storia

  • Delirio autocratico

    I deliri di onnipotenza, anche se piacevoli, non cessano

    di essere deliri e, a effetto concluso, presentano il conto.

    Umberto Galimberti; da “L’ospite inquietante”

    Piana degli Albanesi è un comune di meno di 6000 abitanti nella provincia di Palermo. Gli abitanti sono, nella maggior parte, i discendenti degli albanesi che arrivarono in Sicilia alla fine del XV secolo, periodo in cui l’Impero ottomano invase il territorio dove vivevano gli albanesi, dall’altra parte del mare Adriatico e quello Ionio. Da diversi documenti storici risulta che Piana degli Albanesi si costituì nel 1488. E come data si fa riferimento al 30 agosto. Gli abitanti di Piana degli Albanesi, noti come arbëresh, chiamano il loro paese come Hora e Arbëreshëve (Paese degli arbëresh ; n.d.a.). Si tratta del centro più rinomato degli italo-albanesi/arbëresh non solo in Sicilia ma in tutta l’Italia. Piana degli Albanesi è, altresì, il centro dove sono state conservate la lingua che si parlava sei secoli fa, nonché le particolari caratteristiche etniche, le tradizioni culturali e religiose (rito greco-cattolico) e anche gli abbigliamenti dell’epoca. Nella Piana degli Albanesi si coltiva la memoria storica del paese dove erano nati e vissuti i loro antenati, prima di attraversare il mare, scappando dalle barbarie degli ottomani. Nel corso degli secoli, ma soprattutto durante il secolo passato, Piana degli Albanesi diventò anche un noto centro della letteratura arbëresh, grazie al contributo attivo di molti suoi abitanti. Era proprio lì che, nel 1903, si è tenuto il terzo congresso linguistico d’ortografia albanese. Un congresso dove sono stati trattati diversi temi linguistici, della letteratura, ma anche politici. Piana degli Albanesi è nota anche per la tradizione musicale degli antenati. Una tradizione che ormai fa parte del registro delle Eredità Immateriali della Sicilia, riconosciuta come Patrimonio dell’Umanità dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO).

    Dal 2017 nella Piana degli Albanesi si celebra la fondazione della loro comunità nel 1488. E come data è stata scelta quella del 30 agosto. Quest’anno, dal 25 al 31 agosto, è stata celebrata la settima ricorrenza, il cui obiettivo è stato “Un modo per raccontare la nostra tradizione secolare”. Nel corso dei sette giorni di celebrazione sono state molte e diverse le attività artistiche e culturali  svolte. Bisogna evidenziare soprattutto l’apertura della “villetta Skanderbeg” e l’inaugurazione del Museo “Musarb”, un museo della cultura arbëresh, nonché l’inaugurazione di una statua bronzea alta circa 3 metri, dell’Eroe nazionale albanese, Giorgio Castriota Skanderbeg. Una donazione dell’Associazione svizzera Hora e Skanderbeut (Il Paese di Scanderbeg; n.d.a.).

    Giorgio Castriota, noto come Scanderbeg, è l’Eroe nazionale albanese per eccellenza. Lui è stato un noto principe, validissimo condottiero, stratega e diplomatico. Dopo diversi anni trascorsi in Turchia come comandante militare, nel novembre 1443 è tornato nel suo Paese natale con un gruppo di circa trecento combattenti albanesi. Dopo aver preso il castello della famiglia, allora in possesso degli ottomani, Giorgio Castriota cominciò subito a contattare i più noti ed influenti nobili, suoi compatrioti, per costituire un’Alleanza contro l’Impero. Alleanza costituita il 2 marzo 1444. In seguito, il 14 luglio 1444 Giorgio Castriota dichiarò guerra al sultano turco. Da allora e per circa 25 anni, fino alla sua morte, il 17 gennaio 1468, affrontò con successo e respinse molti attacchi degli eserciti di due sultani ottomani. Da molti documenti storici risulta che egli veniva considerato come colui che bloccò l’avanzata turca verso l’occidente. Riconoscendo il molto apprezzabile contributo di Scanderbeg, Papa Callisto III diede a lui l’appellativo di Athleta Christi et Defensor Fidei (Atleta di Cristo e Difensore della Fede; n.d.a.). Mentre papa Pio II lo considerava come un “Nuovo Alessandro”, riferendosi ad Alessandro Magno. Giorgio Castriota nel 1459 è arrivato in Italia personalmente per aiutare Ferdinando I, Re di Napoli, nella lotta contro Giovanni d’Angiò. Lo stesso ha fatto anche nel 1462. Per tutta la sua nota e molto stimata attività, Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, è l’Eroe nazionale degli albanesi.

    Il 30 agosto scorso, come previsto e stabilito dal programma, alle ore 17.00 di fronte all’edificio del comune a Piana degli Albanesi, è stata inaugurata la statua bronzea di Giorgio Castriota, alta circa tre metri. Ma dai tratti somatici però la statua somigliava poco all’Eroe nazionale degli albanesi. Ed era molto vistosa quella mancanza di somiglianza. Sì, perché ci sono diverse incisioni di quel periodo storico, conservate in diversi musei, sia in Albania che in altri Paesi, che lo confermano. Ma, chissà perché, il volto della statua aveva molto in comune con quello dell’attuale primo ministro albanese però. Un fatto che può essere facilmente notato da tutti. Basta guardare una fotografia della statua e paragonarla con una del primo ministro. Un fatto questo che è stato subito notato, evidenziato e criticato sia da vari professionisti che dal vasto pubblico. Ragion per cui sono stati inseriti in rete molti fotomontaggi ironici che stigmatizzavano quella somiglianza. Così come sono state molte le espresse indignazioni per la trasfigurazione dell’immagine del’Eroe nazionale, tanto caro e stimato dagli albanesi.

