Petrolio

  • Affonda una petroliera in Tunisia e scatta l’allarme per la possibile marea nera

    Era venerdì 15, di sera. quando la petroliera ‘Xelo’, proveniente dall’Egitto e diretta a Malta, ha chiesto di poter entrare nelle acque territoriali tunisine per trovare riparo dal mare in tempesta. Ma, prima di raggiungere la costa, nelle ultime ore naufragata nel Golfo di Gabes, di fronte alla costa sud-orientale della Tunisia. E lì è affondata, con il suo carico altamente inquinante: 750 tonnellate di gasolio che ora giacciono in fondo al mare. Le autorità affermano che la situazione “è sotto controllo”. Ma finché il relitto e il suo carico non saranno messi in sicurezza tutto può ancora succedere.

    E’ stata la ministra dell’Ambiente, Leila Chikhaoui, ad affermare di non ravvisare al momento pericoli di inquinamento nell’area, situata praticamente al centro del Mediterraneo. “Riteniamo che lo scafo sia ancora a tenuta stagna e che finora non ci siano state perdite”, ha detto in un’intervista all’Afp. Inoltre, secondo il ministro, “il gasolio tende ad evaporare abbastanza velocemente”, anche nel caso in cui affiorasse. Tuttavia, se necessario la Tunisia potrebbe “fare appello agli aiuti internazionali”. E’ stato intanto attivato il piano nazionale di emergenza per la prevenzione dell’inquinamento marino con l’obiettivo di controllare la situazione ed evitare la diffusione di inquinanti”, ha fatto sapere il ministero dell’Ambiente. I ministeri della Difesa, dell’Interno, dei Trasporti e delle Dogane stanno lavorando quindi per evitare “un disastro ambientale nella regione e per limitarne le ripercussioni”, precisa la stessa fonte.

    Le autorità giudiziarie di Gabes, intanto, hanno aperto un’indagine sull’accaduto, prendendo atto di “perdite minime” che, a loro dire, non farebbero “presagire disastri”. Di certo c’è che venerdì sera la petroliera Xelo, lunga 58 metri e larga 9 e battente bandiera della Guinea Equatoriale, si stava dirigendo verso Malta dal porto di Damietta in Egitto. Mentre imperversava il maltempo ha chiesto di poter entrare in acque tunisine ma, a circa 7 km dalla costa, ha iniziato a imbarcare acqua. Poco dopo nella sala macchine ce n’erano due metri. Le autorità tunisine hanno quindi evacuato i sette uomini di equipaggio, un capitano georgiano, quattro turchi e due azeri, portati in salvo prima dell’affondamento, avvenuto all’alba. Trasportati in ospedale per accertamenti, sono poi stati trasferiti in hotel e interrogati sulle cause del naufragio.

    Si attende ora che la furia del mare, dove persistono forti venti e mareggiate, si plachi abbastanza da permettere ai sommozzatori di andare a controllare da vicino le condizioni dello scafo. Poi si deciderà se pompare il carico da lì o avvicinare la nave alla costa. Intanto, a scopo precauzionale, lungo il perimetro del naufragio sono predisposte barriere antinquinamento, sorvegliate dai militari e inaccessibili a chiunque sia estraneo ai soccorsi.

    La regione del Gabes ospita oltre la metà della flotta di pesca tunisina ma negli ultimi anni ha sofferto, secondo diverse ong, di vari episodi di inquinamento, anche per la presenza sulla costa di industrie di lavorazione del fosfato e di un oleodotto che trasporta petrolio dal sud della Tunisia. Intanto, un altro incidente ha coinvolto una petroliera, la ‘Chang Yi’, una petroliera da 9.995 tonnellate immatricolata a Panama, a 300 chilometri dalla costa di Hong Kong. Una esplosione a bordo ha ucciso un uomo dell’equipaggio ferendone altri 6. Ignote le cause del disastro, che ha richiesto l’intervento di un aereo e 2 elicotteri. Nella zona è ormai buio, ed è stato finora impossibile accertare se vi siano o meno perdite di petrolio in mare.

