Legge

  • In attesa di Giustizia: Cantonate

    Si sa, la giustizia degli uomini è per sua natura imperfetta: tuttavia è motivo di riflessione che questa rubrica non sia mai a corto di argomenti e, talvolta, sia necessario farne una selezione e qualcun’altra – come questa settimana – una sia pur sintetica rassegna.

    Abbiamo un triplete di notevoli cantonate (ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite NON è puramente casuale) che rende difficile la scelta da quale partire: la Procura di Milano, però, dà sempre soddisfazioni e merita la citazione d’esordio.

    Andrea Padalino è un magistrato che ha esercitato le sue funzioni anche a Milano, oltre vent’anni fa come giudice per le indagini preliminari impegnato in delicate indagini del filone “Mani Pulite”, per quanto “delicato” non sia il termine che meglio si adattava ai metodi di quella Autorità Giudiziaria.

    Alla gogna mediatica per quattro anni mentre era in servizio a Torino ed essendo finito sotto processo proprio a Milano, che è competente per i reati attribuiti ai magistrati piemontesi, il Dott. Padalino è stato assolto con una motivazione ampiamente esaustiva della pochezza delle accuse mossegli principalmente fondate sulle cosiddette “intercettazioni a strascico”. Cioè non quelle riferibili direttamente l’indagato ma di altri.

    Non paga, la Procura di Milano ha proposto appello contro l’assoluzione di Padalino (qui le assoluzioni danno i mal di pancia) ma, pervenuto il processo in Corte d’Appello, il rappresentante della Procura Generale vi ha rinunciato: né più né meno che quello che era successo con l’opaca indagine ENI – NIGERIA di cui questa rubrica si è occupata ed ancora con la Procura Generale a mettere un argine alle cantonate dei P.M..

    Nel frattempo, a Palermo, qualcuno si è accorto, dopo due anni, che un uomo che era stato assolto non è mai stato scarcerato, sia pure dagli arresti domiciliari ove si trovava. Un destino beffardo, per un signore per di più affetto da problemi psichici, ha voluto che il suo difensore morisse subito dopo la sentenza ma l’onere di disporre la scarcerazione non competeva certamente a lui, che poteva solo comunicare la buona notizia, bensì all’Ufficio Giudiziario che lo aveva giudicato, avvisando all’Autorità di Polizia addetta ai controlli perché venisse formalmente notificata. Invece, niente! Poco male, penserà qualcuno, tanto c’era il covid ed era meglio stare a casa anche quando non si era obbligati: quasi, quasi questa cantonata è stata un bene.

    Insomma, non proprio: tecnicamente è un reato che si chiama sequestro di persona e qualcuno (o più di uno) ne dovrà rispondere partendo dagli accertamenti sulla possibile mancanza di comunicazione tra la cancelleria del tribunale e le Forze dell’Ordine destinatarie dell’ordine di scarcerazione.

    Per finire (ma potrebbe non finire qui, è solo questione di spazio): a Perugia si chiude, anzitempo ed a sorpresa con un patteggiamento, il processo a carico di Luca Palamara.

    Dopo anni di indagini, la contestazione di reati gravi ed infamanti che autorizzarono  l’inserimento del captatore informatico (il famigerato trojan) nel cellulare dell’indagato con un costo investigativo elevatissimo, proprio alla vigilia del dibattimento la Procura ci ripensa e presta il consenso alla richiesta di accordo sulla pena avanzata dalla difesa dell’ex dominus dell’ANM previa modifica dell’imputazione in traffico di influenze: che altro non sarebbe che il vecchio millantato credito, cioè un reato da imbroglioncelli di periferia che può dirsi adeguatamente punito con un anno di reclusione e la condizionale che il Tribunale ha ratificato. Per Palamara, così ha dichiarato, è solo un modo per liberarsi dal peso dei processi senza ammettere alcuna responsabilità. Un po’ come la Juve, sostanzialmente.

    I malpensanti hanno già sospettato che sia soluzione gradita un po’ a tutti perchè argina l’estrazione di ulteriori sassolini dalle scarpe che Palamara avrebbe potuto far culminare in una terza puntata, dopo quelle andate in onda nel salotto di Sallusti, durante pubbliche udienze. O, forse, a Perugia avevano semplicemente preso una Cantonata dall’inizio ed era ora di porvi rimedio.

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

  • In attesa di Giustizia: inutili rimedi

    Quella verificatasi a Cutro non è la prima e non sarà, purtroppo, l’ultima tragedia del mare cui dovremo assistere a causa della inarrestabile fuga dai paesi di origine di migranti oppressi da guerra, povertà e stenti di ogni genere e quello dei flussi migratori irregolari è un problema molto serio a prescindere da esiti fatali delle traversate cui non è facile per il Governo – qualsiasi governo – trovare un rimedio.

