licenziamento

  • La crisi economica rappresenta l’elemento di “coesione” nazionale

    Novecentoquindici sono i chilometri che costituiscono la distanza tra lo stabilimento Bosch di Bari e quello di Quero, in provincia di Belluno. Queste due realtà economiche e occupazionali, tuttavia, risultano molto più vicine di quanto la lunga distanza possa far pensare. Entrambi gli stabilimenti, infatti, rientrano all’interno di un articolato piano di ristrutturazione industriale e conseguente riduzione del personale che la tedesca Bosch sta attuando per affrontare la crisi del settore Automotive.

    In questo drammatico contesto sociale esplode per l’ennesima volta la questione di una presunta legittimità relativa al progetto di autonomia regionale, per la quale il 22 ottobre 2017 era stato istituito un referendum nel quale la maggioranza dei veneti dimostrò il proprio consenso.

    Da allora sono passati sette anni caratterizzati da:

    . il covid

    . l’esplosione dei costi energetici

    . perdita del potere di acquisto delle famiglie per l’inflazione esogena

    . inflazione dei beni alimentari

    . la guerra Russo Ucraina

    . il PNRR

    . la consueta esplosione della spesa pubblica

    . crescita esponenziale del debito pubblico

    . la conseguente crescita dei costi di   servizio al debito

    . inflazione relativa alla crescita della tassazione sui carburanti e bollette energetiche

    . la crisi arabo israeliana

    . le elezioni statunitensi

    Ed ancora oggi, dopo sette anni, ci si ritrova al punto di partenza con la solita contrapposizione politica, per di più  relativa alla interpretazione di quanto deciso dalla Corte Costituzionale (la cui sentenza verrà pubblicata a dicembre), mentre una pletora di esponenti istituzionali continuano a contrapporsi semplicemente in ragione degli schieramenti politici ed ora più che mai si dimostrano lontani dalle allarmanti aspettative della Working Class, quella che negli Stati Uniti ha votato Donald Trump.

    Sarebbe carino capire se per le quaranta famiglie di Quero, poco più di tremila anime in provincia di Belluno, a 109 chilometri da Cortina d’Ampezzo sede delle prossime olimpiadi invernali del 2026, sia più importante la diatriba giuridica che dimostra come il progetto iniziale presentato dalla regione sia, ancora oggi, soggetto ad una serie di sette correzioni fondamentali da parte della Corte Costituzionale, oppure il mantenimento del proprio posto di lavoro. In più, dopo  venti mesi di sospensione dalla realtà, di fronte alle continue e consecutive flessioni della produzione industriale, oltre un anno e mezzo, l’intero mondo della politica nazionale e veneta, come tutte le associazioni di categoria tanto industriali quanto sindacali, hanno dimostrato di  sottostimare negli effetti immediati come nel medio termine.

    Ora, invece, siamo all’interno di una crisi senza precedenti dal dopoguerra ad oggi e che potrà avere degli effetti talmente devastanti molto simili a quelli  di un conflitto nucleare.

    Francamente vedere ancora una volta tutti questi personaggi che da oltre sette anni continuano a rimpallarsi le  responsabilità relative  ad un possibile mancato raggiungimento della autonomia del Veneto diventa veramente non solo stucchevole ma soprattutto insultante per quelle persone che stanno perdendo al posto di lavoro.

    Il vero problema ora non è più l’autonomia ma la competenza di chi l’ha proposta come di chi l’ha combattuta in questi termini, entrambi espressione  di un mondo e di un  modello politico completamente assenti ed ignoranti della realtà circostante.

    Il  mondo del lavoro si trova ora in una situazione di una difficoltà senza precedenti, mentre la politica, per nulla interessata, continua a  considera la propria contrapposizione politica primaria rispetto al futuro delle famiglie investite dalla crisi economica ed occupazionale.

    In ultima analisi è decisamente paradossale come, più della contrapposizione squisitamente ideologica tra favorevoli e contrari al progetto di autonomia regionale, il vero elemento di coesione del territorio italiano venga rappresentato dalla crisi economica ed occupazionale.

  • Boom di dimissioni dal lavoro, 1,6 milioni in nove mesi

    Altro che reddito di cittadinanza e ‘Giuseppi’! Quelle che negli Stati Uniti sono ormai noto come “Great resignation”, le grandi dimissioni, si diffondono anche in Italia. Anche se non con la stessa portata, dopo la pandemia, il fenomeno delle dimissioni dal lavoro si fa sempre più spazio. A fronte di un’Italia che pensa ‘io esisto, la società deve occuparsi di me’, come se non fosse responsabilità (e dignità) del singolo cercare anzitutto di cavarsela da sé prima di chiedere agli altri, continua ad aumentare il numero di coloro che decidono di lasciare il posto. Per scelta o per necessità, per guardare avanti rispetto alla propria occupazione e carriera o per far meglio conciliare le esigenze della famiglia.

