora che venisse celebrato, ed una scelta che ha avuto come risultato quello di sottrarsi al confronto con l’avvocatura su temi di grande attualità; un rifiuto che, questo sì, suona come uno strappo con quella categoria che non persegue finalità di parte, politiche o di conservazione del consenso ma la cui funzione risiede nell’assicurare che siano rispettate le regole del giusto processo. Un’occasione persa di interloquire con giuristi di elevato profilo, professionisti, accademici e statisti di un tempo andato come  un lucidissimo Claudio Martelli che ha ricordato come Giovanni Falcone nel pieno rispetto delle regole processuali abbia inferto colpi durissimi alla criminalità organizzata mentre la Procura di Milano, strapazzando a suo uso e consumo il codice di procedura penale ha unicamente creato i presupposti perché la corruzione, tutt’altro che debellata, si facesse più accorta e subdola ed abbia innalzato le tariffe.

    Quei magistrati hanno giurato sulla Costituzione, quella che viene ora sventolata nelle manifestazioni di protesta come un tatzebao, ma sembrano dimentichi che la difesa conosce la sacralità del canone costituzionale e che gli avvocati ne sono i garanti, che proprio la nostra Carta Fondamentale (in cui sono mirabilmente confluite armonizzandosi due ideologie, quella cattolica e quella marxista non senza qualche influsso gentiliano-hegeliano) insegna la centrale importanza di un dialogo culturalmente alto tra avversari che non siano mai nemici ed i risultati migliori originano proprio dalla diversità delle posizioni e delle idee.

    L’avvocato, il difensore, dovrebbe, quindi, essere visto interlocutore privilegiato per scongiurare quella deriva normativa che ormai lo relega al ruolo di silente redattore di mail nella cornice di un processo penale deprivato del contributo intellettuale e dialettico portato dalla oralità che altrettanto mortifica la giurisdizione in entrambe le sue componenti, requirente e giudicante, con il pretesto di offrire maggiore slancio ad una macchina ingolfata.

    L’invito a confrontarsi declinato dai magistrati milanesi è sintomatico di una sorta di sindrome da accerchiamento e, detta tutta, di un abbassamento del livello della coscienza civile che ultimamente si è in più occasioni ed a più voci manifestato: sarebbe però sbagliato offendersi per il “gran rifiuto”. è preferibile trarne stimoli perché contegni simili, esprimono in ultimo che lo Stato di diritto è un bene ancora da tutelare e su cui l’avvocatura per prima deve vigilare.

    La Costituzione, sempre quella, non basta averla in un cassetto, leggerla, giurarci sopra e meno che mai sbandierarla: bisogna comprendere cosa c’è scritto in ogni sua parte e ricordare che sono stati gli Italiani, nel cui nome viene resa giustizia, che hanno sottoscritto quel vituperato disegno di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere: è innanzitutto alla volontà del popolo sovrano che viene con tali metodi opposta la ferma contrapposizione alla riforma e proseguendo su questa china, la magistratura non si rende conto che si sta ulteriormente delegittimando da sola pur coltivando il convincimento di avere sempre ragione. Sarà, forse, per questo motivo che, mutuando il pensiero di Bertold Brecht, noi avvocati siamo seduti dalla parte del torto perché dalla parte della ragione i posti erano tutti occupati.

  • In attesa di Giustizia: il vizio della memoria

    Era una mattina del tardo autunno del 1989, il codice di procedura penale era entrato in vigore da pochi giorni ed aveva comportato una modifica degli arredi nelle aule di Tribunale, non da tutti gradita, con il banco del P.M. che – nel rispetto della proclamata parità tra le parti – era stato spostato dal pretorio a fianco di quelli dei difensori: il rappresentante dell’accusa, in attesa che iniziasse l’udienza borbottava il suo dissenso non facendo mistero dell’avversione a quella novità e non è ben chiaro se dipendesse dall’allontanamento dai giudici o dalla maggiore prossimità con gli avvocati, probabilmente da entrambe le cose.

