Legge

  • In attesa di Giustizia: il vizio della memoria

    Era una mattina del tardo autunno del 1989, il codice di procedura penale era entrato in vigore da pochi giorni ed aveva comportato una modifica degli arredi nelle aule di Tribunale, non da tutti gradita, con il banco del P.M. che – nel rispetto della proclamata parità tra le parti – era stato spostato dal pretorio a fianco di quelli dei difensori: il rappresentante dell’accusa, in attesa che iniziasse l’udienza borbottava il suo dissenso non facendo mistero dell’avversione a quella novità e non è ben chiaro se dipendesse dall’allontanamento dai giudici o dalla maggiore prossimità con gli avvocati, probabilmente da entrambe le cose.

    E’ una storia vera, un ricordo legato a quel primo timido tentativo di affermare, sia pure solo visivamente, la terzietà del giudicante che solo dieci anni dopo sarà conclamata dalla modifica dell’art. 111 quando il dibattito sulla separazione delle carriere, visto come necessario passaggio per una completa attuazione del processo di impostazione anglosassone, aveva già iniziato ad infuocarsi.

    Il borbottio di un magistrato di quel giorno si è trasformato nel tempo in un’accanita battaglia di retroguardia contro ogni ipotesi di separazione anche solo delle funzioni già – peraltro – sancita dall’articolo 107 della Costituzione e la protesta è divampata dopo che l’ora segnata dal destino ha bussato sui cieli della Magistratura Associata con l’approvazione, in prima lettura, del disegno di legge su quella delle carriere: un iter che potrebbe concludersi entro l’estate considerato l’appoggio di alcune forze politiche esterne alla maggioranza che garantisce i numeri per l’approvazione di una norma di rango costituzionale a dispetto della indignazione manifestata in Aula dagli sherpa delle Procure.

    Nel mentre l’A.N.M. ha dissotterrato l’ascia di guerra preannunciando uno sciopero e manifestazioni di dissenso in occorso della inaugurazione dell’Anno Giudiziario con l’ostentazione di cartelli inneggianti a valori di una Costituzione asseritamente tradita, di coccarde tricolori sulla toga e minacciando anche di uscire dall’Aula durante l’intervento del Guardasigilli. Tutto molto scenografico ma non si tiene conto dell’inconsistenza di timori che la riforma sia servente a porre il Pubblico Ministero alle dipendenze dell’Esecutivo.

    Si tratta di un rischio non postulato dal disegno di legge e si potrebbe ottenere solo modificando altri articoli della Costituzione tra cui il 108 e il 109: quest’ultimo previsto per evitare che ciò che è uscito dalla porta rientri da una finestra…del Viminale.

    E’ il vizio della memoria: se si vuole ricordare la Costituzione è necessario farlo per intero e se si vogliono commentare – il che è legittimo – riforme in corso d’opera è indispensabile farlo esaminandole prive di interpolazioni non contemplate dal testo e neppure dalla relazione di accompagnamento

    E’ il vizio della memoria, non bisognerebbe dimenticare neppure un altro dettaglio: che una proposta normativa sulla separazione delle carriere è stata oggetto di una raccolta di firme largamente superiore al minimo richiesto il che offre una chiave di lettura non trascurabile.

    La rivolta dei magistrati, alla stregua di queste considerazioni si propone non solo come contro il Governo ed il Parlamento ma contro quel popolo italiano cui spetta il controllo sulla giurisdizione, quei cittadini il cui gradimento nei confronti dell’Ordine Giudiziario è ai minimi storici grazie agli inquietanti backstages  rivelati da Luca Palamara ed a qualche altra marachella conosciuta per vie diverse.

    Sia ben chiaro, la separazione delle carriere non sarà la soluzione di tutti i mali, serviranno un graduale cambio di mentalità e di tradizioni (e le nostre affondano nella storia della Colonna Infame come rammenta Cordero in uno splendido saggio) però è ineludibile: l’A.N.M. se ne faccia una ragione, è un primo passaggio e non è voluto solo da un pugno di deputati e senatori ma da milioni di italiani…e la memoria non tradisca riguardando alla nostra Costituzione che è una vecchia signora un po’ rigida che quei cittadini tutela e coinvolge nella vita pubblica ed è ricca di principi che costituiscono un baluardo per la distinzione dei Poteri dello Stato che nessuno è intenzionato a stravolgere.

  • In attesa di Giustizia: ossimori

    Il rischio è quello di sembrare ripetitivi ma una saga è scandita in più puntate, come quella del processo truccato noto come “ENI NIGERIA” riguardante – secondo la Procura di Milano – una mazzetta di entità mai vista ed impareggiabile in un raggio esteso sino ai confini della galassia, caso mai girassero tangenti anche su Nettuno e Plutone.

    Ne abbiamo ricordato alcuni passaggi ed evoluzioni nel numero della settimana scorsa e proprio in questi giorni sono state depositate le motivazioni delle condanne a otto mesi di reclusione dei P.M. Spadaro e De Pasquale, ormai protagonisti assoluti di questa rubrica: motivazioni che fanno riflettere.

