Legge

  • In attesa di Giustizia: non ci resta che piangere

    Verrebbe persino da ridere con talune letture se non fosse che si tratta delle decisioni – e ancor più delle motivazioni – di talune sentenze del C.S.M. in materia disciplinare: in realtà,  non ci resta che piangere.

    Vediamone qualcuna: per esempio non commette illecito disciplinare il magistrato che, avendo saputo di essere indagato ed avvalendosi di relazioni di ufficio con il personale di cancelleria, si fa consegnare il fascicolo che lo riguarda ancorchè secretato. E perché mai, direte voi? Il motivo, secondo il Consiglio Superiore risiede nel fatto che il poverello era evidentemente turbato e, in ogni caso, il fatto deve considerarsi di lieve entità perché ha pure restituito il fascicolo medesimo dopo averlo diligentemente fotocopiato per intero.

    Provateci voi a fare una cosa del genere – più o meno turbati e legati da vincoli amicali con i funzionari di cancelleria – e troverete i Carabinieri ad attendervi fuori dalla copisteria e non certo per ringraziare di non avere dato fuoco alle carte.

    Non è illecito neppure il comportamento del giudice che, giustamente preoccupato per il destino della propria moglie, ne discute amabilmente con il P.M. che la sta inquisendo chiedendo notizie: e che sarà mai? In fondo si tratta solo di un modesto gossip giudiziario, probabilmente scriminato anche dal valore sacramentale del matrimonio.

    Ah! Naturalmente, se si appartiene all’Ordine Giudiziario, ci si può mettere al volante ubriachi ed essere pure condannati per guida in stato di ebbrezza senza incorrere in altre sanzioni: basta che le circostanze del caso inducano a ritenere che il fatto sia di scarsa lesività e non abbia compromesso il prestigio della magistratura: forse perché – ormai – è a livelli talmente bassi che non è un bicchiere di vino in più a fare la differenza. Vi è, tuttavia, da sperare, la sbronza non sia una consuetudine e sia stata smaltita prima di andare in udienza o di mettersi a scrivere una sentenza: ma questi sono solo sospetti e  cattivi pensieri  di noi che siamo brutte persone.

    Sembra scontato, poi, che – senza tema di conseguenze – si possa imputare qualcuno e mandarlo sotto processo per un reato che neppure esisteva al momento della commissione del fatto: suvvia, basta un minimo di elasticità mentale per rendersi conto che, di fronte ad atti complessi, possa esservi qualche innocua disattenzione.

    E voi lettori avete mai saputo di qualcuno cui sia consentito andare nei cinema a luci rosse a molestare adolescenti? Si può, ma solo se sei un magistrato e vivi uno stato confusionale perché durante i lavori di ristrutturazione della casa ti è caduto in testa un legno.

    Si sappia, infine (ma potremmo non finire qui) che va benissimo anche lasciare in galera – persino per un paio di mesetti – qualcuno che dovrebbe, invece, essere scarcerato se il povero giudice è afflitto da non meglio specificati motivi di famiglia: un po’ come capitava a noi quando i genitori ci facevano la giustificazione per le assenze da scuola e non farci incappare in valutazioni negative della condotta.

    Tutti assolti, dunque? Ma certo che no, anche se le decisioni sfavorevoli sono – di solito – di manica extra large e consistono prevalentemente nell’ammonimento o la censura, più di rado nella perdita di anzianità (e, quindi, anche di scatti di aumento dello stipendio). Rarissime sono le rimozioni dall’Ordine Giudiziario.

    Per questa settimana è tutto, e sembra che basti e avanzi.

  • In attesa di Giustizia: alla ricerca dell’efficienza mai avuta

    Con il progredire della campagna elettorale, le forze politiche in campo hanno iniziato a trattare anche temi legati alle riforme della giustizia: il dibattito sembra essere principalmente alimentato dal dualismo creatosi in seno al centro destra tra Giulia Bongiorno e Carlo Nordio:  entrambi seri candidati al ruolo di Guardasigilli, in caso di vittoria, mentre a sinistra tutto tace.

    Gli argomenti affrontati sono molto tecnici: inappellabilità delle sentenze di assoluzione, facoltatività dell’azione penale, separazione delle carriere, ed altri interventi  destinati a dare efficacia soprattutto al settore del sistema penale.

