voto

  • La solita farsa politica tra numeri, quorum e Corte Costituzionale

    Con poco meno di 46 milioni di aventi diritto hanno votato poco più di 14 milioni, cioè il 30,6%. Ma già sono cominciati i teatrini politici tra chi si considera vincitore e chi un non perdente.

    Ancora una volta si assiste al miserevole tentativo di appropriazione indebita dei risultati elettorali oggi referendari, ad ulteriore conferma della attribuzione di un ulteriore valore politico al referendum.

    Alcuni rappresentanti già ora, tra i non perdenti, avanzano la necessità di una nuova iniziativa referendaria finalizzata alla abolizione del quorum, a dimostrazione di come questi soggetti in cerca solo di un nuovo palcoscenico mediatico non abbiano neppure le basi culturali minime relative all’asset istituzionale del nostro Paese.

    La Repubblica italiana è una democrazia parlamentare delegata, all’interno della quale l’istituto del referendum è stato concepito dai costituenti come unico e timido elemento spurio di democrazia diretta, finalizzato solo ed esclusivamente alla abrogazione di una legge esistente (art.75) o di ratifica di una modifica costituzionale.

    Questa limitazione del referendum indica senza dubbio la scarsa considerazione che i costituenti avevano nella capacità di scelta degli elettori italiani la cui lontananza dal ceto politico viene confermata ancora oggi da una discutibile ed obsoleta “assenza del vincolo di mandato”.

    Viceversa, in una democrazia diretta come quella svizzera, la quale rappresenta il vero ed unico modello di democrazia contemporanea rispetto anche alla oligarchia europea, i cittadini vengono chiamati ad esprimere il loro parere attraverso il voto postale su diverse materie di interesse pubblico, quindi anche fiscali ed economiche, tematiche invece escluse dai costituenti italiani nella definizione dell’istituto del referendum abrogativo.

    In questo elvetico contesto evidentemente il quorum non ha ragione di esistere in quanto l’esito elettorale rappresenta la democratica espressione di una volontà popolare esattamente come avviene in Italia per le elezioni politiche. In Italia, infatti, il risultato delle elezioni non è legato alla percentuale di affluenza degli elettori. La pretesa, quindi, della abolizione del quorum risulta assolutamente priva di assetto istituzionale e rende ridicola ogni equiparazione tra il numero di votanti del referendum e la maggioranza che sostiene il governo.

    In più, entrambi gli schieramenti cercano di appropriarsi del numero degli aventi diritto che abbiano o meno esercitato appunto quanto costituzionalmente garantito, “partiamo dai quindici milioni di votanti”, hanno detto molti leader tra i non perdenti. Un’operazione decisamente impropria in quanto, ad esempio, al quesito relativo ai tempi per ottenere la cittadinanza italiana andrebbero tolti quasi cinque milioni di elettori che hanno votato No alla modifica legislativa.

    In questo ambito, in più, sembra incredibile come nessuno abbia avvertito come impropria la decisione della Corte Costituzionale relativa alla ammissibilità del quesito referendario sulla cittadinanza, in quanto la Corte di fatto ha avallato un referendum che proponeva non solo la volontà di abrogare la legislazione vigente ma, contemporaneamente, proponeva i “nuovi tempi” per vedere riconosciuto lo stesso diritto, quindi in immediata  sostituzione della normativa vigente, spingendosi molto al di là dei confini di una semplice abrogazione attribuita e riconosciuta dalla Costituzione italiana.

    Qualora l’esito elettorale fosse stato positivo avrebbe comunque limitato l’attività legislativa del Parlamento, indicando al suo interno già il termine di cinque anni al quale attenersi, esautorandone di conseguenza i poteri costituzionalmente garantiti come la sua stessa autonomia. In pratica il potere legislativo esercitato dal Parlamento sarebbe stato limitato nella definizione della nuova normativa anche rispetto ai tempi dallo stesso quesito referendario, trasformando in modo improprio il carattere abrogativo del referendum in addirittura propositivo e legislativo tipico di una democrazia diretta, ma in forte contraddizione quindi con l’asset istituzionale italiano.

    Ancora una volta il quadro che ne esce di fronte a questa operazione di appropriazione indebita degli esiti elettorali definisce il senso di inadeguatezza dell’intera classe politica ma anche insinua un senso di parzialità di organi ed istituzioni che dovrebbero esercitare un ruolo terzo.

