May

  • La Brexit è sempre per aria mentre il giorno del ritiro si avvicina

    La Corte Suprema di Londra è riunita per decidere se la chiusura del Parlamento è legale, viste le incombenze che dovrebbero essere prese entro il 31 ottobre, data concordata tra RU e UE come termine ultimo per l’uscita. Il Parlamento ha votato una legge che vieta un’uscita senza accordo sul dopo.  Johnson continua ad affermare che l’uscita avverrà il 31 ottobre, con o senza “no deal”.  Ci si attendeva che lunedì scorso a Lussemburgo Johnson presentasse a Junker, ancora in carica come presidente della Commissione europea fino al 31 ottobre, le nuove proposte d’accordo che superassero quelle stabilite da Theresa May, sempre respinte dal Parlamento. Ma in realtà l’incontro di Lussemburgo è stato inutile perché Johnson non ha presentato proposte alternative e si è limitato a ripetere le cose che ripete da mesi: il 31 ottobre usciremo, con o senza accordo, la questione della frontiera tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda deve essere risolta senza nuovi agganci con l’unione doganale europea, la responsabilità del non accordo sarà dell’Unione europea, ecc. Una risposta indiretta l’ha espressa il presidente Junker arrivando alla colazione di lavoro con il premier britannico a Lussemburgo, accompagnato dal capo delegazione della Ue per la Brexit Michel Barnier: “L’Europa non perde mai la pazienza”- ha affermato. E a Strasburgo, alla plenaria del Parlamento europeo di oggi  (18 settembre n.d.r.)ha aggiunto: “Il rischio di un “no deal” è reale e permane. “Magari – ha detto – il ‘no deal’ alla fine sarà la scelta del governo britannico, ma non sarà mai la scelta dell’Ue. Un accordo è sempre auspicabile e possibile”. “La scadenza del 31 ottobre si avvicina a grandi passi, e abbiamo di fronte a noi più incertezza, non meno. Questa situazione piuttosto cupa non ci deve distrarre: la nostra priorità resta avere un ritiro ordinato e spero che riusciremo ad averlo”, lo afferma Tytti Tuppurainen, ministro per gli Affari europei della Finlandia, Paese che attualmente ha la presidenza semestrale di turno dell’UE, intervenendo nella seduta plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo. “In Gran Bretagna – continua la Tuppurainen – le opinioni restano divise. Solo il fermo rifiuto di un’uscita senza accordo ha aggregato una maggioranza. Malgrado ciò il governo britannico continua ad insistere sulle sue linee rosse, senza proporre soluzioni chiare alternative, per quanto riguarda le questioni più complicate, come il confine irlandese”. Johnson intanto continua ad aggrapparsi ad un unico ritornello, la promessa di portare a compimento la Brexit il 31 ottobre senza altri rinvii, a dispetto della legge anti “no deal”. Ma insiste anche a dire di volere una nuova intesa di divorzio con Bruxelles, senza “back stop” sul confine irlandese. Ma a giudicare dall’esito del suo deludente incontro a Lussemburgo con Jean-Claude Junker, ci sembra difficile raggiungere questo obiettivo. Johnson comunque sembra sperare in un aiuto di Angela Merkel, cancelliera di una Germania dove il mondo del business teme fortemente lo spettro di una Brexit dura e pesante, quasi come buona parte di quello britannico. Per telefono con la Merkel ha concordato l’impegno ad accelerare lo sforzo negoziale dell’ultimo minuto. Si farà in tempo prima del 31 ottobre, o bisognerà allungare ancora i tempi? Se in tre mesi il governo di Boris Johnson non è riuscito (o non ha voluto)a definire nuove proposte di negoziato, ci riuscirà a (o vorrà)  farlo in tre settimane?