    Un sistema efficace, però deve essere anche efficiente e di questo profilo non sembra che si parli molto sebbene la funzionalità degli uffici giudiziari sia di cruciale importanza ed  – ad oggi –  è affidata ai Capi degli Uffici, cioè a dire a dei magistrati che magari sono degli ottimi giuristi ma non è scontato che siano altrettanto eccellenti organizzatori del lavoro. Prova nei sia qualche “perla” rinvenuta spigolando qua  e là: per esempio la trasmissione in formato elettronico e in via telematica di querele e denunce dai commissariati di Polizia e dalle stazioni dei Carabinieri all’Autorità Giudiziaria salvo mantenere l’obbligo di portare fisicamente anche la copia cartacea nella segreteria della Procura competente (facendo perdere tempo e distraendo agenti e militari da altri impieghi più utili), altrimenti non vengono neppure registrate e le indagini non iniziano;  per non dire della geniale iniziativa di inserire il “link” per richiedere informazioni sullo stato dei procedimenti a carico di minorenni nel portale destinato alle aste giudiziarie. Un velo pietoso, poi, deve stendersi sugli strumenti informatici tutt’ora (non) funzionanti partoriti dalla mente dei consulenti del saltimbanco noto come Fofò Bonafede e che sono l’equivalente di banchi a rotelle, primule ed altri spassosi gadgets governativi targati Cinque Stelle.

    Quello che servirebbe, richiesto da anni ed a gran voce dall’avvocatura, è il Manager del Tribunale e cioè a dire un funzionario non togato che abbia competenze effettive di organizzazione del lavoro ed ottimizzazione delle risorse sia umane che economiche e coordini il suo lavoro con i vertici degli uffici giudiziari sul territorio: tradotto, il Generale Figliuolo della situazione.

    Avverso la creazione di una simile figura si oppone – in maniera più o meno velata – una parte della magistratura che teme, verosimilmente, di  perdere autorevolezza insieme a qualche ben pensante che paventa inesistenti aspetti di incostituzionalità.  E non è da escludere che  giochi un ruolo il problema legato al reperimento dei fondi per pagare lo stipendio di funzionari del genere: meglio destinarli ai navigator, tanto per dirne una mentre i tribunali rischiano la paralisi per mancanza di personale: ultimo in ordine di tempo, quello di Genova.

    Teniamoci allora per svolgere mansioni anche di gestione logistica Primi Presidenti di Tribunale e di Corte d’Appello, Procuratori Capi e Procuratori Generali il cui unico requisito è avere attribuite (per il mero progredire della anzianità di servizio) le cosiddette funzioni direttive anche se – magari –  non saprebbero neppure redigere la lista della spesa dopo aver aperto il frigorifero. E non è colpa loro.

    Qualcuno, non molti, che si distingue per disporre di simili competenze, ovviamente, c’è: proprio in questa rubrica è stato ricordato il caso di Cuno Tarfusser la cui virtuosa organizzazione della Procura di Bolzano era stata presa ad esempio e suggerita come modello da seguire, ma – all’evidenza –  da noi  non si è neppure in grado di copiare e poi, in fin dei conti, delle ricadute sui cittadini e persino dei due  punti di PIL, pari ad una trentina di miliardi, che costa una approssimativa amministrazione della giustizia sembra importare a pochi.

  • In attesa di Giustizia: standard italiani

    Blogger, influencer, tik-toker,  trapper…tra le nuove professioni – ammesso che tali possano chiamarsi – è la desinenza “er” a definire un modello di impiego che, tra l’altro, fa anche tendenza (o, meglio: è trendy).

    Ammettiamolo: il trapper risulta, probabilmente, il più ostico da inquadrare perché non è il rapper (come dimenticarsene) ma neppure una tradizionale figura di escursionista anglofono ed a creare confusione soccorre, oltretutto, un’ulteriore nota caratterizzante: a quanto pare, e per quanto è dato apprendere dalle cronache, i trappers non sono per nulla estranei a forme di devianza criminale che con un genere musicale – altra parola grossa – non dovrebbero avere nulla a che fare. E’ il crepuscolo della società civile.

    Del resto, nel gergo invalso ad Atlanta, da cui il termine deriva, “trap” è il luogo di spaccio: dunque, non deve sorprendere che questi musicisti (??) oltre ad inneggiare alle droghe nelle loro composizioni ne facciano largo impiego e non solo a livello personale; come nel caso di tal Elia 17 Baby, nella cui abitazione romana, non più tardi di qualche mese fa, sono state trovate migliaia di bustine di stupefacenti ed una discreta collezione di coltelli a serramanico.

    Vi sarebbe da immaginarsi che un giovine così virtuoso trascorresse le vacanze estive a Regina Coeli ed invece era a Porto Cervo dove, per ingannare il tempo, ha pensato bene di usare una delle sue lame – per motivi assolutamente futili – contro un ragazzo di Sassari che ora rischia la paralisi. Pur restando nei pressi della Costa Smeralda, è ora (ed era ora) ospite del Ministero della Giustizia nel carcere di Tempio Pausania.

    Piuttosto che a Regina Coeli – che non dispone di una sezione femminile – bensì a Rebibbia è finita nei giorni scorsi la ex sarta ultraottantenne di Sofia Loren ed altri noti artisti per avere ferito in maniera non grave ed anche questa volta con un coltello, però uno di quelli trovati là per là in cucina, il marito che l’aveva aggredita: una storia che non ha di certo il sapore della tendenza a delinquere e della pericolosità sociale.

