Putin

  • Guerra e inquinamento

    Su Putin e la sua sciagurata guerra contro l’Ucraina abbiamo scritto, come tanti, in più occasioni e l’intensificarsi degli attacchi contro i civili, con decine di morti e feriti, avvenuti negli ultimi giorni è l’ennesima riprova della sua spregiudicata crudeltà e del poco valore che dà alle richieste di tregua.

    C’è però un aspetto di questa guerra che è meno attenzionato anche se particolarmente grave per le conseguenze presenti e future.

    Nei primi tre anni di guerra bombe, missili ad alto potenziale, esplosivi di ogni tipo, milioni di proiettili, droni e quant’altro e lo spaventoso quantitativo di macerie, ci sono intere città distrutte, delle quali molte con componenti pericolosi, hanno, grazie a Putin, dato un’altra terribile spinta al progredire dell’inquinamento più tossico, per non parlare dei mezzi militari distrutti ed anch’essi da smaltire.

    Grandi, immense quantità di terreno, quello che prima era il granaio del mondo, è in gran parte ormai perso per anni all’agricoltura, e le foreste bruciate potrebbero anche influire sui cambiamenti, in alcune zone, del clima.

    Si parla ad esempio, e sempre per approssimazione in difetto, di 230 milioni di tonnellate di carbonio nei più di tre anni di guerra.

    Putin anche prima della guerra non aveva certo attenzione alla necessità mondiale di ridurre l’inquinamento infatti, durante il suo regime, le emissioni di gas serra sono aumentate del 23% mentre nell’Unione Europea erano diminuite del 30, ma ora la sua irrazionale e crudele fame di potere e conquista ha portato ad una situazione gravemente pericolosa per tutti perché i venti e le piogge non conoscono confini e portano ovunque i veleni che Putin ha disseminato in Ucraina.

    Putin è un pericolo per il mondo e anche questo aspetto Trump continua a non comprendere obnubilato da una sete di potere che lo accumuna ai dittatori come Putin e Xi Jinping, altro criminale ambientale, come ricordava Papa Francesco “nessuno si salva da solo” e noi ricordiamo che tutti paghiamo e pagheremo le conseguenze dei crimini altrui se non cerchiamo di impedirli.

  • Variabili innumerevoli e imprevedibili

    Chi pensa di poter spiegare il comportamento di Trump definendolo un “pazzo”, criticandolo per la sua apparente impreparazione alla politica internazionale o accusandolo di essere “ondivago” nelle sue decisioni annunciate e poi modificate in poco tempo è del tutto fuori strada. Dimentica, chi lo fa, che Trump non ragiona come siamo abituati a veder fare dai politici ma è, e resta, un uomo d’affari (seppur con i fallimenti alle spalle) e ogni suo comportamento lo denota. Già nel suo primo mandato usò spesso i dazi come uno strumento per le negoziazioni e li modificò o li annullò a seconda delle convenienze. Per ottenere ciò che vuole alza continuamente la posta, finge di dimostrarsi disponibile a negoziare e poi rilancia. Il suo obiettivo è “spiazzare” gli interlocutori, disorientarli e poi, poiché parte dal presupposto di avere in mano le carte più forti vuole ottenere il massimo risultato possibile. I suoi modi sono quelli di un bullo ignorante e prepotente, ma anche mostrarsi così gli fa gioco. Col sembrare irragionevole e imprevedibile lui crede (e forse ha ragione) di obbligare gli altri sulla difensiva e di renderli più disponibili ad evitare il peggio per loro.

    Se con la sua tattica sembra fare passi in avanti e altri indietro, la sua strategia è abbastanza chiara e lui sa bene ciò a cui mira. Il suo (e il nostro) problema è che nella vita degli uomini e delle società umane le variabili sono sempre infinite e nemmeno il piano più elaborato e, sperabilmente, lungimirante offre tutte le garanzie di successo. Bastano, spesso, fatti imprevisti e non voluti a modificare ogni risultato auspicato. Negli scacchi le variabili sono tutte calcolabili e l’avversario è uno. In politica, e soprattutto nella politica internazionale, gli amici possono diventare nemici (e viceversa) e ogni piccolo sassolino può trasformarsi in valanga. Uno degli eventi che probabilmente non aveva previsto e che lo ha costretto a parzialmente correggersi strada facendo è stato il crollo di valore dei titoli del tesoro americani. È facile immaginare che rientrasse nei suoi piani il “periodo di grazia” riguardante i dazi doganali ma, forse, è stato costretto ad anticipare i tempi.