  • Johnson e Hunt: i due candidati finali alla leadership del Regno Unito

    Dei dieci candidati che si erano proposti per la leadership nel partito conservatore britannico oggi ne restano due: l’ex sindaco di Londra e hard Brexiter Boris Johnson e l’attuale ministro degli Esteri Jeremy Hunt. La procedura delle elezioni per giungere ai due nomi del ballottaggio finale è terminata venerdì scorso, con un colpo disonesto e sleale che ha messo fuori gioco per un paio di voti Michael Gove, considerato fino a quel momento il candidato numero due. Gli amici di Johnson infatti avrebbero portato qualche voto a Hunt, facendolo prevalere su Gove, ritenendo quest’ultimo poco malleabile e non coincidente con la politica di Johnson. Gove, infatti, che è un ex suo grande amico, ha già fatto capire a tutti che se Boris verrà eletto primo ministro sarà sua compito perseguitarlo. Se questi sono gli obiettivi dei colleghi del futuro primo ministro non c’è da meravigliarsi che il partito conservatore sia sceso alla soglia del 9% dei voti e non ci si dovrà meravigliare neppure se il popolo britannico continuerà a dimenticarsi di lui. Il nome del vincitore si conoscerà soltanto dopo il 22 luglio, quando i 140 mila (alcuni giornali dicono 160 mila) iscritti al partito conservatore avranno votato. Gli osservatori puntano su Boris Johnson, ex sindaco di Londra, ex ministro del Esteri, tra i maggiori oppositori di Theresa May, uno dei personaggi più controversi della politica inglese. Chi lo ammira, apprezza il suo humour dissacrante, il suo carisma e le sue conoscenze ottenute anche studiando nelle migliori scuole dei Regno Unito. Chi lo disprezza, condanna le sue gaffe, il suo atteggiamento elitario, i suoi commenti razzisti e le sue bugie, come quando, durante la campagna elettorale del 2016 ha ripetuto che il Regno Unito inviava ogni settimana all’Unione europea 350 milioni di sterline, un’affermazione falsa per la quale è stato costretto a presentarsi in tribunale con l’accusa di cattiva condotta. Ma per molti ammiratori queste tendenze negative sono bazzecole, se continuano a votarlo, come lo ha votato fino ad ora anche la maggioranza dei parlamentari del suo partito. Non si lasciano impressionare nemmeno dalla notizia circolata sabato, di suoi vicini di casa che hanno chiamato la polizia perché sentivano urla provenire dal suo appartamento e rumore di stoviglie rotte. Un candidato alla guida del governo che malmena la donna con la quale convive non è una notizia di tutti i giorni, così come non è normale che lo stesso candidato non faccia sapere quanti figli ha. Quattro sono nati dal primo matrimonio, ma ne circolano altri due, non confermati dall’interessato, che si giustifica con il diritto alla privacy, nati al di fuori del matrimonio. Diciamo che è un personaggio un po’ chiacchierato, insomma! Nato a New York nel giugno del 1964 da genitori inglesi, trascorre l’infanzia negli Usa e si trasferisce in seguito, prima a Bruxelles e poi in Inghilterra a Eton, uno dei college più rinomati al mondo, frequentato anche dai membri della famiglia reale e dall’aristocrazia. Si laurea a Oxford e inizia a lavorare al Times. Fu licenziato nel 1988 perché redasse una notizia scorretta e assunto al Daily Telegraph, divenendone corrispondente da Bruxelles, dove si face notare per i suoi articoli fortemente euroscettici e critici nei confronti dell’allora presidente della Commissione europea Jacques Delors. Iniziò la carriera politica nel 2001, nel 2008 divenne sindaco di Londra e nel 2016 ministro degli Esteri tra le perplessità degli osservatori e degli stessi suoi colleghi di partito. Si è dimesso nel 2018 in segno di protesta contro il piano della Brexit presentato da Theresa May. Da allora è diventato uno degli esponenti più accaniti della hard Brexit, continuando ad attaccare le premier e collezionando figuracce. L’ultima si riferisce a qualche giorno fa, quando su internet è circolata la foto della sua automobile piena di cartoni di cibo vuoti, abiti sporchi, briciole di cibo e fogli sparsi. Ciò nonostante, nelle votazioni per la leadership ha sempre avuto la maggioranza dei voti rispetto ai suoi colleghi, non chiacchierati, senza scandali.

    Il secondo candidato, Jeremy Hunt, attuale ministro degli Affari Esteri, che ha sostituito il dimissionario Boris Johnson, è nato nel 1966. Sa parlare giapponese, ha una moglie cinese di dieci anni più giovane, una laurea a Oxford e prima di entrare in politica, nel 2005, ha fatto l’imprenditore e l’insegnante di lingua inglese all’estero. Nel 2001 venne nominato ministro della Cultura, dello Sport e dei Media, dopo essere stato ministro ombra per la disabilità. Divenne famoso tra gli sportivi perché raddoppiò il budget per la Olimpiadi di Londra del 2012, passando da 40 a 81 milioni di sterline. Nel settembre dello stesso anno venne nominato ministro della Sanità e rimase in carica fino al 2018, quando successe a Johnson agli Esteri. Non ha mai avuto grandi scandali, ma nel 2009 fu costretto restituire 9500 sterline dopo essere stato accusato di aver violato alcune norme sulle spese e i fondi dei politici. Fu in seguito coinvolto nell’inchiesta sulle pratiche scorrette adottate da alcuni media, per i suoi contatti troppo ravvicinati con la famiglia Murdoch. Infine venne molto criticato quando disse che i turni serali e di sabato dei giovani medici non sarebbero più stati considerati straordinari. E i medici scioperarono contro questa decisione. Hunt è considerato più moderato di Johnson, ma ha avuto una espressione molto infelice quando ha dichiarato che l’UE ha adottato tattiche simili a quelle della Russia sovietica durante i negoziati sulla Brexit. Molti politici si sono infuriati e Hunt fu costretto a ritrattare e a scusarsi. Vorrebbe una soft Brexit, ma importante per lui sarebbe il raggiungimento di un buon accordo, piuttosto che uscire il prima possibile, come invece vorrebbe Johnson, che si dice pronto a un no deal. Sarà che la politica europea è un po’ in crisi dappertutto, sarà che anche la democrazia britannica, madre di tutte le democrazie dopo la Grecia, è in crisi, sarà che l’attualità non offre più leader “come quelli di una volta”, sarà come voi giudicate i politici di oggi, ma a noi sembra che le due candidature suscettibili di offrire una leadership al Regno Unito siano molto al di sotto di ciò che il Regno Unito meriterebbe per il contributo da lui offerto alla civiltà occidentale. Ma forse ciò si spiega anche con il declino di quest’ultima.

  • Le prime nomine al Parlamento europeo

    Le riunioni dei nuovi gruppi politici eletti al Parlamento europeo cominciano a dare  i primi frutti. Quello che era il gruppo liberale ALDE, ora trasformatosi in gruppo “Renew Europe” con l’arrivo dei macroniani francesi, ha eletto il suo nuovo presidente nella persona del rumeno Dacian Ciolos, già premier a Bucarest e commissario europeo all’agricoltura. La sua nomina ha però diviso il gruppo. Da un lato i suoi sostenitori, tra cui Macron, dall’altro tutti coloro che non dimenticano le sue vecchie posizioni del 2016 contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso e a sostegno della famiglia tradizionale. I malumori riguardanti la nomina del rumeno si concentrerebbero soprattutto nell’ala più legata ai valori liberali dell’ex ALDE, che avrebbero preferito la nomina dello svedese Frederick Federley o dell’olandese Sophie in’t Veld. Che la preferenza per la famiglia tradizionale rappresenti un discrimine, e sostanzialmente un ostacolo per la nomina a responsabilità politiche europee, la dice lunga sulla deriva culturale a cui si è giunti in Europa e addirittura in seno ad un gruppo politico detto liberale fino a ieri, se i suoi dirigenti non possono essere liberi di pensarla come vogliono a proposito di famiglia. Oggi quell’aggettivo qualificativo è stato tolto dalla denominazione del gruppo, pare per decisione di Macron, ma quell’eliminazione potrebbe voler dire “o la pensate così, o potete rinunciare a stare con noi”. Con buona pace della libertà di pensiero!