  • Dal Nilo al Ghana, ecco dove l’Eni punta in Africa

    “È il continente in cui abbiamo mosso i primi passi fuori dall’Italia nel 1954 e dove trovano spazio i capisaldi del nostro modello di business”, dice l’Eni della propria presenza in Africa.

    E’ la storia, in effetti, a consentire al Cane a Sei Zampe, che prima del 2014 aveva investito fortemente sulla Russia fra progetti e alleanze fino al fallito gasdotto South Stream con Gazprom, di puntare ora sull’Africa, dove l’AD Claudio Descalzi invita l’Europa a guardare “per più forniture di gas”. Nel 2020 il gruppo era presente in 14 Paesi africani dove dava lavoro a oltre 3.000 persone, dal maxi-giacimento offshore egiziano Zohr, “la più grande scoperta di gas mai realizzata in Egitto e nel Mar Mediterraneo” con 145.000 barili equivalenti al giorno in quota Eni, alla crescente presenza nell’Africa sub-sahariana.

    In Egitto, dove opera dal 1954, Eni trae circa il 17% della sua produzione annuale di idrocarburi, circa 291.000 barili di olio equivalente (boe) al giorno, divisi fra l’offshore del Mediterraneo, il Sinai, numerose concessioni nel Deserto Occidentale e, nel 2020, le esplorazioni nell’onshore del delta del Nilo.

    Presenza storica importante (dal 1959) anche in Libia, (168.000 boe/giorno nel 2020) con attività nell’offshore mediterraneo di fronte a Tripoli e nel deserto libico, nonostante l’escalation militare nel Paese che più che dimezzato i 10 miliardi di capacità del gasdotto GreenStream. Sempre in Africa settentrionale, dal 1981 l’Eni è in Algeria con una produzione di petrolio e gas per 81 mila boe/giorno concentrata nel deserto di Bir Rebaa, e in misura minore in Tunisia (dal 1961), dove nel 2020 la produzione in quota Eni è stata di 8.000 boe/giorno nelle aree desertiche del sud e nell’offshore mediterraneo di fronte a Hammamet.

    Sempre con una presenza che risale indietro agli anni ’60, è la Nigeria il Paese dell’Africa sub-sahariana più rilevante in termini di produzione (131 mila boe/giorno nel 2020) con numerosi contratti di esplorazione/sviluppo e di esplorazione sia onshore che offshore. Seguono il Congo (dal 1968) con 73.000 boe/giorno in quota Eni nell’offshore convenzionale e profondo e nell’onshore, e l’Angola con 123 mila boe/giorno.

    Numeri inferiori a quello del Nord-Africa ma con prospettive di sviluppo promettenti. In Mozambico, ad esempio, dove l’Eni è presente solo dal 2006 con l’acquisizione di un blocco offshore, il Cane a Sei Zampe descrive “straordinarie scoperte di gas” a fronte di “un’intensa campagna esplorativa nell’arco di soli 3 anni” e con risorse accertate per 2.400 miliardi di metri cubi di gas. In Ghana, dal 2009, l’attività è concentrata nell’offshore profondo dove Eni ha concessioni e una licenza esplorativa a Cape Three Points.

  • Eurexit: la Shell rinuncia al nome Royal Dutch e si traferisce a Londra

    Shell rinuncia all’apposizione Royal Dutch e si trasferisce in Gran Bretagna, dove porterà anche la residenza fiscale. Gli azionisti saranno chiamati a dare il via libera all’operazione il 10 dicembre che prevede anche una semplificazione della struttura azionaria, con un’unica linea di azioni. “In un momento di cambiamento senza precedenti per il settore, è ancora più importante avere una maggiore capacità di accelerare la transizione verso un sistema energetico globale a basse emissioni di carbonio. Una struttura più semplice consentirà a Shell di accelerare la realizzazione della sua strategia Powering Progress, creando valore per i nostri azionisti, clienti e società in generale” spiega il presidente di Shell, Sir Andrew Mackenzie ma la decisione ha spiazzato Amsterdam con il governo olandese che si è detto “spiacevolmente sorpreso” dall’annuncio.

