Legge

  • In attesa di Giustizia: un passo avanti e due indietro

    Nella puntata di domenica 5 novembre di Report il conduttore, Sigfrido Ranucci, ha dedicato un “capitolo” della trasmissione a criticare il Ministro Nordio affermando, incurante che sia una fake new, essere stata approvata una legge di origine governativa che limita, quasi azzerandolo, l’uso delle intercettazioni con la conseguenza che ne risulterebbe mutilata la potenzialità investigativa soprattutto nei confronti di mafiosi e corrotti.

    Per dar corpo allo sproloquio, viene mandato in onda uno stralcio di intervento di Carlo Nordio ad un evento di Fratelli d’Italia: il sapiente taglia e cuci delle parole del Guardasigilli impedisce agli ascoltatori di rendersi conto della bufala che viene loro somministrata…ma non a tutti: il caso vuole che proprio il curatore di questa rubrica stia scrivendo un manuale sul cosiddetto “disegno di legge Nordio” che affronta – tra gli altri – proprio quell’argomento. Sia, allora, da subito ben chiaro, che è un disegno di legge approdato in Commissione Giustizia al Senato poco prima della chiusura per le ferie estive che non è ancora neppure passato al voto dell’Aula. Quindi siamo ben lungi dalla approvazione anche da uno solo dei rami del parlamento.

    Quanto al contenuto della proposta di riforma – per quanto riguarda la parte dedicata alle intercettazioni – la finalità è quella di renderne stringente il divieto di pubblicazione, oggi prassi comune per le redazioni dei quotidiani che ne entrino subito e furtivamente in possesso, qualora il contenuto non sia «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento»; si vuole, altresì, impedire che possa esservi rilascio di «copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ad un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori».

    Viene, inoltre, previsto un obbligo di vigilanza del Pubblico Ministero sulle modalità di redazione delle sintesi delle intercettazioni ed il corrispondente dovere del giudice di eliminare quelle non pertinenti e i dati personali sensibili di soggetti estranei ai reati ipotizzati, salva l’ipotesi che siano comunque rilevanti ai fini delle indagini. Tradotto: Nelle trascrizioni fatte dalle Forze dell’Ordine devono evitarsi riferimenti a fatti o persone estranee ai reati di cui si intende accertare la responsabilità ed il giudice dovrà, comunque, eliminare tutte quelle residue non pertinenti. Come dire, la telefonata dell’indagato con l’amante non potrà più diventare un ghiotto boccone per certa stampa: si tratta di principi di civiltà volti ad impedire il dilagante gossip giudiziario. Con buona pace di Ranucci e Report.

    Le intenzioni del Ministro, basandosi sulle  dichiarazioni di intenti quando assunse la carica, sono delle migliori ma…ma…fino ad ora sono rimaste solo buone intenzioni smentite – non sarà tutta colpa sua – dai fatti: vi era quella di riprendere il progetto di riforma del Codice Penale e di dar vita alla eliminazione di una quantità di reati di poco o nessun conto (da trasformare in contravvenzioni amministrative) per alleggerire il carico dei tribunali e, invece, non solo non si ha avuto neppure più notizia di passi in avanti in questo senso ma – anzi – il catalogo dei reati si sta via via arricchendo con nuove ipotesi a cavallo tra l’inutile, il bizzarro ed il francamente improponibile: dalle norme anti rave party all’omicidio nautico fino alla più recente idea di criminalizzare il privato cittadino che non rispetta le regole di smaltimento differenziato della spazzatura.

    E tutto questo mentre ancora dobbiamo iniziare a metabolizzare i danni della “Riforma Cartabia” che ha determinato il coma irreversibile del processo penale proponendo un modello che moltiplica  adempimenti e formalità durante le indagini in nome di un garantismo di facciata invece di assicurare fluidità alla fase investigativa per giungere, se vi sono gli estremi, celermente al giudizio dove la prova – per legge – si deve formare con testimoni freschi di ricordi, documenti rintracciabili senza scavare negli abissi degli archivi e perizie attuali ed attendibili. Dunque, un (mezzo) passo avanti e due (anche di più) indietro: e l’attesa di giustizia continua.

  • In attesa di Giustizia: la moglie di Cesare

    Ormai da giorni non si parla d’altro che del decreto della Giudice di Catania Iolanda Apostolico che, disapplicando una legge dello Stato, ha “liberato” alcuni migranti, a suo dire illegittimamente privati della possibilità di scorrazzare liberamente per un Paese – il nostro – in cui, di solito, si entra dall’estero sole se muniti di un passaporto quand’anche non venga richiesto in frontiera se di nazionalità “Europea”.

    La materia è molto complessa anche per un giurista, ed è malamente articolata, complicata dal sovrapporsi di normative disorganiche e confuse dalla “Turco Napolitano”  in poi – che, tra l’altro, è quella che prevede e regola l’obbligo del documento di espatrio ed i respingimenti ma la memoria è corta o distorta quando serve e sarebbe necessario ben altro approfondimento di quello che consentono lo spazio ed il taglio divulgativo di questa rubrica per formulare un giudizio decentemente serio su qualità e fondatezza del provvedimento.