    Le cattive lingue hanno parlato e parlano tuttora spesso delle “scelte” del primo ministro albanese legate alle apparenze. Anzi, le cattive lingue sono convinte che il primo ministro abbia adottato, dall’inizio del suo percorso politico, la scelta di basare tutto sulle apparenze. Ignorando così i suoi doveri e le sue responsabilità istituzionali che lo dovrebbero obbligare a tutt’altro che alle apparenze e alla propaganda. Il nostro lettore è stato spesso informato anche di questa sua scelta. Così come è stato spesso informato durante questi anni, sempre fatti documentati alla mano, che lui, il primo ministro rappresenta il potere politico in una molto pericolosa ed attiva alleanza con la criminalità organizzata locale ed internazionale e con alcuni raggruppamenti occulti internazionali, molto potenti finanziariamente e che hanno degli interessi anche in Albania.

    Alcuni anni fa, ed esattamente nel 2017, una “devota collaboratrice” del primo ministro albanese, esclamando, chiamò proprio lui Scanderbeg, come l’Eroe nazionale degli albanesi. Fatto che suscitò clamore, indignazione e risate ironiche. Ma l’abominevole atteggiamento dell’ubbidiente “collaboratrice” faceva comodo al diretto interessato. Anzi, le cattive lingue erano convinte che lei semplicemente seguiva l’ordine preso. Sì, perché anche il primo ministro, in seguito, chiamava lei con il nome della sorella di Giorgio Castriota. E continua a farlo. Guarda caso però a fine luglio scorso lei è stata eletta, dalla maggioranza governativa, come presidente del Parlamento, dopo le dimissioni per “ragioni di salute” di una sua collega, E guarda caso, è stata proprio lei che il 30 agosto scorso, nella Piana degli Albanesi, ha scoperto la statua di Giorgio Castriota. Chissà perché?! Le cattive lingue però continuano a dire che lei, l’ormai presidente del Parlamento, ha sempre solo e semplicemente detto ad alta voce ed in pubblico quello che al suo superiore, il primo ministro, piaceva molto sentire.

    Chi scrive queste righe pensa che non sia stato “per caso” che i tratti somatici della statua dell’Eroe nazionale albanese, inaugurata il 30 agosto scorso nella Piana degli Albanesi, avessero ben poco in comune con il volto dell’Eroe. Tratti che, invece, erano molto simili a quegli del primo ministro albanese. Umberto Galimberti, da buon conoscitore della psiche umana, ci insegna che i deliri di onnipotenza, anche se piacevoli, non cessano di essere deliri e, a effetto concluso, presentano il conto. Di certo i deliri autocratici del primo ministro hanno già presentato molti conti salatissimi ai cittadini albanesi. E continueranno a farlo.

  • In attesa di Giustizia: Pledge of Allegiance

    Giustizia ad orologeria, se ne fa sempre un gran parlare – ultimamente anche a proposito dell’indagine sul governatore uscente della Sardegna che, come pare, non sarebbe stato ricandidato a prescindere – ma per una volta una decisione giudiziaria, per di più della Cassazione a Sezioni Unite (che sono il massimo organo interprete della legge), si propone quanto mai tempestiva per placare le polemiche immediatamente alimentate dalla sinistra in seguito alla manifestazione in memoria dei cosiddetti Martiri di Acca Larenzia.

    Per chi non lo sapesse, si tratta di un duplice omicidio a sfondo politico, risalente al 1978, attribuito ad un commando dei Nuclei armati per il contropotere territoriale in cui vennero assassinati due giovani appartenenti al Fronte della Gioventù davanti alla sede del MSI in via Acca Larenzia, quartiere Tuscolano di Roma. Si trattò di un agguato particolarmente brutale, un ferito venne inseguito mentre tentava di darsi alla fuga per infliggere il colpo di grazie sparandogli vigliaccamente alla schiena con una mitraglietta Skorpion, arma prediletta da certe formazioni extraparlamentari che fu, anni dopo, rinvenuta in un covo della BR risultando utilizzata da queste ultime in ben altri tre omicidi.

    Le indagini per individuare gli autori dell’agguato mortale non hanno esitato nulla  ed ogni anno i giovani trucidati ad Acca Larenzia vengono commemorati con un raduno all’ora e sul luogo della strage nel corso del quale vengono chiamati ad alta voce i loro nomi cui viene data una corale risposta “Presente” con simultaneo levarsi di braccia destra tese.