    Anche il gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, secondo gruppo con 153 seggi, ha un nuovo presidente. Si tratta dell’eurodeputata spagnola Iratxe Garcia Perez, che dirigerà il gruppo S&D nella prossima legislatura. E’ la seconda donna a presiederlo in 20 anni, dopo l’ex eurodeputata Pauline Green. E’ stata eletta per acclamazione su proposta del capo delegazione italiano David Sassoli. “Siamo tutti d’accordo – ha dichiarato la nuova presidente  nel suo discorso inaugurale – che dobbiamo fornire ai cittadini risposte solide e innovative in questo momento cruciale per il progetto europeo e per la nostra famiglia politica, la socialdemocrazia europea”. Per la nuova eletta, l’Europa deve riacquistare la sua anima sociale e porre le persone e la lotta contro le disuguaglianze al centro della sua azione politica, “basata su standard sociali che ci portano avanti. Siamo in grado di guidare i cambiamenti necessari – ha continuato la Garcia Perez – per continuare a servire i nostri cittadini, garantire standard sociali equi, guidare la lotta contro il cambiamento climatico, migliorare i diritti del lavoro in un’economia sostenibile e essere un faro di libertà e democrazia nel mondo”.

    Ieri sera intanto, Boris Johnson, favorito nella corsa per diventare premier britannico e leader del partito conservatore, ha partecipato per la prima volta ad un dibattito con i suoi quattro contendenti conservatori. L’ex sindaco di Londra, in grande vantaggio nelle “primarie” dei Tory, non ha commesso gaffe, come gli succede spesso, ma nello stesso tempo non ha brillato per le sue idee e per le convinzioni espresse. L’ultima trovata di Johnson è che l’accordo sulla Brexit di Theresa May con l’UE (respinto per ben tre volte dal Parlamento) in realtà, secondo lui, può essere rinegoziato spostando le discussioni sull’annoso confine irlandese nel periodo di transizione, cioè nelle trattative sulle future relazioni che si dovrebbero tenere dopo l’uscita di Londra dall’UE. Forse Johnson dimentica, o fa finta di dimenticare, che Bruxelles e i 27 Paesi membri dell’UE, non accetteranno mai questo punto, come hanno già detto e fatto capire molte volte in passato. Il futuro dell’Irlanda va negoziato prima, non dopo. Secondo Johnson, poi, c’è un margine di manovra con l’UE prima del 31ottobre, la nuova data limite della Brexit. Ma anche questo è un wishful thinking: pare davvero improbabile che dopo due anni di trattative a vuoto, ora improvvisamente si trovi una soluzione, soprattutto con un euroscettico come Johnson, soluzione mai trovata con una May abbastanza moderata. Tutti pensano però che la sua strategia porti ad un’uscita no deal, con tutte le conseguenze che si temono, soprattutto sull’economia e sul confine irlandese. Il dibattito non è stato chiaro e non ha presentato proposte di soluzioni convincenti, diverse da quelle conosciute all’epoca della May. Pare insomma che i politici conservatori non abbiano fatto una gran bella figura. La novità è rappresentata da Rory Stewart, il più europeista di tutti, che al secondo turno a Westminster è balzato al quarto posto con 37 voti, dietro ai 41 di Gove, ai 46 di Hunt e agli inarrivabili 126 di Johnson. Stewart è però sembrato un candidato che difficilmente arriverà in fondo. Johnson insomma pare non avere rivali e ciò per il futuro del Regno Unito e dell’Europa potrebbe essere una cattiva notizia: con lui il NO DEAL è sempre più probabile.