    Trump ha abbandonato le giustificazioni ideologiche dei suoi predecessori ma l’obiettivo, e cioè uno sguardo americano-centrico sul mondo, è rimasto lo stesso. Gli USA hanno sempre usato il classico liberismo e l’idea della democrazia come fondamenti ideologici utili ad espandere la loro influenza. È cambiato, tuttavia, il contorno: con l’emergere di nuove potenze economiche e politiche è definitivamente finito il progetto di un mondo unipolare con a capo gli Stati Uniti. Attualmente, l’America di Trump non è più interessata a propagandare la globalizzazione, l’autorità morale o risolvere i problemi del mondo. L’”America First” si focalizza sull’interesse nazionale aperto a trattative pragmatiche basate sull’interesse reciproco. Con realismo, ora cerca soltanto di ottenere il massimo beneficio da ogni interazione nell’economia, nella sicurezza, nella politica. Se trova ostacoli nel negoziare questi benefici è pronto a usare la forza, sia essa economica o politica, ben conscio di essere tuttora il Paese del mondo più ricco economicamente e più possente militarmente. Nei limiti del possibile Trump cercherà di evitare una qualunque guerra poiché la trova controproduttiva e distruttiva, ma ciò non significa che escluderà del tutto e per sempre anche questa opzione, almeno come minaccia.

    I suoi obiettivi economici sono di ridurre il debito pubblico e di rilanciare le capacità manifatturiere degli Stati Uniti andate diluendosi nel mondo globalizzato, quello da loro stessi costruito nel passato. Per ottenere questi risultati deve riuscire a modificare la bilancia commerciale oggi fortemente sfavorevole e i dazi sono un importante strumento di pressione. Chi attualmente vanta un saldo positivo verso gli Stati Uniti dovrà accettare di riequilibrare l’interscambio o ne pagherà le conseguenze. Naturalmente il livello delle tariffe doganali sarà tale da garantire l’equilibrio che Trump considera ottimale. Parallelamente, punterà a indebolire il dollaro, seppur con cautela, per rendere più costose le importazioni e più convenienti le esportazioni.

    Per quanto riguarda la sicurezza Trump è ben conscio che, paradossalmente, il bipolarismo precedente alla caduta dell’Unione Sovietica garantiva la pace molto di più dell’attuale semi-anarchia mondiale. Il punto d’arrivo cui mira ora potrebbe essere una nuova “Yalta” ma, per arrivarci da una posizione di forza, pensa di dover aver più carte in mano, in modo da poter dettare una buona parte delle future condizioni agli altri soggetti che si siederanno al tavolo. Rientra in questo calcolo la volontà di riprendere il controllo sulle principali vie di comunicazione (vedi Panama) e, conscio del ruolo futuro che giocherà l’Artico, poter mettere le mani sulla Groenlandia. Contemporaneamente, vuole garantirsi i confini a nord (Canada) e a sud (Messico) anche per controllare sia i commerci che le immigrazioni abusive. Non si creda che questa sua politica sia del tutto nuova: già nel 1867 Andrew Johnson comperò l’Alaska e avanzò l’ipotesi di farlo anche con la Groenlandia, così come nel 1803 la Louisiana fu comprata dalla Francia. Nel 1895 Grover Cleveland intervenne nella disputa di confini tra il Venezuela e la Guaiana sulla base della dottrina Monroe che dal 1890 aveva stabilito che tutto l’emisfero Occidentale fosse una “riserva” degli USA. Il segretario di Stato Richard Olney lo espresse in modo molto chiaro “Gli Stati Uniti sono praticamente sovrani su questo continente e il loro fiat è legge verso i soggetti cui si indirizzano”. Nel 1903 Theodor Roosevelt intervenne per garantire la secessione di Panama dalla Colombia in modo da garantirsi l’esclusività per la costruzione dell’istmo. Perfino Woodrow Wilson non rinunciò a intromettersi sulla sovranità altrui e nel 1915 mandò i marines a Haiti “per ristabilire l’ordine”, mentre nel 1916 inviò le truppe in Messico per catturare il “ribelle” Pancho Villa.  Si conoscono poi i numerosi interventi “intromissivi” americani in Guatemala, nella Repubblica Domenicana, in Cile, in El Salvador, in Nicaragua e a Grenada. La prima proposta alla Danimarca per la Groenlandia appartiene a Harry Truman che offrì ben 100 milioni in oro nel 1946. L’atteggiamento assertivo e prepotente di Trump è quindi una conferma della norma piuttosto che una rottura della tradizione.

    Oggi, a differenza dei recenti Presidenti che lo avevano preceduto, Trump ha capito essere soltanto la Cina, e non la Russia, il vero competitor del potere mondiale degli USA e quindi sta puntando ad un accordo diretto con Mosca non perché, come pensano alcuni superficiali, pensi di poter staccare la Russia dalla Cina, bensì perché attraverso l’accordo di Mosca si creino le premesse per la Yalta definitiva a cui punta.