    Quest’anno, sarà perché al Governo c’è una coalizione di centro destra (o di destracentro, come taluno preferisce sottolineare) stabilizzata e sostenuta dal consenso dell’elettorato, sarà perché qualcuno si è ricordato della “Legge Scelba” che sanziona le manifestazioni di fascismo, alto si è levato il lamento da via del Nazareno e dintorni: identificateli, indagateli, arrestateli, puniteli tutti come meritano!…ma, proprio negli stessi giorni, ecco la Suprema Corte annullare le condanne per i partecipanti ad una analoga manifestazione anche questa periodica, a Milano, ed in memoria di un altro giovane missino: Sergio Ramelli.

    Stando alla informazione provvisoria della Cassazione, fare il saluto romano, secondo quei Giudici, non è reato se, contestualmente, non vi è il rischio concreto di ricostituzione del Partito Nazionale Fascista che, pare doversi escludere nel corso di commemorazioni.

    La lettura della motivazione di questa sentenza potrà lumeggiare una tematica che, per il momento, può essere lasciata alle lamentazioni della sinistra da talk show, quella che, tanto per dirne una, dovrebbe rammentare che, tra il 1943 ed il 1949 nella paciosa Emilia, si registrò un numero particolarmente alto di omicidi a sfondo politico (quasi tutti impuniti) perpetrati anche a guerra finita non da brigatisti rossi (i famosi “compagni che sbagliano”) ma da partigiani e militanti del PCI; ebbene, quella piagnucolosa sinistra che paventa il ritorno della dittatura e la resurrezione dal regno dei morti di Benito Mussolini dovrebbe considerare che quei virtuosi patrioti che spargevano sangue in quello che è stato definito “Il triangolo della morte” si salutavano con il pugno chiuso alzato, esattamente come i boia di Stalin, tanto per fare un altro esempio, e gli assassini di Prima Linea: nessuno, però, ardisce sostenere che quel saluto abbia in sè connotazioni criminali sebbene riferibile, almeno in parte, ad una militanza e ad un’ideologia politica sanguinaria invocando la persecuzione di chi ancora usa salutare in quel modo, soprattutto i lavoratori nelle manifestazioni di protesta.

    E poi, una cosa va detta: il cosiddetto saluto romano ha un’origine tutt’altro che romana e non è ben chiaro da chi o cosa sia stato mutuato: forse dal “protofascista” Gabriele D’Annunzio durante l’Impresa di Fiume (1919/20), ma è sicuro che il braccio destro teso con il palmo rivolto verso il basso era il gesto ideato dallo scrittore Francis Bellamy che accompagnava dal 1892 il giuramento di fedeltà alla bandiera nelle scuole degli Stati Uniti: il Pledge of  Allegiance. In attesa di giustizia con il chiarimento definitivo che verrà dalla motivazione della Cassazione, in occasione di un controllo della DIGOS o di un “al lupo, al lupo!” di Elly Schlein, per evitare inutili strascichi, ci si potrebbe, dunque, difendere dicendo di essere studiosi di storia americana in esercitazione.

  • Cupio dissolvi

    Il latino andrebbe riportato, urgentemente, in tutte le scuole di ordine e grado in quanto unica lingua capace, con poche parole, di sintetizzare situazioni, sentimenti, costumi, e di individuare il motivo conduttore di un intera società.

    La nostra società, per meglio dire la nostra epoca storica, al di là di qualche regione del pianeta non ancora contaminata, si identifica spesso con il cupio dissolvi, l’irragionevole volontà di annientamento.

    Lo vediamo nelle correnti di pensiero, la parola pensiero è un eufemismo, che ardono dal desiderio di cancellare la storia distruggendo i monumenti che l’hanno rappresentata e la rappresentano, nel bene e nel male, nello scorrere dei millenni.

    Da quando i talebani, nel 2001, distrussero i Buddha di Bamiyan, bene dell’umanità, poi imitati dall’Isis, che per altro salvò una parte dei beni archeologici apparentemente distrutti per rivendere i vari pezzi a collezionisti malfattori, lentamente ma inesorabilmente, da più parti nel mondo, vediamo distruggere, o proporre di distruggere, monumenti, statue che rappresentano il passato nel tentativo di ridisegnare la storia, rimuoverla, come se abbattendo le statue si potesse cancellare quello che è stato il passato.

    Cupio dissolvi, dissolvere la Storia, ma non basta, in molti vogliono cancellare, modificare se stessi anche con i tatuaggi che ricoprono gran parte del corpo, per diventare altro da quello che sono.

    Non vogliamo essere noi stessi o, ancor meglio, vogliamo ogni giorno cambiare ciò che eravamo il giorno prima, ancor meglio vogliamo non avere nessuna identità chiara ma solo liquida, in una società altrettanto liquida dove solo chi ha veramente il potere sa invece benissimo chi è e cosa vuole.

    Una società liquida e senza Storia per popoli di uomini e donne con identità confuse, negate, perdute, collegati in un mondo virtuale, sostituiti nel pensiero dall’intelligenza artificiale e sempre più, inesorabilmente, pedine di quei pochi che detengono il potere economico e tecnologico, poteri che si supportano, vicendevolmente.

    Cancellare, uccidendoli o abbandonandoli, i bambini che impediscono ai genitori di sentirsi completamente liberi e senza responsabilità.

    Cancellare, usando anche la violenza estrema, le donne che non si assoggettano ad essere maltrattate, che vogliono chiudere un rapporto malato, cancellare, uccidere chi non accetta di essere proprietà altrui.