    Bizzarri standard italiani: lo spacciatore per il quale non sarebbe stato dannoso un periodo di riflessione nelle patrie galere era libero, una vecchietta che si è difesa come ha potuto è finita subito dentro.

    Ma…ma…da qualche parte non sta scritto che oltre una certa età non si può essere arrestati? Beh, la legge è fatta per essere interpretata, no? Basterà ricordarsi di Calisto Tanzi che quando finì sotto processo i suoi anni li aveva e veniva portato in tribunale con l’ambulanza, la maschera ad ossigeno e, naturalmente, i piantoni della Polizia Penitenziaria.

    A Londra, intanto, è iniziato un giudizio contro giornalisti del Corriere della Sera rei di avere pubblicato notizie sul presunto coinvolgimento di tal Raffaele Mincione un finanziare italo – inglese nella fosca vicenda degli immobili acquistati proprio a Londra dal Cardinale il cui nome ricorda uno starnuto: Angelo Becciu.

    La difesa ha provato a sostenere che gli articoli incriminati sono stati scritti in italiano e finiti solo sul Corriere, cioè in Italia per un pubblico italiano e che “in Italia si fa così”: Suo Onore il Giudice Davidson ha osservato che non solo quella britannica ma anche la legge italiana vieta la violazione del segreto istruttorio; facciano quello che vogliono nel Bel Paese ma un quotidiano – quale che sia la lingua in cui è scritto – è acquistabile ovunque e leggibile in rete ed in Gran Bretagna degli standard italiani non sanno che farsene: se si offende la reputazione di un cittadino, considerata intangibile sulla base di semplici ipotesi tutte da confermare, si  viene condannati.

    Ed, a proposito di standard italiani, e sorridere almeno un po’ viene da domandarsi perché nessuno finora abbia fatto notare a Flavio Briatore che sulla pizza il Pata Negra non ci va non solo perché viola il capitolato della ricetta tradizionale ma anche perché mettere quel prosciutto pregiatissimo su qualsiasi cosa calda è un crimine e significa rovinarlo. Fare il contrario è, tra l’altro, una cafonata da arricchiti ma a qualcuno va bene così: questione di standard.

  • In attesa di Giustizia: Giustizia, ma quale giustizia? Ma mi faccia il piacere!

    Governo balneare, non è la prima volta, ed una campagna elettorale contratta,  volta a screditare gli avversari più che ad illustrare programmi che dovrebbero orientare la scelta degli elettori e, soprattutto, stimolarli a recarsi alle urne; lo scenario non è confortante, in particolare per uno dei settori cruciali – ma anche più disastrati – della Pubblica Amministrazione del quale sembra che ci si sia quasi completamente dimenticati: la giustizia.

    Nessuno ne parla, probabilmente perché, come si è sostenuto altre volte in questa rubrica, la giustizia non genera consenso (fondamentale più che mai in vista di una tornata elettorale), diversamente dalla sicurezza con la quale – spesso – viene confusa.

    Non per nulla, una delle primissime iniziative della declinante legislatura è stata quella sulla modifica della disciplina sulla legittima difesa che a questa confusione si presta benissimo: il prodotto finale è stato una normativa pasticciata e non priva di profili di dubbia costituzionalità come il Presidente Mattarella non ha mancato di rimarcare in una insolita lettera di accompagnamento alla promulgazione della legge.

    Viene da chiedersi, allora, perché il Garante della Costituzione l’abbia firmata, non certo il motivo per cui la raccomandazione di rivedere alcuni punti sia rimasta inascoltata: perché è caduta nel vuoto in senso stretto, quel vuoto torricelliano di cognizioni (alcune basilari) che caratterizzava una consorteria di analfabeti di ritorno del diritto capeggiata dall’esilarante clown trapanese che risponde al nome di Fofò Bonafede.

    La materia rimane oscura come dimostra il caso recente dell’ambulante nigeriano aggredito ed ucciso senza motivo in pieno giorno a Civitanova Marche: i presenti che avrebbero ben potuto e dovuto intervenire hanno di gran lunga preferito filmare la scena con i telefonini e condividerne l’orrore su whatsapp.

    Ma, tant’è: a prescindere dall’irrisorio quoziente di senso civico in generale, la propaganda ha sicuramente prodotto ben altre riflessioni sul significato di difesa legittima nei non addetti ai lavori.

    A caccia di fondi del PNRR, nel frattempo, si è in qualche modo posto mano a riforme del processo sia penale che civile: in parte opinabili dovendosi – ahimè –  tenere conto del voto in aula della compagnia di giro del cabarettista genovese;  innovazioni, peraltro, apprezzate (ma non del tutto…) anche a Bruxelles e allora della giustizia ce ne si può serenamente dimenticare…o, forse, no perchè molto resta da fare.