    Certamente non può esserlo, come è stato recentemente fatto, l’aumento delle sanzioni previste per gli scafisti: anzi, è l’ennesima iniziativa del tutto inutile adottata mettendo mano al codice penale.

    Per meglio illustrare quale sia lo spunto di riflessione che la rubrica offre questa settimana, è innanzitutto necessario comprendere bene chi siano davvero i c.d. “scafisti”, intesi come coloro che timonano un malconcio naviglio carico di poveri sventurati verso la destinazione. La figura finisce con il sovrapporsi, confondendosi, con quella dei trafficanti di esseri umani e la differenza non è banale.

    Nella realtà gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe essere facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione  condividendo con i passeggeri  i rischi altissimi della traversata: i veri, unici “scafisti” che meriterebbero di essere individuati e severamente puniti sono proprio costoro che, tutt’al più, scortano le carrette del mare fino ai limiti delle acque territoriali del Paese di partenza per poi fare rapido rientro a casa, sui loro motoscafi, abbandonando quei disperati al loro destino. Ecco: questi sono i veri criminali e non li abbiamo mai visti, né mai li vedremo nella assoluta impossibilità di identificarli chiedendo improbabili forme di cooperazione dalle Autorità Giudiziarie del Paese di provenienza.

    Ebbene, la nostra ennesima crociata contro il male che si annuncia con i tradizionali squilli tromba (“stretta sugli scafisti”, “pene più severe per gli scafisti”, “nuovi reati contro gli scafisti”), serve giusto giusto per poter scrivere titoloni sui giornali facendo mostra con i cittadini che anelano giustizia e sicurezza di una muscolatura che a quei delinquenti non fa nemmeno il solletico.

    E vi è di più: negli ultimi dieci anni sono stati arrestati e processati oltre 2500 “scafisti”. Posto che costoro non sono soliti indossare la divisa immacolata ed il cappellino da capitano, essi vengono, a regola, individuati – con intuibile ampio margine di approssimazione – tramite le dichiarazioni degli stessi migranti e dei superstiti, quando accadono naufragi. Orbene, in gran parte dei casi, coloro che sono stati indicati  (ammesso che fossero davvero imbarcati a timonare) altro non sono che migranti come gli altri, che per le più varie ragioni – ed essendo capaci di guidare un natante – si sono detti disposti ad accettare l’incarico dell’ associazione criminale di condurre il barcone; facile immaginare che questo accada per ottenere uno sconto sul costo del viaggio; oppure sono disperati disposti a rischiare la vita ed il carcere per guadagnare qualcosa.

    Per quelli che finiscono nelle nostre mani, spesso individuati con larghissimi margini di incertezza, è tra l’altro già prevista una pena fino a cinque anni di reclusione ma basta che le persone trasbordate siano più di cinque, cioè la normalità del fenomeno, per far scattare l’ipotesi aggravata, un minimo di cinque ed un massimo di quindici anni. Se poi c’è naufragio si aggiunge (almeno) l’omicidio colposo plurimo. Dunque, una aspettativa punitiva già altissima, senza alcun bisogno di novità normative.

    Nel nostro Paese, però, va così: se accade un fatto grave che, magari, interessa anche possibili responsabilità istituzionali, una sola è la risposta: nuove figure di reato, o inasprimento delle pene. E’ un riflesso populista, patrimonio comune dei governi di qualsivoglia colore politico, che usano il diritto penale non per raggiungere un seppur minimo e concreto risultato in termini di dissuasione dal delinquere, ma per lanciare tramite la narrazione mediatica il messaggio di uno Stato che reagisce con implacabile severità. Quale mai sarà il migrante che si rende disponibile a pilotare il barcone perché altrimenti non avrebbe il denaro sufficiente per imbarcarsi, o il disperato che non sa come altrimenti guadagnare nella vita, che recederà dall’intento venendo a sapere (da chi, poi?), che la pena che sta rischiando non è più di 15, ma di 20 anni?

    In compenso va in onda la consueta liturgia dello “Stato che reagisce con fermezza”, ed in attesa che giustizia sia fatta saremo tutti più tranquilli. O, forse, no.