    Non si comprende, allora, su quali basi la Presidente Meloni abbia potuto, con cognizione di causa, dichiararsene immediatamente “basita”, definendo quelle motivazioni “incredibili”, a tacere del pronostico di necessaria radiazione dall’Ordine Giudiziario del Giudice formulato da un noto parlamentare in caso di accoglimento dell’appello.

    Tristemente si assiste all’ennesimo scontro tra tifoserie, che in materia di giustizia è ormai la regola ed un bel tacer non fu mai scritto: si parla e, più che altro, si straparla anche senza la minima competenza delle più disparate questioni, valorizzando solo la ricaduta mediatica e confidando sui dividendi politici che si confida di lucrare.

    Ma anche la “curva” della magistratura associata è apparsa sfrenata alimentando una polemica in difesa -immancabilmente – della propria indipendenza, gridando al dossieraggio senza sentire minimamente il dovere di interrogarsi su alcuni aspetti che la vicenda chiama in causa.

    Sappiamo infatti ora che la Giudice ha avuto modo di manifestare sui social media – e addirittura in una manifestazione pubblica di protesta – idee inequivocabilmente schierate in tema di immigrazione, ponendosi in aperta polemica con la politica dell’attuale Governo, e così pure avrebbero fatto suoi stretti congiunti.

    Padronissima la giudice di manifestare liberamente il proprio pensiero sulle più disparate tematiche, ma ad una condizione: che di tutto potrà poi occuparsi professionalmente, fuorchè di quei temi.

    Diversamente si realizzano condizioni inconcepibili ed inaccettabili in un Paese civile, incompatibili con elementari regole di uno Stato di Diritto: ed è proprio facendo venir meno questo rispetto che si semina vento raccogliendo tempesta. Il diritto processuale prevede l’istituto dell’astensione per casi simili, ed esiste la categoria della opportunità, il dovere del Giudice non solo di essere ma prima ancora di apparire imparziale come afferma la stessa Corte di Cassazione richiamando il pensiero liberale e sempre attuale di Alexis de Tocqueville.

    La storia anche recente ha offerto in questo senso più di un esempio da non seguire: emblematico fu quello del Giudice che ha incamerato e deciso senza batter ciglio un processo a carico di Augusto Minzolini, condannandolo per il presunto uso indebito delle carte di credito aziendali quando era Direttore del TG1, ed era stato suo avversario quando, entrambi parlamentari, militavano in opposte fazioni politiche.

    Permangono, invece, casi del tutto isolati come quello di Gianrico Carofiglio che dopo la (poco gratificante, per lui) esperienza di parlamentare del PD non si è ricandidato e dimesso dalla magistratura ritenendosi compromesso dal punto di vista della esposizione politica e quello ultimo di Carlo Nordio che ha rifiutato qualsiasi candidatura fino a diversi anni dopo essere andato in pensione.

    Un sistema sano innanzitutto previene ed i protagonisti evitano di ritrovarsi in situazioni ambigue, e nessuno si stupisca se viene chiesto conto della infrazione di basilari regole di civiltà giuridica.

    A meno che il famoso idiomatismo sulla moglie di Cesare valga per tutti, ma non per i magistrati e i rispettivi coniugi.

  • In attesa di Giustizia: macro ematurie

    Cosa saranno mai le macro ematurie? Chiedetelo ai giudici, quelli che le sanno tutte, anche più dei medici, o almeno così credono: sono versamenti di sangue nelle urine ed è dovuta intervenire la Cassazione per chiarire quale sia il perimetro entro il quale una Corte d’Appello può sindacare la gravità di questa o altra patologia e se ne derivi l’impossibilità di presenziare ad un’udienza.

    Non importa più di tanto sapere dove si sono svolti i fatti perché taluni comportamenti arroganti si manifestano indifferentemente ovunque; siamo, comunque, in una sede di Corte d’Appello, e perviene ad una sezione l’istanza di rinvio di un procedimento da parte di un avvocato che giustifica la sua impossibilità ad essere presente con un certificato medico che attesta “dolori a tipo colica renale con macro ematuria e necessaria permanenza a casa per sottoporsi a terapie domiciliari per almeno due giorni”; le Loro Eccellenze, quand’anche non avessero studiato il greco al liceo classico, nel dubbio, non avrebbero avuto difficoltà a “googlare” cosa sono le macro ematurie, scoprendo che si tratta di presenza consistente di sangue nelle urine mentre la “colica renale” non richiede competenze linguistiche essendo ben noto cosa e quanto dolorosa sia.