    Cancellare nazioni, popoli, per odio o per impadronirsi di beni e territori ai quali non si ha diritto, e non importa se con le guerre, con il terrorismo, muoiono migliaia, decine di migliaia di persone ed ogni legge internazionale diventa evanescente.

    Cancellare gli altri, cancellare se stessi, il cupio dissolvi diventa ogni giorno di più la dissolvenza della nostra società.

  • Torna alla luce antica strada lastricata di Segesta

    Torna alla luce l’antica strada lastricata che tagliava Segesta. Nel corso del cantiere di scavo, condotto dall’Università di Ginevra all’interno del Parco archeologico regionale, sono stati scoperti diversi lastroni dell’antica strada che fu utilizzata fino al periodo medievale. Ne ha dato notizia l’assessorato regionale dei Beni culturali e dell’identità siciliana.

    Si tratta di un ritrovamento eccezionale che permetterà di riscrivere l’ampiezza dell’abitato di età ellenistica, ma già nell’orbita romana, in attività sino all’epoca medievale, come denunciano importanti frammenti di ceramica. Ma gli archeologi sperano in altro: si intuisce che la strada prosegua ben oltre e potrebbe condurre ad un’agorà. Sul posto stanno lavorando, a supporto di tecnici ed esperti, anche i giovani richiedenti asilo del centro Casa Belvedere di Marsala, che ha stretto un accordo di archeologia solidale con il Parco di Segesta e l’Università di Ginevra.

    Siamo nell’area della cosiddetta Casa del Navarca, nell’Acropoli sud dell’insediamento, in un sito dove si svolsero delle prime indagini nel 1992, ma lo scavo venne ricoperto. Nel 2021 si è ripreso a lavorare ed è venuta alla luce un’importante pavimentazione unica nel suo genere, una sorta di antico gioco illusorio a tessere romboidali a tre colori, “sectilia” marmorei (bianco, celeste e verde scuro) che raffigurano una sequenza concatenata di cubi dall’effetto tridimensionale. Una visione che ricorda moltissimo i Mondi impossibili creati a fine ‘800 da Escher. Ma anche due mensole in pietra a forma di prua e una scritta di benvenuto: sono stati questi ritrovamenti a far finora ipotizzare agli archeologi che questa fosse l’abitazione del navarca Eraclio, ricchissimo armatore citato da Cicerone nelle Verrine. La casa doveva essere una sorta di sito di avvistamento – come dimostra una torre medievale – visto che da quassù lo sguardo arriva fino all’odierna Castellammare. Ma è un’ipotesi di cui gli archeologi, la direttrice dello scavo Alessia Mistretta ed Emanuele Canzonieri, non sono convinti.

    La direzione del parco archeologico di Segesta segue da vicino i lavori che stanno consentendo di rivelare ciò che si aspettava da tempo, permettendo di cominciare a scoprire l’antica città di Segesta. Nei decenni gli archeologi hanno scoperto i simboli più importanti, ma poco si sa della città che si è capito essere stata elegante, raffinata, con decorazioni, mosaici, affreschi, sculture. L’intento, adesso, è finalmente scoprire in quale direzione Segesta aveva i suoi assi viari. Dal 25 aprile sono possibili, con il supporto del concessionario dei servizi aggiuntivi, CoopCulture, anche visite guidate a cantiere aperto.

  • Egyptians complain over Netflix depiction of Cleopatra as black

    A Netflix docudrama series that depicts Queen Cleopatra VII as a black African has sparked controversy in Egypt.

    A lawyer has filed a complaint that accuses African Queens: Queen Cleopatra of violating media laws and aiming to “erase the Egyptian identity”.

    A top archaeologist insisted Cleopatra was “light-skinned, not black”.

    But the producer said “her heritage is highly debated” and the actress playing her told critics: “If you don’t like the casting, don’t watch the show.”

    Adele James made the comment in a Twitter post that included screengrabs of abusive comments that included racist slurs.

    Cleopatra was born in the Egyptian city of Alexandria in 69 BC and became the last queen of a Greek-speaking dynasty founded by Alexander the Great’s Macedonian general Ptolemy.

    She succeeded her father Ptolemy XII in 51 BC and ruled until her death in 30 BC. Afterwards, Egypt fell under Roman domination.

    The identity of Cleopatra’s mother is not known, and historians say it is possible that she, or any other female ancestor, was an indigenous Egyptian or from elsewhere in Africa.

    Netflix’s companion website Tudum reported in February that the choice to cast Adele James, who is of mixed race, as Cleopatra in its new documentary series was “a nod to the centuries-long conversation about the ruler’s race”.

    Jada Pinkett Smith, the American actress who was executive producer and narrator, was meanwhile quoted as saying: “We don’t often get to see or hear stories about black queens, and that was really important for me, as well as for my daughter, and just for my community to be able to know those stories because there are tons of them!”

    But when the trailer was released last week many Egyptians condemned the depiction of Cleopatra.

    Zahi Hawass, a prominent Egyptologist and former antiquities minister, told the al-Masry al-Youm newspaper: “This is completely fake. Cleopatra was Greek, meaning that she was light-skinned, not black.”