  • Scarseggiano i leader e la politica è in declino

    Era Macron che si lamentava recentemente della scarsezza di leader in Europa, tanto da creare difficoltà a scegliere candidati per le nomine alle istituzioni europee. Quelli di cui si parla non sarebbero all’altezza e non avrebbero quella caratura d’esperienza e di preparazione che sarebbero necessarie per gestire la politica europea in un mondo globalizzato ed in continuo movimento. Forse la preoccupazione di Macron è eccessiva, forse si manifesta solo perché i candidati di cui si conosce il nome, come quello di Manfred Weber, non sono uomini a lui vicino. Il fatto è che si semina sfiducia nei confronti dei leader che sono su piazza e che potrebbero assolvere degnamente le funzioni richieste per la guida delle istituzioni europee dopo le elezioni del 26 maggio. Se l’Unione europea si trova in questa situazione – secondo Macron – altrettanto si potrebbe dire del Regno Unito, che da tre anni a questa parte ci offre un quadro non certamente idilliaco delle sue leadership: David Cameron nel 2016 con il referendum, perso, sulla Brexit, Theresa May, che lo ha sostituito, senza riuscire a portare a termine l’uscita del Regno Unito dalla Unione europea, Jeremy Corbyn, il capo dei Laburisti e dell’opposizione, che con le sue ambiguità non ha minimamente contribuito a risolvere la stasi della politica britannica e la confusione del Parlamento, incapace fino ad ora di darsi una maggioranza in grado di risolvere la Brexit. Crisi della democrazia britannica – si è detto. Può darsi, ma la democrazia è retta dagli uomini ed il suo cattivo funzionamento dipende dalla incapacità dei politici di governarla. Non è un buon segno, e i mali britannici non possono scagionare o legittimare quelli europei. In questo caso, mal comune non è mezzo gaudio, ma tristezza e afflizione unica, tanto più che – come nel caso del Regno Unito – i rimedi, vale a dire i probabili successori, si presentano enormemente peggiori dei mali che abbiamo conosciuto. Possibile sostituto della May alla presidenza del partito conservatore, e quindi capo del governo, potrebbe essere Boris Jonhson, già sindaco di Londra e ministro degli  Affari Esteri, molto discusso per i suoi atteggiamenti da bohemien e per le sue uscite poco ortodosse. Basterebbe la sua capigliatura a porre degli interrogativi, o la sua ultima uscita sulla Brexit, da fare subito, anche senza accordo e senza pagare i contributi dovuti al bilancio dell’UE. Come prossimo Primo ministro che non rispetta i patti non lo si può certo paragonare ad un leader responsabile ed accorto. Più che una politica in declino, la sua sarebbe certamente una politica sbagliata. Non parliamo poi di Corbyn, che, come suo padre, è sempre stato dalla parte sbagliata della storia. Le sue ambiguità sulla Brexit non sono niente rispetto alle sue scelte e alla sue preferenze politiche. E’ un comunista. E’ stato staliniano e si è circondato di nostalgici dell’Unione sovietica. Nelle elezioni del 2017 il partito comunista britannico non ha presentato nessun candidato, dichiarando che Corbyn era il loro uomo. Il 6 giugno, anniversario del “D day” e dello sbarco degli alleati anglo-americani in Normandia è considerato da Corbyn e dai suoi stretti collaboratori nostalgici, come è stato annunciato da un tweet della scorsa settimana del ministero degli Esteri russo: “Lo sbarco degli Alleati in Normandia non ha cambiato il corso della Seconda guerra mondiale. L’esito è stato determinato dalla vittoria dell’Armata rossa”. Accettare questa linea significa non riconoscere il destino diverso delle due Germanie e pensare che quella dell’Est, sotto il controllo militare sovietico, che ha subito per oltre mezzo secolo la dittatura e la repressione con l’egemonia della polizia politica, sia stata la migliore. Non a caso Corbyn le sue vacanze le trascorreva nella parte più illiberale della Germania, sotto il controllo apparentemente benigno dell’onnipresente polizia segreta, la Stasi. Che Corbyn credesse al comunismo sovietico, che migliaia di cittadini britannici considerassero l’URSS il paradiso dei lavoratori, non ci meraviglia più di tanto, dopo la lettura de “La trahison des clercs” di Julien Benda. Ma ciò che meraviglia, ciò che impressiona in modo macabro, è che uno di questi clerici, fanatico ed attempato stalinista, fervente antisemita ancora oggi, abbia delle possibilità di diventare il prossimo leader della Gran Bretagna, dentro o fuori l’UE, come si vedrà. Altro che declino della politica. Sarebbe il suo totale fallimento. Ciò nonostante, non crediamo che l’Europa si trovi di fronte a questa lugubre sorte.

    PS – I dati su Corbyn li abbiamo ricavati da un articolo del “Sunday Times” del 6 giugno, ripreso da “Il Foglio” del 17 giugno.

  • Le dimissioni di Theresa May

    Come annunciato da lei stessa lo scorso 24 maggio, il 7 giugno Theresa May ha rassegnato le dimissioni da leader dei Conservatori inglesi, in una lettera consegnata ai notabili del suo partito. Si è aperta così la corsa alla sua successione, che non sarà facile e tanto meno senza scosse, in un partito dilaniato dalle divisioni sulla Brexit e dalla cocente sconfitta subita nel corso delle elezioni europee, passando dal primo posto ottenuto nelle elezioni politiche del 2017 con il 42,3% dei voti, al quinto posto con il 9,1%. Una sconfitta che lascerà segni incancellabili per molto tempo e che potrà mutare i tradizionali rapporti di forza tra i partiti inglesi, creando instabilità e incertezze a non finire. I candidati alla successione sono circa una decina, il più quotato dei quali, per ora, sarebbe l’ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri Boris Johnson, noto come anti UE e sostenitore della Brexit. La sua corsa alla successione incontrerà difficoltà nelle candidature degli attuali ministro dell’Ambiente, Michael Gove e ministro degli Esteri Jeremy Hunt, entrambi più inclini ad un compromesso per evitare una traumatica uscita no deal e per trovare un accordo. Si ripropone, in altri termini, la stessa situazione sulla quale Theresa May andò a sbattere, proprio perché una parte del suo partito, quella rappresentata dai vari Johnson, non accettò mai l’accordo che essa raggiunse con i leader dell’UE. Da qui la paralisi parlamentare che non riuscì a, o non volle mai, esprimere una maggioranza che permettesse di uscire dallo stallo politicamente malsano in cui si era cacciato in opposizione alla May. Anche ora, temiamo, i numeri parlamentari parlano chiaro e non cambieranno: il nuovo leader non avrà in parlamento una maggioranza conservatrice e dovrà trovare alleati al di fuori del suo partito. Anche la May li aveva cercati tra i Laburisti, ma i negoziati con Corbyn non hanno dato frutti. I Laburisti cercano in primis di giungere alle elezioni politiche anticipate, traguardo respinto dai Conservatori, che firmerebbero così il loro atto di morte. Sembrava che l’ostacolo maggiore per smuovere la politica inglese dallo stallo in cui si era cacciata fosse rappresentato dal personaggio della May. Si ha ora la riprova che l’ostacolo principale è sempre la soluzione da dare alla questione Brexit, vale a dire: uscita con o senza accordo. A meno che non si ritorni – ma l’ipotesi sembra da escludere – ad un secondo referendum, dato che le elezioni europee avrebbero permesso di esprimere una maggioranza anti Brexit. Nel frattempo il partito di Nigel Farage, pro Brexit, raccoglie consensi anche in elezioni suppletive, come quelle di Peterborough, nelle Midlands orientali e pretende di essere ammesso al tavolo dei negoziati con l’Europa. Il 22 luglio, data prevista per la fine della procedura in seno ai Tory per la scelta del nuovo leader, sapremo chi sarà il successore della May e come potrebbe orientarsi la ripresa dei negoziati con l’UE. Dopo Cameron, dimessosi in seguito al risultato del referendum del 2016, la vittima più illustre della Brexit è stata la May, coerente fino in fondo per rispettare la volontà espressa dal popolo inglese, sia pure a lieve maggioranza, per uscire dall’Europa, una coerenza che è stata maldestramente confusa con la testardaggine, ma che in realtà è stata un pretesto per combatterla da una parte importante del suo partito, che non ha mai accettato fino in fondo di essere guidata dalla figlia di un pastore di umili origini e proveniente dalla campagna. I lombi dei Tory sono sempre stati più nobili, ma anche per essi è giunto il momento di ricredersi. Se non lo faranno loro ci penseranno gli elettori a ricordarglielo. La May se ne va dopo aver raggiunto un primato: la disoccupazione, con lei al governo, ha raggiunto un minimo storico, al di sotto del 4%. Avessimo questo dato in Italia!