    Con la concretezza tipica dei grandi giuristi questi tre saggi magistrati hanno colto l’essenza del problema risolvendolo con una decisione tranchant: trattasi di certificato di comodo perchè non accompagnato da riscontro diagnostico strumentale ed altresì perché le coliche renali, notoriamente, determinano conseguenze fisiche non fronteggiabili in pochi giorni. Periti dei periti…

    Peraltro, un “certificato di comodo” dovrebbe, appunto, far comodo a qualcuno nel determinare un rinvio dell’udienza ma la Corte non spiega neppure quale potrebbe essere l’infingarda e sottintesa intenzione dell’avvocato: non certo guadagnare tempo per la prescrizione perché in questi casi il rinvio determina la sospensione del tempo necessario a prescrivere. E allora? Era una bella giornata e voleva andare al mare, aveva sonno, non aveva studiato il processo? Invece nulla di nulla, a dimostrazione di come ci si compiaccia nel dimostrare l’arroganza di un dilagante potere e la pochissima considerazione della difesa, del diritto di difesa; i lettori forse ricorderanno – è di poche settimane fa – analoga vicissitudine di un avvocato catanese impossibilitato a recarsi in tribunale perché stava andando a fuoco la zona circostante la sua abitazione ma…non aveva documentato l’assoluta impossibilità di sfidare le fiamme.

    Il processo, pertanto, si è celebrato senza il difensore, con uno di ufficio raccattato all’ultimo momento ma sentenza e decisione sul rinvio che la precede sono stati impugnati in Cassazione…Cassazione che, già in passato, era dovuta intervenire – addirittura a Sezioni Unite – per affermare che è rilevante l’impedimento del difensore determinato da serie, imprevedibili ed attuali ragioni di salute debitamente documentate e tempestivamente comunicate. Un principio che dovrebbe essere ovvio ma evidentemente non lo era per tutti.

    La Corte di Cassazione ha fatto giustizia in solo un annetto di questo più recente scempio osservando che la qualificazione del certificato come “di comodo” non risultasse confermata da alcun elemento e che si sarebbe dovuta valutare la serietà dell’impedimento sulla scorta della certificazione rilasciata da uno specialista senza nulla in più pretendere in considerazione della repentina insorgenza del male. Una bacchettata finale è stata data osservando che le considerazioni svolte circa le conseguenze di una colica renale sono prive di qualsiasi riscontro scientifico.

    Giudici che si improvvisano biologi, medici, per quanto muniti solo dei personali pregiudizi, che puntano dritti alla meta dell’agognata celebrazione di un processo senza tanti orpelli, senza il fastidio di ascoltare il difensore: una giustizia così non è quella che ci si aspetta ed è confortante che sia stata ricacciata in un angolo dalla Corte Suprema perché, francamente, è essa stessa a generare un malore: dà la nausea.

  • In attesa di Giustizia: Abracadabra

    Abhadda kedhabrha in aramaico vuol dire “sparisci come questa parola” e, probabilmente, il vocabolo “abracadabra”, in uso nella magia mistica e come noi lo conosciamo, deriva proprio dalla versione nella antica lingua semitica.

    Oggi è usato universalmente e senza altre traduzioni come formula magica: magia bianca o magia nera? Nel dubbio, pensando al significato originario, se qualcuno la pronuncia in vostra presenza – peggio che mai se indirizzata proprio a voi – prestate la massima attenzione perché, forse, sta tentando di uccidervi…

    Con la magia nera non si scherza, è l’insegnamento che tramite questa rubrica perviene dalla Autorità Giudiziaria di Genova nell’ambito di una vicenda cui si era già alluso con sintesi in un numero precedente. Ora ci sono degli sviluppi e per questo seguito non possono prendersi in considerazione altre reali possibilità che, per equivoco, un Pubblico Ministero di Genova invece che le sue compresse per la pressione o la prostata, abbia assunto peyote o LSD proveniente dall’Ufficio Corpi di Reato.

    Comunque sia, anche questa settimana si registrano iniziative (e decisioni) assunte con sprezzo del ridicolo; ricapitoliamo: un’avvocata genovese viene imputata per avere sottratto un milioncino abbondante di euro ad un’anziana signora per la quale svolgeva la funzione di amministratrice di sostegno. E fin qui tutto normale, anzi, per quanto appreso sembra che le prove a carico della professionista siano piuttosto solide ma nel corso delle indagini è emerso anche un fatto piuttosto singolare e cioè che l’imputata, il cui telefono era intercettato, intentò l’omicidio della sua assistita dando mandato…a un sicario di professione, qualcuno reclutato nel dark web? Nossignori, complice dell’avvocata, che contribuisce acquistando delle candele rituali nere, diventa una fattucchiera esperta in voodoo.

    Spille, spillette e spillettoni ma, fortunatamente e come prevedibile, la vittima predestinata sopravvive alle punzecchiature di bamboline e feticci: sarà che a Genova non ci sono le esperte di Port au Prince ma il Pubblico Ministero (sempre immaginandolo sotto l’effetto non voluto di sostanze stupefacenti) chiede il rinvio a giudizio accusando di tentato omicidio l’avvocata, mentre la maga la fa franca per ragioni – a questo punto – ancor meno comprensibili.