    Mr Hawass said the only rulers of Egypt known to have been black were the Kushite kings of the 25th Dynasty (747-656 BC).

    “Netflix is trying to provoke confusion by spreading false and deceptive facts that the origin of the Egyptian civilisation is black,” he added and called on Egyptians to take a stand against the streaming giant.

    On Sunday, lawyer Mahmoud al-Semary filed a complaint with the public prosecutor demanding that he take “the necessary legal measures” and block access to Netflix’s services in Egypt.

    He alleged that the series included visual material and content that violated Egypt’s media laws and accused Netflix of trying to “promote the Afrocentric thinking… which includes slogans and writings aimed at distorting and erasing the Egyptian identity”.

    Three years ago, plans for a movie about Cleopatra starring the Israeli actress Gal Gadot triggered a heated debate on social media, with some people insisting that the role should instead go to an Arab or African actress.

    Gadot subsequently defended the casting decision, saying: “We were looking for a Macedonian actress that could fit Cleopatra. She wasn’t there, and I was very passionate about Cleopatra.”

  • ‘Dignità di una scelta – Cronistoria di un balilla classe 1931’ di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi

    E’ uscito il libro, per ‘Bastogi Libri’, dell’On. Ludovico Boetti Villanis, una memoria storica che, come i lettori potranno vedere dalla sinossi, ci fa ripercorrere da una diversa ottica fatti ed avvenimenti del recente passato 

    In questo memoriale alla sconfitta della Patria  – cosi la definì Benedetto Croce con il suo no alla ratifica del Trattato di Pace 10 febbraio 1947  – nel secondo conflitto mondiale è data una valenza civile, morale, più ancora che militare, ed è pertanto qui rivissuta in tutte le fasi e conseguenze. Per ciò la prima pagina del testo, manoscritta, è la dedica al ricordo delle medaglie d’oro Carlo Borsani e Carlo Fecia di Cossato, “eroi dimenticati che ‘”‘la resa ignominiosa”” del settembre 1943 riscattarono con la dignità di una scelta”.

    Carlo Borsani, grande invalido, cieco di guerra, che per “l’onore” della Patria e con spirito di pacificazione con il quale si prodigò attivamente, aveva acconsentito di essere Presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra nella RS.I., fu assassinato dai partigiani comunisti il 29 aprile 1945 ed esposto al pubblico ludibrio su un carretto della spazzatura; Carlo Fecia di Cossato che “la resa ignominiosa [aveva invece accettato] perché presentata come ordine del Re che [….] chiedeva l’enorme sacrificio del [l’] onore [della Regia Marina]” per la sopravvivenza della Patria alla sconfitta, “il 9 settembre con la propria “torpediniera [diede] nuova prova di spirito combattivo (precedentemente come comandante del sommergibile Tazzoli aveva raggiunto “un totale di 100.000 tonnellate di naviglio avversario affondato” – n.d.r.) attaccando con la sola sua unità sette navi germaniche di armamento prevalente che affondava a cannonate dopo aspro combattimento, condotto con grande bravura ed estrema decisione”, epperò il 22 giugno 1944, all’ordine “di uscire in pattugliamento [dichiarò di non riconoscere] come legittimo un Governo che non [aveva] prestato giuramento al Re [e di rifiutarsi di eseguire] gli ordini”, sicché, destituito e reintegrato per le vivaci proteste degli equipaggi, al termine della licenza “[il 21 agosto, manifestando alla madre per lettera tutta la sua] profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda….[e non riuscendo] a trovare una via d’uscita, uno scopo alla vita, [si suicidò ritenendo che il suo] posto[fosse con i suoi] marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare”.

    Di questi sentimenti e di questi fatti si fece interprete nel 2001 Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica, con un esplicito richiamo al senso di appartenenza nazionale che nel 1943-1945 “animò molti dei giovani che fecero scelte diverse credendo di servire ugualmente l’onore della propria patria” e di ciò argomenta Dignità di una scelta – cronistoria di un balilla classe 1931. Sul fascismo, nato come movimento patriottico di sinistra, che con il suo attivismo, poi con la fattiva azione di governo soprattutto dei primi anni, solleva la Nazione dal caos post bellico, e via via si fa regime sull’onda del suo ardente patriottismo per la guerra conclusasi vittoriosamente, stante in tal guisa la convergenza in esso di varie culture politiche talora persino antitetiche; su gli anni di un consenso crescente, venuto meno solo per la tragica prospettiva del disastro civile e militare che porta al 25 luglio 1943. Però – nota l’Autore – come del resto sancito al punto 2 del preambolo del Trattato di pace, ratificato dall’Assemblea Costituente, “il rovesciamento del regime fascista in conseguenza delle vittorie alleate e con l’aiuto degli elementi democratici italiani”, come “la capitolazione senza condizioni”, hanno luogo fuori di qualsiasi moto o partecipazione popolare. Alla stessa stregua del tutto vano rimane il tentativo del governo Badoglio di ribaltare le alleanze dell’Italia nella guerra in corso e ciò perché, sebbene gli Alleati per tutto il suo tempo abbiano propagandato di “combattere il fascismo e non il popolo italiano” invece, come attestano l’armistizio di Cassibile 3 settembre 1943, quello c.d. “Lungo” 29 settembre succ. e l’accordo-diktat 7 dicembre 1944 dell’Alto Comando Alleato nei confronti del CLNAI in vista espressamente della ritirata tedesca di primavera 1945, in realtà sono inflessibili nel decretare l’annientamento morale e materiale della Nazione, imponendole la cobelligeranza ai soli loro fini strategici. Ed in tal guisa la impongono pure al movimento partigiano impegnandolo solo a “realizzare il massimo sforzo per mantenere la legge e l’ordine e per continuare a salvaguardare le risorse economiche del Paese” durante la ritirata dei resti del nemico da loro sconfitto, finanziandolo all’uopo con centosessantanove milioni in forza del predetto accordo-diktat 7 dicembre 1944. Ed il trattato di Parigi 10 febbraio 1947 è la conferma di tutto ciò tant’è che è il ministro degli esteri Carlo Sforza, nella relazione 27 giugno all’Assemblea Costituente, ad asserire che “non vi fui mai negoziato”, che “non si può parlare di partecipazione italiana all’elaborazione del trattato” e che “il 20 gennaio venne [solo] notificato al Governo italiano l’invito formale ad inviare suoi plenipotenziari a Parigi, il 10 febbraio, per firmare il Trattato definitivo”!