     

  • Lo sbarco in Normandia di 75 anni fa

    Il 6 giugno ricorreva il settantacinquesimo anniversario dello sbarco degli Alleati in Normandia, il leggendario e storico D-day. A Portsmouth, nel sud del Regno Unito, c’era tutto l’Occidente per i festeggiamenti.  Ed accanto ai leader politici c’era una rappresentanza  degli  ultimi veterani rimasti di quel fatidico giorno, tutti ultranovantenni con negli occhi e nel cuore le immagini della più grande operazione di sbarco della storia, iniziata alle 6.30 del mattino del 6 giugno 1944. Nel primo giorno i caduti  furono 4.400 e quasi 8.000 i feriti  fra le forze alleate. Per i tedeschi la stima è di 4-9mila vittime, fra morti e feriti. Fino all’arrivo in agosto dei liberatori a Parigi vi furono 70mila morti fra gli alleati e 200mila fra i tedeschi. In Normandia i combattimenti dello sbarco causarono 20mila morti fra i civili. Nell’operazione gli alleati impegnarono 150mila soldati: americani, britannici, canadesi, francesi e polacchi. Per lo sbarco furono impiegati 3.100 mezzi, provenienti da 1200 navi da guerra. Nel D-day furono anche impiegati 7.500 aerei. I tedeschi  erano dislocati sulle coste della Normandia con 50mila fanti della marina e pochi aerei. Essi erano convinti che lo sbarco sarebbe avvenuto a Calais dove avevano concentrato il grosso delle loro forze.

    “Non dobbiamo dimenticare” – ripetevano i veterani e la regina Elisabetta, anch’essa ultranovantenne, ha detto: “Con umiltà e piacere, dico a nome di tutto il Paese, anzi a nome di tutto il mondo libero: grazie!”. Trump, il leader del mondo libero, ha letto la preghiera rivolta nel 1944 dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt ai soldati in partenza. Era il mondo libero riunito contro il nazionalsocialismo. Era una alleanza che dopo la guerra riunì anche la Germania e l’Italia per la difesa e la sicurezza dell’Occidente, contro un’altra terribile dittatura che era rappresentata da Stalin e dal mondo sovietico, al quale si unì quella cinese con Mao Tse.Tung. A Portsmouth c’erano gli eredi politici e militari di quell’avvenimento, che è stato l’espressione di una volontà comune contro la barbarie della dittatura e dei campi di concentramento, che annientavano gli ebrei e gli avversari del regime nazionalsocialista. Era, doveva essere, un giorno di festa. Ma c’era amarezza nell’aria. Era una festa che strideva con quanto era accaduto nei due giorni precedenti a Londra, in occasione della visita ufficiale del presidente americano. Scanzonato e senza tener conto degli elementari principi della diplomazia, ha invitato gli inglesi ad abbandonare senza accordo (no deal) l’Unione europea e offrendo un ipotetico e ottimistico avvenire commerciale al Regno Unito, mettendo zizzania non solo tra le forze politiche britanniche, che con la zizzania convivono da tre anni, ma anche tra i membri e le istituzioni dell’Unione europea, che di zizzania ne divora a josa, da quando ha a che fare con i populismi sovranisti. Seminar zizzania alla vigilia dei festeggiamenti del D day è un modo, non tanto indiretto, di venir meno al riconoscimento della positività rappresentata dal governo americano nell’impegnarsi in una guerra e in un sbarco costato moltissime vite di giovani americani per liberare l’Europa dal giogo nazionalsocialista. Non è tempo di zizzania tra gli Stati Uniti e l’Europa. Libero Trump di sentirsi solo presidente americano e non leader del mondo libero, come lo sono stati i presidenti americani dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Il “First America” non dovrebbe diventare anche “Indietro Europa”. Qual è il vantaggio che gli Usa potrebbero ricavare dall’inimicarsi gli europei? La solitudine nel mondo di oggi non gioverebbe nemmeno agli Stati Uniti, come non giova all’Europea e, ancor meno, all’Italia. Nessuno può impedire agli Usa di giocare da soli nel mondo globalizzato. Ci sembra, però, inspiegabile un atteggiamento non amichevole nei confronti dell’Europa. Se tale atteggiamento fosse stato assunto anche negli anni quaranta, non ci sarebbe stato un “D day” e la storia avrebbe preso un’altra piega, certamente meno felice per i popoli europei e meno profittevole e gloriosa per il popolo americano. In fin dei conti, per Trump, essere solo presidente degli Usa e non dell’Occidente, significa una diminutio  che i suoi predecessori non hanno conosciuto. Lasciare che l’Europa se la sbrighi da sola in fatto di difesa e sicurezza è una visione “trumpiana” che non giova a una geopolitica ragionevole e affidabile. Che l’Europa si dia una difesa comune è un’esigenza avvertita ormai da molti leader politici. Ma un conto è provvedere a questo compito, nel quadro delle tradizionali alleanze politiche e militari, e un conto è sentirselo gridare scompostamente dal capo di quella che fino ad ora è ancora una alleanza militare. Questa alleanza è l’Occidente. I tempi cambiano, è vero! Ma la sicurezza è un’esigenza che si manifesta anche nei cambiamenti, i quali più sono razionalmente condotti, più offriranno giovamento agli attori che ne sono i protagonisti.