    I motivi possono essere vari, ma di fatto la tendenza osservata a partire da due anni a questa parte si conferma con numeri in salita. Sono oltre 1,6 milioni, infatti, le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni. La fotografia arriva dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, ed il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni, e non il numero dei lavoratori coinvolti.

    Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a  termine, la quota più alta. Ma le cifre indicano come risalga anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica: tra gennaio e settembre 2022, infatti, sono stati circa 557mila i rapporti interrotti per decisione del datore di lavoro contro i 379mila nei primi 9 mesi del 2021, con un aumento del 47% rispetto a un periodo in cui era però in vigore il blocco.

    Guardando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. Dati che confermano, dunque, come continui il trend positivo partito dal secondo trimestre 2021, seppure con una variazione inferiore rispetto ai trimestri precedenti. Per quanto riguarda i licenziamenti, nel terzo trimestre del 2022 ne sono stati registrati quasi 181mila, con una crescita del 10,6% (pari a +17 mila) rispetto al terzo trimestre del 2021.

    Sarà dunque per un mercato del lavoro che diventa più dinamico, per una scelta di vita diversa o per le conseguenze della crisi, ma il fenomeno delle dimissioni cresce e si fa trasversale. E riguarda sia gli uomini, in prevalenza, sia le donne. A spingere, secondo gli osservatori, da un lato può essere stata la ripresa occupazionale, dopo la caduta determinata dal picco della crisi Covid, con maggiore mobilità e opportunità anche per chi vuole cambiare lavoro, soprattutto per i profili tecnici e specializzati. Dall’altro lato, al contrario, proprio la crisi e la necessità o il desiderio di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale possono aver spinto a scegliere di dire addio al proprio posto di lavoro.

    Per Giulio Romani della Cisl bisogna “rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità”, visto che le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro sono una minoranza e sono quelle dai 10 ai 250 dipendenti. Ma la platea delle imprese italiane, spiega, “è però occupata per circa il 95% da microimprese, quelle con la minore produttività, all’interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo e dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono le minori prospettive di crescita economica e professionali”.

    “L’aumento delle dimissioni – spiega Tania Scacchetti della Cgil – può avere spiegazioni molto differenti: da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più ‘agile’, dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese”. Per Ivana Veronese della Uil «molte le dimissioni volontarie, forse un segno di come le priorità si siano modificate anche nella testa delle lavoratrici e lavoratori: se da qualche parte c’è uno smart-working più flessibile, se la retribuzione dove lavoro è troppo bassa o gli orari troppo disagevoli, se ho voglia di provarci davvero, un lavoro, magari anche sicuro, lo si può lasciare».

  • Contesta il Jobs Act davanti alla Corte Ue, ma il no al reintegro sul lavoro viene confermato

    Il Jobs Act non è discriminatorio e non viola nessuna norma dell’Ue. L’ultima parola sulla riforma del lavoro voluta dal governo Renzi è stata pronuncia dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, che ha approvato le nuove – e controverse – regole che sostituiscono il reintegro nel posto di lavoro con un indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato.

    La Corte Ue si è espressa nella sentenza del caso di KO, licenziato insieme ad altre 350 persone nel 2017 dalla Consulmarketing SpA. I lavoratori licenziati hanno presentato un ricorso al Tribunale di Milano, che, constatata l’illegittimità del licenziamento collettivo, ha disposto la reintegrazione nell’impresa di tutti i lavoratori interessati, ad eccezione di KO. Il giudice ha infatti ritenuto che non potesse beneficiare dello stesso regime di tutela degli altri lavoratori licenziati perché il suo contratto a tempo determinato era stato trasformato in un indeterminato dopo il 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Jobs Act.

    Per effetto del Jobs Act, spiega la Corte, “vi sono due regimi successivi di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo illegittimo. Da un lato, un lavoratore a tempo indeterminato, il cui contratto è stato stipulato fino al 7 marzo 2015, può rivendicare la sua reintegrazione nell’impresa. D’altro lato, un lavoratore a tempo indeterminato, il cui contratto è stato stipulato a partire da tale data, ha diritto soltanto a un’indennità entro un massimale”. Il Tribunale di Milano, ricordano i giudici, “ha chiesto alla Corte se il diritto dell’Unione osti ad una simile normativa”. E con la sentenza di oggi, “la Corte risponde negativamente a tale questione”. Per i giudici, inoltre, neppure il richiamo alla Carta dei diritti fondamentali (artt. 20 – principio di uguaglianza – e 30 – tutela in caso di licenziamento ingiustificato) è pertinente.

    La Corte rileva, invece, che la questione “deve essere esaminata ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che costituisce un’applicazione del principio di non discriminazione”. l fatto che KO abbia acquisito la qualità di lavoratore a tempo indeterminato “non esclude la possibilità che egli possa avvalersi del principio di non discriminazione sancito dall’accordo quadro”. Infatti, la differenza di trattamento di cui sostiene di essere vittima “risulta dal fatto che egli è stato inizialmente assunto a tempo determinato”.

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