  • In attesa di Giustizia: le settimane della indignazione

    La presunzione di innocenza è un concetto che, canonizzato in Costituzione prima ancora che inserito in una direttiva della UE ed in successivo decreto legislativo che la recepisce, fatica a radicarsi nella opinione pubblica; la settimana scorsa l’indignazione è stata provocata dall’esito del processo “Ruby ter”, di cui questa rubrica si è interessata, questa volta tocca a quello che vedeva numerosi imputati per il crollo di un albergo a Rigopiano: cinque condanne – a pene piuttosto miti – e venticinque assoluzioni.

    La rabbia ed il dolore dei parenti delle vittime è stato umanamente comprensibile, meno lo sfogo del Ministro Salvini: “29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è giustizia, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti”.

    Diversamente dalle esternazioni, anche molto dure, dei famigliari, quelle di un Ministro della Repubblica pesano in ben altro modo e chi le ascolta pensa che se un Ministro ragiona così, così staranno le cose: una vergogna, un’attesa di giustizia vanificata.

    Deve premettersi che chi cura questa pagina di questo processo non sa nulla ma altrettanto deve supporsi di Matteo Salvini: tant’è che alla vicenda giudiziaria in sé non verrà fatto neppure un accenno ma la esecrazione “al buio” merita qualche spunto critico, partendo proprio da quello che dei processi non si deve, comunque, parlare senza averne letto una sola pagina del fascicolo. E questo, sì, è inaccettabile.

    Dunque, se si volesse distillare un corollario dallo sdegno di Salvini e da quello – assai più frequente in casi simili – di Marco Travaglio, bisognerebbe dedurne che maggiore è il numero dei condannati, maggiore è la garanzia che giustizia è stata fatta. Al contrario, ad un più elevato numero degli assolti corrisponde la vergogna per la Giustizia; il che ne sottende un concetto più simile alla sua valorizzazione statistica che al riconoscimento della Giustizia stessa come categoria dello spirito comportante vincoli etici e valori inderogabili.

    Un concetto diffuso è che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo ma sarebbe preferibile che rimanesse confinato, se proprio deve, nei bar, già meno sui social o – peggio ancora – nei talk-show televisivi.

    Il processo serve proprio a questo: a verificare se un’accusa sia fondata o meno e capita, certo capita, che ve ne siano anche di insostenibili in giudizio, un colpevole a tutti i costi non è ciò che ci si aspetta dalla giustizia, non quella che conosciamo (o vorremmo conoscere) noi, l’alternativa è il ritorno alle ordalie, al Giudizio di Dio.

    Si discute, poi, molto della necessaria terzietà del Giudice, della sua indipendenza rispetto al Pubblico Ministero (ed anche questo è un precetto costituzionale) ma, a seguire certi ragionamenti, il buon giudice sarebbe solo colui che si allinea alla Pubblica Accusa: allora il processo non serve, ne tenga conto anche il Ministro delle infrastrutture che vive personalmente l’angoscia di un processo a suo carico: sarà una vergogna qualora venga assolto, oltretutto per la seconda volta di fila?

    A noi, a quelli che hanno qualche lustro di vita vissuta in aule che consideriamo sacre (fino a prova contraria…), hanno insegnato che le sentenze non si commentano: se non si condividono, si appellano e dei processi di cui nulla si conosce nel dettaglio non si parla, altrimenti sono solo parole al vento.

  • In attesa di Giustizia: uomini sull’orlo di una crisi di nervi

    Settimana di tregenda, quella appena trascorsa, per Marco Travaglio: al processo Ruby ter sono stati assolti tutti, ma proprio tutti, gli imputati e non solo Silvio Berlusconi.

    Ma com’è possibile, nessun colpevole? Il Direttore de Il Fatto Quotidiano ci aveva sperato fino all’ultimo ed in un articolo dal  titolo velatamente irrispettoso delle coimputate (“il governo assolve B. anche per Puttanopoli) non aveva mancato di manifestare il suo sdegno per la scelta di Giorgia Meloni di revocare la costituzione di parte civile in quel processo: cioè di rinunciare a far concludere l’Avvocatura di Stato richiedendo la condanna dell’ex Premier ed un risarcimento dei danni milionario.

    Scelta ragionevole, invece, perché l’esito degli altri due filoni del processo, già conclusi in altre sedi giudiziarie, sconsigliavano l’insistenza; e così è stato anche anche a Milano, un tempo roccaforte della resistenza anti berlusconiana: dopo solo due ore di camera di consiglio, il Tribunale ha emesso una decisione ampiamente liberatoria. Ma la ragionevolezza, si sa, non è virtù coltivata da Travaglio.