    Il 6 giugno 1944 è lontano, quel mondo non c’è più. Facciamo in modo che quello di oggi non diventi peggiore di quello d’allora e garantisca uno sviluppo democratico adatto ai tempi nuovi e alle nuove esigenze di sicurezza.

  • Theresa May si dimetterà il 7 giugno

    Dopo mesi di tira e molla, dopo numerosi tentativi da parte del suo partito di farla dimettere, dopo le innumerevoli richieste d’abbandonare il governo da parte dell’opposizione laburista, dopo i velenosi articoli della stampa contro la sua testardaggine a non voler rinunciare al governo, dopo innumerevoli dichiarazioni ostili nei suoi confronti e altrettanti ripensamenti, dopo le numerose dimissioni di ministri contrari alla sua linea politica ed all’accordo stabilito con l’UE, dopo le tre votazioni contrarie del parlamento sul compromesso stabilito con l’UE per evitare il no deal, Theresa May ha annunciato stamattina che si dimetterà il 7 giugno, a causa del fallimento di tutti i suoi tentativi di far passare l’accordo per l’uscita del RU dall’Unione europea. Era dunque una dimissione attesa, che però in queste ultime settimane era stata smentita più volte. Lei stessa aveva dichiarato che se ne sarebbe andata se fosse stato accettato l’accordo sull’uscita da lei concordato con l’UE. Ora se ne va, proprio perché l’accordo non è stato accettato dalla maggioranza del parlamento e da una larga parte di deputati del suo partito. Nel discorso in cui ha annunciato le sue dimissioni ha espresso un grande rimpianto per non essere riuscita a portare Brexit a compimento e ha ricordato che durante la sua permanenza al governo, dopo le dimissioni di Cameron, il deficit e la disoccupazione sono stati ridotti e che ha fatto tutto quanto era possibile per convincere, senza riuscirci, i parlamentari a trovare un accordo. Nel ringraziare per l’onore avuto nel guidare il governo, la voce le si è rotta in gola e certamente l’emozione le ha impedito di proseguire. Se n’è tornata rapidamente nella sua residenza, al 10 di Downing Street. Non ha avuto vita facile a questo indirizzo, con il parlamento sempre contro e con una buona parte dei suoi colleghi di partito che non hanno condiviso le sue scelte politiche. Un accordo con la dirigenza dell’UE lei, comunque, era riuscito ad ottenerlo, mentre il parlamento, nel respingere a maggioranza le sue proposte, non è mai stato in grado di proporre scelte alternative, diviso com’è sulla questione Brexit e all’interno degli stessi partiti ora maggioritari, i Conservatori e i Laburisti. Non conosciamo ancora, mentre scriviamo questa nota, l’esito del voto europeo che nel Regno Unito ha avuto luogo ieri, ma se le previsioni della vigilia si avvereranno, questi due partiti saranno probabilmente penalizzati dagli elettori. Se lo saranno meritato questo trattamento. Le loro divisioni interne li hanno indeboliti e resi incapaci di esprimere maggioranze, con conseguenze che riguardano tanto il futuro del RU, quanto quello dell’UE. Uscire dall’Europa senza un accordo sul dopo significa per la Gran Bretagna affrontare un futuro incerto e pieno di sfide, significa però, anche, una ulteriore debolezza per l’affermazione di una politica estera europea, oltre che ulteriori difficoltà per l’economia dell’UE. I tentativi della May, detti testardi dai suoi detrattori, per uscire con regole definite per il dopo, sono stati apprezzabili, sono stati uno sforzo encomiabile per evitare il caos. La “testardaggine” è stata l’ultima barriera contro la confusione e il disordine. Soltanto a Brexit conclusa si potrà valutare con obiettività il percorso del governo May su questo tema e giudicare serenamente la qualità del lavoro del Primo ministro per evitare il peggio e per mantener fede al risultato del referendum del 2016. La May s’è presa tutta la responsabilità del suo operato. Si può dire altrettanto del parlamento, che non ha fatto nessuna scelta? O del capo dell’opposizione, Corbyn, che ha sempre detto di no, senza mai proporre alternative, se non richiedere le dimissioni del Primo ministro e nuove elezioni politiche? Dov’erano le soluzioni per la Brexit in questi atteggiamenti? A urne chiuse, ciascuno trarrà le conclusioni che gli convengono, ma ridurre il tutto alla “testardaggine” della May ci sembra una scorciatoia impraticabile che non porta da nessuna parte. Con le dimissioni della May i problemi rimangono e la loro soluzione sarà affidata ai nuovi dirigenti che prenderanno il suo posto e che dovranno rispondere alle stesse domande: accordo o non accordo? Uscita dura o morbida? La responsabilità della May aveva scelto un accordo per un’uscita morbida. Vedremo che faranno i suoi successori.