    E’ una storia vera, un ricordo legato a quel primo timido tentativo di affermare, sia pure solo visivamente, la terzietà del giudicante che solo dieci anni dopo sarà conclamata dalla modifica dell’art. 111 quando il dibattito sulla separazione delle carriere, visto come necessario passaggio per una completa attuazione del processo di impostazione anglosassone, aveva già iniziato ad infuocarsi.

    Il borbottio di un magistrato di quel giorno si è trasformato nel tempo in un’accanita battaglia di retroguardia contro ogni ipotesi di separazione anche solo delle funzioni già – peraltro – sancita dall’articolo 107 della Costituzione e la protesta è divampata dopo che l’ora segnata dal destino ha bussato sui cieli della Magistratura Associata con l’approvazione, in prima lettura, del disegno di legge su quella delle carriere: un iter che potrebbe concludersi entro l’estate considerato l’appoggio di alcune forze politiche esterne alla maggioranza che garantisce i numeri per l’approvazione di una norma di rango costituzionale a dispetto della indignazione manifestata in Aula dagli sherpa delle Procure.

    Nel mentre l’A.N.M. ha dissotterrato l’ascia di guerra preannunciando uno sciopero e manifestazioni di dissenso in occorso della inaugurazione dell’Anno Giudiziario con l’ostentazione di cartelli inneggianti a valori di una Costituzione asseritamente tradita, di coccarde tricolori sulla toga e minacciando anche di uscire dall’Aula durante l’intervento del Guardasigilli. Tutto molto scenografico ma non si tiene conto dell’inconsistenza di timori che la riforma sia servente a porre il Pubblico Ministero alle dipendenze dell’Esecutivo.

    Si tratta di un rischio non postulato dal disegno di legge e si potrebbe ottenere solo modificando altri articoli della Costituzione tra cui il 108 e il 109: quest’ultimo previsto per evitare che ciò che è uscito dalla porta rientri da una finestra…del Viminale.

    E’ il vizio della memoria: se si vuole ricordare la Costituzione è necessario farlo per intero e se si vogliono commentare – il che è legittimo – riforme in corso d’opera è indispensabile farlo esaminandole prive di interpolazioni non contemplate dal testo e neppure dalla relazione di accompagnamento

    E’ il vizio della memoria, non bisognerebbe dimenticare neppure un altro dettaglio: che una proposta normativa sulla separazione delle carriere è stata oggetto di una raccolta di firme largamente superiore al minimo richiesto il che offre una chiave di lettura non trascurabile.

    La rivolta dei magistrati, alla stregua di queste considerazioni si propone non solo come contro il Governo ed il Parlamento ma contro quel popolo italiano cui spetta il controllo sulla giurisdizione, quei cittadini il cui gradimento nei confronti dell’Ordine Giudiziario è ai minimi storici grazie agli inquietanti backstages  rivelati da Luca Palamara ed a qualche altra marachella conosciuta per vie diverse.

    Sia ben chiaro, la separazione delle carriere non sarà la soluzione di tutti i mali, serviranno un graduale cambio di mentalità e di tradizioni (e le nostre affondano nella storia della Colonna Infame come rammenta Cordero in uno splendido saggio) però è ineludibile: l’A.N.M. se ne faccia una ragione, è un primo passaggio e non è voluto solo da un pugno di deputati e senatori ma da milioni di italiani…e la memoria non tradisca riguardando alla nostra Costituzione che è una vecchia signora un po’ rigida che quei cittadini tutela e coinvolge nella vita pubblica ed è ricca di principi che costituiscono un baluardo per la distinzione dei Poteri dello Stato che nessuno è intenzionato a stravolgere.

  • In attesa di Giustizia: ossimori

    Il rischio è quello di sembrare ripetitivi ma una saga è scandita in più puntate, come quella del processo truccato noto come “ENI NIGERIA” riguardante – secondo la Procura di Milano – una mazzetta di entità mai vista ed impareggiabile in un raggio esteso sino ai confini della galassia, caso mai girassero tangenti anche su Nettuno e Plutone.