    Fortunatamente, nella redazione del House organ delle Procure sono disponibili dei defribillatori perché questa volta il nostro, al sopraggiungere della ferale notizia, ci stava lasciando le penne: salvato in extremis – pare – anche da una telefonata di conforto di Davigo che gli ha ricordato che in questo Paese non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca, sebbene sull’orlo di una nuova crisi di nervi, ha commentato compostamente: “E’ la comica finale”, facendo seguire un “pezzo” dedicato a Marco Tremolada (prossimo a subire l’incitazione “dagli all’untore”), Presidente della Sezione del Tribunale che aveva pronunciato quell’obbrobrio scoprendo con sgomento che era lo stesso che si era permesso di assolvere anche tutti gli imputati del processo ENI – Nigeria solo perché il P.M. Fabio De Pasquale aveva – lui sì – taroccato le prove a carico degli accusati. Ma questi sono dettagli, anche se De Pasquale è a giudizio per questa ragazzata. Al Fatto Quotidiano si sentono, ormai, circondati anche perché le truppe pentastellate di cui godeva il sostegno sono in rotta come l’esercito austriaco descritto da Armando Diaz nel bollettino della vittoria e da via Arenula il Ministro Carlo Nordio chiarisce che l’Italia non è un Paese in mano ai P.M..

    Sulla conclusone del processo “Ruby ter” è opportuno fare chiarezza con il contributo di un alto magistrato.

    Non tutti sanno che in base ad una risoluzione del C.S.M. del 2018, ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, i capi degli Uffici Giudiziari possono emanare delle note esplicative in merito a determinate decisioni di rilevante interesse: il Presidente del Tribunale di Milano ha ritenuto opportuno redigerne una proprio a margine della sentenza in questione pur precisando che l’illustrazione completa delle ragioni condivise dai tre giudicanti è riservata alla motivazione che sarà successivamente depositata.

    In estrema sintesi, la nota del Presidente chiarisce che in questo caso non si configura la corruzione di testimoni (l’assoluzione, infatti, è stata “perché il fatto non sussiste”) in quanto le ragazze che si dice Berlusconi abbia pagato per mentire all’Autorità Giudiziaria, non lo sono mai state perché dovevano essere, invece, indagate (come poi è successo) fin dall’inizio.

    Elementare Watson? Sì: parliamo di un processo nato morto, il che sarebbe stato chiaro  persino per uno studente del terzo anno di giurisprudenza ma non per certi Pubblici Ministeri, naturalmente non per la redazione de Il Fatto Quotidiano, giornale preferibilmente da destinarsi all’accensione di stufe ed altri  impieghi meno nobili piuttosto che a ricevere una corretta informazione.

    Quanto all’attesa di giustizia, mai disperare: come dimostra il “Ruby ter” in un Paese del G7, per vederla trionfare, può essere sufficiente meno di una mezza dozzina di anni.

  • In attesa di Giustizia: facciamo chiarezza

    Ormai da settimane gli indignati in servizio permanente effettivo, affiancati da pseudo giuristi in mala fede e dai ben informati tramite Google sproloquiano in materia di intercettazioni censurando ogni parola spesa sull’argomento dal Ministro della Giustizia: sia chiaro da subito che non è consentito a tutti di parlare di qualsiasi argomento. C’è un limite naturale, che è dato dalla complessità della discussione e non c’entra nulla la libera espressione del pensiero: a Bonafede, per esempio, dovrebbe essere permesso commentare, tutt’al più, l’almanacco di Topolino ma, per fortuna, sembra sparito dal proscenio.

    Quello delle intercettazioni telefoniche è un tema delicatissimo sul quale occorre evitare infuocati rodei in tv, sui media e sui social. Proviamo, invece, a mettere ordine per una corretta informazione.

    Partiamo dalla Costituzione, articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. Per limitare quel diritto fondamentale occorre un atto motivato dell’autorità giudiziaria nel rispetto delle “garanzie stabilite dalla legge”. Queste ultime, proprio perchè derogano ad un canone costituzionale, non potrebbero mai essere governate dal principio di utilità. Certo che ascoltare persone sospette di commettere reati torna utile agli investigatori; ma poiché questo interesse confligge con un diritto di rango costituzionale dovrà necessariamente essere assistito da una tutela affievolita rispetto al primo. I tifosi della sicurezza – che è cosa diversa dalla giustizia, e qui si parla di giustizia – vista come interesse primario occorre se ne facciano una ragione, fino a quando si intenderà rispettare il patto costitutivo della nostra società.