  • Groenlandia al voto. Stavolta più di Copenhagen preoccupa Washington

    L’11 marzo gli abitanti della Groenlandia sono stati chiamati alle urne per eleggere il governo locale, in quello che potrebbe essere un voto cruciale per il futuro dell’isola, la più grande al mondo. Negli ultimi tempi, la Groenlandia si è infatti trovata oggetto di attenzioni inusuali per un territorio così isolato e marginale nella politica internazionale. L’isola, che gode di una semi-autonomia dalla Danimarca, è stata infatti definita dal presidente statunitense Donald Trump come “indispensabile per la sicurezza nazionale e internazionale”, in virtù della sua posizione strategica, tra l’Oceano Atlantico e il Circolo polare artico, e per via delle ingenti ricchezze del suo sottosuolo. Per queste ragioni, il titolare della Casa Bianca ha promesso di fare il possibile affinché la Groenlandia passi sotto il controllo statunitense, nonostante ciò voglia dire scontrarsi con una nazione alleata all’interno della Nato, la Danimarca. I toni usati da Trump negli ultimi mesi non sembrano tenere in particolare conto nemmeno la volontà della popolazione locale dell’isola, che da decenni vive un complesso dilemma tra la volontà di una maggiore autonomia politica da Copenaghen, se non una totale indipendenza, e la realtà di non avere strumenti economici alla portata per assicurare la sostenibilità di tale progetto.

    I groenlandesi sono infatti dipendenti dal sostegno finanziario che il governo danese fornisce loro ogni anno (oltre 500 milioni di euro), necessario a coprire i limiti di un’economia basata prevalentemente sulla pesca e sul turismo. La grande ricchezza della Groenlandia, costituita dalle risorse naturali e minerarie, rappresenta un capitolo a parte: il timore di vedere il proprio territorio profondamente alterato dall’attività estrattiva ha fatto prevalere tra gli elettori un sentimento di diffidenza verso quelle iniziative economiche che potrebbero senz’altro assicurare grandi rendite e quindi favorire il processo di indipendenza. Tale approccio “conservatore”, motivato da considerazioni ecologiste e politiche, ha consegnato la vittoria al partito Inuit Ataqatigiit nelle ultime elezioni locali nel 2021. All’epoca lo sfruttamento minerario era stato al centro del dibattito tra le varie formazioni groenlandesi, in particolare per quanto concerneva il giacimento di terre rare di Kvanefjeld. A distanza di quattro anni, la posta in ballo non è più limitata alle scelte economiche ma coinvolge anche il futuro della Groenlandia e la sovranità del territorio, a fronte delle ambizioni rivendicate da Trump. Allo stato attuale l’isola gode di una grande autonomia dalla Danimarca, eccetto per gli affari esteri, la difesa e la politica monetaria, che spettano a Copenaghen – nel cui Parlamento sono comunque assicurati dei seggi ai rappresentanti groenlandesi. Sebbene i sondaggi confermino la predominanza del sentimento indipendentista tra i cittadini, non c’è uniformità di giudizio sulle tempistiche dell’effettivo distacco dalla Danimarca e il potenziale impatto di tale decisione sulle finanze pubbliche e sugli standard di vita.

    Le proposte dei principali partiti groenlandesi rispecchiano questa dinamica. Il già citato Inuit Ataqatigiit, formazione socialista e ambientalista attualmente al governo con il suo leader Mute Bourup Egede, si dice formalmente indipendentista ma non ha presentato piani concreti per questo obiettivo, sottolineando le difficili condizioni economiche in cui la Groenlandia potrebbe trovarsi una volta ottenuta una piena sovranità. Linea similare è quella del partner di maggioranza, il partito di impostazione socialdemocratica Siumut, che sostiene una secessione graduale dalla Danimarca e che in passato ha lanciato l’idea di un referendum da tenersi a breve termine, salvo poi ritirare tale iniziativa. Naleraq, la principale forza di opposizione, ritiene invece che una rapida transizione verso l’indipendenza sia possibile e che gli abitanti della Groenlandia ne trarrebbero beneficio economicamente grazie a un rilancio dell’industria della pesca e in generale delle esportazioni. Un tema su cui Naleraq ha insistito in campagna elettorale è anche quello relativo a un accordo di difesa con gli Stati Uniti, che già operano alcune basi sull’isola. Contrari all’indipendenza sono invece gli esponenti di Atassut, partito conservatore che promuove invece il proseguimento del rapporto con la corona danese nel contesto del Commonwealth con Copenaghen.