    Il processo si è tenuto nei giorni scorsi, sebbene una data in prossimità di Halloween sarebbe risultata più consona ai fatti, e il Giudice ha pronunciato una sentenza di condanna non solo per la malversazione dei denari ma anche per il tentato omicidio pur ritenendo che il reato fosse da considerare impossibile (bontà sua, la magia nera non è stata considerata un mezzo idoneo) ma che il comportamento dell’accusata sia espressivo di pericolosità sociale giustificando un anno e mezzo di libertà vigilata, probabilmente con il divieto di frequentare medium, negromanti ed indovini.

    Insomma, un omicidio impossibile perché tentato con mezzi che non consentono di ritenere neppure l’esistenza di un “quasi reato” e, francamente, vi è da dubitare anche di una effettiva, maggiore, pericolosità sociale di colei che – tutt’al più – deve considerarsi una disonesta amministratrice: vi è, in sostanza, da dubitare altresì che vi fossero i presupposti anche per la libertà vigilata.

    Però, non si sa mai e lo ha detto la Procura di Genova: se vi capitasse di essere bersagliati da qualche preoccupante “abracadabra”, sappiate di essere nelle condizioni per reagire in stato di legittima difesa.  Però non sparate perché con le streghe l’unico metodo efficace ma piuttosto complicato è il rogo: meglio, allora pronunciare un più efficace scongiuro “aglio e fravaglia, fattura ca nun quaglia, corna e bicorna” e, senza restare in attesa,  farvi Giustizia da soli.

  • In attesa di Giustizia: con sprezzo del ridicolo

    Ma…non si dice “sprezzo del pericolo”? E’ vero, ma nulla vieta di utilizzare – se opportuna – la locuzione modificata e così come nel titolo è perfetta se riferita alle preoccupazioni, prepotentemente lamentate dall’Associazione Nazionale Magistrati a proposito della modifica della Costituzione intesa a separare le carriere tra Giudici e Pubblici Ministeri.

    Ancora?!  L’argomento è già stato affrontato più volte in questa rubrica ma deve essere ripreso perchè il dibattito si fa sempre più infuocato ed alimentato di continuo dal Sindacato delle Toghe, sebbene il disegno di legge che prevede tale riforma per il momento segni il passo: forse quella che è auspicata è una sollevazione popolare che intimidisca per tempo ed a tal punto la politica da suggerire di lasciar perdere con l’unica minaccia efficace cioè a dire quella della perdita di consenso, voti, e con essi potere. Ma si sa, l’elettorato ha la memoria corta e le prossime elezioni appaiono lontane.

    Dunque, con sprezzo del ridicolo si è sostenuto che con la separazione delle carriere il P.M. finirebbe sotto il controllo del Governo: il pensiero che ciò possa accadere munendo, oltretutto, di formidabili poteri un pinocchietto come Fofò Bonafede (il peggiore della storia ma in ottima compagnia con alcuni suoi predecessori) fa accapponare la pelle ma i Magistrati, fingono di non aver letto il testo dell’articolo 104 della Costituzione come previsto da tutte le iniziative di riforma: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”.

    La norma costituzionale, così come costruita è di inequivocabile chiarezza anche per un cittadino digiuno di competenze giuridiche ed è stata richiamata proprio perché anche i lettori sappiano di cosa si sta parlando, figuriamoci per i Magistrati del Comitato Centrale dell’ANM che di leggi se ne intendono. O, almeno, dovrebbero.

    Con sprezzo del ridicolo, e qui sembra di assistere ad una pièce di avanspettacolo interpretata da Erminio Macario o da Pinuccia Nava in arte Scaramacai, affermano che il mondo intero invidia il modello italiano, e brama per adottarlo pari pari. Non è necessario essere lettori di questa rubrica per evitare l’emulazione come una malattia infettiva e, in realtà, il sistema a carriere separate, con diverse modulazioni, è vigente in Spagna, Germania, Svezia, Portogallo, Gran Bretagna, Stati Uniti, nella stragrande maggioranza dei paesi del Commonwealth Britannico, in Giappone, solo per citarne alcuni. Absit injuria verbis, noi siamo in compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania ed anche della Francia dove, però, il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia.

    Un fondo di verità si scorge se si si pone l’attenzione al fatto che in molti di quei Paesi, soprattutto quelli anglofoni, il Pubblico Ministero è sottoposto al Ministro di Giustizia…ma non in Portogallo, per esempio, al cui modello si ispira la nostra proposta di riforma: carriere separate, P.M. indipendente; e cosa c’è che non piace del Portogallo, il baccalà, i pasteis de nata?