  • Brexit: dimissioni della May?

    Oggi si vota nel Regno Unito per il Parlamento europeo. In  Italia voteremo domenica 26 maggio. E a Londra, anziché parlare di candidati da eleggere, si parla della Primo ministro Theresa May che, a detta di molti, dovrebbe dimettersi per non essere riuscita a presentare proposte sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea accettabili da una maggioranza di parlamentari. Per ben tre volte il Parlamento ha respinto il suo accordo con l’UE. Anche il tentativo di trovare un’intesa con i Laburisti, dopo sei settimane di negoziati, non è andato in porto. Jeremy Corbyn, il leader dei Laburisti, ha comunicato in una lettera l’impossibilità per il suo partito di accettare i compromessi offerti dalla May, soprattutto quelli legati all’Unione doganale: i Laburisti vorrebbero rimanerci, mentre la May sarebbe di parere contrario. Mercoledì 22 maggio, la May ha presentato una nuova versione dell’accordo, da sottoporre al Parlamento. Per lei e per la maggioranza dei Tory un’uscita senza accordo sarebbe una catastrofe da scongiurare. Nel caso di un ulteriore rifiuto da parte del Parlamento, come è prevedibile, la May dovrebbe lasciare il premierato e nello stesso tempo la presidenza del partito conservatore (nel sistema britannico le due funzioni sono unificate). A chiederlo è anche una buona parte del suo partito, che si dà da fare, senza per ora aver trovato una soluzione, per organizzare una sfiducia alla sua presidenza. I più attivi in questo genere d’esercizio sono l’ex ministro degli esteri e ex sindaco di Londra Boris Johnson e Andrea Leadsom, leader della Camera dei Comuni e ministra del governo che si occupava dei lavori parlamentari, dimessasi ieri in aperta polemica con la May. La situazione, quindi, è molto intricata e diversi  giornali britannici affermano che May si è rifiutata, nelle ultime ore, di incontrare alcuni dei suoi ministri, isolandosi con i suoi collaboratori per trovare una strategia tendente a superare questi giorni difficili. Ma il voto di oggi indebolirà ulteriormente la May, poiché i Conservatori otterranno probabilmente il peggior risultato della loro storia, finendo per essere il quinto partito per voti ricevuti. Anche i Laburisti sono in difficoltà nei sondaggi e hanno già detto che non voteranno nemmeno l’ultima versione ammorbidita dell’accordo su Brexit della May, condannandolo già, di fatto, a una bocciatura in Parlamento. Se l’opposizione laburista non risulterà beneficiata dal voto di oggi, chi al suo posto trarrà vantaggio dalla sconfitta dei Conservatori? I sondaggi prevedono un exploit di Nigel Farage, leader del Brexit Party, con una previsione che arriva al 37% , mentre i Conservatori sono dati al 12%. Una vera catastrofe. A far fronte agli antieuropei rimarrebbe il partito dei Lib-dems di Vince Cable, sostenuto anche da vecchie personalità europeiste che ritengono il suo partito come l’unico vero ostacolo alla Brexit. I numeri dei sondaggi però non lasciano sperare in una affermazione tale da permettere un’inversione di tendenza alla Brexit. Occorrerebbe un secondo referendum per annullare il primo, ma nonostante siano diverse le voci che l’hanno auspicato, non si può prevedere quando e come potrebbe aver luogo. Un’uscita dall’UE senza accordo è incombente, come non è da scartare l’ipotesi di elezioni interne anticipate con le eventuali dimissioni della May. Situazione difficile ed intricata, dicevamo. “Il Foglio” afferma che sembra avverarsi la profezia dell’ex premier Tony Blair, il quale dichiarava che l’uscita senza accordo della Gran Bretagna darà vita “a una rivoluzione silenziosa, spazzando via sia i conservatori che i laburisti”. IL no deal non c’è ancora stato, ma gli effetti politici sono quelli descritti da Blair. Paradossalmente le elezioni europee di oggi si sono trasformate in una riedizione del referendum del 2016, con due blocchi contrapposti, uno di fronte all’altro, distanziati da pochi punti percentuali. Il bipolarismo Conservatori – Laburisti si è trasformato in proBrexit – noBrexit, cioè in “sì all’Europa”- “no all’Europa”. Non c’è che dire. La rivoluzione silenziosa di Blair si sta avverando e l’unificazione europea rappresenta l’oggetto del contendere. Non più valori tradizionali (Corona, impero, City finanziaria) da conservare, contro il socialismo democratico detto laburismo, ma necessità di “stare insieme” nell’UE, contro l’isolamento e il sovranismo solitario. In altri termini: sovranismo europeo contro la globalizzazione senza regole. Saremo forti se uniti contro le sue sfide, o saremo deboli se rimaniamo soli. Sapremo domani l’esito del voto e potremmo dedurne ipotesi per la sorte della Brexit e della May.

  • A che punto è la Brexit?