    Evidentemente, in questa partita l’Europa non è che soltanto un piccolo pedone sia dal punto di vista politico sia militare e ci sarebbe da stupirsi del contrario, visto la incapacità di noi europei, dal dopoguerra ad oggi, di saper diventare un vero soggetto politico. Viene da sorridere sentire chi parla di una “difesa europea” che sarebbe sensata e possibile soltanto se l’Europa fosse capace (ma come potrebbe farlo con i politici che ci troviamo attualmente?) di trasformarsi in una Federazione di Stati. Chi farnetica di una “difesa” costruita esattamente come è la Nato dimentica che quest’ultima ha funzionato sempre e soltanto avendo un “capo in testa” che imponeva l’unanimità. Dovremmo noi oggi riconoscere questo ruolo ai francesi e/o ai britannici come auspicano Macron e Starmer? Dio ce ne scampi! Decisioni con il voto di maggioranza? Si potrebbe fare, come già avviene, per gli aspetti marginali ma non quando si tratta di politica estera o di difesa. Non è possibile nemmeno immaginare una Federazione europea composta da 27 Stati, magari addirittura con l’aggiunta della disastrata e disgraziata Ucraina! A parte che alcuni, vedi Polonia e i Baltici ad esempio, stanno già più con gli USA che con Bruxelles (salvo da quest’ultima incassare i generosi benefici economici), una futura, possibile e democratica Federazione dovrà partire dai Paesi che più pesano: Francia, Italia, Germania, Spagna, cui potranno eventualmente aggiungersi altri volenterosi con politici lungimiranti. È scontato che dell’Europa attuale Trump non se curi, salvo chiederle (imporle?) di pareggiare la bilancia commerciale e comprare più armi e prodotti agricoli geneticamente modificati (ogm).

    Nel suo intento di arrivare ad un primo accordo con la Russia è ben chiaro al tycoon che Mosca non arretrerà di un millimetro dai motivi che l’hanno spinta ad entrare in guerra. Tuttavia, visto che quelle in Ucraina è sempre stata una guerra per procura, accettare pari pari le condizioni russe significherebbe riconoscere la sconfitta degli Stati Uniti sul campo di battaglia ed è per evitare l’immagine negativa che ne scaturirebbe che Trump ha preso platealmente le distanze da Zelensky e chiede a Kiev di rimborsare, in qualche modo, gli aiuti ricevuti da Washington. In altre parole, deve disconoscere la paternità americana della situazione e porsi solo come terza parte. In più, in una ipotetica pace imporrà all’Ucraina di consentire a società americane di giocare la parte del leone nella futura ricostruzione. Con buona pace degli illusi europei. Un accordo con Putin, se le condizioni di Mosca saranno accettate, è possibilissimo e questo aprirà nel futuro non molto lontano (e proprio con l’intermediazione di Mosca) l’apertura di un tavolo economico-politico con Pechino. A quel tavolo dovranno poter sedere tutti e tre, Usa, Russia e Cina e saranno loro, insieme, a decidere come spartirsi le zone di influenza nel resto del mondo. Se si arriverà a questa fase, anche per vantare un maggiore potere negoziale Trump potrebbe coinvolgere anche l’India, storico nemico della Cina. Così il quadro sarà completo. Davanti ad un accordo tra tutti questi Grandi, il resto del mondo, compreso noi europei, non potrà che accettare e subire. Il vero rischio per Trump è che il suo atteggiamento così violento verso gli alleati tradizionali potrebbe creare le condizioni per costoro di cominciare a valutare le possibili alternative, magari guardando proprio alla Cina. Anche se una nuova Yalta farebbe comodo a tutti i Grandi, arrivarvi con una zona di influenza più ampia già acquisita farebbe comodo nel momento delle negoziazioni.

    Chi può affermare con assoluta certezza come andranno le cose nella realtà? All’inizio di questo articolo scrivevamo che le variabili sono così innumerevoli e imprevedibili che tutto potrebbe cambiare. Chissà se in meglio o in peggio per l’Europa.

  • Domenica delle Palme: un’altra strage di Putin nel colpevole silenzio di Trump

    Trump ha ottenuto un evidente risultato con i colloqui con Putin: intensificare in modo esponenziale l’attacco russo contro l’Ucraina con la conseguente morte di decine e decine di civili, tra i quali molti bambini, e il ferimento di molte altre decine di persone inermi ed ancora la distruzione di molte strutture e civili abitazioni.