    Le intercettazioni possono essere autorizzate solo durante le indagini per alcuni reati, considerati di maggiore allarme sociale e solo quando già sussistano “gravi indizi” (non il mero sospetto) che quei reati siano in fase di commissione o siano stati commessi; hanno una durata limitata nel tempo ed eventuali  proroghe devono essere motivate; gli esiti degli ascolti sono inutilizzabili se non pertinenti e rilevanti. Quanto alle cosiddette ambientali, le “cimici” non possono essere piazzate in luoghi di privata dimora, se non vi è fondato motivo di ritenere che proprio in quei luoghi si stia svolgendo un’attività criminosa con  eccezione per alcuni gravissimi delitti, principalmente di  criminalità mafiosa. Quanto poi al c.d. trojan, che trasforma il cellulare in un microfono, così da rendere impossibile predeterminare in quali luoghi esso intercetterà, questa micidiale intrusione, ancora una volta, potrà riguardare solo reati di eccezionale gravità.

    La domanda che sorge spontanea è se queste regole sono effettivamente rispettate e la risposta è negativa: essenzialmente per la scarsa indipendenza e terzietà del giudice delle indagini preliminari, che tende ad assecondare acriticamente la richiesta del P.M., soprattutto delle Procure forti politicamente e mediaticamente (i dati sulle percentuali di rigetto delle richieste dei PM sono, ad oggi, un segreto inviolabile); vi è, poi, una costante deriva all’uso indebito delle intercettazioni “a strascico”, quelle che vanno oltre l’ambito autorizzativo del giudice; vi è anche un uso disinvolto della nozione di “rilevanza” della conversazione. Per non farsi mancare nulla ecco, infine, la furia giustizialista del legislatore che ha esteso smisuratamente il catalogo dei reati per i quali è consentita la captazione e l’uso del trojan. Dunque, un quadro che necessita interventi mirati a restituire questo strumento investigativo ai confini della sua eccezionalità, sanzionando efficacemente la pubblicazione delle intercettazioni, almeno nella fase delle indagini. Si tratta di proposte che, diversamente non sono avanzate da fiancheggiatori della criminalità ma appartengono ad ampi strati del pensiero giuridico liberale e democratico, anche nella magistratura. Se i polemisti di accatto leggessero, insieme alla migliore dottrina processual-penalistica, qualche recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione o qualche altrettanto recente intervento di magistrati come Nello Rossi o Alberto Cisterna, la discussione potrebbe prendere la piega giusta. Il fatto è che, oltre a leggere quegli scritti -cosa che già non fanno- dovrebbero poi anche comprenderli. E qui l’impresa diventa disperata.

  • In attesa di Giustizia: la certezza della pena ai tempi del diritto illiberale

    Qualcosa si muove sul piano delle riforme della Giustizia, almeno così pare, sebbene il fallimento annunciato degli elaborati della Commissione Cartabia conosca per il momento solo un poco utile rinvio a fine anno e le prime iniziative del Governo appaiano meno che convincenti, costringendo la Corte Costituzionale ad evitare di decidere sull’ergastolo ostativo rinviando alla Cassazione il compito di interpretare “gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni di legittimità sollevate”; nel frattempo sono già iniziate le audizioni dei tecnici per rimediare – in sede di conversione – allo sconclusionato decreto di contrasto ai rave parties.

    Il Ministro Nordio, tuttavia, tenendo fede ad una promessa frutto di una sua antica (e condivisibile) convinzione, incontrerà tra pochi giorni i rappresentanti dei Sindaci per dare avvio ai lavori di modifica dell’abuso di ufficio: un reato che negli anni è stato modificato almeno quattro volte senza mai pervenire ad una formulazione che non consista in vaghe fumisterie da cui origina quella che è stata definita “burocrazia difensiva” e cioè a dire un immobilismo operativo degli enti locali volto ad evitare facili incriminazioni, sebbene assai raramente seguite da condanne ma accompagnate da blocco di lavori pubblici e dispersione di fondi. Sarebbe un piccolo passo ma foriero di effetti positivi.

    Ed è proprio il timore di Sindaci ed Assessori di essere prima indagati e poi sottoposti, prima di una condanna, al maglio della “Severino” che paralizza anche l’impiego di risorse del PNRR destinati ad importanti opere sul territorio; come se non bastasse il TAR della Puglia che ha fermato i lavori locali per l’alta velocità – finanziati con denari europei – accogliendo un ricorso di associazioni ambientaliste che invocano la salvaguardia di alcuni mandorli e carrubi presenti sul tracciato. Degni del massimo rispetto, però…

    Quello che manca nel nostro sistema e l’abuso d’ufficio è un esempio eclatante – prima ancora degli operatori in numero adeguato che lo facciano funzionare – sono la certezza del diritto e della pena venuti meno negli anni per la marginalità culturale del legislatore e la debolezza della politica quali concause della destituzione dello Stato di diritto cannibalizzato da una magistratura intesa a dilatare e mantenere la propria acquisita posizione di potere sul presupposto di una supposta superiorità morale che – come si è visto ed accertato oltre ogni ragionevole dubbio – non c’è.