    I desideri di Trump non sembrano dunque sposarsi con quelli delle formazioni politiche groenlandesi, in particolare per quel che riguarda il controllo dei giacimenti minerari e in generale delle risorse naturali del territorio artico. Recenti sondaggi condotti in Groenlandia per testate locali e danesi hanno evidenziato come solo il 6% dei cittadini sia favorevole a un passaggio sotto la sovranità Usa, a fronte dell’85% di contrari a qualsiasi prospettiva del genere. Gli elettori chiamati domani a rinnovare i 31 seggi dell’Inatsisartut, il Parlamento di Nuuk, dovranno dunque decidere in che direzione condurre la Groenlandia, in un complicato equilibrio tra istanze di indipendenza e un gioco politico di dimensioni transatlantiche.

  • La certezza del diritto

    Uno stato democratico si caratterizza attraverso la certezza del diritto che assicura equità tra i diversi poteri all’interno di una società sempre più complessa ed articolata. La stessa divisione dei poteri rappresenta lo scheletro di garanzie istituzionali dal quale poi vengono esercitati i diversi poteri nella piena e reciproca legittimità. In questo contesto democratico, la sola idea, si ribadisce la sola idea, di spostare l’appuntamento elettorale delle elezioni regionali, in scadenza nel 2025, all’anno successivo e, di conseguenza, aumentando di un anno il mandato in una carica, rappresenta un attacco senza precedenti non solo alla certezza di diritto ma anche alla tutela del diritto di voto attraverso il quale si esercita la volontà dei cittadini.

    A questi ultimi, infatti, verrebbe posticipato di un anno il diritto costituzionalmente garantito di confermare o meno la fiducia alla coalizione al governo, anche se regionale, dopo cinque anni che ora, nella proposta, diventerebbero sei.

    Pur essendo condivisibile l’obiettivo di istituire un unico Election Day per evitare la campagna elettorale perenne nel Paese, questa modifica della durata del mandato elettorale dovrebbe venire dichiarata all’ultimo appuntamento elettorale, non certo in corso d’opera e comunque escludendo le autorità in carica.

    In più, a “sostegno” di questa iniziativa si aggiunge una ulteriore miserabile motivazione individuabile nella volontà espressa del Vice Presidente del Consiglio di offrire la possibilità al governatore del Veneto in carica di inaugurare le prossime Olimpiadi del 2026.

    La sintesi si traduce nella modifica e nell’utilizzo per fini espressamente privati di una garanzia democratica, i tempi del mandato elettorale, per di più manifestata da un vicepresidente del Consiglio, espressione cioè del potere esecutivo, un potere concorrente rispetto a quello legislativo.

    In altre parole, quando il potere esecutivo intende modificare i principi istituzionali così come la certezza del diritto automaticamente si esce dal modello democratico per entrare in una selva oscura.

    Questa iniziativa rappresenta una strategia politica assolutamente priva di qualsiasi fondamento democratico, ed anche se potrebbe esprimere un sostanziale analfabetismo istituzionale, ma non certo giustificarla, risulta assolutamente inaccettabile e rappresenta un pessimo e molto pericoloso esempio di utilizzo delle prerogative democratiche finalizzate al perseguimento di obiettivi personali o di un singolo partito.

    L’election day rappresenta una delle fondamentali riforme da adottare per evitare di vivere in un paese in continua campagna elettorale, incapace quindi di elaborare qualsiasi programma a medio e lungo termine. Tuttavia va ribadito che il percorso verso la sua adozione dovrebbe escludere i rappresentanti attualmente in carica. L’idea di ridurre il perimetro di garanzia istituzionale attraverso la proroga di un anno del mandato elettorale offre il senso della cultura democratica di chi la propone e rappresenta un ulteriore insulto ai cittadini che vedrebbero rimandato di un anno il proprio diritto al voto.

    In ultima analisi questa proposta rappresenta il senso e la volontà di prevaricazione del potere esecutivo nei confronti delle garanzie istituzionali e della stessa certezza del diritto. La sola ignoranza non può più rappresentare una giustificazione accettabile.

