Europa

Le dimissioni di Theresa May

La lotta per la successione tra pro Brexit e anti Brexit

Come annunciato da lei stessa lo scorso 24 maggio, il 7 giugno Theresa May ha rassegnato le dimissioni da leader dei Conservatori inglesi, in una lettera consegnata ai notabili del suo partito. Si è aperta così la corsa alla sua successione, che non sarà facile e tanto meno senza scosse, in un partito dilaniato dalle divisioni sulla Brexit e dalla cocente sconfitta subita nel corso delle elezioni europee, passando dal primo posto ottenuto nelle elezioni politiche del 2017 con il 42,3% dei voti, al quinto posto con il 9,1%. Una sconfitta che lascerà segni incancellabili per molto tempo e che potrà mutare i tradizionali rapporti di forza tra i partiti inglesi, creando instabilità e incertezze a non finire. I candidati alla successione sono circa una decina, il più quotato dei quali, per ora, sarebbe l’ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri Boris Johnson, noto come anti UE e sostenitore della Brexit. La sua corsa alla successione incontrerà difficoltà nelle candidature degli attuali ministro dell’Ambiente, Michael Gove e ministro degli Esteri Jeremy Hunt, entrambi più inclini ad un compromesso per evitare una traumatica uscita no deal e per trovare un accordo. Si ripropone, in altri termini, la stessa situazione sulla quale Theresa May andò a sbattere, proprio perché una parte del suo partito, quella rappresentata dai vari Johnson, non accettò mai l’accordo che essa raggiunse con i leader dell’UE. Da qui la paralisi parlamentare che non riuscì a, o non volle mai, esprimere una maggioranza che permettesse di uscire dallo stallo politicamente malsano in cui si era cacciato in opposizione alla May. Anche ora, temiamo, i numeri parlamentari parlano chiaro e non cambieranno: il nuovo leader non avrà in parlamento una maggioranza conservatrice e dovrà trovare alleati al di fuori del suo partito. Anche la May li aveva cercati tra i Laburisti, ma i negoziati con Corbyn non hanno dato frutti. I Laburisti cercano in primis di giungere alle elezioni politiche anticipate, traguardo respinto dai Conservatori, che firmerebbero così il loro atto di morte. Sembrava che l’ostacolo maggiore per smuovere la politica inglese dallo stallo in cui si era cacciata fosse rappresentato dal personaggio della May. Si ha ora la riprova che l’ostacolo principale è sempre la soluzione da dare alla questione Brexit, vale a dire: uscita con o senza accordo. A meno che non si ritorni – ma l’ipotesi sembra da escludere – ad un secondo referendum, dato che le elezioni europee avrebbero permesso di esprimere una maggioranza anti Brexit. Nel frattempo il partito di Nigel Farage, pro Brexit, raccoglie consensi anche in elezioni suppletive, come quelle di Peterborough, nelle Midlands orientali e pretende di essere ammesso al tavolo dei negoziati con l’Europa. Il 22 luglio, data prevista per la fine della procedura in seno ai Tory per la scelta del nuovo leader, sapremo chi sarà il successore della May e come potrebbe orientarsi la ripresa dei negoziati con l’UE. Dopo Cameron, dimessosi in seguito al risultato del referendum del 2016, la vittima più illustre della Brexit è stata la May, coerente fino in fondo per rispettare la volontà espressa dal popolo inglese, sia pure a lieve maggioranza, per uscire dall’Europa, una coerenza che è stata maldestramente confusa con la testardaggine, ma che in realtà è stata un pretesto per combatterla da una parte importante del suo partito, che non ha mai accettato fino in fondo di essere guidata dalla figlia di un pastore di umili origini e proveniente dalla campagna. I lombi dei Tory sono sempre stati più nobili, ma anche per essi è giunto il momento di ricredersi. Se non lo faranno loro ci penseranno gli elettori a ricordarglielo. La May se ne va dopo aver raggiunto un primato: la disoccupazione, con lei al governo, ha raggiunto un minimo storico, al di sotto del 4%. Avessimo questo dato in Italia!

 

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