    Ben venga, allora, per dare inizio ad una stagione di autentiche riforme quella dell’abuso di ufficio che avrebbe anche il merito di proporsi come una normativa bandiera finalizzata a porre un primo argine al tempo del terrore giudiziario, fondato sulla brutalità proterva della cultura del sospetto.

    Certezza del diritto, dunque: principio giuridico cardine in base al quale una norma deve essere formulata in modo chiaro ed essere soggetta ad una interpretazione univoca, un obiettivo cui il legislatore deve tendere in fase di produzione delle leggi e certezza della pena da intendersi non come certezza del carcere quanto prossimità della sua espiazione il più vicino possibile al delitto commesso ed attribuito: solo così sarà giusta ed utile.

    Come si nota, risalendo al pensiero illuminista alle teorizzazioni di Beccaria e Cattaneo, tali concetti risultano assai diversi e lontani dalle opzioni di politica sanzionatoria illustrate, da ultimo nel c.d. Contratto del “Governo del Cambiamento”: un  autentico manifesto del diritto illiberale che poteva essere partorito solo da cervelli disabitati come quelli dell’azzimato damerino di Volturara Appula e del buffo Muppet travestito da Guardasigilli

    Ora ad un cambiamento vero bisogna credere, anzi, più che crederci  bisogna pretenderlo.

  • In attesa di Giustizia: cahiers de doleances

    Non c’è pace tra gli ulivi: tutti si lamentano di qualcosa che non funziona nella amministrazione della Giustizia; d’altronde, anche questa rubrica costituisce, in un certo senso, il bollettino settimanale delle storture che caratterizzano quel settore e, proprio nel numero precedente, si è occupata di una vicenda paradigmatica trattando il caso di un processo per gravi reati in corso a Roma nel corso del quale il Tribunale ha cambiato composizione ad ogni udienza, con buona pace della conoscenza effettiva dei fatti da giudicare da parte di chi è stato, infine, chiamato a decidere.

    Dopo, ma solo dopo “Il Patto Sociale”, ne hanno parlato anche i quotidiani e la Camera Penale della Capitale è scesa in campo, lamentando l’incredibile accaduto e proclamando un’astensione di protesta per il 2 novembre. Giustissimo: peccato essersi dimenticati di fare la dovuta comunicazione all’Autorità Garante con la conseguenza che è stato necessario annullare l’iniziativa per quella data e rinviarla al  giorno 9…peccato anche che, nel frattempo, gli avvocati – fiduciosi del buon governo della protesta da parte dei propri rappresentanti – abbiano annullato le citazioni di testimoni e non si siano preparati per udienze che non si sarebbero dovute celebrare e invece si faranno. E lo stesso vale per i Pubblici Ministeri e i Giudici impegnati nel medesimo giorno. Il tentativo di far apparire il rinvio come giustificato dalla esigenza di rendere più articolata la giornata di protesta è stata la classica pezza peggiore del buco.

    Si lamentano anche i Procuratori Generali scrivendo al Guardasigilli Carlo Nordio chiedendo di rinviare  l’entrata in vigore quantomeno di una parte della “Riforma Cartabia” che dovrebbe entrare in vigore il 1° novembre creando significativi disagi organizzativi agli Uffici con la conseguenza di un ulteriore, catastrofico, aggravamento della gestione del carico di lavoro. Non hanno tutti i torti, va detto con chiarezza, tanto è vero che quando questo articolo verrà pubblicato sembra che lo sarà – in Gazzetta Ufficiale – anche un decreto d’urgenza volto ad accogliere le richieste della Magistratura.

    Certo, potevano anche accorgersene prima di una manciata di giorni dal “via”: la “Riforma Cartabia” tra luci ed ombre (forse queste ultime sono in numero maggiore) soffre del fatto che il lavoro è frutto di equilibrismi e compromessi per soddisfare quella componente della allora maggioranza che l’ha approvata e faceva rimpiangere i tempi in cui in Senato sedeva il cavallo di Caligola  e che rispondeva alle linee guida sulla giustizia dettate da un comico che non fa più ridere e di un disc jockey che è stato molto meglio rimandare alla consolle.