    Non v’è dubbio che l’Autorità Giudiziaria di Brescia, competente per i reati attribuiti a magistrati di Milano, non si sia lasciata condizionare dall’altisonanza dei nomi iscritti sul registro delle notizie di reato né si sia fatta scrupoli nel rinviare a giudizio e pronunciare condanne ma…una differenza si nota proprio nelle motivazioni: implacabili con Davigo, ormai in pensione, e – invece –  vagamente contraddittorie in alcuni passaggi della “sentenza De Pasquale”, ancora in servizio come Spadaro, si direbbe quasi in ossequio al noto principio “cane non mangia cane”.

    Nella decisione bresciana è dato leggere, infatti, che De Pasquale e Spadaro nel processo a carico dei vertici dell’ENI hanno selezionato “chirurgicamente” gli elementi a favore della loro tesi stralciando quelli a discolpa degli indagati deliberatamente tacendo l’esistenza di risultanze investigative  in palese ed oggettivo contrasto con i portati accusatori e ciò nonostante le esortazioni contrarie ricevute da altro magistrato in servizio presso la medesima Procura, Paolo Storari, che chiedeva – anche per iscritto con e-mail acquisite al giudizio e richiamate nella sentenza – di utilizzare i verbali da cui risultava che il grande accusatore dei manager ENI fosse un calunniatore…verbali che De Pasquale  chiese che venissero “chiusi in un cassetto” perché ritenuti irrilevanti. Il Tribunale di Brescia ricorda che al P.M. non compete una simile valutazione arrogandosi una sfera illimitata di insindacabilità: è al giudicante che spetta ogni considerazione sulla rilevanza, affidabilità delle prove ed il conseguente impatto sul giudizio finale.

    La sentenza di cui si tratta riporta nel dettaglio le prove “truccate” utilizzate nel processo Paolo Scaroni + Altri a partire dalla perizia su una chat attribuita all’AD di ENI che ne dimostrava la falsità, opportunamente esclusa dal fascicolo, alla “dimenticanza” della corruzione di un teste nigeriano da parte di Vincenzo Armanna (sempre lui!) per affermare il falso contro gli amministratori dell’azienda petrolifera per tacere, infine, del tentativo di far deporre costui per screditare lo sgradito Presidente del Tribunale che li stava giudicando facendolo apparire come corruttibile dai difensori degli imputati.

    Un quadro inquietante, stomachevole, preoccupante per qualsiasi cittadino che dovesse anche lontanamente temere di finire nel tritacarne di questa…chiamiamola giustizia, senza offesa per la Dea Temi. Il Tribunale di Brescia definisce oggettivamente gravi questi comportamenti da parte dei P.M. milanesi ma subito dopo riconosce incomprensibilmente una buona fede di cui, negli elementi a carico che abbiamo sintetizzato (e non sono nemmeno tutti) non vi è traccia. E’ dato leggere che “tutto ciò non significa che si sia inteso perseguire ingiustamente degli innocenti e, quantomeno all’inizio, potevano esserci elementi investigativi che giustificavano il sospetto”. Già, all’inizio…ma poi? Quando si sono palesate evidenze contrarie al teorema accusatorio sono state cestinate ed allora il sospetto che si alimenta è ben altro.

    Ma quale buona fede, ma mi faccia il piacere! Direbbe il Principe De Curtis, il Tribunale di Brescia invece sembra tentare di salvare il salvabile anche sostenendo che la oggettiva gravità delle condotte è attenuata dalla incensuratezza e che è ragionevole aspettarsi per il futuro la cessazione di comportamenti illeciti: a prescindere che con la legislazione attuale l’incensuratezza come valore fruibile per attenuare la responsabilità penale non potrebbe essere utilizzata neppure per nostro Signore prima di crocifiggerlo, aspettarsi che un servitore dello Stato si astenga in futuro dal commettere altri reati è il minimo sindacale, anzi, non avrebbe dovuto commetterli neanche prima e  proprio per le qualità personali, il ruolo e la funzione svolta, lo spergiuro sulla costituzione, quelli già commessi “oggettivamente gravi” dovrebbero essere sanzionati con significativo rigore e non con una pena molto vicina al minimo previsto dal codice.

    Leggendo la sentenza di cui è stato offerto un sunto sembra di poter ricavare due conclusioni: che questa volta non dovrebbero esserci colpevoli che l’hanno fatta franca nonostante una tendenza nel finale al cerchiobottismo e gli “ossimori scomposti” della motivazione. In fondo anche questa volta cane non mangia cane, però qualche morso pur sempre fastidioso è stato dato…morsi che De Pasquale e Spadaro non sono riusciti a dare al cane a sei zampe nemmeno barando.

  • Le decisioni della Corte Costituzionale sull’Autonomia Differenziata

    Ovvero un sostanziale giudizio negativo della Consulta sull’Autonomia Differenziata, che, così com’è, non è compatibile con il dettato Costituzionale.

    Finalmente l’attesa decisione che conferma l’incostituzionalità della norma in così tanti punti che, di fatto, equivalgono quasi ad una totale abrogazione.