    Il colosso petrolifero, una delle cosiddette Sette sorelle, fu costituita nel 1907 dalla fusione dell’olandese Royal dutch petroleum e della britannica Shell transport and trading; a controllarlo erano rimaste due holding distinte che nel 2005 si sono fuse e le azioni erano rimaste divise in due classi, A e B, che rappresentano le vecchie azioni Royal Dutch e Shell. A seguito della semplificazione, spiega il gruppo, gli azionisti continueranno a detenere gli stessi diritti legali, di proprietà, di voto e di distribuzione del capitale in Shell. Le azioni continueranno ad essere quotate ad Amsterdam, Londra e New York (attraverso il programma American Depository Shares), con l’inclusione dell’indice FTSE UK. Si prevede che l’inclusione nell’indice AEX verrà mantenuta.

    Non è però un addio all’Olanda: “Shell è orgogliosa della sua eredità anglo-olandese e continuerà a essere un importante datore di lavoro con una presenza importante nei Paesi Bassi – rassicura il gruppo -. La sua divisione Projects and Technology, le attività globali Upstream e Integrated Gas e il polo delle energie rinnovabili rimangono a L’Aia”. E poi ci sono i progetti eolici al largo delle coste olandesi, il progetto di costruzione di un impianto di biocarburanti a basse emissioni di carbonio su scala mondiale presso l’Energy and Chemicals Park di e del più grande elettrolizzatore d’Europa a Rotterdam.  “La semplificazione – aggiunge Sir Mackenzie – normalizzerà la nostra struttura azionaria sotto le giurisdizioni fiscali e legali di un singolo paese e ci renderà più competitivi. Di conseguenza, Shell sarà in una posizione migliore per cogliere le opportunità e svolgere un ruolo di primo piano nella transizione energetica. Il consiglio di amministrazione di Shell raccomanda all’unanimità agli azionisti di votare a favore della proposta di risoluzione”.

  • Il primo vero fallimento di Biden

    Sono passati poco più di 6 mesi dall’elezione di Biden ed i primi effetti, soprattutto in politica estera, sono già evidenti. L’amministrazione Trump aveva stretto un’alleanza, confortata e rafforzata anche sul piano economico, con i sauditi sunniti contro l’Iran sciita.

    Il primo produttore mondiale di petrolio (Usa), infatti, poteva gestire, o quantomeno fortemente influenzare, il prezzo del petrolio grazie all’appoggio della nazione con le maggiori riserve del mondo (Arabia Saudita) con evidenti ripercussioni positive per la strategia energetica statunitense. La evidente marginalizzazione dell’Opec negli ultimi quattro anni dallo scenario internazionale ne rappresenta la evidente conseguenza.

    La pressione politica statunitense era riuscita addirittura a rompere l’isolamento politico di Israele con l’avvio di accordi e rapporti diplomatici con due stati arabi dando inizio ad un processo di normalizzazione interamente attribuibile alla innovativa ma soprattutto decisa quanto chiara politica estera dell’amministrazione Trump.

    Viceversa, ora, l’allentamento della pressione della amministrazione Biden nei confronti del principale finanziatore dei terroristi di Hamas ed Hezbollah, lo stato dell’Iran, ha riportato indietro di vent’anni la crisi israelo-palestinese, tanto è vero che persino il processo di arricchimento dell’uranio ha ripreso slancio.

    La politica, specialmente quella estera, viene determinata da fatti concreti e da alleanze basate sempre più spesso sulla convenienza immediata e su una prospettiva a medio termine.