    Ottimo risultato quello del presidente americano, che in campagna elettorale blaterava di poter fare finire la guerra in un giorno e che da quando è presidente ha creato una serie di danni epocali all’economia e reso ancora più drammatica e insanguinata la guerra in Ucraina.

    Solo in un giorno, la domenica delle Palme, i russi hanno fatto a Sumy, una città ucraina, circa quaranta morti, salvo aggiornamenti che potrebbero far aumentare il numero delle vittime, tra le quali anche bambini per non parlare delle decine di feriti.

    Fino a quando il presidente americano continuerà a parlare senza concludere, quando capirà che ora, non domani, è il momento di prendere decisioni serie, drastiche, per aiutare il popolo ucraino e che Putin è un nemico delle libertà, della democrazia, del diritto e delle regole?

    O forse continuerà ad essere obnubilato dalla sua simpatia per Putin e da una miope visione economica che lo ha già portato, salvo fare in parte marcia indietro, a colpire il suo maggior alleato occidentale, l’Europa?

    Mentre il primo ministro inglese e vari leader europei, denunciando la barbarie dello zar russo, si spendono per cercare di dare al presidente ucraino il maggior sostegno possibile Trump continua a tacere, un silenzio sempre più colpevole.

  • Redde rationem

    Da quando, un mese fa, Trump ha proposto  a Putin la tregua, che già l’Ucraina aveva accettato incondizionatamente, e che lo zar aveva fatto intendere avrebbe, almeno in parte, preso in considerazione la Russia ha invece scagliato una nuova pesantissima offensiva contro la popolazione civile ucraina con la conseguenza di un rilevante numero di morti e feriti tra i quali molti bambini.

    In un mese settanta missili di vario tipo, 220 droni e più di seimila bombe guidate hanno colpito parchi gioco, condomini, luoghi pubblici creando nuova distruzione e sono state colpite anche centrali energetiche lasciando al buio e al freddo decine di migliaia di civili.

    Tutto questo con buona pace del presidente americano che in un giorno avrebbe, secondo lui, fermato la guerra e che continua, a parole, a rammaricarsi dei tanti morti sul campo di battaglia ma che non ha ancora intrapreso nessuna seria iniziativa per portare Mosca al redde rationem.

    Da molti paesi, non dagli Stati Uniti, arrivano dichiarazioni e promesse di nuovi consistenti aiuti ma l’Ucraina ha necessità immediata di mezzi per contrastate le bombe, i missili, i droni che arrivano dal cielo e questi mezzi non arrivano.

    Trump comprende la grave responsabilità che si assunto con le sue affermazioni che non hanno ottenuto alcun  risultato, comprende che Putin non è un uomo al quale si può parlare in modo coerente? Probabilmente no visto che quanto ad incoerenza i due sono molto simili.

    Per tutti l’unica vera speranza è che i soldati ucraini continuino a combattere con fierezza e che la Nato, l’Europa, siano sempre più coesi ed armati e diano subito a Kiev gli aiuti necessari.

  • Maggiore chiarezza cinese

    Se anche il governo cinese nega di aver inviato suoi cittadini a combattere in Ucraina tutti sappiamo bene che per uscire dalla Cina occorre un’autorizzazione, un passaporto, e si eseguono una serie di controlli ed è perciò decisamente improbabile che decine di cinesi, se non sono centinaia, abbiano potuto raggiungere la Russia per arruolarsi, nella guerra contro l’Ucraina, senza che qualche autorità ne fosse al corrente.

    Volontari, o mercenari che dir si voglia, possono raggiungere la Russia o l’Ucraina da qualunque paese democratico dove vi è la libertà, ma se i soldati o gli aspiranti soldati arrivano in Russia dalla Corea del Nord, dalla Cina o da altri paesi dove vige un regime autoritario questi non possono essere usciti senza il consenso della rispettive autorità.

    Stiamo infatti parlando di un numero considerevole di cinesi e non di singoli casi isolati che fortunosamente potrebbero essere riusciti a scappare.

    Inoltre la nota amicizia ed alleanza che, da qualche anno, e cioè da qualche mese prima dell’invasione dell’Ucraina, si è consolidata tra Pechino e Mosca, è una concreta prova che il dragone non è affatto neutrale come ha tentato di far credere.

    Oggi che, dopo i dazi americani, la Cina si rivolge all’Europa sperando in nuovi rapporti economici l’Europa dovrebbe avere la capacità e la forza di chiedere al presidente cinese maggiore chiarezza sui suoi comportamenti verso l’Ucraina e la guerra scatenata da Putin e un suo concreto intervento per garantire che dalla Cina non siano più inviati in Russia uomini ed armi.