    Tanto basta per concordare con Benedetto Croce che nessun italiano fascista o antifascista, militante nella Resistenza o nella R.S.I., e nel dopoguerra – aggiunge l’Autore – “nell’arco costituzionale” o meno, può escludersi da quella sconfitta della nostra Patria.

    In “Dignità di una scelta” c’è poi un ampio ed esplicito richiamo a personaggi, a fatti e situazioni di cui alla storiografia più accreditata. Le lettere a “Il Giornale”, tra le più significative ed attendibili della rubrica “Tempi di guerra”, corredano le tesi svolte dall’Autore. E tra esse due sue: una in data 10 maggio 2017, e qui è Allen Dulles che dirige l’O.S.S. in Svizzera (La resa segreta, Garzanti 1966), ad escludere la pretesa insurrezione popolare del 25 aprile 1945, non foss’altro perché in quel giorno e in quelli successivi le Forze armate germaniche e quelle della RS.I. non solo sono in ritirata ma in fase di resa per evitare l’ annientamento, già concordata il 1 marzo ad Ascona tra il Generale Karl Wolff, Comandante in capo delle SS in Italia, e gli Alleati; nell’altra è lo storico militare inglese B.H. Liddel Hart (Storia militare della Seconda Guerra Mondiale – Mondadori 1969) ad escludere che i “Ragazzi di Salò”, “a cercar la bella morte” di Carlo Mazzantini, finissero per “fare solo rastrellamenti e rappresaglie nelle valli del nord”, e a citare le divisioni, alpini della “Monterosa”, marò della “S. Marco” e bersaglieri dell”‘Italia”, quali protagoniste il 26 dicembre 1944 del primo e unico contrattacco sul fronte italiano, “fatto quasi esclusivamente di truppe italiane”. E sulla consistenza di truppe della RSI solo sul fronte sud italiano, ancora nell’aprile del ’45 prima dell’offensiva finale, Hart dice testualmente: “I tedeschi disponevano in totale di 491.000 uomini oltre 108.000 italiani…”.

    Dignità di una scelta è quindi la cronistoria di un balilla classe 1931. La testimonianza su “La destra italiana fra storia e cronaca nei ricordi di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi”, resa il 25 gennaio 2020 per “il progetto di formazione politica” nella sede torinese di Fratelli d’Italia, arricchita con argomentazioni e puntuali documentazioni che si atteggiano in guisa di riflessioni a consuntivo di una vita vissuta e intensamente ripensata. E a Giorgio Almirante che con pochi altri fondo il M.S.I. e che, nel rigenerarlo in Destra Nazionale alla stregua del vecchio motto missino “né rinnegare, né restaurare” di Augusto De Marsanich, ne fu il principale artefice, va il riconoscimento di patriota, di maestro di libertà e di progresso nella democrazia.

    Per concludere, dei prefatori valga solo dire che l’intellettuale Pietrangelo Buttafuoco in “mantiene fede alla parola data”, il “Pentateuco di vile blasfemia”, con il tormento di “una coerente disobbedienza” alla Dinastia, coglie il senso di Dignità di una scelta e lo storico Aldo A. Mola pure, concludendo: “Chi, come l’autore di queste pagine, è orgoglioso del proprio ruolo di patriota attende il giudizio della Storia e, come fa in molte note del volume, incrocia nobilmente i suoi ferri dialettici con chi vorrebbe tacitare per sempre l’avversario sulla scorta dell’irridente principio: “”i vinti hanno sempre torto””. Ma nel 1943-1947 chi furono davvero i “”vinti””? E’ il quesito affiorante da queste pagine di Ludovico Boetti Villanis-Audifredi che implicitamente rinviano alle opere decenni addietro scritte “”a schiena dritta”” da Giana Accame. Al lettore la risposta”.

  • La storia, la memoria per affrontare il presente

    La memoria della nostra storia dovrebbe aiutarci, non soltanto sul piano culturale, ad affrontare meglio il nostro presente ma, purtroppo, la storia si studia sempre meno, non sempre ci è presentata in modo imparziale e la memoria diventa sempre più debole.