    In questo contesto sicuramente i proclami inneggianti ad un pacifismo da operetta lasciano lo spazio adeguato a chi persegue il rilancio delle tensioni politiche internazionali.

    L’escalation del conflitto israelo-palestinese e la sua responsabilità vanno attribuiti in parte al cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’Iran da parte degli Stati Uniti e dall’ultima sua amministrazione appena insediatasi. Una visione geopolitica contestata da chi individua la ragione di questo nuovo conflitto all’interno di logiche inerenti la politica interna israeliana.

    Sfugge evidentemente ai sostenitori di questa “bizzarra teoria” come durante la precedente amministrazione statunitense guidata da Trump Israele avrebbe ancora una volta fatto ricorso alle nuove elezioni anticipate. Viceversa in quest’ultimo caso il lassismo dell’amministrazione Biden verso lo stato iraniano ha permesso ad Hamas di armarsi e di lanciare oltre 3.000 missili. Una strategia di politica estera che ha trovato, come sempre in queste situazioni, anche l’appoggio dell’Unione Europea, da sempre il ventre molle dello scenario internazionale.

    La fragile tregua imposta ai contendenti proprio dalla amministrazione statunitense conferma la precedente insufficiente pressione politica nello scenario medio orientale.

  • Berlino ragiona su un piano B per il gasdotto Nord Stream 2

    Una moratoria, una exit strategy, un piano alternativo, una trattativa internazionale: la Germania, come riferisce un resoconto dell’agenzia di stampa Agi, è alla disperata ricerca di un ‘uovo di colombo’ che le permetta di uscire dal vicolo cieco chiamato Nord Stream 2. Sullo sfondo del braccio di ferro sul mega-gasdotto russo-tedesco la questione sempre più difficile dei rapporti con Mosca, a maggior ragione con il riacuirsi della crisi ucraina, le tensioni intorno al destino di Aleksei Navalny e la non meglio specificata “linea rossa” posta minacciosamente da Vladimir Putin nelle relazioni con l’Occidente. Tensioni che iniziano a fare sempre più breccia a Berlino, nonostante che Angela Merkel abbia finora sempre tenuto duro nel volere difendere la pipeline lunga 1.200 chilometri volta a raddoppiare il flusso di gas naturale dalla Russia alla Germania – in generale dovrebbe portare nell’Unione europea ulteriori 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno – considerandola niente più che un “progetto economico”.  Ma a questo punto nessuno nei palazzi di potere berlinesi esclude che sia necessario trovare un “piano B”, non solo tra i Verdi – da sempre contrari al gasdotto – ma anche tra le fila della Grosse Koalition ancora al governo, ossia Cdu/Csu e Spd. Dove per la prima volta si ragiona apertamente su quali possano essere le opzioni per salvare il salvabile (la costruzione della pipeline è quasi ultimata) e al tempo stesso modificare la natura di Nord Stream, anche alla luce della strenua opposizione di Washington, che – come ribadito in varie occasioni dallo stesso Joe Biden e dal segretario di Stato Tony Blinken – vuole impedire la sua realizzazione “a qualsiasi costo”.