    Calderoli, come sempre quando è a corto di argomenti, ha appena dichiarato che la Corte Costituzionale ha dato un complessivo giudizio positivo alla legge (?), chiedendo la modifica di alcuni aspetti della stessa (?), per le quali saranno presto trovati i correttivi in Parlamento (?).

    Affermazioni propagandistiche e bugiarde per nascondere la polvere sotto il tappeto. In realtà la Corte Costituzionale ha fatto un ottimo lavoro, individuando una lunga serie di incostituzionalità che hanno demolito totalmente la legge, e non sarà per niente facile apportare modifiche alla stessa, anche perché l’obbiettivo principale della norma, e cioè il mantenimento nei territori delle regioni ricche delle risorse erariali versate dai contribuenti, ne esce totalmente devastato.

    Fine della storia, con buona pace di chi ha tentato l’assalto alla diligenza delle risorse erariali dello stato.

    Tornando alla decisione della Consulta, non è facile dedurre i particolari da un comunicato stampa, essendo possibile ogni doveroso approfondimento solo dopo che saranno depositate nel dettaglio le decisioni della sentenza.

    Ma dal comunicato emergono con chiarezza alcune questioni che erano state al centro delle critiche sulla legge di attuazione dell’Autonomia Differenziata, e motivo di scontri politici e accuse di volere favorire le regioni opulente del Nord, a discapito del resto del Paese.

    Ed è questo il punto che la Corte Costituzionale ha indicato come incostituzionale e cioè la violazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione che deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana, e cioè che ogni provvedimento adottato, come ad esempio l’autonomia differenziata, deve essere rispettoso dei principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, oltre che dell’equilibrio di bilancio.

    Calderoli e compagni hanno fatto l’esatto contrario con questa legge, mettendo a rischio la solidarietà tra le regioni, l’eguaglianza e la garanzia dei diritti dei cittadini, gli equilibri di bilancio e soprattutto i principi di Unità della Repubblica.

    Da qui la Corte costituzionale ha ritenuto che la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Quindi, a tal fine, individua nel principio costituzionale di sussidiarietà la regola fondamentale di distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni.

    Da qui le diverse cause di incostituzionalità individuate:

    In merito alle intese tra Stato e Regioni, insieme alla successiva legge di differenziazione nel trasferimento delle nuove materie, la devoluzione delle materie da specifiche funzioni legislative non può prescindere da specifiche funzioni legislative e amministrative e deve essere giustificata, in relazione ad ogni singola regione, alla luce del principio di sussidiarietà;

    In merito alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali, occorre che siano prima definiti idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale deve essere rimessa nelle mani del governo, il che limita il ruolo costituzionale del Parlamento,

    La determinazione dell’aggiornamento dei LEP non può essere effettuata da un decreto (DPCM) del Presidente del Consiglio;

    Così come è incostituzionale la procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023), per la determinazione dei LEP con DCPM, fino all’entrata in vigore dei decreti legislativi per definire i LEP;

    Va eliminata la possibilità di modificare con decreto ministeriale le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito;

    Va eleminata la facoltatività, piuttosto che la doverosità, da parte delle regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;

    Va eliminata la parte in cui nella legge dell’Autonomia Differenziata prevede una procedura per le regioni a Statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali;

    La Corte Costituzionale ha inoltre interpretato in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge e ribadito che spetta al Parlamento colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle regioni ricorrenti.

    Insomma, un parere assolutamente condivisibile che costituisce un vincolo difficilmente superabile per la copertura dei vuoti derivanti dalla sentenza.

    L’impianto della norma prevede infatti l’obiettivo di impoverire l’erario nazionale, a favore degli interessi delle regioni ricche di diventare ancora più opulente, con la trattenuta delle risorse erariali versate dai propri abitanti allo Stato, ed è proprio questo aspetto ad essere stato di fatto del tutto smantellato dalle varie incostituzionalità.

    La possibilità quindi di “colmare i vuoti” appare del tutto impossibile stando così le cose, e Calderoli non credo abbia strumenti per superare tale impedimento.

    Il referendum abrogativo a questo punto appare chiaro che non si terrà, mentre occorre mantenere il massimo di attenzione e vigilare sule intenzioni di come vorrà procedere la maggioranza di governo su ciò che resta del provvedimento, che così com’è non produrrà alcun processo di Autonomia Differenziata, ma in compenso grazie alla Consulta sono stati restituiti in pieno i valori, i principi ed i diritti Costituzionali all’intero Paese.