    Infine anche Antonio Ingroia si lamenta e proprio del fatto che sia Carlo Nordio  il nuovo Ministro della Giustizia affermando che “sa di muffa e di regolamento di conti”: un giudizio durissimo la cui opportunità e fondatezza dovrebbero essere posticipate ad un vaglio dell’operato del Governo e dei suoi Ministri e non espresso prima ancora che abbiano iniziato a lavorare.

    Da Ingroia, peraltro, non c’era da aspettarsi di meglio essendo un uomo facile al pregiudizio e – viceversa –  impermeabile a tutte le evidenze: come quelle che attestano i suoi personali fallimenti da quello come Pubblico Ministero, il cui ricordo è legato essenzialmente al ruolo di coordinatore dell’indagine per la cosiddetta “Trattativa Stato – Mafia”, finita come è noto in una bolla di sapone, a quello come politico di indiscutibile insuccesso, per finire con la professione di avvocato esercitata principalmente “correndo dietro alle ambulanze” nel tentativo di accaparrarsi la difesa delle vittime di qualche disastro, anche in questo caso senza molta fortuna: un triplete di cui non andare fieri e che suggerirebbe un più dignitoso silenzio abbandonandosi a quell’oblio che il destino ha già inesorabilmente segnato.

    Sipario.

  • In attesa di Giustizia: magistrati dietro le sbarre

    Francesco Maisto era – ora è andato in pensione – un magistrato illuminato o, più semplicemente, un magistrato come dovrebbe essere un magistrato: noto tra l’altro per lo straordinario equilibrio con cui determinava la pena da infliggersi a coloro che doveva condannare.

    Maisto soleva dire che, nel quantificare la reclusione tra il minimo ed il massimo previsto dalla legge, teneva conto di una serie di fattori aggiuntivi di afflittività come il sovraffollamento carcerario, la mancanza di igiene, la pessima qualità del cibo e la scadente assistenza sanitaria, la ridotta capacità delle strutture penitenziarie di fornire strumenti di rieducazione.

    Francesco Maisto non aveva mai sperimentato la privazione della libertà personale nelle patrie galere ma aveva quella coscienza e consapevolezza delle condizioni in cui versava (e tuttora versa) la popolazione carceraria che tanto un giudicante quanto un inquirente dovrebbero avere. Così, purtroppo non è e – francamente – potrebbe non essere neppure necessario sperimentare quanto hanno fatto recentemente cinquantacinque tra giudici e Pubblici Ministeri belgi: sarebbe, forse, bastevole non prestare orecchio al blaterare sconclusionato dell’avvocaticchio degli Italiani, dei suoi (fortunatamente ridotti) seguaci e del megafono mediatico affidato alla direzione di Marco Travaglio.

    Ma, chiederete voi, cos’è successo a Bruxelles e dintorni? Che quei magistrati hanno volontariamente scelto di essere incarcerati per un certo periodo, per la verità di non lunghissima durata nel carcere di Haren, di nuovissima edificazione e non ancora ufficialmente aperto (quindi deserto), per comprendere meglio le condizioni di vita dei detenuti.

    A parere del Guardasigilli belga, Vincent Van Quickenborne, ciò varrebbe anche a migliorare – mediante i suggerimenti dei “detenuti”  sperimentatori – ad ottimizzare il funzionamento della struttura penitenziaria. Giustissimo, sebbene ci sia una notevole differenza tra chi entra in un carcere nuovo di zecca, vuoto e con la chance di uscirne a richiesta quando vuole e chi ci deve effettivamente scontare una pena o una carcerazione preventiva. Tuttavia, piuttosto che niente è meglio piuttosto.

    Qualcosa di simile è, viceversa, impensabile alle nostre latitudini dove si annovera un unico precedente di questo tipo, volontario e lontanissimo nel tempo: quello del giudice Pasquale Saraceno che chiese espressamente di entrare in carcere per alcuni mesi dando modo a Piero Calamandrei – uno dei padri costituenti – di trattarne l’elogio nello scritto “Bisogna vedere, bisogno starci, per rendersene conto”.

    In epoche più recenti, quando alla direzione della Scuola Superiore della Magistratura c’era il Professor Valerio Onida, era stata prevista la frequenza dei giovani a “stage penitenziari” della durata di soli quindici giorni. Non stupirà che, per le polemiche e opposizioni di varia natura provenienti dall’Ordine Giudiziario, non se ne fece poi nulla perdendo un’occasione di crescita umana e professionale.