    Ne abbiamo ricordato alcuni passaggi ed evoluzioni nel numero della settimana scorsa e proprio in questi giorni sono state depositate le motivazioni delle condanne a otto mesi di reclusione dei P.M. Spadaro e De Pasquale, ormai protagonisti assoluti di questa rubrica: motivazioni che fanno riflettere.

    Non v’è dubbio che l’Autorità Giudiziaria di Brescia, competente per i reati attribuiti a magistrati di Milano, non si sia lasciata condizionare dall’altisonanza dei nomi iscritti sul registro delle notizie di reato né si sia fatta scrupoli nel rinviare a giudizio e pronunciare condanne ma…una differenza si nota proprio nelle motivazioni: implacabili con Davigo, ormai in pensione, e – invece –  vagamente contraddittorie in alcuni passaggi della “sentenza De Pasquale”, ancora in servizio come Spadaro, si direbbe quasi in ossequio al noto principio “cane non mangia cane”.

    Nella decisione bresciana è dato leggere, infatti, che De Pasquale e Spadaro nel processo a carico dei vertici dell’ENI hanno selezionato “chirurgicamente” gli elementi a favore della loro tesi stralciando quelli a discolpa degli indagati deliberatamente tacendo l’esistenza di risultanze investigative  in palese ed oggettivo contrasto con i portati accusatori e ciò nonostante le esortazioni contrarie ricevute da altro magistrato in servizio presso la medesima Procura, Paolo Storari, che chiedeva – anche per iscritto con e-mail acquisite al giudizio e richiamate nella sentenza – di utilizzare i verbali da cui risultava che il grande accusatore dei manager ENI fosse un calunniatore…verbali che De Pasquale  chiese che venissero “chiusi in un cassetto” perché ritenuti irrilevanti. Il Tribunale di Brescia ricorda che al P.M. non compete una simile valutazione arrogandosi una sfera illimitata di insindacabilità: è al giudicante che spetta ogni considerazione sulla rilevanza, affidabilità delle prove ed il conseguente impatto sul giudizio finale.

    La sentenza di cui si tratta riporta nel dettaglio le prove “truccate” utilizzate nel processo Paolo Scaroni + Altri a partire dalla perizia su una chat attribuita all’AD di ENI che ne dimostrava la falsità, opportunamente esclusa dal fascicolo, alla “dimenticanza” della corruzione di un teste nigeriano da parte di Vincenzo Armanna (sempre lui!) per affermare il falso contro gli amministratori dell’azienda petrolifera per tacere, infine, del tentativo di far deporre costui per screditare lo sgradito Presidente del Tribunale che li stava giudicando facendolo apparire come corruttibile dai difensori degli imputati.

    Un quadro inquietante, stomachevole, preoccupante per qualsiasi cittadino che dovesse anche lontanamente temere di finire nel tritacarne di questa…chiamiamola giustizia, senza offesa per la Dea Temi. Il Tribunale di Brescia definisce oggettivamente gravi questi comportamenti da parte dei P.M. milanesi ma subito dopo riconosce incomprensibilmente una buona fede di cui, negli elementi a carico che abbiamo sintetizzato (e non sono nemmeno tutti) non vi è traccia. E’ dato leggere che “tutto ciò non significa che si sia inteso perseguire ingiustamente degli innocenti e, quantomeno all’inizio, potevano esserci elementi investigativi che giustificavano il sospetto”. Già, all’inizio…ma poi? Quando si sono palesate evidenze contrarie al teorema accusatorio sono state cestinate ed allora il sospetto che si alimenta è ben altro.