  • Amianto letale per oltre 1.500 italiani ogni anno

    Tra il 2010 e il 2020 ogni anno in Italia sono decedute per mesotelioma in media 1.545 persone, 1.116 uomini e 429 donne. Dei decessi osservati in media ogni anno, 25, (l’1,7%) avevano un’età uguale o inferiore ai 50 anni. Sono i dati riportati nel nuovo rapporto Istisan 24|18 “Impatto dell’amianto sulla mortalità. Italia, 2010-2020” dell’Istituto superiore di sanità (Iss) sulla mortalità per amianto nel nostro Paese. Il rapporto appena pubblicato riporta una diminuzione del numero dei decessi per mesotelioma tra gli under 50 negli ultimi anni, un primo effetto della legge 257/92 con la quale l’Italia vietò l’utilizzo dell’amianto e la produzione di manufatti contenenti amianto. “L’Istituto superiore di sanità – afferma Rocco Bellantone, presidente dell’Iss – è impegnato da anni su questo tema e il problema amianto rimane tra le priorità di sanità pubblica. L’Iss continuerà a contribuire alle attività di ricerca e alla sorveglianza epidemiologica delle malattie amianto-correlate, nonché alla definizione di strumenti per il rilevamento delle sorgenti di esposizione all’amianto ancora presenti nel nostro Paese, e all’implementazione di azioni preventive, fornendo supporto alle istituzioni e ai cittadini, attraverso momenti di interlocuzione e condivisione”.

    Le regioni Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta e Liguria presentano un numero di decessi per 100.000 abitanti maggiore della media nazionale, ma i casi sono distribuiti sull’intero territorio italiano. In totale sono stati registrati su tutto il territorio nazionale quasi 17.000 casi nel periodo 2010-2020. Il numero dei decessi è superiore al numero atteso sulla base della media regionale in 375 Comuni: si tratta di territori con cantieri navali, poli industriali, ex industrie del cemento-amianto, ex cave di amianto. Negli ultimi anni, come indicano i dati del rapporto, si osserva una diminuzione del numero dei decessi, in particolare tra la popolazione con 50 anni o meno (31 casi osservati nel 2010 e 13 casi nel 2020). Le morti per mesotelioma osservate tra i più giovani – come spiegano gli esperti dell’Iss – sono probabilmente dovute a una esposizione avvenuta in età pediatrica in ambienti non-occupazionali, vista la lunga latenza (fino a 30-40 anni) della malattia. La maggior parte delle persone decedute per mesotelioma è stata probabilmente esposta all’amianto in ambienti lavorativi nei decenni passati. Ma l’esposizione può essere avvenuta anche in contesti domestici o ambientali, per inalazione di fibre rilasciate nelle abitazioni oppure nell’ambiente da sorgenti presenti sul territorio.

    Il mesotelioma è un tumore aggressivo, ad alta letalità con una latenza anche di 30-40 anni, che colpisce le cellule del mesotelio, il tessuto sottile che ricopre gran parte degli organi interni. Il mesotelioma nell’80 per cento dei casi circa è dovuto all’esposizione all’amianto. Per il fatto di rilasciare fibre inalabili, l’amianto (chiamato anche asbesto) oltre che del mesotelioma può essere responsabile di asbestosi (una malattia polmonare cronica conseguente all’inalazione di fibre di asbesto) e, seppure con una quota attribuibile più bassa e più difficile da stimare, anche di altre tipologie di tumore, come il tumore polmonare e dell’ovaio. Il 27 marzo del 1992, con 13 anni di anticipo rispetto all’Europa, in Italia entra in vigore la legge 257/92, che stabilisce il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto. “Le morti e le malattie per amianto destano un grande senso di ingiustizia sociale che richiama tutti alla necessità di intervenire – ha dichiarato Marco Martuzzi, direttore del dipartimento Ambiente e Salute dell’Iss – In Italia molto è stato fatto negli ultimi decenni, per cui oggi si vedono i primi effetti positivi”. “Ma l’amianto rimane un’emergenza ambientale e sanitaria – riprende l’esperto – che richiede urgenti interventi di prevenzione, eliminando esposizioni residuali all’amianto ancora presenti nel nostro Paese. Va assicurata un’adeguata assistenza sanitaria e sicurezza sociale agli ex esposti, ai malati per amianto e ai loro familiari”. Si tratta di interventi che richiedono uno sforzo sinergico tra le istituzioni locali e nazionali, le associazioni, il mondo della ricerca.

    E in questa direzione di sinergia va il Progetto Sepra (Sorveglianza epidemiologica, prevenzione e ricerca sull’amianto), finanziato dall’Inail e coordinato dalla Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Nell’ambito di Sepra, presso l’Iss oggi si tiene il workshop aperto esclusivamente a ricercatori coinvolti nel Progetto e a rappresentanti delle associazioni, dal titolo “L’impatto sulla salute dell’amianto in Italia: sorveglianza epidemiologica, prevenzione e supporto agli ex-esposti: stato dell’arte e strumenti innovativi di ricerca e intervento. Il Progetto Sepra”. Durante il workshop saranno discussi i dati del rapporto dell’Iss e le attività in corso del Progetto tra rappresentanti delle associazioni e ricercatori coinvolti in Sepra. Obiettivo della collaborazione tra le diverse istituzioni, le reti accademiche e gli enti coinvolti è la condivisione delle conoscenze e dei dati delle diverse fonti informative, come quelli della mortalità presentati dall’Iss e i dati del Registro Nazionale Mesoteliomi in modo da rafforzare gli strumenti disponibili per l’eradicazione delle malattie da amianto nel Paese e per il supporto ai malati e ai loro familiari.