    Pressioni sempre più dure (tanto che qualcuno teme che possano appesantire non poco le relazioni con gli Usa, per l’appunto dopo che si era tanto sperato in uno spettacolare rilancio dopo la difficilissima stagione trumpiana), alle quali si aggiungono anche quelle di diversi Paesi dell’Est europeo nonché’ delle repubbliche baltiche. Idem la Francia, che in varie occasioni si è espressa esplicitamente contro il progetto.  Ecco che d’improvviso a Berlino si cominciano a sentire toni
    nuovi. “La domanda è se il gasdotto venga effettivamente utilizzato, se ci passerà effettivamente del gas, e quanto”, ha detto giorni fa la ministra alla Difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer a un dibattito a Parigi. “Ne stanno già ragionando i giuristi”, ha aggiunto Akk, che pure non vede “molto spazio di manovra” per un vero e proprio blocco dei cantieri. Sono segnali che si moltiplicano. “Il fatto è che per la nostra politica estera il prezzo da pagare rischia di diventare troppo alto”, commenta a microfoni spenti un deputato della Cdu, il partito di Frau Merkel. Così nel partito che fu di Adenauer   di Kohl si fanno più rumorose le voci di chiedere di mettere “nel freezer” il gasdotto. Mentre in casa Spd si inizia a ragionare sul fatto che la realizzazione del progetto potrebbe essere connesso a precise
    richieste di natura politica da rivolgere a Mosca. Alla Welt il parlamentare cristiano-democratico nonché esperto di politica estera Roderich Kiesewetter lo ha detto chiaramente: “Abbiamo bisogno di una soluzione che salvi la faccia a tutte le parti in causa. Potrebbe esserlo una moratoria”. La stessa Kramp-Karrenbauer e altri esponenti della Cdu si erano già d’accordo sulla possibilità di valutare la possibilità di questa ‘moratoria’. Evidentemente, il punto è capire a quali condizioni legare questa sorta di sospensione del progetto. Qualche idea in proposito arriva proprio dai socialdemocratici: “E’ possibile collegare l’attività del gasdotto a determinate condizioni: e’ di questo che dovremmo parlare”, ha affermato per esempio il portavoce della Spd per gli affari esteri al Bundestag, Nils Schmid, che invece è contrario ad un blocco ‘tout court’, troppo difficile adesso è quasi terminato.

    Nondimeno, è un’esternazione significativa, se si considera che la Spd ha sempre difeso a spada tratta il progetto, a cominciare dal leader del partito Norbert Walter-Borjans e dal ministro alle Finanze (nonché candidato cancelliere) Olaf Scholz, senza considerare governatori direttamente interessati per motivi geografici, come Manuela Schwesig in Meclemburgo, terra d’approdo della pipeline. In realtà l’idea della moratoria si potrebbe facilmente coniugare con le condizionalità di principio. A detta della Cdu, sarebbe l’opzione ‘freezer’ già di per sé sarebbe “un segnale” rivolto al governo russo per cui situazioni come l’arresto di Navalny oppure una nuova escalation nell’Ucraina orientale non verrebbero più accettate passivamente. Per la Spd, in più, si tratterebbe di rendere esplicito il meccanismo: se determinate condizioni non saranno rispettate Nord Stream 2 si “spegne” in automatico. Vedi al capitolo diritto internazionale e diritti civili, in particolare. Il problema è che un semplice blocco dei lavori avrebbe un costo esorbitante: oltre 10 miliardi per violazione di contratti in essere e altri in risarcimento danni, dato che quasi il 95% della tubatura sottomarina è terminato. Denaro che peserebbe sulle tasche dei contribuenti tedeschi, il che non è il massimo nell’attuale super-anno elettorale (le urne federali si apriranno il 26 settembre, in mezzo ci sono anche 3 elezioni regionali).

    “Un’alternativa potrebbe essere che il gasdotto venga portato a termine, ma che non si importi il gas russo finché non si siano chiarite le grandi questioni di politica estera ancora aperte”, spiega ancora il cristiano-democratico Kiesewetter alla Welt. Secondo questo schema, anche il tema dei risarcimenti potrebbe risultare contenuto se le motivazioni di un eventuale fermo sono determinate da questioni di diritto internazionale (vedi alla voce sanzioni). Tra i socialdemocratici invece l’altra possibilità della quale si ragiona è esplorare con gli stessi americani “se la politica energetica possa essere utilizzato come strumento di sanzione nei confronti della Russia”, afferma ancora Schmid. “E quali obiettivi si possono perseguire? La liberazione di Navalny? Il ritiro dal Donbass?”. Il punto politico è che per la Germania diventa sempre più complicato gestire la pressione sul caso Nord Stream 2. Se sul fronte interno l’opposizione dei Verdi inizia ad avere un’eco sempre piu’ forte (la candidata alla cancelleria Annalena Baerbock ha ribadito che fosse stato per lei il gasdotto sarebbe una storia già finita, il  martellamento da parte statunitense non conosce cedimenti: per dire, due parlamentari Usa, il repubblicano Michael McCaul e la democratica Marcy Kaptur, hanno scritto al segretario di Stato Blinken una lettera nella quale affermano che la pipeline “permetterebbe a Putin di utilizzare le risorse energetiche russe come un’arma volta ad esercitare pressione politica su tutta l’Europa”. Pertanto, “è necessario assicurarsi che Nord Stream 2 non venga mai terminata”.