  • Niente dazi a Russia, Bielorussia, Corea del Nord, Cuba

    La decisione di Trump di non mettere dazi a Russia, Bielorussia, Cuba e Corea del Nord, tutti Stati collegati tra loro non solo da una comunanza di sistema politico ma anche da importanti alleanze militari, non è una scelta economica, come sostiene la portavoce della Casa Bianca, ma politica.

    Caroline Leavitt ha sostenuto, ad esempio, che la Russia sia stata esclusa dai dazi in quanto non vi sono scambi commerciali significativi con gli Usa. In effetti, dopo l’invasione dell’Ucraina, gli scambi economici tra Russia e Usa sono calati a 3,5 miliardi di dollari nel 2024.

    La Leavitt ha però dimenticato un dato molto significativo che dimostra l’infondatezza delle sue argomentazioni: i dazi Trump li ha imposti anche a Paesi infinitamente piccoli, come Tokelau, Paese del Pacifico che ha 1500 abitanti, o le Isole Svalbard nel circolo polare artico, che conta 2500 abitanti e dazi sono stati imposti anche a Paesi come Mauritius e Brunei con i quali gli Usa hanno scambi economici molto inferiori rispetto a quelli con Mosca.

    Può sembrare fantapolitica immaginare che la decisione di Trump su Russia, Bielorussia, Cuba e Corea del Nord sia originata dalla ‘simpatia’ che il presidente americano mostra verso Putin e da una certa invidia per la possibilità dello zar russo di assumere qualunque tipo di decisione, anche le più negative per il suo Paese, senza avere quelle imponenti manifestazioni di piazza che si sono viste invece negli Usa anche in questi giorni contro la politica dello stesso Trump?

    In ogni caso: la ‘simpatia’ di Trump per Putin ha portato alla conseguenza che anche i Paesi alleati di Putin hanno beneficiato di questa singolare attitudine trumpiana verso alcune dittature.

    Rimane per noi europei la necessità di agire finalmente uniti, non con l’isteria che la caduta delle Borse può procurare, ma con la consapevolezza che le nostre imprese possono trovare giovamento, se la politica le sostiene, dall’indirizzare la loro attenzione anche verso altri mercati. Infatti, in ogni settore, la diversificazione evita traumi quando si creano situazioni di conflitto con partner economici o produttori di beni essenziali, quanto è avvenuto col gas russo ne è l’esempio.

    Certamente è necessario e urgente sviluppare e completare finalmente il mercato interno europeo eliminando quella parte di regole e impedimenti che hanno ad oggi penalizzato imprese e consumatori.

  • Per capire meglio i risultati del colloquio Trump Putin

    Putin rifiuta la tregua di trenta giorni, in cielo e in mare, proposta da Trump e che l’Ucraina aveva invece accettato da giorni.

    Putin vuole solo una tregua per le centrali energetiche per due motivi: 1) qualche centrale ucraina spera di recuperarla annettendosi territori, 2) gli ucraini da giorni colpiscono siti strategici russi, perciò questa tipo di tregua serve principalmente alla Russia.

    Putin continua a sostenere che i territori occupati dall’esercito russo e non solo, infatti non è esclusa la richiesta di Odessa unico sbocco al mare dell’Ucraina, devono rimanere alla Russia.

    Putin esige che non siano più dati aiuti militari e di intelligence all’Ucraina mentre continua a utilizzare lui le truppe ed i mezzi di un paese terzo, la Corea del Nord, ribadendo di fatto che lui è al di sopra di ogni regola.

    Putin chiede che l’Ucraina cessi un reclutamento militare, vuole che sia uno stato disarmato, mentre lui continua al fronte ad usare banditi, carcerati, ceceni, ex truppe Wagner e via dicendo.

    La cosa però più evidente è che da entrambe le parti, statunitense e russa, sparisce la parola “giusta” riferita alla Pace, si dice solo che deve essere stabile! Come si può avere una pace stabile se non è una pace giusta?

    Cosa porta a casa Trump oltre alla gran bagarre mediatica? Un nuovo rinnovato rapporto con Putin che serve al presidente americano per tentare di inserirsi, a pieno titolo, nel nuovo posizionamento degli equilibri internazionali dove Russia e Cina hanno già stretto da tempo solidi accordi e non dimentichiamoci India, mondo arabo e le questioni sempre aperte con l’Iran anche per l’appoggio ai terroristi che bersagliano principalmente le navi americane e israeliane.

    Il prezzo da pagare per Trump? L’allontanamento degli Stati Uniti dall’Europa e il sacrificio dell’integrità ucraina, non sono per lui sacrifici come abbiamo visto con le sue iniziative in queste ultime settimane.