    Vi è – innanzitutto – la condizione critica in cui versano gli uffici giudiziari a causa della scarsità di risorse umane: trascurando per un momento il tema dell’organico dei magistrati (che risultano difficili da reclutare anche per carenza di nozioni fondamentali della lingua italiana dei candidati, come dimostrato in un recente concorso), quello dell’indispensabile personale amministrativo non è da meno

    E’ storia attuale quella del Tribunale di Monza – il sesto d’Italia per bacino di utenza, quantità e qualità degli affari trattati – che ha visto avvocati e magistrati protagonisti di una agitazione congiunta causata della inefficienza degli uffici per mancanza di cancellieri e segretari.

    Medesima sorte sta avendo la Procura della Repubblica di Piacenza, il cui Capo ha dovuto emanare una circolare con cui prende atto che l’Ufficio è al collasso ed alcuni servizi sono stati, di necessità virtù, sospesi: basti dire che – senza che al momento sia prevista alcuna sostituzione – dodici addetti su trenta sono andati in pensione nel mese di maggio ed a breve toccherà ad altri tre.

    L’elenco potrebbe continuare ma limitiamoci a questi due casi emblematici, a restare in attesa di giustizia, a sperare almeno che qualcuno si ricordi por mano al settore con l’intensità e la competenza necessarie. Possibilmente, non solo in campagna elettorale ma anche dopo.

  • In attesa di Giustizia: Libera Chiesa in libero Stato

    Con queste parole viene definita la concezione separatista in tema di rapporti tra Chiesa e Stato, utilizzata per primo dal politico e filosofo francese Charles de Montalebert, poi ripresa da Cavour al quale ne viene attribuita la paternità dopo la citazione avvenuta in seguito alla proclamazione del Regno d’Italia che portò alla individuazione di Roma come capitale; secondo il pensiero dello statista piemontese, il Papa avrebbe – quindi – dovuto dedicarsi all’esercizio del potere spirituale dimenticandosi quello temporale sui suoi possedimenti con ciò permettendo la convivenza tra Stato e Chiesa. E viceversa.

    Sono passati decenni, si sono succeduti nel tempo i Patti Lateranensi nel 1929, la loro revisione nel 1984 a regolare i rapporti (anche di natura giudiziaria) tra Italia e Santa Sede e con la Costituzione Repubblicana si è abbandonato il concetto di religione di Stato lasciando ai cittadini la libertà di credo.

    Qualche bizzarro cascame da Statuto Albertino, sia pure con qualche “arrangiamento”, si annida peraltro nelle pieghe del nostro sistema penale non meno che nel pensiero di chi  è deputato all’esercizio dell’azione penale: per esempio, la Procura della Repubblica di Crotone che ha ritenuto – non avendo, evidentemente, nulla di meglio da fare – di indagare  per “offesa ad una confessione religiosa” (art. 403 e 404 del  codice penale) Don Mattia Bernasconi,  della parrocchia di San Luigi Gonzaga di Milano.

    Cerchiamo, allora, di comprendere di quale rimproverabile ed indegna condotta si sia reso responsabile questo sacerdote, nei cui confronti sono già stati lanciati strali diocesani: ha celebrato la messa in mare per i giovani della sua parrocchia che aveva accompagnato ad un campo nella cooperativa Terre Joniche – Libera Terra. Nell’ultimo giorno di permanenza in Calabria aveva anche deciso di  portarli in spiaggia invece che in una pineta, originaria destinazione risultata, però, già occupata.

    Qui giunti, essendo domenica, a causa del caldo è maturata la scelta di celebrare la messa in mare utilizzando un materassino come altare.

    Una comprensibile coniugazione tra il rispetto del precetto domenicale e la salvaguardia della salute riparandosi dalle temperature feroci di questo periodo che non ha evitato a Don Mattia le censure dei suoi superiori prima e l’inflessibilità della legge secolare poi; il Procuratore capo di Crotone in persona ha confermato l’apertura di un fascicolo sull’accaduto delegando nientemeno che alla DIGOS lo svolgimento delle indagini. Verranno, quindi, sentiti testimoni, acquisiti filmati e foto della funzione dai telefonini, interpellati vescovi e cardinali, forse anche indagati per concorso nel reato i turisti che hanno prestato il materassino al sacerdote. Questo ci vuole per ridare dignità ad un Paese! Tolleranza zero alla maniera di Rudolph Giuliani: e partendo da una intransigente persecuzione di quelli che sembrano illeciti minori od anche semplici atti devianti che violano norme sociali si andrà realizzare una funzione salvifica e moralizzatrice a tutti i livelli.

    Saremmo stati, però, ancor più grati al procuratore di Crotone se prima di muoversi e spedire le sue truppe all’assalto, avesse prestato più attenzione a quanto prevede il codice penale e cioè che il reato di offesa ad una confessione religiosa si commette mediante il vilipendio di chi la professa, di un ministro o di oggetti di culto, strumenti liturgici, cose consacrate. Dell’uso, magari fantasiosamente improprio, dei materassini da mare per celebrare messa (da parte di un sacerdote regolarmente ordinato) in mare non si parla.