    Per tenere viva la nostra storia e la nostra memoria ho pensato di ricordare Marzabotto, un comune dell’Appennino emiliano che rappresenta la nostra storia recente ed antica, così antica da essere parte delle nostre stesse origini.

    La Storia recente ci porta alla Seconda Guerra mondiale: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 Marzabotto, ed i comuni di Monzuno e Grizzana Morandi, hanno vissuto una delle più tragiche pagine dell’ultima guerra: stragi ed eccidi compiuti da truppe tedesche, specie delle SS, centinaia e centinaia di civili, non solo partigiani, trucidati oltre ad altre centinaia di persone morte per cause di guerra.

    Il feldmaresciallo Kesselring fece sterminare indiscriminatamente la popolazione radendo al suolo paesi e cascine, capo dell’operazione era stato nominato il maggiore Reder.

    Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione disperata si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta dove i tedeschi irruppero uccidendo a mitragliate il sacerdote ed alcuni anziani. Le altre persone furono fatte uscire dalla chiesa, radunate nel cimitero e a loro volta uccise a colpi di mitragliatrice: 197 furono le vittime delle quali 52 bambini. Le stragi continuarono in altri paesi e frazioni, non furono risparmiati né bambini né suore o sacerdoti.

    Tragedie come queste non possono essere dimenticate perché solo la memoria di tanto orrore può aiutarci a vivere impedendo che odio, violenza efferata, ideologie sbagliate possano portarci ad altri orrori.

    Il piccolo paese di Marzabotto ci parla anche di una storia molto antica: proprio nella sua grande parte più pianeggiante, che si affaccia sul fiume Reno, sorgeva un’antica città etrusca, Kainua, fondata nel V secolo a.C. sui resti di un precedente abitato.

    Il fiume Reno, via commerciale tra la Pianura Padana e la Toscana settentrionale, contribuì alla prosperità della città della quale possiamo ancora vedere i resti che si estendono per circa 20 ettari.

    Visitando il museo adiacente, ricco di reperti e molto ben organizzato, si ha la possibilità di avvicinarci alla misteriosa civiltà etrusca che anche per gli antichi romani era fonte di cultura e di particolare interesse per la fama dei suoi importanti aruspici. Nessun comandante romano avrebbe mai intrapreso una battaglia, o preso un’importante decisione, senza aver prima consultato il volere degli dei.

    Verso il terzo secolo a.C. l’arrivo dei celti in Italia porto la città al decadimento.

    Soltanto alla fine del 1800 il conte Pompeo Aria, proprietario dell’area, promosse lo studio e la classificazione dei reperti che aveva individuato grazie agli scavi di esperti archeologi da lui chiamati.

    Nel 1933 l’importante collezione privata fu donata, con tutta l’area, allo Stato italiano, purtroppo durante la guerra, per un bombardamento, una parte dei reperti andò distrutta ma, con perizia e pazienza, il museo è stato ricostruito e rimane una importante fonte per conoscere gli etruschi e la nostra storia.

    La vita e la morte, la disperazione e la speranza si intrecciano nella storia e la meravigliosa piana, dove sorgeva la città etrusca, o il monumento in ricordo delle stragi sono luoghi di riflessione e aiutano non solo a conoscere il passato ma anche noi stessi.

    Nel bene e nel male, in modi solo apparentemente diversi, la storia si ripete, Vico lo ricorda con i corsi e ricorsi storici, sta a noi tentare di impedire che il male, sotto qualunque forma, si ripresenti, sta a noi difendere cultura e identità nel rispetto degli altri.

    Buona Pasqua

  • A Volgograd (già Stalingrado) un busto dedicato a Stalin

    Lo spettro di Stalin si aggira per la Russia. Il mito del dittatore sovietico responsabile del Terrore degli anni ’30 e ’40, ma anche leader della resistenza alle truppe d’invasione tedesche e della vittoria su Hitler, rinasce in concomitanza con quella che il presidente Vladimir Putin ha presentato come la lotta ai “neonazisti” al potere a Kiev. Così un busto alla memoria di quello che un tempo la stampa sovietica salutava come ‘il padre delle nazioni’ è stato inaugurato a Volgograd, l’attuale nome di Stalingrado, nell’ottantesimo anniversario della battaglia che in gran parte segnò le sorti della Seconda guerra mondiale.

    Funzionari locali e rappresentanti della città hanno partecipato alla cerimonia, durante la quale alcuni soldati hanno deposto fiori ai piedi della statua di Stalin e di quelle dei due generali che lo affiancano: Alexander Vasilievsky, capo di Stato maggiore e mente delle più importanti battaglie del conflitto contro i nazisti, e Georgy Zhukov, il comandante sul campo che con le sue truppe arrivò fino a Berlino nell’aprile del 1945, portando alla sua conclusione vittoriosa quella che in Russia è ricordata come la Grande Guerra Patriottica e che ancora unisce il popolo nella memoria dell’eroico passato.