    L’ansia da sottomissione alla politica prende, poi, slancio se si parla di “indipendenza interna”, cioè della autonomia del C.S.M., che si duplicherebbe: uno per i Giudici ed uno per i P.M. ma con composizione paritaria tra laici eletti dal Parlamento (da scongiurare assolutamente!) e togati eletti dagli appartenenti all’ordine giudiziario. Ecco, a tal proposito sarebbe opportuna la conoscenza di un po’ di storia – forse appositamente trascurata – ed il ricordo dell’intervento di Giovanni Leone in Assemblea Costituente inteso a sostenere che nel C.S.M. fosse opportuna una equivalenza numerica tra membri laici e togati: “occorre eliminare il timore…che il CSM… possa trasformarsi in organo di casta, intorno al quale si coagulano interessi, intrighi, protezioni, preferenze, tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici…”.

    Era la seduta pomeridiana del 14 novembre 1947: gli avessero dato retta! Altro che inciuci correntizi modello Palamara. E, allora, basta con selettivi vuoti di memoria, basta con lo sprezzo del ridicolo, signori magistrati: se un dibattito è giusto che ci sia che sia serio e corretto.

  • In attesa di Giustizia: la saga dell’esaurito

    E’ diventata una saga quella del Tribunale piemontese che infligge 11 anni di reclusione ad un imputato di violenza sessuale dimenticandosi banalmente di far discutere il difensore: quasi fosse un inutile, anzi, un fastidioso orpello del processo.

    E’ una vicenda di cui ci siamo già occupati ma che ora “mette in onda” una nuova ed inquietante puntata di cui non si può trascurare la cronaca.

    Dopo che il C.S.M. e la Cassazione si sono occupati del procedimento disciplinare, della vicenda ha dovuto interessarsi anche la Procura di Milano, competente per i reati attribuiti a Magistrati del Piemonte: come i lettori, forse, ricorderanno il Presidente del Collegio, resosi conto del pasticcio che aveva combinato, ha pensato bene di provi rimedio con la classica pezza peggiore del buco  strappando il foglio su cui era stato scritto il dispositivo della decisione presa invitando solo a quel punto la difesa a discutere!

    Non è stato solo un gesto incomprensibile ed ingiustificabile: in questo modo – essendo il dispositivo un atto pubblico di cui si era anche data lettura – si commette un reato che si chiama falso per soppressione. Dettaglio che ad un magistrato del settore penale (e non solo) non sarebbe dovuto sfuggire.

    Atti, allora, giustamente inviati a Milano per procedere ma quella Procura, nota per l’inflessibile rigore, ha velocemente richiesto l’archiviazione che il GIP ha disposto con altrettanta ed inusuale velocità.

    Come giustificare tutto ciò? Si trattò di un erroruccio e mancò l’intento doloso: insomma, roba da Paperissima Show. Non è disponibile (probabilmente lo sarà mai) la motivazione di questa singolare – e generosa – decisione ma, un po‘ per gioco e per alleggerire l’argomento, proviamo ad indovinare mettendoci un pizzico di fantasia. Sua Eccellenza il Presidente avrà strappato la sentenza da lui stesso scritta poco prima perché in quel momento era stato distratto dalle urla del difensore? Un gesto non voluto, un muscolo involontario messo in moto dallo spavento. Potrebbe essere.

    Oppure…oppure… si è reso conto di averla tra le mani e si è spaventato immaginandola scritta da una entità sovrannaturale che in quei drammatici momenti lo aveva posseduto. Eventualità metafisica ma non impossibile.

    Magari ha confuso la sentenza con il Kleenex appena usato per soffiarsi il naso: questa è la più proponibile da immaginare se si conosce bene la rigida giurisprudenza sul dolo del falso per soppressione.

    Ma no, ecco la spiegazione! Incapacità di intendere e di volere temporanea: non si po’ dimenticare che il procedimento disciplinare sta procedendo a carico del solo Presidente (le due donne giudici a latere sono state subito prosciolte adottando il famoso schema argomentativo sviluppato da Totò: “e che so’ Pasquale io?!”) e la sanzione minima inflitta dal  C.S.M., una blanda censura, è stata annullata dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione, raccomandando che in un nuovo giudizio si offra maggiore considerazione al fatto, documentato in una perizia,  che il Signor Presidente era stressato dal troppo lavoro.

    L’intera comunità degli avvocati penalisti applaude a questi autorevoli precedenti di cui potranno far uso nella quotidianità professionale, spalancando le porte a successi fino ad ora insperati successi. L’amministratore di società fallita ha bruciato i libri contabili? Fu un fatale errore. Il funzionario delle agenzie delle entrate ha omesso di segnalare l’evasore? Era stressato per il troppo lavoro. E nessuno ci aveva mai pensato!

    A questo punto è doveroso congratularsi con chi ha così brillantemente il povero esaurito: chi mai e chi meglio dell’ex Procuratore Capo di Torino, Marcello Maddalena?

    Applausi a scena aperta mentre viene in mente quello slogan pubblicitario che diceva: “ti piace vincere facile eh?”.

    Senza offesa, ben s’intende.