  • L’Opec conferma il taglio delle quote di estrazione del petrolio

    L’ Opec+ lascia invariato il taglio delle quote di produzione di petrolio anche per il mese di aprile. La situazione di incertezza del mercato persiste nonostante la campagna vaccinale e gli stimoli dei governi e non consente ancora un aumento produttivo. Una mossa che innesca il rally delle quotazioni del greggio Wti e del Brent con rialzi superiori al 5% fino a sfiorare rispettivamente i 65 e i 67 dollari al barile. Ha vinto la linea del rigore dell’Arabia Saudita al vertice dell’Opec e dei suoi alleati che ha visto ancora una volta muro contro muro i 2 leader, Mosca e Riad. Anche se, per far fronte alle modeste concessioni accordate a Russia e Kazakistan, l’Arabia Saudita si fa nuovamente carico di un sacrificio extra prorogando a tutto il mese prossimo la stretta sulla propria produzione di un milione di barili/giorno.

    “I Ministri hanno approvato il proseguimento dei livelli di produzione di marzo per il mese di aprile, ad eccezione di Russia e Kazakistan, che potranno aumentare la produzione rispettivamente di 130 e 20mila barili al giorno, a causa dei trend stagionali di consumo” recita il comunicato finale spiegando che ” il Meeting ha riconosciuto il recente miglioramento del sentiment del mercato attraverso l’accettazione e il lancio di programmi di vaccinazione e pacchetti di stimoli aggiuntivi nelle economie chiave, ma ha avvertito tutti i paesi partecipanti di rimanere vigili e flessibili date le condizioni di mercato incerte, e di rimanere sulla rotta”.  Il Cartello ha discusso del possibile aumento della produzione di 1,5 milioni di barili al giorno. Ma fin da subito Riad ha invitato alla “cautela” in contrapposizione all’interventismo di Mosca che premeva per un allentamento dei tagli alle quote produttive varati l’anno scorso per scongiurare un accumulo delle scorte e il crollo delle quotazioni di greggio.

    Con la campagna vaccinale anti-Covid e la prospettiva di una ripresa dell’attività economica, il mercato aveva messo in conto un aumento della produzione di almeno 500mila barili al giorno a partire da aprile. E la decisione di oggi fa temere che l’azione dell’Opec possa rivelarsi tardiva rispetto alle reali esigenze del mercato globale. “L’Opec+ rischia decisamente di stringere in modo eccessivo il mercato petrolifero”, ha commentato Amrita Sen, capo analista di Energy Aspects e già si calcola che sul mercato si potrebbe registrare un deficit di offerta di oltre 2 milioni di barili col rischio di impennate delle quotazioni e surriscaldamento dell’inflazione. Negli ultimi tempi il mercato obbligazionario ha già reagito ai segnali di ripresa dell’inflazione e la mossa aggressiva dell’Opec+, con quotazioni del greggio ben oltre i 60 dollari al barile, potrebbe diventare un problema secondo la Federal Reserve e la Bce.