    I busti sorgono vicino al museo dedicato alla battaglia di Stalingrado, che nell’inverno 1942-43 vide l’eroica resistenza della città e poi la resa delle truppe tedesche del generale Friedrich von Paulus. Le tre statue sono opera dello scultore Serghei Shcherbakov. «Tutto è stato veloce, abbiamo dovuto eseguire l’ordine in poco tempo», ha raccontato l’artista. Il culmine dei festeggiamenti per l’ottantesimo anniversario della battaglia di Stalingrado sarà domani, quando in città è in programma una parata con la partecipazione di Putin. Per favorire lo svolgersi delle cerimonie e prevenire eventuali problemi per la sicurezza è stato vietato fino a giovedì il transito dei camion, oltre che di treni e veicoli che trasportano “carichi pericolosi”. Oggi e domani, inoltre, sono stati dichiarati giorni festivi per gli impiegati statali della città.

  • Corsi e ricorsi

    1932: nei lunghi mesi che vanno dal 1932 al 1933 una terribile carestia sconvolse l’Ucraina, una calamità che fece morire di fame milioni di persone. Una tragedia che gli ucraini ricordano col nome di Holodomor, sterminio per fame.

    La insensata campagna di forzata coltivazione agraria, iniziata da Stalin nel 1929, è l’inizio di quella tragedia.

    Nelle campagne della fertile Ucraina, domata nel 1917 dopo una strenua resistenza alla Russia, arrivano migliaia di funzionari sovietici mandati da Mosca ad imporre la pianificazione voluta dal soviet. E’ la fine della libertà, della proprietà privata, dell’agricoltura tradizionale che aveva dato da vivere fino ad allora, è la nascita dei kolchoz, di quelle cooperative agricole nelle quali i contadini non erano più agricoltori proprietari ma braccianti che dovevano seguire ordini altrui con uno stipendio statale.

    La terra, gli animali, i macchinari, i raccolti diventarono tutti di proprietà pubblica.

    I piccoli proprietari, i piccoli agricoltori si ribellarono, quella terra era loro, dei loro padri, dei loro figli, non poteva diventare proprietà del soviet che bollò i kulaki come forza contro la rivoluzione e ne deportò due milioni in Siberia, da dove non sarebbero più tornati.

    Chi non fu deportato e non riuscì a scappare diventò un nuovo servo della gleba, caduto nella disperazione cercò di non contribuire più ai lavori, entrò in una resistenza apparentemente passiva, i contadini, che non volevano collaborare con il soviet, cercarono, quando potevano, di nascondere i raccolti e, piuttosto che consegnare gli animali al kolchoz, li macellarono o li lasciarono andare via liberi.

    La produzione agricola crollò di anno in anno e Stalin, senza la produzione necessaria di grano e perciò di pane, aumentò le restrizioni, fece requisire più del 70% del grano prodotto in Ucraina lasciando la popolazione senza cibo, promulgò la legge delle cinque spighe per la quale chiunque fosse stato trovato a nascondere un pugno di cibo, un pezzo di pane, poteva essere punito con dieci anni di carcere nei terribili gulag o con la fucilazione.

    La fame diventò dilagante, la carestia, causata dalle sciagurate scelte del regime comunista, la totale mancanza di cibo dovuta alle continue requisizioni portarono a milioni di morti dei quali una gran parte bambini.

    2022: sono passati 90 anni da quella tragedia e Putin, il nuovo Stalin che prova ad ammantarsi dei panni di uno zar mentre è solo un dittatore assassino, riprova ad annientare l’Ucraina: dove le bombe non sono riuscite a piegare l’esercito ed il popolo ora prova con il freddo e il buio.

    La storia si ripete: sull’Ucraina si abbatte ancora una volta la spietatezza di un uomo, del capo della Russia, che si chiami grande Russia o soviet poco cambia, ma questa volta gli ucraini non sono soli, il loro coraggio ha trovato, e deve continuare a trovare, appoggio, aiuto concreto, condivisione in Europa e in tanta Stati e popoli nel mondo e i terribili giorni di Holodomor dovrebbero essere ricordati da tutti come i giorni di un vero genocidio.

    Questa volta la storia non deve ripetersi.

  • I conti con la Storia

    Salutiamo positivamente che, tra i tanti problemi emergenti ed importanti che si debbono affrontare subito, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni abbia voluto, una volta di più, definitivamente chiarire, se  ancora ce ne era bisogno, il suo pensiero sulle dittature, il fascismo e le tragiche leggi razziali. Auspichiamo che da ora in poi nessuno di Fratelli d’Italia sarà più tormentato dalle continue richieste di fare i conti con la Storia,  i conti sono stati fatti da anni.

    Vogliamo però ricordare, perché la memoria è sempre troppo corta, che quando Fini andò in Israele e dichiarò il fascismo male assoluto proprio per le leggi razziali  non tanti apprezzarono fino in fondo e che comunque i conti con la Storia non solo li ha chiusi Fini con quei gesti ed azioni politiche conseguenti ma prima lo stesso Giorgio Almirante condividendo il percorso democratico che fece l’MSI in sede nazionale e con le scelte dell’alleanza atlantica e della comunità europea.

    L’Italia sta però ancora aspettando che altri facciano i conti con la Storia passata e con il presente condannando, senza se e senza ma, il comunismo di ieri e di oggi con gli orrori che ancora si ripetono in tanta parte del mondo.

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