  • In attesa di Giustizia: il sacro fuoco della giustizia

    Temo che questo possa essere l’ultimo appuntamento con la rubrica “In attesa di Giustizia” perché l’attesa è finita: non tanto grazie alla Riforma Cartabia le cui ombre si allungano sempre più minacciose sulle flebili luci che ne rischiarano gli articolati, quanto agli esempi di indomabile efficienza di chi esercita la giurisdizione.

    O, forse, no.

    Siamo a Catania, una Catania soffocata dal caldo e divorata dalle fiamme che hanno avvinto non solo l’aeroporto ma interi comprensori urbani: ciononostante i baluardi della legalità non smettono di profondere furore intellettuale coniugato a diuturno impegno e accade questo…

    Gianluca Costantino è un avvocato etneo che risiede proprio in una delle zone più colpite dalle fiamme, la sua casa ne è circondata, i trasporti pubblici sono paralizzati, quelli privati rischiosi e l’Avvocato ha udienza penale:riesce, tuttavia, a mandare una mail con la richiesta di rinvio di un’udienza per legittimo impedimento e trova anche un collega che si presenta in aula per sostituirlo e sostenere le ragioni di differimento.

    Niente da fare, il Giudice è inflessibile perché nella sua amministrazione arde il sacro fuoco della giustizia e la macchina non si può fermare per varie ragioni: la prima è rappresentata dal nemico di sempre, la prescrizione del reato che si avvicina e la seconda consiste nel fatto che il rinvio avrebbe imposto ai polpastrelli dei funzionari di cancelleria, ormai piagati a furia di spedire notifiche via pec, di farne altre a coloro che dovrebbero essere avvisati del rinvio; a tacer di questo, nel provvedimento di diniego si legge altresì che l’istanza non è documentata né attesta l’assolutezza dell’impedimento: Costantino poteva, magari, vestirsi con una tuta ignifuga per adempiere al suo dovere e sarebbe stato utile allegare all’istanza il file di un telegiornale recente con i Canadair che sorvolano l’abitazione del professionista.

    Il diritto di difesa, come si vede, non è poi una garanzia così assoluta ma ad assetto variabile e la decisione del Tribunale di Catania propone solo un interrogativo – e non ci sono parole migliori – cioè se sia frutto di crassa ignoranza piuttosto che di schietta malafede.

    Per i lettori, infatti, è opportuno ricordare la regola in base alla quale il corso della prescrizione viene sospeso se un differimento del processo è determinato da impedimenti o esigenze dell’imputato o del suo difensore. Ma se anche così non fosse, la domanda da porsi è se l’incolumità di un avvocato possa valere meno della prescrizione di un reato che, se è da ritenersi prossima durante il giudizio di primo grado non può essere che frutto di inerzia del P.M. durante la fase delle indagini oppure di malfunzione, congestione, inefficienza del Tribunale…ah, già, la risposta è sì: uno di meno.

    Parliamo ora delle notifiche con cui il Giudice temeva di onerare la cancelleria oltre il sopportabile: tanto per cominciare, l’avviso di un rinvio non deve essere fatto a chi è presente in udienza (nel nostro caso neppure all’avvocato impedito a presenziare essendosi fatto sostituire da un collega) perché riceve contestualmente notizia della data successiva. Viceversa, nel caso in cui non si presenti qualcuno che, invece, deve partecipare all’udienza – per esempio un testimone – la notifica è nuovamente ed in ogni caso dovuta.

    Allora, di cosa stiamo parlando? Se la vicenda non fosse surreale, verrebbe da pensare di essere su “Scherzi a Parte” e ad uno scherzo di cattivo gusto: indigna – come scrive in una nota ufficiale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania – la mortificazione del diritto di difesa e sarebbe interessante sapere se identica decisione sarebbe stata adottata se analogo impedimento avesse coinvolto un Giudice o un P.M..

    Sarebbe interessante, altresì, conoscere – se mai commenterà l’accaduto – l’opinione del Sindaco di Catania, Enrico Trantino, avvocato penalista di lungo corso. Concludendo, soccorre alla memoria il pensiero di Tito Livio richiamato, proprio in Sicilia, dal Cardinale Pappalardo ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. Ma quelli erano i tempi delle guerre puniche.

  • In attesa di Giustizia: violenza chiama violenza

    Recenti, ma purtroppo non inusuali, fatti di cronaca sono lo spunto per la settimanale riflessione sulla Giustizia. La tematica è quella della violenza sessuale, il suo rapporto in termini di prova con principi irrinunciabili del processo penale che ruota, principalmente, intorno ad un presupposto fondante ma altrettanto impalpabile: il consenso.

    ll tema del consenso non può essere relegato ad uno scontro tra opposte linee di pensiero né diventare opportunità per speculazioni di natura politica poichè con il rapporto sessuale si coniuga tramite esiti chiarissimi e parametri condivisi: deve essere esplicito e non equivocabile; il consenso implicito (in un atteggiamento, in un comportamento, peggio che mai in un abbigliamento) è sintomatico di un approccio culturale e sociale indecente ed inaccettabile, che appartiene ad epoche e contesti sociali che sono – o dovrebbero essere – fortunatamente trapassati remoti.