  • In attesa di Giustizia: la legge è uguale per tutti?

    Sembra di poter dire che al peggio non c’è mai limite e non c’è limite alla impunita strafottenza con cui la corporazione dei magistrati si stringe sistematicamente a tutela dei propri adepti e privilegi: ecco a voi due storie, una particolarmente sgradevole, sulle quali riflettere.

    Chi segue questa rubrica ricorderà che più di una volta sono stati segnalati episodi relativi a sentenze che si erano scoperte come decise prima della fine del processo (e chissà quante non vengono disvelate, considerato che non possono essere accadimenti episodici): ebbene, per uno di questi fatti, si è da pochi giorni arrivati ad una decisione della rigorosissima sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.

    Accadde a Firenze nel febbraio scorso che un difensore, chiedendo di consultare il fascicolo che lo interessava mentre il Collegio era impegnato in camera di consiglio per un altro processo – probabilmente a fare colazione, facendosela portare dal bar, visto l’andazzo – scoprì che all’interno si trovava la sentenza già scritta, motivata e ben definita con la condanna e la determinazione della pena: tutto ciò senza che avesse discusso non solo l’avvocato ma neppure il Pubblico Ministero. Quasi, quasi, sarebbe preferibile una bella ordalia.

    Qualcuno si sarebbe, forse, dovuto prendere la briga di sequestrare immediatamente tutti i fascicoli, almeno quelli del giorno, verificando se altri contenessero qualcosa del genere. Invece, niente: anzi, il Tribunale si accanì contro il difensore perchè aveva osato esercitare il suo diritto di consultazione, debitamente autorizzato dal P.M. a cui era stata fatta la richiesta ed era presente in aula. Solo per la presa di posizione della Camera Penale di Firenze la vicenda è finita al C.S.M.

    Ed ecco, dopo pochi mesi, l’Organo di Autogoverno (che più spesso impiega anni a decidere in guisa da far raggiungere serenamente la pensione agli incolpati e poi chiudere il disciplinare con un nulla di fatto) eccezionalmente sollecito a decidere sulla richiesta di trasferimento di quei magistrati per incompatibilità ambientale; neanche chissà che: avrebbero solo dovuto fare le valigie ed andare altrove a fingere di fare i giudici invece di essere spediti a calci nel sedere a fare i fattorini per Glovo.

    Il Consiglio ha deciso di archiviare il tutto perché l’accaduto è (testuale) “privo di ricadute nell’esercizio indipendente ed imparziale sulla giurisdizione”: il richiamo all’imparzialità in questo caso più che un insulto all’intelligenza è asserto da voltastomaco ed in un Paese civile tutti i cittadini, quelli nel cui nome viene esercitata la giustizia, avrebbero dovuto essere adeguatamente informati di questa duplice vergogna e, traendone le conclusioni, prendere d’assalto Palazzo dei Marescialli come fosse la Bastiglia; ogni altro commento è lasciato a voi lettori.

    La seconda vicenda è un po’ meno stomachevole: si tratta del risarcimento per ingiusta detenzione riconosciuto (giustamente va detto) dalla Corte d’Appello di Milano a Pasquale Longarini, già Procuratore della Repubblica di Aosta, vittima di una giustizia (?) che ha impiegato anni per assolverlo da accuse infamanti di induzione indebita, violazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. Nessuno nega che a quest’uomo sia stata rovinata la vita, la carriera e che abbia subito l’onta di due mesi di arresti domiciliari ma…la riparazione per ingiusta detenzione è prevista proprio solo per le carcerazioni preventive rivelatesi ingiuste a seguito di assoluzione e la domanda che ci si deve porre è perché al Dott. Longarini siano stati corrisposti circa 800 euro per ogni giorno di prigionia domestica (in totale quasi 50.000). Infatti, per un comune mortale la “tariffa” non arriva a 120 euro/giorno: 1/7, più o meno…più meno che più se si considera che recentemente ad un imprenditore di Frosinone per due anni e otto mesi di carcere e cinque mesi di arresti domiciliari sono stati versati 160.000 euro. Soldi, comunque, di noi contribuenti: evidentemente l’abito non fa il monaco ma il tipo di toga indossata fa il risarcimento.

  • In vigore norme più severe sulla cybersicurezza, ora si tratta di implementarle

    Dal 17 luglio è in vigore in Italia la normativa voluta dalla Ue in materia di cybersicurezza. Gli enti pubblici, principalmente ma non solo, che subiscono un attacco da parte di hacker dovranno segnalarlo entro 24 ore.  Distinguendo tra “soggetti essenziali” e “soggetti importanti”, e imponendo agli uni e agli altri requisiti di sicurezza specifici e obblighi di notifica per gli incidenti informatici, le nuove norme identificano i settori chiave per l’economia del Paese come energia, trasporti, bancario e sanitario,. tutti settori caratterizzati da una progressiva digitalizzazione dei servizi offerti, e prescrive loro sia di effettuare l’analisi del rischio informatico e di adottare misure di sicurezza adeguate per garantire la continuità operativa, sia di segnalare tempestivamente all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale CSIRT (Computer Security Incident Response Team) o all’autorità competente incidenti che possano interrompere la fornitura di servizi essenziali.In Ita