    Sembra, piuttosto, di poter dire che la scelta di Don Mattia sia stata indicativa del fatto che la fede, la preghiera, il sentimento religioso non sono legati necessariamente ad un luogo o ad un momento ma sono dentro di noi e devono potersi esprimere liberamente.

    Soccorre anche inesorabilmente alla memoria, ed a modo di conclusione, un detto proprio della saggezza popolare calabrese: “Studia, studia, se no finisci a fare il Pubblico Ministero”.

  • In attesa di Giustizia: le procure muoiono ma non si arrendono

    Nei giorni scorsi si sono conclusi due processi che hanno molto interessato cronache ed opinione pubblica: a Cassino quello per l’omicidio di una ragazza, Serena  Mollicone, avvenuto molti anni fa (si sospetta in una caserma dei Carabinieri e ad opera di alcuni di costoro) e definito con l’assoluzione di tutti gli imputati, sia pure rilevando una insufficienza delle prove; il fatto di sangue, sicuramente, rientra tra quelli caratterizzati da depistaggi reali o presunti, opacità del contesto e distanza nel tempo tra gli accertamenti e quanto accaduto. Il che, anche con il supporto delle moderne scienze forensi, non aiuta l’opera  degli investigatori.

    Un’ Assise, peraltro, si è pronunciata e le motivazioni della sentenza saranno rese note solo in autunno; è, quindi, forse un po’ presto per criticare una decisione senza conoscerne gli argomenti a sostegno: Il Procuratore capo di Cassino, peraltro, si è sentito in dovere di fare un comunicato stampa con il quale elogia il lavoro dei propri magistrati, l’impegno e rassicura i cittadini che si è fatto tutto il possibile, preannunciando che verrà in ogni caso proposto appello.

    Orbene, che si sia fatto tutto il possibile per dipanare la matassa e fare chiarezza  su una vicenda oscura va a merito degli inquirenti ma che non si accetti che l’assoluzione sia uno degli esiti possibili della giustizia anticipando l’impugnazione senza neppure avere letto le motivazioni  non è accettabile come non lo è che si debba avere un colpevole ad ogni costo. Come dire: un bel tacer non fu mai scritto.

    Il secondo caso di cui ci occupiamo questa settimana  riguarda invece proprio l’esito di un appello voluto a tutti i costi e presentato dalla Procura della Repubblica contro un’assoluzione: quella di tutti i manager accusati per un presunta maxi tangente oggetto della fallimentare indagine “ENI – Nigeria”.  Assoluzione in esito alla quale il P.M. che le aveva condotte e sostenuto l’accusa in giudizio – bricconcello –  è finito a sua volta sotto processo per sciocchezzuole  tipo nascondere le prove a favore degli accusati e, come sembra, anche falsificarne qualcuna per meglio sostenere le proprie tesi.

    Il Sostituto Procuratore Generale cui era stato assegnato il fascicolo, in udienza ha rinunciato all’appello e per farlo sarebbe bastata una dichiarazione in tal senso chiudendo velocemente la partita con una conferma delle assoluzioni. Tuttavia,  di fronte alla pertinacia del Collega inquirente (e inquisito), ha ritenuto di andare oltre con una durissima reprimenda parlando di “una situazione di illegalità di fondo rispetto alle indicazioni di regolarità del processo, in assenza di qualsiasi prova a carico degli imputati e dell’esistenza solo di chiacchiere e opinioni generiche che hanno tenuto quindici persone e tredici aziende sulla graticola per oltre sette anni senza alcun motivo”.

    Il processo, ha aggiunto, non è la sede per fare sperimentazioni dialettiche e i motivi di appello proposti contro la sentenza di primo grado sono incongrui, insufficienti  e fuori dai binari della legalità, che l’agire della Procura è sintomatico di una sorta di “colonialismo morale” e via picconando.

    Queste due vicende possono essere l’occasione per riprendere a ragionare sulla eliminazione del potere di appello del Pubblico Ministero, che trova il suo fondamento nel rispetto del nostro assetto codicistico e costituzionale per il quale l’unica ragione che dia senso ai successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato sia innocente e non colpevole.

    Troppo spesso l’appello del Pubblico Ministero si rivela come la seconda mano di una partita che l’accusa vuole vincere ad ogni costo quasi fosse una scommessa da cui dipenda la credibilità dell’Ufficio di Procura ma non è di scommesse o scommettitori di cui ha bisogno la Giustizia, e meno che mai di giocatori d’azzardo e bari.