  • Azerbaijan, Armenia reject talks as Karabakh conflict widens

    Armenia and Azerbaijan accused one another on Tuesday of firing directly into each other’s territory and rejected urges to hold peace talks as their conflict over the Nagorno-Karabakh region continued.

    Both countries were part of the Soviet Union and have been involved in a territorial conflict since gaining independence within the 1990s. The main issue is the disputed Nagorno-Karabakh region, internationally recognised as part of Azerbaijan but controlled by ethnic Armenians.

    Armenian Prime Minister Nikol Pashinyan said on Tuesday that the atmosphere was not right for talks with Azerbaijan. Azerbaijan’s president Ilham Aliyev has also rejected any possibility of talks with Armenia.

    On Tuesday, Armenia’s foreign ministry said a civilian was killed in the Armenian town of Vardenis after it was shelled by Azeri artillery and targeted in a drone attack. Azerbaijan’s defence ministry said that from Vardenis the Armenian army had shelled the Dashkesan region inside Azerbaijan. Armenia denied those reports.

    Armenia, which earlier accused Turkey of sending mercenaries to back Azerbaijani forces, said a Turkish fighter jet had shot down one of its warplanes over Armenian airspace, killing the pilot. Turkey has denied the claim.

    On Tuesday, the United Nations’ Security Council expressed concern about the clashes, condemned the use of force and backed a call by UN chief Antonio Guterres for an immediate halt to fighting.

    Nagorno-Karabakh has reported the loss of at least 84 soldiers. The current incident is the most serious spike in hostilities since 2016, the when the nations fought for 4 days in the region. The violence resulted in the deaths of over 90 troops on each side and over a dozen civilians.

  • Black April for black gold, call to turn off the pumps

    On April 21, several ministers of OPEC+ held a teleconference to brainstorm the current dramatic oil market situation, the Organization of Petroleum Exporting Countries said. “They reiterated their commitment to the oil production adjustment reached during that videoconference,” OPEC wrote in a tweet. “They also called on HE (Algerian Energy Minister) Mohamed Arkab to continue holding such consultations on the market situation on regular basis,” they added.

    A day earlier, WTI futures for May delivery dived more than 100% to -$37.63 a barrel. June US crude futures tumbled 18% to $20.43 per barrel. Brent crude oil prices fell 8.9% to settle at $25.57 per barrel. The drop on April 21 for WTI contracted for May basically shows the markets distrust in the historic OPEC+ deal last week to cut production.

    International Energy Agency (IEA) head Fatih Birol has called for deeper oil productions cuts. “We continue to see extraordinary turmoil in oil markets in this ‘Black April’ for the industry. The OPEC+ supply cut is a solid start but insufficient to rebalance the market immediately due to the scale of the drop in demand,” he wrote in a tweet on April 21. He noted that the IEA suggests that those countries that made the recent decisions to reduce production act as soon as possible and also consider deeper cuts.

    Birol also urged the financial authorities to adopt measures to discourage disorderly market outcomes.

    Finally, the IEA suggests that countries with strategic reserves make capacities available to help take surplus barrels off the market.

  • Eni rinnova il proprio sito sul web

    Eni ha reso noto di aver rinnovato il proprio sito web “eni.com” per comunicare le attività del gruppo, il mondo dell’energia e le sfide della transizione energetica.

    Secondo Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, «il nuovo eni.com simboleggia la trasformazione che Eni sta portando avanti, nella quale l’innovazione riveste un ruolo fondamentale. Il nuovo sito vuole costruire un legame di fiducia con i visitatori, raccontando non solo la galassia Eni, ma anche il mondo dell’energia, con le opportunità, le tecnologie, le implicazioni economiche, politiche e sociali intrinseche al cambiamento epocale di questi anni. Il filo conduttore saranno gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Onu per il 2030, sui quali abbiamo costruito la nuova mission di Eni».