    Pubblica amministrazione e imprese del Belpaese si stanno adoperando per raggiungere gli standard di cybersicurezza dei Paesi più virtuosi del Vecchio Continente ma, come ha evidenziato anche il condirettore di Leonardo Lorenzo Mariani in un’audizione davanti alla commissione Difesa in Parlamento, è essenziale che l’Italia raggiunga la soglia del 2% di spesa pubblica rispetto al Pil destinato alla difesa, come richiesto a tutti i membri della Nato. In ballo, ha detto Mariani, c’è sia la sicurezza nazionale che il ruolo che l’Italia può avere nel mondo, non solo in termini militari.

    Secondo quanto riferito dall’Agenzia per la Cybersicurezza nell’annuale rapporto al Parlamento, lo scorso anno gli eventi cyber nella Penisola sono stati 1.411, con un incremento di quasi il 30% rispetto al 2022, mentre sono più che raddoppiati gli incidenti, arrivando a quota 303 (per una media di circa 25 al mese). I principali target sono stati la pubblica amministrazione e le aziende dei comparti di telecomunicazioni, trasporti e servizi finanziari.

  • Child marriage ban welcomed in Sierra Leone

    Sierra Leone has brought in a new law banning child marriage with much fanfare at a ceremony organised by First Lady Fatima Bio in the capital, Freetown.

    Invited guests, including first ladies from Cape Verde and Namibia, watched as her husband President Julius Maada Bio signed the Prohibition of Child Marriage Act into law.

    Anybody now involved in the marriage of a girl aged under the age of 18 will be jailed for at least 15 years or fined around $4,000 (£3,200), or both.

    University student Khadijatu Barrie, whose sister was married off at 14, told the BBC she welcomed the ban but wished it had come in to save her younger sibling.

    “I really wish it had happened earlier. I could have at least saved my sister and my friends and other neighbours,” the 26-year-old gender studies undergraduate said.

    Sierra Leone is a patriarchal society and it is common for a father to give his daughter’s hand in marriage forcibly.

    Ms Barrie faced this prospect aged 10. She resisted it and fled the family home after her father disowned her.

    She was lucky enough to find teachers who paid for her school fees and a sympathetic worker from the UN children’s agency who helped her out with accommodation.

    But she says it is difficult for those who live in rural areas to buck tradition and every community will need to be informed about the new law for it to be effective.

    “If everyone understands what’s there waiting for you in case you do it I’m sure this country will be a better one,” Ms Barrie said.

    The ministry of health estimates that a third of girls are married off before they turn 18, accounting for the country’s high number of maternal deaths – among the highest in the world.

    Those who face punishment under the new rules include the groom, the parents or guardians of the child bride, and even those who attend the wedding.

    Mrs Bio, who has been at the forefront in campaigning against sexual abuse since her husband became president six years ago, wanted the signing of the bill to be a big occasion.

    The first lady told the BBC World Service Newshour programme the bill was a “personal battle” as she was almost a victim of child marriage.

    The marriage didn’t go through because the civil war broke out but the experience has remained with her.

    She said that child marriage was like “taking away a child’s dream and destroy them even before they knew who they are”.

    “Even when I am at the position I am now, I still feel that pain. I still hate my immediate family for trying to do that,” she said.

    The first lady said Sierra Leone suffers from a high birth mortality rate because many of those having children are still teenagers.

    “Most of these girls, their body is not ready,” she said.

    Since MPs passed the legislation a few weeks ago, it has not received much coverage locally.

    At the ceremony, President Bio said that his “motivation and commitment to empowering women and girls is firmly rooted in my personal life journey”.

    His eight-year-old daughter was amongst those who watched him sign the bill.

    The 60-year-old president explained how he had lost his father at an early age and had been brought up by his mother and later his elder sister who “supported and encouraged me to pursue my dreams to the best of my ability”.

    He acknowledged his wife’s commitment to championing women’s rights: “Together, we want to build an empowered Sierra Leone where women are given an even platform to reach their full potential. I have always believed that the future of Sierra Leone is female.”

    Mrs Bio told the BBC she hoped this law would end the cycle of “children who will not be educated, who will not be empowered, who cannot contribute to nation-building”.

    She added that there was no excuse for religious or traditional leaders saying they didn’t know the law as she had campaigned across every inch of Sierra Leone for the past six years.

    Rights activists reacted favourably to the law, calling it a watershed moment.

    On their X page, the US Bureau of African Affairs welcomed the passage of the bill saying the “significant milestone not only protects girls but promotes robust human rights protections”.