    D’altra parte non è una novità che gli Stati Uniti abbiano un complesso rapporto con i paesi europei infatti, nonostante tutte le notizie note sul massacro degli ebrei, durante il nazismo, gli americani entrarono in Guerra solo l’8 dicembre 1941 quando furono attaccati dai giapponesi a Pearl Harbor.

    Cosa può accadere veramente all’Europa, la sua coesione e la sua sicurezza, non interessano a Trump, anzi! Più l’Europa è divisa e meno ci sono competitori economici e maggiore è la capacità di pressione che ognuna della grandi potenze può avere su un singolo stato europeo.

    Dopo questa nuova esibizione di testosterone da parte di Trump e di Putin risulta evidente che l’Europa ha estrema urgenza di realizzare l’Unione politica con un esercito ed un sistema di difesa e di intelligence comune.

    Come da molti anni ripetiamo non è possibile raggiungere questo risultato con gli attuali trattati e il voto all’unanimità, per questo è ormai necessario che un gruppo di paesi abbiano il coraggio di fare un passo avanti realizzando la politica e la difesa comune anche con un’Europa concentrica. In seguito anche gli altri stati, quando saranno pronti, aderiranno. Si tratta di realizzare in politica e per la difesa quanto è stato già fatto per la moneta unica.

    Ogni ulteriore indugio ci mette a rischio e ci lascia in balia delle mire espansionistiche di Putin e non in grado di essere credibili nel dialogo che comunque esisterà sul piano internazionale, non solo con gli Stati Uniti.

  • Putin si fa la base navale in Sudan

    Il Sudan e la Russia hanno raggiunto un accordo definitivo sulla creazione di una base navale russa sulla costa sudanese del Mar Rosso. Ad annunciarlo è stato il ministro degli Esteri sudanese Ali Youssif, nel corso di una visita ufficiale a Mosca. “Sudan e Russia hanno raggiunto un’intesa sull’accordo riguardante la base navale russa”, ha detto Youssif in una conferenza stampa congiunta con l’omologo russo Sergej Lavrov. “Siamo in completo accordo su questa questione e non ci sono ostacoli. Abbiamo raggiunto un’intesa reciproca sul tema. Pertanto, la questione è molto semplice. Siamo d’accordo su tutto”, ha aggiunto, senza tuttavia fornire ulteriori dettagli. Il progetto per la costruzione di una base navale russa sulla costa sudanese del Mar Rosso è in cantiere da diversi anni e sembrava sul punto di essere finalizzato alla fine del 2020, tuttavia il colpo di Stato militare in Sudan dell’ottobre 2021 e il conflitto scoppiato nell’aprile 2023 hanno finito per congelarlo.

    Un primo accordo per la creazione di un punto di supporto logistico (Lsp) per la Marina russa era stato concluso nel 2017. Successivamente, nel novembre 2020, i due governi avevano firmato un accordo preliminare – della durata di 25 anni – per stabilire quello che è stato descritto come un polo logistico navale russo in Sudan, che dovrebbe arrivare ad ospitare un massimo di 300 militari e fino a quattro navi da guerra, comprese imbarcazioni a propulsione nucleare. Tuttavia, a causa dell’inerzia burocratica e dei cambiamenti nel panorama politico sudanese – culminati prima con il rovesciamento del presidente di lunga data Omar al Bashir e con il colpo di Stato militare dell’ottobre 2021, poi con lo scoppio del conflitto civile nell’aprile 2023 – il progetto è rimasto congelato e non è mai stato ratificato dal parlamento sudanese, che nel frattempo è stato sciolto.

    Il Mar Rosso, del resto, costituisce una rotta strategica di vitale importanza per il commercio globale, nonché un punto caldo dal punto di vista geopolitico. Per Mosca, in particolare, disporre di una propria presenza in quell’area sarebbe d’importanza prioritaria, a maggior ragione dopo aver perso – in seguito al rovesciamento del regime siriano di Bashar al Assad – la sua base militare di Tartus, che per anni ha costituito il suo avamposto nel Mediterraneo. È con questo obiettivo che, stando a fonti citate da alcuni media internazionali, negli ultimi mesi funzionari russi avrebbero visitato la città di Port Sudan, divenuta di fatto la capitale del Sudan dall’inizio della guerra, nel tentativo di stringere legami con entrambe le parti in conflitto. Se infatti all’inizio delle ostilità il Cremlino ha sostenuto le Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, con il quale ha per anni coltivato stretti legami nello sfruttamento delle miniere d’oro del Darfur, negli ultimi mesi la posizione di Mosca – mai resa ufficiale – sembrerebbe essere mutata, visti anche gli sviluppi della guerra che sembrano nel frattempo pendere a favore delle Forze armate sudanesi (Saf).