    Ma quale buona fede, ma mi faccia il piacere! Direbbe il Principe De Curtis, il Tribunale di Brescia invece sembra tentare di salvare il salvabile anche sostenendo che la oggettiva gravità delle condotte è attenuata dalla incensuratezza e che è ragionevole aspettarsi per il futuro la cessazione di comportamenti illeciti: a prescindere che con la legislazione attuale l’incensuratezza come valore fruibile per attenuare la responsabilità penale non potrebbe essere utilizzata neppure per nostro Signore prima di crocifiggerlo, aspettarsi che un servitore dello Stato si astenga in futuro dal commettere altri reati è il minimo sindacale, anzi, non avrebbe dovuto commetterli neanche prima e  proprio per le qualità personali, il ruolo e la funzione svolta, lo spergiuro sulla costituzione, quelli già commessi “oggettivamente gravi” dovrebbero essere sanzionati con significativo rigore e non con una pena molto vicina al minimo previsto dal codice.

    Leggendo la sentenza di cui è stato offerto un sunto sembra di poter ricavare due conclusioni: che questa volta non dovrebbero esserci colpevoli che l’hanno fatta franca nonostante una tendenza nel finale al cerchiobottismo e gli “ossimori scomposti” della motivazione. In fondo anche questa volta cane non mangia cane, però qualche morso pur sempre fastidioso è stato dato…morsi che De Pasquale e Spadaro non sono riusciti a dare al cane a sei zampe nemmeno barando.

  • Le decisioni della Corte Costituzionale sull’Autonomia Differenziata

    Ovvero un sostanziale giudizio negativo della Consulta sull’Autonomia Differenziata, che, così com’è, non è compatibile con il dettato Costituzionale.

    Finalmente l’attesa decisione che conferma l’incostituzionalità della norma in così tanti punti che, di fatto, equivalgono quasi ad una totale abrogazione.

    Calderoli, come sempre quando è a corto di argomenti, ha appena dichiarato che la Corte Costituzionale ha dato un complessivo giudizio positivo alla legge (?), chiedendo la modifica di alcuni aspetti della stessa (?), per le quali saranno presto trovati i correttivi in Parlamento (?).

    Affermazioni propagandistiche e bugiarde per nascondere la polvere sotto il tappeto. In realtà la Corte Costituzionale ha fatto un ottimo lavoro, individuando una lunga serie di incostituzionalità che hanno demolito totalmente la legge, e non sarà per niente facile apportare modifiche alla stessa, anche perché l’obbiettivo principale della norma, e cioè il mantenimento nei territori delle regioni ricche delle risorse erariali versate dai contribuenti, ne esce totalmente devastato.

    Fine della storia, con buona pace di chi ha tentato l’assalto alla diligenza delle risorse erariali dello stato.

    Tornando alla decisione della Consulta, non è facile dedurre i particolari da un comunicato stampa, essendo possibile ogni doveroso approfondimento solo dopo che saranno depositate nel dettaglio le decisioni della sentenza.

    Ma dal comunicato emergono con chiarezza alcune questioni che erano state al centro delle critiche sulla legge di attuazione dell’Autonomia Differenziata, e motivo di scontri politici e accuse di volere favorire le regioni opulente del Nord, a discapito del resto del Paese.

    Ed è questo il punto che la Corte Costituzionale ha indicato come incostituzionale e cioè la violazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione che deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana, e cioè che ogni provvedimento adottato, come ad esempio l’autonomia differenziata, deve essere rispettoso dei principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, oltre che dell’equilibrio di bilancio.

    Calderoli e compagni hanno fatto l’esatto contrario con questa legge, mettendo a rischio la solidarietà tra le regioni, l’eguaglianza e la garanzia dei diritti dei cittadini, gli equilibri di bilancio e soprattutto i principi di Unità della Repubblica.

    Da qui la Corte costituzionale ha ritenuto che la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Quindi, a tal fine, individua nel principio costituzionale di sussidiarietà la regola fondamentale di distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni.