    Ad un consenso esplicito, poi, deve corrispondere una persona in condizioni fisiche e psichiche tali da consentirne la consapevole manifestazione. Questo canone non ha alcuna ragione di essere modificato o derogato se sia stata la vittima stessa a porsi in condizione di incapacità, ubriacandosi o drogandosi perchè un approccio sessuale con una persona in stato di manifesta alterazione, non può trascurare l’ipotesi che il consenso all’atto, ovvero il mancato dissenso, potrebbe essere condizionato proprio da quelle condizioni.

    L’inosservanza di questi criteri discretivi di una libera e consapevole volontà rendono la condotta penalmente rilevante: il che significa che ne entrano in gioco altri ed altrettanto fondamentali del vivere civile, dotati di rango costituzionale equivalente a quello della inviolabilità della libertà e della intangibilità della integrità fisica e morale della persona. Per primo la riferibilità del reato ad un autore che deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In secondo luogo, l’onere della prova, quanto mai difficile in questi casi, che è a carico a chi accusa. La peculiarità specifica del tema di prova, la difficoltà della sua ricostruzione con le implicazioni psicologiche, culturali, ambientali, sociali che inesorabilmente lo connotano, non possono invertire ma neppure affievolire il rispetto delle due regole cardinali del processo.

    Nella quotidiana realtà dei giudizi per violenza sessuale non è, purtroppo, infrequente un loro sovvertimento ed è questo è il nocciolo della questione sul quale occorre interrogarsi senza ipocrisie. La percezione della “debolezza” della (presunta) vittima della violenza sessuale, e la forza culturale del (giusto) tema del consenso, determina quella che si potrebbe definire una “autosufficienza probatoria della versione dei fatti” offerta dalla persona offesa. Lo ha raccontato, ripetuto, perché mai dovrebbe mentire? Quindi è successo.

    In tal modo si perviene ad una forma di attendibilità pregiudiziale, si potrebbe dire preconcetta e ad oltranza del “soggetto debole”, che indebolisce sia il principio dell’onere probatorio che quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio. E ciò anche attraverso una sorta di stigma di indegnità da attribuire ad ogni tentativo difensivo di metterla in dubbio.

    Tutto ciò ha anche un nome: la confutazione della credibilità della versione accusatoria, viene immancabilmente bollata come “vittimizzazione secondaria”. Una categoria, questa, certamente rilevante sotto il profilo sociologico, ma tanto inconcepibile quanto suggestiva nelle dinamiche del processo penale.

    La parola di uno contro quella dell’altro: quale altra difesa potrebbe avere, allora, un imputato se non insinuando il dubbio, se ve ne sono gli estremi, che la propria versione dei fatti, e non quella della (presunta) vittima, sia quella giusta? Il controinterrogatorio di chi accusa, costituzionalmente normato, serve proprio a questo e laddove soccorrano indicatori di mendacio deve essere anche duro per far risaltare la falsità del dichiarante.

    Il tema del consenso resti, dunque, intangibile: e che sia un consenso esplicito ed inequivocabile al rapporto purchè questo principio di civiltà non diventi il grimaldello volto a pretendere e, talvolta, ottenere, un processo con regole probatorie modificate per i reati di violenza sessuale.

    In tal modo si aggiunge dolore al dolore, violenza alla violenza, ingiustizia all’ingiustizia.

  • Il diritto non è una linea retta

    Le reazioni spesso scomposte relative all’impugnazione della trascrizione della seconda madre per dei bimbi di una famiglia omogenitoriale dimostra ancora una volta come spesso la stessa parola, nello specifico “diritto”, venga interpretata in modi assolutamente diversi.

    All’interno della Costituzione Italiana i tre poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale, risultano autonomi per assicurare un contrappeso l’uno rispetto agli altri due.
    In particolare l’indipendenza dell’attività della magistratura viene assicurata anche da un organo di autodisciplina interno, il CSM. Come semplice e logica conseguenza rappresenta un controsenso istituzionale accusare il governo di voler colpire le comunità LGBT+, in quanto l’azione della procura di Padova nasce dalla semplice applicazione del quadro normativo in vigore.
    In più, rappresenterebbe sostanzialmente la convinzione della capacità di un governo di influenzare e dirigere la stessa azione di una procura, quindi non più indipendente come stabilito dalla costituzione. (*)

    In secondo luogo, non viene tolto nulla al bimbo, ma, semplicemente applicando la legge vigente, si elimina la figura ancora legalmente non riconosciuta di una seconda madre, come confermato anche dalla recente sentenza della Corte di Cassazione.

    Il mancato riconoscimento della figura della seconda madre probabilmente nasce da una vacatio legis, la quale va imputata a tutti i governi che dal 2016 in poi si sono succeduti alla guida del Paese ed non hanno affrontato il problema normativo.