    Secondo l’Istituto per lo studio della guerra (Isw), con sede a Washington, in cambio del permesso di mantenere una presenza navale in Sudan, la Russia si sarebbe impegnata a fornire supporto militare alle Saf. Un cambio di rotta reso palese dalla visita a Port Sudan effettuata nell’aprile scorso dal vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov, che in quel frangente ha auspicato una maggiore cooperazione con il Sudan e ha espresso sostegno alla “legittimità esistente nel Paese rappresentata dal Consiglio sovrano”, il massimo organo di governo cui è a capo il generale Abdel Fattah al Burhan. In quella stessa occasione Bogdanov avrebbe anche promesso all’esercito sudanese aiuti militari “senza restrizioni”. Da allora, inoltre, Mosca avrebbe avviato le esportazioni di gasolio verso il Sudan, nel tentativo di cercare nuovi sbocchi dopo le sanzioni internazionali imposte in seguito all’invasione dell’Ucraina.

    Secondo gli analisti, la realizzazione di una base navale russa sul Mar Rosso sarebbe una logica continuazione delle azioni militari della Russia nel continente africano. Negli ultimi mesi, specie dopo la “cacciata” dalla Siria, Mosca ha ampliato la sua presenza in Libia, rafforzando le operazioni nelle sue quattro principali basi aeree: la base di Al Khadim, nell’est del Paese; la base di Al Jufra, nel centro; la base di Al Brak al Shati, a sud-ovest di Sebha, capoluogo della regione di Fezzan; e la base di Al Qurdabiya, a Sirte, nella zona centro-settentrionale. Queste basi ospitano una varietà di attrezzature militari, tra cui difese aeree, caccia MiG-29 e droni, e sono gestite da una contingente misto di militari russi e mercenari del gruppo Wagner, lontano dalla supervisione delle autorità libiche. Secondo fonti libiche consultate da “Agenzia Nova”, inoltre, Mosca ha recentemente ampliato la sua presenza con una nuova base militare, quella di Maaten al Sarra, al confine con il Ciad e il Sudan. Le immagini satellitari ad alta risoluzione pubblicate da Maxar Technologies a dicembre mostrano chiaramente l’estensione della pista e la costruzione di edifici che sembrano essere alloggi, confermando le informazioni in possesso di “Nova”.

  • Xi Jinping e Putin discutono di Trump

    All’indomani dell’insediamento del presidente Donald Trump alla Casa Bianca, l’omologo cinese Xi Jinping ha avuto una videocall con il leader russo Vladimir Putin. A riferirlo l’emittente cinese Cctv, senza aggiungere al momento dettagli sul colloquio. Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha confermato la notizia. “Il colloquio al momento è in corso”, ha dichiarato all’agenzia di stampa Tass.

    Se i contenuti del video-incontro ancora non sono noti, di certo, però, Pechino e Mosca non hanno nascosto nelle scorse ore i timori per alcune dichiarazioni e per gli ordini esecutivi firmati dal tycoon a poche ore dall’insediamento. A partire dagli accordi sul clima, passando per Oms e finendo con Panama.

    La Cina ha espresso ”preoccupazione” per l’annunciata uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima, decisa dal presidente americano con la firma di un ordine esecutivo, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun. “Il cambiamento climatico è una sfida comune a tutta l’umanità e nessun Paese può rimanere indenne o risolvere il problema da solo”, ha affermato Guo.

    E ancora: “Il ruolo dell’Oms dovrebbe essere solo rafforzato, non indebolito”, ha commentato sull’ordine esecutivo di Trump con cui il presidente americano ha dato il via al processo per ritirare gli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della Sanità. “La Cina, come sempre, sosterrà l’Oms nell’adempimento delle sue responsabilità e lavorerà per costruire una comunità sanitaria condivisa per l’umanità”, ha aggiunto Guo. Trump ha criticato l’Oms per la gestione della pandemia di Covid-19.

    Ed è considerato ”un atto di bullismo” l’inserimento di Cuba nella lista nera dei Paesi che sostengono il terrorismo da parte degli Stati Uniti. L’uso ripetuto della lista da parte di Washington “contraddice i fatti e rivela pienamente il volto egemonico, autoritario e prepotente degli Stati Uniti”, ha affermato Guo.

    Dal canto suo, la Russia si aspetta che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la leadership di Panama rispettino il regime giuridico internazionale di questa via navigabile. Lo ha affermato il direttore del dipartimento latinoamericano del ministero degli Esteri russo, Alexander Shchetinin, rispondendo a una domanda della Tass.