  • In attesa di Giustizia: nel paese del diritto è talvolta buio fitto

    Nel libro dell’Apocalisse, il giorno del giudizio viene fatto coincidere con la fine del mondo; spigolando in un decreto legge in fase di emanazione proprio in quella che viene considerata la sua culla si direbbe che si voglia far corrispondere la fine del mondo del diritto e del giusto processo con il giorno in cui si celebra l’ultimo grado di giudizio e più nella sede giurisdizionale più alta del nostro sistema: la Corte di Cassazione, le cui decisioni sono finalizzate ad interpretare della legge e valutare la sua corretta applicazione.

    Così è se vi pare, e se non vi pare è così lo stesso: l’articolo 12 del Decreto Infrastrutture, intitolato modifiche al codice di procedura penale per l’efficienza del procedimento penale senza considerare che efficienza non è sinonimo di efficacia (che sarebbe preferibile), può ritenersi una sorta di iniezione letale somministrata al terzo grado del processo che trasforma la solennità della discussione davanti alla Corte di Legittimità, che si vorrebbe ricca di spunti e approfondimenti in contraddittorio, l’ultima fermata in attesa di giustizia, in un anodino scambio di e-mail tra i difensori, il Procuratore Generale ed il Giudice Relatore. Siamo di fronte alla mutazione genetica della Corte in un sentenzificio.

    I lettori penseranno: ma con le infrastrutture tutto questo cosa c’entra? Secondo le peggiori tradizioni della nostrana sciatteria normativa, questa disciplina che impatta sull’effettività del diritto di difesa è frammista, anzi in coda, alla regolamentazione di concessioni autostradali, al rafforzamento della capacità tecnica della fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, alle misure per il sostegno della presenza delle imprese italiane nel continente africano ed altre disposizioni totalmente disomogenee rispetto al rito penale.

    Una tecnica (parola grossa) normativa che richiama alla memoria la riforma del Testo Unico sugli stupefacenti comportante notevoli aggravamenti delle pene che fu inserita in un decreto legislativo avente ad oggetto aspetti organizzativi delle Olimpiadi Invernali del Sestrière con un eccesso di delega che non sarebbe dovuto sfuggire neppure a chi avesse studiato diritto costituzionale alle scuole serali…al buio ma che provocò per anni decine di migliaia di sentenze illegali prima che qualcuno se ne accorgesse ed alle quali fu solo in parte possibile porre rimedio. Andatelo a raccontare a chi ha scontato lunghe detenzioni a causa di una legge che, semplificando il concetto, non poteva neppure essere emanata. Non in quel modo, perlomeno, e fu fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale.

    Parola d’ordine, dunque: efficienza, l’efficacia può attendere. Pervenire ad un tale risultato è impossibile in un sistema in perenne debito d’ossigeno con le risorse umane ed economiche e allora cosa c’è di meglio che sfrattare – un termine diverso non sovviene – gli avvocati dalle aule di cui sono considerati, all’evidenza delle riforme e della prassi, un orpello fastidioso, purtroppo costituzionalmente irrinunciabile, che fa perdere tempo tanto è vero che vi è stato anche chi, recentemente e con la solennità derivata dello scranno di provenienza, ha sollecitato i difensori alla massima sintesi perché con la discussione sottraggono tempo alla camera di consiglio ed alla ponderata decisione dei ricorsi. Tradotto: cari avvocati, non servite a niente.

    Ed allora, addio alle aule sostituendo un turbinoso intreccio di posta elettronica ai difensori che le scriveranno con impegno e passione non meno che amarezza mentre i Sostituti Procuratori Generali potranno redigere requisitorie severe ma giuste da spedire comodamente dal terrazzo di casa mentre sorseggiano un limoncello dopo cena e la lettura delle quali stimolerà il furore intellettuale dei Giudici relatori che potranno esprimere la loro diuturna applicazione allo studio estendendo ponderate relazioni anche dalla vasca idromassaggio.

    Tutto o quasi può, quindi, farsi senza l’incomodo di dover far presenziare gli avvocati in udienza e  – in barba al diritto di difesa – sono stati anche sensibilmente ridotti i termini di legge per la proposizione di motivi di ricorso nuovi e memorie: così “si fa prima”. Il segnale che viene dato non è equivocabile.

    Sia dunque benvenuto “l’avvocato in Costituzione” per garantire l’effettività della tutela dei diritti e quello inviolabile alla difesa come proposto da un’altra riforma messa in cantiere ma purché lo faccia senza disturbare più di tanto il manovratore che ha già tanti pensieri che alimentano il tormento della decisione. Come diceva qualcuno: nel Paese del diritto è talvolta buio fitto.

  • Supreme Court briefly issues opinion allowing Idaho abortions

    The US Supreme Court appears ready to allow abortions in cases of medical emergencies in Idaho, after briefly publishing – and then deleting – an opinion on its website.

    According to a report on Bloomberg, the court will rule that the state cannot deny emergency abortions to women whose health is in danger, despite a near-total ban.

    In a statement, the court said that its final decision had “not been released” and that a document was “inadvertently and briefly” uploaded to its website.

    The spokesman said that a ruling would be released in due course.

    The inadvertent publication of the opinion comes two years after the leaking of the court’s decision to overturn the national right to abortion access, known as Roe v Wade.

    Since then, a patchwork of abortion laws have been established as more conservative states, such as Idaho, restrict rights to the procedure.