    Da qui le diverse cause di incostituzionalità individuate:

    In merito alle intese tra Stato e Regioni, insieme alla successiva legge di differenziazione nel trasferimento delle nuove materie, la devoluzione delle materie da specifiche funzioni legislative non può prescindere da specifiche funzioni legislative e amministrative e deve essere giustificata, in relazione ad ogni singola regione, alla luce del principio di sussidiarietà;

    In merito alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali, occorre che siano prima definiti idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale deve essere rimessa nelle mani del governo, il che limita il ruolo costituzionale del Parlamento,

    La determinazione dell’aggiornamento dei LEP non può essere effettuata da un decreto (DPCM) del Presidente del Consiglio;

    Così come è incostituzionale la procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023), per la determinazione dei LEP con DCPM, fino all’entrata in vigore dei decreti legislativi per definire i LEP;

    Va eliminata la possibilità di modificare con decreto ministeriale le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito;

    Va eleminata la facoltatività, piuttosto che la doverosità, da parte delle regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;

    Va eliminata la parte in cui nella legge dell’Autonomia Differenziata prevede una procedura per le regioni a Statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali;

    La Corte Costituzionale ha inoltre interpretato in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge e ribadito che spetta al Parlamento colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle regioni ricorrenti.

    Insomma, un parere assolutamente condivisibile che costituisce un vincolo difficilmente superabile per la copertura dei vuoti derivanti dalla sentenza.

    L’impianto della norma prevede infatti l’obiettivo di impoverire l’erario nazionale, a favore degli interessi delle regioni ricche di diventare ancora più opulente, con la trattenuta delle risorse erariali versate dai propri abitanti allo Stato, ed è proprio questo aspetto ad essere stato di fatto del tutto smantellato dalle varie incostituzionalità.

    La possibilità quindi di “colmare i vuoti” appare del tutto impossibile stando così le cose, e Calderoli non credo abbia strumenti per superare tale impedimento.

    Il referendum abrogativo a questo punto appare chiaro che non si terrà, mentre occorre mantenere il massimo di attenzione e vigilare sule intenzioni di come vorrà procedere la maggioranza di governo su ciò che resta del provvedimento, che così com’è non produrrà alcun processo di Autonomia Differenziata, ma in compenso grazie alla Consulta sono stati restituiti in pieno i valori, i principi ed i diritti Costituzionali all’intero Paese.

  • Amianto letale per oltre 1.500 italiani ogni anno

    Tra il 2010 e il 2020 ogni anno in Italia sono decedute per mesotelioma in media 1.545 persone, 1.116 uomini e 429 donne. Dei decessi osservati in media ogni anno, 25, (l’1,7%) avevano un’età uguale o inferiore ai 50 anni. Sono i dati riportati nel nuovo rapporto Istisan 24|18 “Impatto dell’amianto sulla mortalità. Italia, 2010-2020” dell’Istituto superiore di sanità (Iss) sulla mortalità per amianto nel nostro Paese. Il rapporto appena pubblicato riporta una diminuzione del numero dei decessi per mesotelioma tra gli under 50 negli ultimi anni, un primo effetto della legge 257/92 con la quale l’Italia vietò l’utilizzo dell’amianto e la produzione di manufatti contenenti amianto. “L’Istituto superiore di sanità – afferma Rocco Bellantone, presidente dell’Iss – è impegnato da anni su questo tema e il problema amianto rimane tra le priorità di sanità pubblica. L’Iss continuerà a contribuire alle attività di ricerca e alla sorveglianza epidemiologica delle malattie amianto-correlate, nonché alla definizione di strumenti per il rilevamento delle sorgenti di esposizione all’amianto ancora presenti nel nostro Paese, e all’implementazione di azioni preventive, fornendo supporto alle istituzioni e ai cittadini, attraverso momenti di interlocuzione e condivisione”.