    I negoziati tra Conservatori e Laburisti continuano. Dopo i primi incontri, avvenuti in un clima di collaborazione e di fiducia, nessun passo avanti concreto era stato fatto. Sembrava che le cose andassero per le lunghe e il timore di avvicinarsi alla scadenza della proroga dell’art.50 senza accordi, impauriva i contrari, politici, imprese, o semplici cittadini, ad un’uscita no deal. Tanto più che la premier Theresa May è nuovamente sotto il tiro del fuoco amico, cioè del suo tesso partito. Dopo aver superato il voto di sfiducia del Parlamento nel dicembre scorso, deve ora affrontare il giudizio dei leader locali del suo partito e di altri membri, in una riunione speciale a margine della Convenzione nazionale dei Conservatori. Il presidente della stessa Convenzione, Andrew Sharpe, ha dichiarato che oltre il 10 per cento dei membri dei partiti locali hanno firmato una petizione che chiede le dimissioni della May, responsabile, secondo loro, della cattiva conduzione della Brexit, facendo finta di dimenticare che il Parlamento stesso è stato incapace, in numerose votazioni, di darsi una maggioranza risolutiva. Questi contestatori vorrebbero rimuoverla dall’incarico ed in più di 70 hanno sottoscritto una petizione nella quale affermano che la signora May “non è la persona giusta per continuare come primo ministro a guidare i negoziati” e quindi chiedono che essa “consideri la sua posizione e si dimetta”.

    Il suo portavoce, tuttavia, cerca di minimizzare, affermando che qualsiasi voto non sarebbe vincolante e che in ogni caso, non c’è nessuna certezza che esso riesca a passare. Se tra i Conservatori si nota sconcerto e disimpegno, non si può dire che tra gli oppositori  Laburisti alberghi un clima di fiducia e di concordia. Il loro leader, Jeremy Corbyn, è sotto pressione, perché il suo no ad un nuovo referendum sulla Brexit, sta inducendo alcuni membri a lasciare il partito. Corbyn infatti ritiene possibile un secondo referendum, ma solo come ultimo tentativo per evitare un no deal. Ma il suo vice, Tom Watson, invece, a nome di una buona parte di militanti e di deputati del partito, sostiene la richiesta di un nuovo voto popolare senza se e senza ma.

    A questo scollamento interno dei due partiti, nelle ultime ore, fa riscontro una buona notizia. Pare, infatti, che le trattative tra Conservatori e Laburisti, stiano facendo passi avanti significativi. Lo riferisce il quotidiano “The Guardian”, citando le dichiarazioni  del “ministro ombra” per l’Ambiente del Labour, Sue Hayman, rese alla chiusura della riunione dei negoziatori, secondo il quale si è tenuta una discussione davvero costruttiva, che è entrata anche nei minimi dettagli, dimostrando che il governo è deciso ad andare avanti. E’ un buon segnale!

  • Japan’s Abe warns says no-deal Brexit must be avoided

    Japan’s Prime Minister Shinzo Abe emphatically came out against a no-deal Brexit while in Brussels to take part in an EU Summit and warned his British counterpart, Theresa May, that the UK’s withdrawal from the European Union without an exit deal in place would have severe consequences for both Europe and the international community.

    Abe added that Japanese firms have traditionally used the UK as a gateway to the EU and a no-deal Brexit would seriously disrupt Japan’s economic interaction the remaining countries of the European Union, as well as Britain if the UK crashes out of the bloc.

    According to Abe, an orderly withdrawal is necessary because Japanese firms have invested heavily into the UK while it remained a member of the EU.

    “For Japan, the UK is the gateway to Europe,” Abe said, “so a smooth Brexit is what we hope for,” he added. Around 1,000 Japanese companies are doing business in Britain, retaining about 140,000 jobs in the country.

    Key Japanese companies like Honda and Nissan are beginning to cut production in the UK while electronics giants Sony and Panasonic are also retreating.

    EU’s chief executive, Jean-Claude Juncker, Abe and EU Council President Donald Tusksaid in a joint statement that they would “work together at the G7 and G20 in support of the rules-based international order, as well as the promotion of free and fair global trade”.

    The EU and Japan are coordinating their positions in view of the G20 summit on 28-29 June in Osaka, where the two sides are going to take stock of the implementation of the EU-Japan Economic Partnership Agreement (EPA) and the EU-Japan Strategic Partnership Agreement (SPA).

    “As decided at the Charlevoix G7 Summit, the Buenos Aires G20 Summit and the Trilateral Meeting of the Trade Ministers of the EU, Japan and the US, we confirm our intention to continue working to advance WTO reform. The EU and Japan will work together to improve the current WTO rules to address global trade challenges, particularly on rule-making in key areas, for a level playing field,”

    Japan and the EU, earlier this year, launched the world’s largest free trade zone, covering more than 630 million people and economies that represent a third of global GDP. “Only two months ago, our bond was further deepened by the EU-Japan Economic Partnership Agreement, the largest trade deal in the world. By implementing it swiftly, we are boosting the prosperity and quality of life of our people. This is a clear message to the world that Japan and Europe stand side by side,” said Tusk.

    Abe and his European counterparts also discussed several of the world’s hot spots, including in Eastern Europe where they voiced full support for Ukraine’s independence, territorial integrity and sovereignty as Kyiv continues to fight a bloody war in its east with Russia and their local separatist allies. The leaders also said that Japan and Europe will work together to lower tensions on the Korean Peninsula while insisting that North Korea needs to concretely engage the outside world when it comes to the questions of full denuclearisation.

    Counter-terrorism, cyber, and maritime security were also high on the list of topics that Abe discussed while in Brussels. “The recent terrorist attacks in Sri Lanka are a reminder that the terrorist threat affects us all. Combatting it together remains a top priority,” reiterated Tusk.

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