    D’altro canto, giovani magistrati cresciuti a “manette e mani pulite” è quantomeno improbabile che possano avere la sensibilità per sottoporsi ad esperienze simili che mortificherebbero quel malinteso senso di superiorità morale inculcato da trentennali sermoni davighiani e da quella generosa giurisprudenza disciplinare, di cui si è occupata di recente questa rubrica, che riconduce a banali marachelle anche grossolani comportamenti e squinternate decisioni che costano libertà, lacrime e onorabilità ai cittadini in attesa di giustizia.

    Qualcosa, forse, vedremo in un prossimo futuro sebbene si tratti di esperienze postume: la Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio dei P.M. milanesi De Pasquale e Spadaro e verificheremo come andrà a finire per questi bricconcelli che sembra (fondatamente) abbiano  nascosto prove a favore di imputati pur di “vincere” un processo sottoponendoli ad oltre un lustro di indagini e giudizi per poi essere assolti. E, per una volta, se l’impianto accusatorio contro questi due P.M. si rivelerà consistente, anche da queste colonne, baluardo di garantismo e rispetto della libertà  si leverà un grido: in galera!

  • In attesa di Giustizia: non ci resta che piangere

    Verrebbe persino da ridere con talune letture se non fosse che si tratta delle decisioni – e ancor più delle motivazioni – di talune sentenze del C.S.M. in materia disciplinare: in realtà,  non ci resta che piangere.

    Vediamone qualcuna: per esempio non commette illecito disciplinare il magistrato che, avendo saputo di essere indagato ed avvalendosi di relazioni di ufficio con il personale di cancelleria, si fa consegnare il fascicolo che lo riguarda ancorchè secretato. E perché mai, direte voi? Il motivo, secondo il Consiglio Superiore risiede nel fatto che il poverello era evidentemente turbato e, in ogni caso, il fatto deve considerarsi di lieve entità perché ha pure restituito il fascicolo medesimo dopo averlo diligentemente fotocopiato per intero.

    Provateci voi a fare una cosa del genere – più o meno turbati e legati da vincoli amicali con i funzionari di cancelleria – e troverete i Carabinieri ad attendervi fuori dalla copisteria e non certo per ringraziare di non avere dato fuoco alle carte.

    Non è illecito neppure il comportamento del giudice che, giustamente preoccupato per il destino della propria moglie, ne discute amabilmente con il P.M. che la sta inquisendo chiedendo notizie: e che sarà mai? In fondo si tratta solo di un modesto gossip giudiziario, probabilmente scriminato anche dal valore sacramentale del matrimonio.

    Ah! Naturalmente, se si appartiene all’Ordine Giudiziario, ci si può mettere al volante ubriachi ed essere pure condannati per guida in stato di ebbrezza senza incorrere in altre sanzioni: basta che le circostanze del caso inducano a ritenere che il fatto sia di scarsa lesività e non abbia compromesso il prestigio della magistratura: forse perché – ormai – è a livelli talmente bassi che non è un bicchiere di vino in più a fare la differenza. Vi è, tuttavia, da sperare, la sbronza non sia una consuetudine e sia stata smaltita prima di andare in udienza o di mettersi a scrivere una sentenza: ma questi sono solo sospetti e  cattivi pensieri  di noi che siamo brutte persone.

    Sembra scontato, poi, che – senza tema di conseguenze – si possa imputare qualcuno e mandarlo sotto processo per un reato che neppure esisteva al momento della commissione del fatto: suvvia, basta un minimo di elasticità mentale per rendersi conto che, di fronte ad atti complessi, possa esservi qualche innocua disattenzione.

    E voi lettori avete mai saputo di qualcuno cui sia consentito andare nei cinema a luci rosse a molestare adolescenti? Si può, ma solo se sei un magistrato e vivi uno stato confusionale perché durante i lavori di ristrutturazione della casa ti è caduto in testa un legno.

    Si sappia, infine (ma potremmo non finire qui) che va benissimo anche lasciare in galera – persino per un paio di mesetti – qualcuno che dovrebbe, invece, essere scarcerato se il povero giudice è afflitto da non meglio specificati motivi di famiglia: un po’ come capitava a noi quando i genitori ci facevano la giustificazione per le assenze da scuola e non farci incappare in valutazioni negative della condotta.

    Tutti assolti, dunque? Ma certo che no, anche se le decisioni sfavorevoli sono – di solito – di manica extra large e consistono prevalentemente nell’ammonimento o la censura, più di rado nella perdita di anzianità (e, quindi, anche di scatti di aumento dello stipendio). Rarissime sono le rimozioni dall’Ordine Giudiziario.

    Per questa settimana è tutto, e sembra che basti e avanzi.

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