    Le regioni Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta e Liguria presentano un numero di decessi per 100.000 abitanti maggiore della media nazionale, ma i casi sono distribuiti sull’intero territorio italiano. In totale sono stati registrati su tutto il territorio nazionale quasi 17.000 casi nel periodo 2010-2020. Il numero dei decessi è superiore al numero atteso sulla base della media regionale in 375 Comuni: si tratta di territori con cantieri navali, poli industriali, ex industrie del cemento-amianto, ex cave di amianto. Negli ultimi anni, come indicano i dati del rapporto, si osserva una diminuzione del numero dei decessi, in particolare tra la popolazione con 50 anni o meno (31 casi osservati nel 2010 e 13 casi nel 2020). Le morti per mesotelioma osservate tra i più giovani – come spiegano gli esperti dell’Iss – sono probabilmente dovute a una esposizione avvenuta in età pediatrica in ambienti non-occupazionali, vista la lunga latenza (fino a 30-40 anni) della malattia. La maggior parte delle persone decedute per mesotelioma è stata probabilmente esposta all’amianto in ambienti lavorativi nei decenni passati. Ma l’esposizione può essere avvenuta anche in contesti domestici o ambientali, per inalazione di fibre rilasciate nelle abitazioni oppure nell’ambiente da sorgenti presenti sul territorio.

    Il mesotelioma è un tumore aggressivo, ad alta letalità con una latenza anche di 30-40 anni, che colpisce le cellule del mesotelio, il tessuto sottile che ricopre gran parte degli organi interni. Il mesotelioma nell’80 per cento dei casi circa è dovuto all’esposizione all’amianto. Per il fatto di rilasciare fibre inalabili, l’amianto (chiamato anche asbesto) oltre che del mesotelioma può essere responsabile di asbestosi (una malattia polmonare cronica conseguente all’inalazione di fibre di asbesto) e, seppure con una quota attribuibile più bassa e più difficile da stimare, anche di altre tipologie di tumore, come il tumore polmonare e dell’ovaio. Il 27 marzo del 1992, con 13 anni di anticipo rispetto all’Europa, in Italia entra in vigore la legge 257/92, che stabilisce il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto. “Le morti e le malattie per amianto destano un grande senso di ingiustizia sociale che richiama tutti alla necessità di intervenire – ha dichiarato Marco Martuzzi, direttore del dipartimento Ambiente e Salute dell’Iss – In Italia molto è stato fatto negli ultimi decenni, per cui oggi si vedono i primi effetti positivi”. “Ma l’amianto rimane un’emergenza ambientale e sanitaria – riprende l’esperto – che richiede urgenti interventi di prevenzione, eliminando esposizioni residuali all’amianto ancora presenti nel nostro Paese. Va assicurata un’adeguata assistenza sanitaria e sicurezza sociale agli ex esposti, ai malati per amianto e ai loro familiari”. Si tratta di interventi che richiedono uno sforzo sinergico tra le istituzioni locali e nazionali, le associazioni, il mondo della ricerca.

    E in questa direzione di sinergia va il Progetto Sepra (Sorveglianza epidemiologica, prevenzione e ricerca sull’amianto), finanziato dall’Inail e coordinato dalla Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Nell’ambito di Sepra, presso l’Iss oggi si tiene il workshop aperto esclusivamente a ricercatori coinvolti nel Progetto e a rappresentanti delle associazioni, dal titolo “L’impatto sulla salute dell’amianto in Italia: sorveglianza epidemiologica, prevenzione e supporto agli ex-esposti: stato dell’arte e strumenti innovativi di ricerca e intervento. Il Progetto Sepra”. Durante il workshop saranno discussi i dati del rapporto dell’Iss e le attività in corso del Progetto tra rappresentanti delle associazioni e ricercatori coinvolti in Sepra. Obiettivo della collaborazione tra le diverse istituzioni, le reti accademiche e gli enti coinvolti è la condivisione delle conoscenze e dei dati delle diverse fonti informative, come quelli della mortalità presentati dall’Iss e i dati del Registro Nazionale Mesoteliomi in modo da rafforzare gli strumenti disponibili per l’eradicazione delle malattie da amianto nel Paese e per il supporto ai malati e ai loro familiari.

  • In attesa di Giustizia: la legge è uguale per tutti?

    Sembra di poter dire che al peggio non c’è mai limite e non c’è limite alla impunita strafottenza con cui la corporazione dei magistrati si stringe sistematicamente a tutela dei propri adepti e privilegi: ecco a voi due storie, una particolarmente sgradevole, sulle quali riflettere.