  • In attesa di Giustizia: la solitudine dell’avvocato

    Non è più il momento per parlare di processi: agosto e le ferie giudiziarie incombono ed un’attività giudiziaria già agonizzante quando è a pieno regime tende a fermarsi quasi del tutto; e non è nemmeno il periodo ideale per discutere di riforme: grazie alla miope visione politica del Signor Tentenna (cit. Matteo Renzi) già autoproclamatosi “Avvocato degli Italiani” il Governo – e con esso la Ministra Cartabia – è in crisi.

    A volersi fare due risate si potrebbe commentare l’indiscrezione secondo la quale Fofò Bonafede, indimenticato clown pentastellato assurto al soglio di Guardasigilli, intenderebbe candidarsi per arricchire con il suo sottile (molto sottile, praticamente impalpabile) sapere giuridico il Consiglio Superiore della Magistratura il cui rinnovo è imminente: operazione che, se non altro, gli garantirebbe un posticino al sole, dignitosamente retribuito, per altri quattro anni, diversamente reso più problematico da una nuova candidatura con il Movimento Polvere di Stelle alle prossime elezioni politiche.

    E dire che proprio lui, inflessibile fustigatore di ogni malcostume nostrano e censore autorevole dei cacciatori di poltrone era stato autore di una (spernacchiata) proposta di legge che prevedeva il divieto tassativo per parlamentari e membri di governo di accedere a Palazzo dei Marescialli: una sorta di cortocircuito che, in fondo, non deve stupire considerate le recenti  prodezze del suo ondivago mentore e  leader politico.

    Questa settimana in verità non c’è proprio nulla da ridere, soprattutto se si annota che la notizia che ha maggiormente interessato la cronaca giudiziaria sembra essere quella del suicidio di un avvocato, gettatosi nel vuoto da una finestra del Tribunale di Milano.

    Un fatto drammatico, una scelta, per l’uomo, anche emblematica quella di togliersi la vita nel luogo che avrebbe dovuto garantirgli lavoro e sopravvivenza: un uomo che ha lasciato un biglietto tratteggiando in poche righe la sua disperazione per problemi economici e famigliari ed avrebbe meritato un rispettoso silenzio.

    Invece no, i cronisti si sono affannati in una ignobile gara a chi scopriva per primo quali fossero i trascorsi professionali di questo sventurato, la sua storia, i suoi problemi buttandoli tutto in pasto a morbosi lettori con aggiornamenti continui delle testate on line. E ancora se ne parla a giorni di distanza.

    Chiedere rispetto per una morte così tragica non sembra eccessivo: se proprio si voleva approfondire l’argomento perché non si è pensato alla solitudine di quest’uomo che non ha saputo trovare conforto ed aiuto in alcun affetto e che probabilmente ha sofferto senza nemmeno la consapevolezza di soffrire per la mancanza di condivisione dei suoi affanni. Che sono quelli di molti avvocati, sempre costretti a confrontarsi – oltre che con le preoccupazioni personali, sovente messe in secondo piano – con le miserie, le ansie, i dolori grandi e piccoli dei propri assistiti, osservando la regola del segreto e così introiettando, in perfetta solitudine, una massa di negatività che difficilmente viene metabolizzata ma sedimenta nell’animo.

    Qui, su queste colonne non ci sarà dunque alcuno spazio se non per quella pietas che non richiede commenti ed una critica asperrima verso coloro che non la sanno praticare in nome dell’attrattività che solo il gossip sa generare e con essa un maggior numero di copie vendute.

    A quei cronisti possiamo solo suggerire di non riflettere su queste considerazioni, se mai le leggeranno,  evitando di guardarsi dentro se hanno paura del vuoto.

    Ti sia lieve la terra, infelice Collega.

  • In attesa di Giustizia: scandalo!

    Una recentissima decisione della Corte di Appello di Torino ha provocato indignazione generalizzata:, la Boldrini – tra gli altri – ha subito commentato che si tratta di una sentenza scandalosa  perché, riformando una condanna del Tribunale per violenza sessuale, ha assolto  l’imputato.

    Vi è da dubitare che, come la Boldrini, molti altri commentatori (se non tutti) ignorino il contenuto del fascicolo e neppure la competenza tecnica per fare valutazioni giuridiche: è, piuttosto, ben possibile che si siano affidati a brandelli di motivazione pubblicati dai giornali alla ricerca di incongruenze argomentative. Neppure alla redazione de Il Patto Sociale conosciamo la vicenda e tantomeno i giudici: è, però, noto che la Corte fosse presieduta da una donna (il che, qualcosa può significare) e, come di consueto, in questa rubrica  non si tratterà  di processi senza cognizione di causa ma di ben altro.

    E’, invero, opportuno riflettere su quella che è la  coazione a ripetersi di un corto circuito mediatico che in tema di processi per violenza sessuale segue un copione immodificabile.

    Una prima riflessione è che in questo Paese la notizia di una assoluzione, in generale, desta allarme, non parliamo poi se ciò accade in appello dopo una condanna in primo grado,  per quegli stessi fatti ed in base al medesimo materiale probatorio: tutto ciò è percepito come il segno di una grave anomalia.