    Affiancando l’analisi di temi come la decarbonizzazione e l’economia circolare, al racconto del contributo di Eni per una transizione equa e trattando anche di geopolitica ed innovazione tecnologica, il sito propone sia contenuti proprietari che approfondimenti esterni. Il visitatore può scegliere quali sono i contenuti del sito per lui più rilevanti e organizzare le tematiche secondo i propri interessi, aggiungendo o eliminando i vari canali dinamici dal menù personale. Il sito introduce anche soluzioni avanzate per facilitare la navigazione dei contenuti. Grazie all’intelligenza artificiale, il motore di ricerca del sito è in grado di affinare la propria capacità di comprensione degli intenti di ricerca, individuando le risposte più adeguate per l’audience. Dal testo al video con la nuova produzione di “EniTV”, dalle infografiche ai podcast e alle Amp stories per la versione mobile, tutte le possibilità espressive del digitale sono integrate per raccontare la trasformazione.

    Il rinnovamento del sito “Eni.com” è un progetto a cui la Direzione comunicazione esterna e la funzione Ict di Eni hanno lavorato in collaborazione con alcune delle realtà più innovative del settore, riunite in un team coordinato da TBWA\Italia e Assist Digital. TBWA\Italia ha guidato la parte strategica, creato la content strategy e sviluppato i contenuti, mentre AssistDigital ha guidato il design della customer experience e la creatività dell’ecosistema digitale. StoryFactory ha sviluppato lo storytelling concept del sito, Jakala la data strategy e Ad Maiora si é focalizzata sulle attività Seo. La parte tecnologica è stata sviluppata in collaborazione con Reply per le attività di sistem integration ed Exprivia per l’application management.

  • L’UE esorta la Turchia a fermare le perforazioni illegali al largo di Cipro. E intanto prepara nuove sanzioni

    L’Unione europea, mentre prepara nuove sanzioni, ha esortato la Turchia a interrompere le sue attività di perforazione “illegali” nella zona economica esclusiva di Cipro (ZEE) dopo aver annunciato che la nave di Yavuuz condurrà ulteriori attività di esplorazione e perforazione nell’area. In una dichiarazione rilasciata sabato, il portavoce della politica estera dell’UE, Peter Stano, ha affermato che le azioni della Turchia minano la stabilità regionale e che “sono necessari passi concreti per creare un ambiente favorevole al dialogo civile”.Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan “ha promesso” giovedì di iniziare a perforare al largo della costa di Cipro “il più presto possibile”, mentre Ankara a novembre ha firmato un accordo per le zone marittime con il governo del generale Khalifa Haftar, con sede a Tripoli, rivendicando vaste aree di acque territoriali della Grecia e di Cipro.

    “Il diritto internazionale del mare, il principio delle relazioni di buon vicinato, la sovranità e i diritti sulle zone marittime di tutti gli Stati membri devono essere rispettati”, ha affermato l’UE nella sua dichiarazione.

    Intanto la nave Yavuz avanza nell’area autorizzata “G” nel sud di Cipro per condurre un’altra operazione di perforazione in un’area autorizzata dalle società energetiche Eni e Total.“I ciprioti turchi hanno diritti tanto quanto i ciprioti greci. Se petrolio e gas naturale dovessero essere trovati in quest’area, entrambe le parti condivideranno le entrate insieme”, ha aggiunto il portavoce dell’AMF Hami Aksoy. Nella stessa dichiarazione si commenta anche la decisione dell’UE che starebbe applicando politiche non realistiche, pregiudizievoli e di doppio standard nel suo approccio alla Turchia e ai turco-ciprioti.”La Turchia si sta trasformando in uno stato pirata nel Mediterraneo orientale”, ha dichiarato la presidenza cipriota. “La Turchia insiste nel percorrere la strada dell’illegalità internazionale”, in quanto ha “provocatoriamente ignorato” l’UE che chiede il rispetto del diritto internazionale e la cessazione delle sue attività di trivellazione.

Pulsante per tornare all'inizio