    Chi segue questa rubrica ricorderà che più di una volta sono stati segnalati episodi relativi a sentenze che si erano scoperte come decise prima della fine del processo (e chissà quante non vengono disvelate, considerato che non possono essere accadimenti episodici): ebbene, per uno di questi fatti, si è da pochi giorni arrivati ad una decisione della rigorosissima sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.

    Accadde a Firenze nel febbraio scorso che un difensore, chiedendo di consultare il fascicolo che lo interessava mentre il Collegio era impegnato in camera di consiglio per un altro processo – probabilmente a fare colazione, facendosela portare dal bar, visto l’andazzo – scoprì che all’interno si trovava la sentenza già scritta, motivata e ben definita con la condanna e la determinazione della pena: tutto ciò senza che avesse discusso non solo l’avvocato ma neppure il Pubblico Ministero. Quasi, quasi, sarebbe preferibile una bella ordalia.

    Qualcuno si sarebbe, forse, dovuto prendere la briga di sequestrare immediatamente tutti i fascicoli, almeno quelli del giorno, verificando se altri contenessero qualcosa del genere. Invece, niente: anzi, il Tribunale si accanì contro il difensore perchè aveva osato esercitare il suo diritto di consultazione, debitamente autorizzato dal P.M. a cui era stata fatta la richiesta ed era presente in aula. Solo per la presa di posizione della Camera Penale di Firenze la vicenda è finita al C.S.M.

    Ed ecco, dopo pochi mesi, l’Organo di Autogoverno (che più spesso impiega anni a decidere in guisa da far raggiungere serenamente la pensione agli incolpati e poi chiudere il disciplinare con un nulla di fatto) eccezionalmente sollecito a decidere sulla richiesta di trasferimento di quei magistrati per incompatibilità ambientale; neanche chissà che: avrebbero solo dovuto fare le valigie ed andare altrove a fingere di fare i giudici invece di essere spediti a calci nel sedere a fare i fattorini per Glovo.

    Il Consiglio ha deciso di archiviare il tutto perché l’accaduto è (testuale) “privo di ricadute nell’esercizio indipendente ed imparziale sulla giurisdizione”: il richiamo all’imparzialità in questo caso più che un insulto all’intelligenza è asserto da voltastomaco ed in un Paese civile tutti i cittadini, quelli nel cui nome viene esercitata la giustizia, avrebbero dovuto essere adeguatamente informati di questa duplice vergogna e, traendone le conclusioni, prendere d’assalto Palazzo dei Marescialli come fosse la Bastiglia; ogni altro commento è lasciato a voi lettori.

    La seconda vicenda è un po’ meno stomachevole: si tratta del risarcimento per ingiusta detenzione riconosciuto (giustamente va detto) dalla Corte d’Appello di Milano a Pasquale Longarini, già Procuratore della Repubblica di Aosta, vittima di una giustizia (?) che ha impiegato anni per assolverlo da accuse infamanti di induzione indebita, violazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. Nessuno nega che a quest’uomo sia stata rovinata la vita, la carriera e che abbia subito l’onta di due mesi di arresti domiciliari ma…la riparazione per ingiusta detenzione è prevista proprio solo per le carcerazioni preventive rivelatesi ingiuste a seguito di assoluzione e la domanda che ci si deve porre è perché al Dott. Longarini siano stati corrisposti circa 800 euro per ogni giorno di prigionia domestica (in totale quasi 50.000). Infatti, per un comune mortale la “tariffa” non arriva a 120 euro/giorno: 1/7, più o meno…più meno che più se si considera che recentemente ad un imprenditore di Frosinone per due anni e otto mesi di carcere e cinque mesi di arresti domiciliari sono stati versati 160.000 euro. Soldi, comunque, di noi contribuenti: evidentemente l’abito non fa il monaco ma il tipo di toga indossata fa il risarcimento.

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