    Avviene, invece il contrario se si è condannati  nel secondo grado di giudizio dopo una prima  assoluzione: in questo caso è la giustizia che ha trionfato, una stortura è stata raddrizzata. Questo riflesso forcaiolo è moltiplicato se il processo ha, per l’appunto, ad oggetto una accusa di violenza sessuale e si espongono al pubblico ludibrio dei giudici che hanno osato assolvere, si scava nella motivazione, la si riduce a brandelli, raspollando ogni locuzione eventualmente infelice utile a dimostrare che il proscioglimento è frutto esclusivo di un modo di ragionare maschilista e misogino.

    Naturalmente, qualcosa di simile può sempre accadere ed è sicuramente accaduto in passato, va detto senza infingimenti, con responsabilità equamente divise tra avvocati e giudici asserviti a becere considerazioni del tipo: “era lei ad essere vestita in modo provocante, dove se ne andava in giro di sera conciata in quel modo, le è piaciuto”, e via dicendo. Sempre più raramente, per fortuna, si ascoltano avvocati che si affidano a simili bassezze, e giudici che mostrino di condividerle.

    E’ intollerabile ed incivile, invece,  che siano giudicati gli esiti di un processo da qualche frase estrapolata qui e là. Anni fa fece storia, in proposito, una sentenza della Corte di Cassazione di cui si valorizzò una frase incidentale che ragionava, tra mille altri e ben più corposi argomenti, anche su quanto fossero stretti i jeans della presunta vittima e come potessero essere stati tolti senza impiegare violenza: si  scatenò subito il linciaggio contro una decisione  molto ben strutturata e meditata basandosi su un dettaglio ininfluente.

    Nulla sembra essere cambiato oggi, e se è sacrosanta la condanna di comportamenti sessuali  alimentati da una subcultura misogina ed ottusamente maschilista, nemmeno si può pretendere, che vi sia una sorta di statuto speciale della prova per i reati di violenza sessuale. Si è disposti ad accettare il dubbio su un omicidio, ma non su una violenza sessuale. Tema invece, quest’ultimo, delicatissimo quando essa si colloca in quella zona grigia nella quale occorre accertare rigorosamente sia la certezza della mancanza di  consenso al rapporto sessuale, quanto la  percezione di un dissenso da parte di chi avanza l’approccio. Sono dati cruciali, che il giudice deve ricostruire in via induttiva da ogni possibile dettaglio; e se quella ricostruzione pone in crisi l’esistenza dell’uno o l’altro elemento della condotta, si impone l’assoluzione come per qualunque altro reato, anche il più efferato. Il Giudice deve essere libero da ipoteche ideologiche o da ricatti culturali, perché è chiamato semplicemente a ricostruire un fatto. Se lo fa male, c’è il rimedio delle impugnazioni, per fortuna. Ma non si può accettare l’idea che il giudice sia sospetto di aver fatto male il proprio mestiere solo quando assolve: questa sì, è la notizia che dovrebbe allarmare.

  • In attesa di Giustizia: correnti e spifferi

    Il Presidente Mattarella ha indetto per il 18 e 19 settembre le elezioni per il rinnovo del C.S.M.: un Consiglio che arriva faticosamente al suo termine naturale dopo essere stato investito dalle conseguenze dell’”affaire Palamara” che ha determinato – tra l’altro – la necessità di elezioni suppletive causate dalle dimissioni di alcuni componenti che ne erano stati coinvolti, dalle polemiche per la gestione anomala di verbali secretati della Procura di Milano da parte di Piercamillo Davigo, dalla ostinata resistenza di costui alla cessazione della funzione consiliare dopo il pensionamento. Queste, solo per citare alcune delle criticità che hanno interessato il quadriennio più tribolato dell’organo di autogoverno della magistratura che, a memoria d’uomo, si ricordi tra spifferate editoriali sulle modalità di affidamento degli incarichi più prestigiosi e crisi delle correnti (largamente politicizzate) alle quali appartiene la gran parte dei circa 9.600 magistrati ordinari in servizio. Per non parlare della gestione delle indagini contro l’avversario di turno del partito di riferimento, a prescindere dalla fondatezza.

    E se il Consiglio Superiore, anche in passato non ha dato prova del dovuto rigore – in sede disciplinare e non solo – non altrettanto può dirsi delle correnti: lo dimostra la recente pubblicazione su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica, di interessanti documenti relativi al caso Tortora che attestano quanto dura sia stata in allora la presa di posizione di MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Una presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi.

    Con questa pubblicazione e il richiamo ad una storia remota ma non dimenticata si rivendica una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. Come dire (e da sempre su queste colonne condividiamo il concetto) che la magistratura italiana non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale.

    Marzo del 1989, all’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora: la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani e  MD chiede con determinazione che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana”. Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM. Tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa e Magistratura Democratica non mancò di registrare che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”.