    The document posted online on Idaho suggested that the court would rule that it should not have become involved in the case so quickly, Bloomberg reported.

    The report added that the court would reinstate an order that permitted Idaho hospitals to perform emergency abortions to protect patient’s health.

    If that is the case, the case would continue at a federal appeals court.

    The Biden administration sued Idaho over its near-total abortion ban in 2022, with Department of Health and Human Services Secretary Xavier Becerra saying that “women should not have to be near death to get care”.

    Idaho countered, saying that the federal law – known as Emergency Medical Treatment and Labour Act or Emtala – cannot supersede state law.

    The court’s nine justices appeared divided during earlier arguments on the case.

  • In attesa di Giustizia: 2 giugno

    E’ iniziata, con prima tappa a Cagliari il 29 maggio, la maratona oratoria a livello nazionale della durata di due mesi organizzata dall’Unione delle Camere Penali: avvocati, docenti universitari, garanti dei detenuti e rappresentanti di associazioni, con interventi della durata di un’ora ciascuno, si alterneranno a staffetta per giornate intere davanti ai Tribunali per informare e coinvolgere la società civile sul tema delle condizioni e dei suicidi nelle carceri che sono già oltre trenta da inizio anno.

    Vigilando redimere era il motto del Corpo degli Agenti di Custodia prima che venisse trasformato in Polizia Penitenziaria e, senza scomodare Cesare Beccaria, dice tutto: il carcere deve essere un luogo destinato alla rieducazione e non una discarica umana nella quale rinchiudere uomini e donne – in attesa di giudizio, così come i condannati – a marcire con la punizione aggiuntiva della mancanza di igiene, spazi vivibili e strutture adeguate sia sanitarie che volte al recupero per restituirli migliorati alla libertà.

    La Repubblica festeggiata il 2 giugno è, purtroppo, lontana da quella pensata e disegnata dai Padri Costituenti, è una Repubblica sotto processo che negli ultimi trent’anni ha visto sfumare la funzione essenziale della Giustizia attraverso il conflitto tra magistratura e politica e poi – o, meglio, nel frattempo –  quello interno all’Ordine Giudiziario con rese dei conti e contrapposizioni che sono emerse in una realtà ancor più desolante e preoccupante di quanto si era immaginato dopo le rivelazioni di Luca Palamara e l’analisi impietosa che dell’indagine a carico di costui ha fatto Alessandro Barbano (licenziato dopo solo un mese dalla direzione del “Messaggero”, forse perché troppo liberale) in un libro in cui illustra come il regime delle intercettazioni distrugge vite e sovverte le regole del potere.

    Ecco, da trent’anni a questa parte le riforme, quelle strutturali e ragionate, l’adeguamento degli istituti penitenziari ai canoni costituzionali, il rispetto per le vite umane, hanno subito l’effetto di bracci di ferro come quello tra i magistrati e Berlusconi la cui morte non ha chiuso la partita; e poi, populismo normativo con leggi che sono meri spot elettorali, l’assalto al Quirinale con la sconclusionata inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia, le lotte intestine alle correnti per l’aggiudicazione delle Procure più ambite e chi più ha memoria più ne metta.

    Come dire: la storia d’Italia degli ultimi decenni si è scritta di più nei tribunali che nelle aule parlamentari e la deriva giustizialista non conosce confini: un esempio recentissimo si rinviene nella motivazione con cui è stata respinta la richiesta di scarcerazione dell’ex presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Paolo Signorini: “perché non si è mostrato consapevole del disvalore della sua condotta”, insomma non si è pentito a sufficienza, stia in galera. Il ragionamento è più da Stato etico che di diritto e ben potrebbe essere uscita dalla penna di un GIP di Teheran come se il carcere dovesse servire a questo.

    Vittime di un sistema, questo sì autoritario ed arroccato nella protezione del proprio debordante potere,   sono state le centinaia di persone arrestate e assolte durante la stagione di Mani Pulite o sarebbe meglio dire mani grondanti di sangue se si considerano i quarantuno suicidi senza risposta risalenti all’epoca di Tangentopoli che ha segnato un modo di intendere la carcerazione preventiva che continua a mietere capri espiatori senza colpa né peccato mentre in carcere si continua a morire per una disperazione che non di rado è frutto della consapevolezza di patire ingiustamente quel tormento in condizioni che hanno indignato i partner europei o per sfiducia nella giustizia.

    Troppe sono le morti di chi lo Stato dovrebbe salvaguardare e recuperare, morti che sono delle ferite inferte alla democrazia e non solo “possibili fonti informative perdute” come ritiene, mostrando ripugnante insensibilità Piercamillo Davigo.

    Ma lo spirito di Einaudi e di quelli come lui che costituirono la classe dirigente del miracolo del dopoguerra è pur sempre nel DNA di questo Paese e dovrà pure tornare a manifestarsi insieme a quella disciplina ed onore che la Costituzione pretende dai cittadini, dunque anche i magistrati, cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di impiegare nel loro adempimento…in attesa di Giustizia.

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