    ”Ci auguriamo che durante le previste discussioni tra la leadership di Panama e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulle questioni del controllo sul Canale di Panama che, ovviamente, rientrano nell’ambito delle loro relazioni bilaterali, le parti rispettino l’attuale regime giuridico internazionale di questa via navigabile fondamentale”, ha sottolineato.

    Shchetinin ha ricordato che il regime giuridico internazionale del Canale di Panama ”è chiaramente definito e registrato nel Trattato sulla neutralità permanente e sul funzionamento del Canale di Panama tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica di Panama, firmato dal presidente americano Jimmy Carter e il capo del governo panamense, il generale Omar Torrijos, il 7 settembre 1977 ed entrarono in vigore il primo ottobre 1979″. Il diplomatico ha aggiunto che ”il regime stabilito dal trattato è ulteriormente sancito dal protocollo, al quale hanno aderito circa 40 stati del mondo. La Russia partecipa al protocollo dal 1988 e conferma i suoi obblighi di mantenere la neutralità permanente del Canale di Panama, sostenendo la conservazione sicura e aperta di questa via d’acqua di transito internazionale”.

    ”A questo proposito sottolineiamo: secondo le modifiche apportate dagli Stati Uniti e da Panama al trattato nell’ottobre 1977, ciascuno dei due paesi deve proteggere il canale da qualsiasi minaccia al regime di neutralità. Il diritto specifico degli Stati Uniti alla difesa del Canale di Panama non significa e non deve essere interpretato come il diritto di intervenire negli affari interni di Panama, e qualsiasi azione della parte americana non sarà mai diretta contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di Panama”, ha concluso Shchetinin.

    Il Canale di Panama, inaugurato nel 1914, fu costruito e controllato dagli Stati Uniti. Nel 1977 il Trattato Torrijos-Carter determinò il trasferimento graduale del canale a Panama, completato nel 1999. L’accordo prevede la neutralità del canale e la sua accessibilità al commercio mondiale.

  • Putin tra debolezza e reale isolamento

    Per quanto Putin si sforzi di apparire un leader il cui prestigio internazionale, almeno in quella parte del mondo che pensa di pilotare intorno ai suoi interessi, sia in continua ascesa per le sue  nuove e sempre più pericolose alleanze, la realtà è un po’ diversa.

    Dopo aver mal digerito l’assenza dell’Armenia dall’incontro  dei vertici dell’alleanza militare, tra i sei paesi ex sovietici, ora è il presidente del Kazakistan, Kassym Tokayev, che non ha mai sostenuto l’operazione militare speciale e cioè l’invasione dell’Ucraina in sprezzo di ogni regola internazionale, a dargli qualche nuovo mal di  pancia.

    Il presidente kazako, che si è spesso espresso per un dialogo di pace, ora si è spinto anche più in là dichiarando, in un articolo pubblicato sul quotidiano russo Izvestia, che le Nazioni Unite sono un’organizzazione internazionale insostituibile.

    Da tempo tra Putin e il presidente kazako si assommano i motivi di frizione e il rifiuto di Tokayev di unire il Kazakistan ai paesi Brics ha portato lo zar russo a vietare l’importazione dei  prodotti agricoli del Kazakistan

    Per Putin la spina nel fianco non è da poco considerato che il Kazakistan è un grande paese, ricco di immensi giacimenti petroliferi,ha la più importante economia tra gli  stati ex sovietici e intrattiene ottime relazioni commerciali e politiche con l’Occidente.

    Putin che pensava, nel rapporto con la Cina,di controbilanciare il peso ed il potere cinese con altre sue importanti aree di ingerenza si trova ora sguarnito sui confini kazaki dove non ha gli amici succubi che si illudeva  di avere ed è sminuito, nel contesto internazionale, dal filo doppio che ha stretto con Kim Jong-Un.

    I nuovi scenari siriani, che si sono aperti  nelle ultime ore, per altro preoccupanti per tutti, con molti aspetti nei quali il peso dell’Iran e degli integralisti islamici non sono certo parte secondaria, creano anche per Putin un nuovo fronte.

    Il despota russo sta intensificando a dismisura le azioni contro l’Ucraina, le minacce nucleari e le azioni di sabotaggio contro i paesi dell’alleanza dimostrando che, nel giocare il tutto per tutto, ha una sempre maggior debolezza e reale isolamento.

    Quanti gli stanno intorno si dividono in due categorie: quelli, come parte dei paesi Brics, che cercano di portare a casa qualche personale beneficio e quelli, come la Corea del Nord o l’Iran che non possono allearsi altro che con dei dittatori e assassini come loro.

    Intanto la Cina sta a guardare, il dragone infatti è sempre pronto a incenerire chi gli dà fastidio.

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