    C’è, dunque, anche nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico e la superfetazione del potere  incontrollato delle Procure. Vi è da sperare che almeno una parte della magistratura italiana sia  attraversata da una riflessione critica ed autocritica su questi temi? O quella bella pagina “napoletana”, tra spifferi e correnti,  resterà solo un lontano  ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia?

  • In attesa di Giustizia: tanto rumore per nulla

    Mentre la Ministra Cartabia si affanna tra le polemiche, supportata da Commissioni tecniche, a riformare il sistema giustizia – anche per non perdere i fondi del PNRR – sembra che ci si sia dimenticati che quella delicata branca della Pubblica Amministrazione non è fatta solo di strumenti, codici e protocolli ma di uomini: molti dei quali sono autentici servitori dello Stato, cioè dei i cittadini…beh, non proprio tutti, alcuni un po’ meno.

    Il riferimento è a coloro – pochi, comunque non sono – che sono stati coinvolti nello “scandalo Palamara”, figure emerse dalle sue chat intercettate dalla Procura di Perugia e dal racconto che egli stesso ne ha fatto e trasfuso in un best seller firmato con Alessandro Sallusti.

    Già, che fine hanno fatto quei magistrati che, a voler usare un eufemismo, si autopromuovevano seguendo canali preferenziali per ottenere incarichi direttivi in importanti Uffici Giudiziari quando non diversamente impegnati a processare l’avversario di turno della parte politica di riferimento con indagini dall’impianto probatorio traballante?

    Esclusi i pochi (una “mezza sporca dozzina”) che sono stati protagonisti di un incontro spartitorio di incarichi durante una serata conviviale all’Hotel Champagne di Roma (tra questi, il medesimo Luca Palamara) del destino di tutti gli altri si hanno poche e frammentarie notizie.

    Cerchiamo di capire come mai. Può darsi, ma è solo una eventualità per amor di Dio, che ciò dipenda dal risultato di una raffica di circolari adottate dal Procuratore Generale della Cassazione, che è il titolare della iniziativa disciplinare nei confronti dei magistrati.

    Una prima di queste chiarisce che l’autopromozione ad incarichi apicali mediante appoggi correntizi non costituisce illecito disciplinare. Con buona pace della Costituzione che prevede procedure concursuali  e valutazione di titoli e merito e non traffico di influenze e raccomandazioni.

    Una seconda circolare chiarisce che anche con riguardo a condotte scorrette gravi l’illecito può non essere configurabile se il fatto è di scarsa rilevanza. Qualcuno, però, dovrà illuminarci su come possa essere considerata di scarsa rilevanza una condotta gravemente scorretta. Ossimori.

    Sono state poi secretate le motivazioni alla base delle archiviazioni dei procedimenti disciplinari intervenute direttamente senza neppure approdare al C.S.M. per un vaglio più approfondito.

    Al C.S.M., viceversa, qualcosa – con riguardo ai pochi fascicoli pervenuti – si muove ma vediamo come: di recente, dopo aver graziato Donatella Ferranti, oggi magistrato alla Corte  di Cassazione, un altro giudizio benevolo è toccato ad Anna Canepa della Direzione Nazionale Antimafia che nel biennio 2017-2019 aveva interloquito con Luca Palamara pregandolo di intercedere per evitare che a capo della Procura di Savona approdassero, in alternativa, due P.M. definiti nella chat “dei banditi” e sollecitando l’appoggio ad un terzo.

    Tanto rumore per nulla, un po’ come in una celebre commedia di Shakespeare: nei casi che ci interessano si è trattato evidentemente solo di esagerazioni moralistiche riferite ad un fatterello del tutto marginale ed inconsistente.

    Secondo il C.S.M., infatti, nel “caso Canepa” va bene così perché non ci sarebbe stato alcun turbamento negli uffici e nello svolgimento delle funzioni. Noi, miseri utenti del servizio giustizia, vorremmo almeno sapere perché in quel di Savona la Procura della Repubblica rischiava di essere amministrata da due presunti banditi e di quali crimini si sarebbero macchiati costoro: viceversa, il finale di questa come di altre vicende analoghe è amaramente comico per le motivazioni impiegate e faticosamente costruite con il contributo di  maggioranze raccogliticce, secondo le utilità del momento e per salvare l’insalvabile.

    Se, poi, nel lieto fine abbia anche avuto un ruolo l’essere stata Anna Canepa Segretaria di Magistratura Democratica, e Donatella Ferranti ex parlamentare del PD, è altro aspetto che non sarà mai chiarito, sebbene a pensar male si faccia peccato ma…insomma fatevene una ragione: con le riforme arriveranno anche i fondi del PNNR per la Giustizia, tuttavia la sensazione è che, gattopardescamente, nella sostanza cambierà tutto per non cambiare nulla.

Pulsante per tornare all'inizio