    In questo contesto, poi, emerge sovrano il protagonismo del sindaco di Padova Giordani, il quale, pur potendo contare su degli ottimi consulenti legali in forza al comune, ha dato ulteriore prova di un delirio di onnipotenza spingendolo oltre il limite delle norme vigenti, come confermato dall’azione della procura padovana.

    Il quadro sconfortante che scaturisce da questa vicenda dimostra sostanzialmente come buona parte delle persone che rappresentano persino delle figure istituzionali e dirigenti di importanti partiti siano sicuri che il diritto sia, ancora oggi, una linea retta.

    (*) l’argomento principale utilizzato per negare la teoria di un accanimento delle procure contro una compagine politica.

  • In attesa di Giustizia: Cantonate

    Si sa, la giustizia degli uomini è per sua natura imperfetta: tuttavia è motivo di riflessione che questa rubrica non sia mai a corto di argomenti e, talvolta, sia necessario farne una selezione e qualcun’altra – come questa settimana – una sia pur sintetica rassegna.

    Abbiamo un triplete di notevoli cantonate (ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite NON è puramente casuale) che rende difficile la scelta da quale partire: la Procura di Milano, però, dà sempre soddisfazioni e merita la citazione d’esordio.

    Andrea Padalino è un magistrato che ha esercitato le sue funzioni anche a Milano, oltre vent’anni fa come giudice per le indagini preliminari impegnato in delicate indagini del filone “Mani Pulite”, per quanto “delicato” non sia il termine che meglio si adattava ai metodi di quella Autorità Giudiziaria.

    Alla gogna mediatica per quattro anni mentre era in servizio a Torino ed essendo finito sotto processo proprio a Milano, che è competente per i reati attribuiti ai magistrati piemontesi, il Dott. Padalino è stato assolto con una motivazione ampiamente esaustiva della pochezza delle accuse mossegli principalmente fondate sulle cosiddette “intercettazioni a strascico”. Cioè non quelle riferibili direttamente l’indagato ma di altri.

    Non paga, la Procura di Milano ha proposto appello contro l’assoluzione di Padalino (qui le assoluzioni danno i mal di pancia) ma, pervenuto il processo in Corte d’Appello, il rappresentante della Procura Generale vi ha rinunciato: né più né meno che quello che era successo con l’opaca indagine ENI – NIGERIA di cui questa rubrica si è occupata ed ancora con la Procura Generale a mettere un argine alle cantonate dei P.M..

    Nel frattempo, a Palermo, qualcuno si è accorto, dopo due anni, che un uomo che era stato assolto non è mai stato scarcerato, sia pure dagli arresti domiciliari ove si trovava. Un destino beffardo, per un signore per di più affetto da problemi psichici, ha voluto che il suo difensore morisse subito dopo la sentenza ma l’onere di disporre la scarcerazione non competeva certamente a lui, che poteva solo comunicare la buona notizia, bensì all’Ufficio Giudiziario che lo aveva giudicato, avvisando all’Autorità di Polizia addetta ai controlli perché venisse formalmente notificata. Invece, niente! Poco male, penserà qualcuno, tanto c’era il covid ed era meglio stare a casa anche quando non si era obbligati: quasi, quasi questa cantonata è stata un bene.

    Insomma, non proprio: tecnicamente è un reato che si chiama sequestro di persona e qualcuno (o più di uno) ne dovrà rispondere partendo dagli accertamenti sulla possibile mancanza di comunicazione tra la cancelleria del tribunale e le Forze dell’Ordine destinatarie dell’ordine di scarcerazione.

    Per finire (ma potrebbe non finire qui, è solo questione di spazio): a Perugia si chiude, anzitempo ed a sorpresa con un patteggiamento, il processo a carico di Luca Palamara.

    Dopo anni di indagini, la contestazione di reati gravi ed infamanti che autorizzarono  l’inserimento del captatore informatico (il famigerato trojan) nel cellulare dell’indagato con un costo investigativo elevatissimo, proprio alla vigilia del dibattimento la Procura ci ripensa e presta il consenso alla richiesta di accordo sulla pena avanzata dalla difesa dell’ex dominus dell’ANM previa modifica dell’imputazione in traffico di influenze: che altro non sarebbe che il vecchio millantato credito, cioè un reato da imbroglioncelli di periferia che può dirsi adeguatamente punito con un anno di reclusione e la condizionale che il Tribunale ha ratificato. Per Palamara, così ha dichiarato, è solo un modo per liberarsi dal peso dei processi senza ammettere alcuna responsabilità. Un po’ come la Juve, sostanzialmente.

    I malpensanti hanno già sospettato che sia soluzione gradita un po’ a tutti perchè argina l’estrazione di ulteriori sassolini dalle scarpe che Palamara avrebbe potuto far culminare in una terza puntata, dopo quelle andate in onda nel salotto di Sallusti, durante pubbliche udienze. O, forse, a Perugia avevano semplicemente preso una Cantonata dall’inizio ed era ora di porvi rimedio.

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