  • Nell’indifferenza dei partiti l’astensionismo è la prima forza in Italia e questo non fa bene alla democrazia

    Bene, in Liguria il centro destra ha vinto e il Pd è il primo partito della regione, i 5 Stelle si sono ridotti al lumicino e la Lega si è dimezzata.

    Detto questo ed aggiunti altri eventuali commenti sui successi ed insuccessi dei partiti colpisce, una volta di più, fino a quando troveremo la forza di stupirci, che all’analisi delle forze politiche, ma anche di molti media, continui a mancare il dato principale: il forte astensionismo.

    Certo c’era il maltempo, molte parti della regione erano state sconvolte, certo c’erano stati scandali, che per altro non hanno impedito la vittoria del centro destra con un sindaco che è stato un esempio nella gestione della tragedia ponte di Genova, ma niente giustifica la non partecipazione al voto, specie in un momento così delicato, se non la disaffezione, l’indifferenza, insofferenza che troppi cittadini hanno verso le forze politiche.

    L’astensionismo non è un rifiuto alla politica ma è invece la più palese espressione di contestazione proprio alla mancanza della politica in un sistema dove sempre più la partitocrazia si è sostituita ad un progetto di bene comune che ogni partito dovrebbe avere come faro di riferimento per le sue attività.

    Non si è fatta, come sempre accade da troppi anni, campagna elettorale per sostenere un proprio modello di società ma per contrastare, colpire l’avversario.

    Qualcuno anni fa ha inneggiato alla morte delle ideologie, la verità è che sono morte le idee, le visioni, i progetti, è morta la ragion d’essere di quello che i partiti avrebbero dovuto rappresentare e cioè la proposta offerta a tutti, non solo ai propri iscritti e simpatizzanti, di dare vita ad una società capace di indicare percorsi che includano ciascuno, nel rispetto e nella comprensione di esigenze diverse e mai prevaricatrici del bene comune.

    Partitocrazia, leaderismo, annunci e slogan fini a se stessi, pressapochismo, dichiarazioni non seguite dai fatti, mancanza di conoscenza dei reali problemi dei cittadini, arroganza e autoreferenzialità, solo per citare alcuni dei difetti delle forze politiche, hanno portato alla costante e progressiva disaffezione dei cittadini resi ancor più sospettosi dai tanti scandali che, vicendevolmente, i partiti si trovano ad affrontare e dalle reciproche accuse.

    Diciamolo molto chiaramente la democrazia è a rischio quando tanta parte dell’elettorato non va al voto e vi sono leggi elettorali e proposte di leggi elettorali per le quali con la maggioranza di una minoranza di aventi diritto al voto si può pensare di governare a nome di tutti usufruendo di un parlamento di fatto blindato.

    Nel 1953 un sistema di questo tipo si era chiamato ‘Legge truffa’ e ben fece allora il MSI a combatterla, una legge non è buona perché ci premia, ci fa comodo, una legge è buona se preserva la democrazia e il diritto di rappresentanza di tutti, in primis dei cittadini che oggi continuano ad essere esautorati dal loro diritto di eleggere i propri parlamentari.

  • Appello al voto per l’Europa

    Domani e domenica si vota per il Parlamento europeo, un voto che ci consente di scegliere con la preferenza chi ci dovrà rappresentare fisicamente e politicamente in Europa.

    Andiamo a votare in libertà e coscienza per una Europa più forte ed unita sui grandi temi, dalla politica estera alla difesa comune, meno burocratica e invasiva verso gli Stati nazionali, un’Europa che sappia affrontare la grande sfida: rimanere un mercato debole di fronte alle pressioni delle grandi potenze o diventare finalmente una realtà politica ed economica capace di difendere i propri legittimi interessi e la democrazia e la libertà dei suoi amici ed alleati

    Votare è un diritto, votare è un dovere.

  • Elezioni. Europee, il voto per studentesse e studenti fuori sede

    In occasione delle prossime elezioni dei membri del Parlamento europeo dell’8 (dalle 15:00 alle 23:00) e 9 giugno (dalle 7:00 alle 23:00), studentesse e studenti che per motivi di studio si trovano in un comune di una regione diversa da quella del comune di residenza sono ammessi a votare fuori sede.

    Le modalità previste per l’esercizio del voto fuori sede sono due:
    se il Comune di domicilio temporaneo appartiene alla medesima circoscrizione elettorale del comune di residenza (I – Nord Occidentale, che comprende Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria) gli studenti fuori sede potranno votare direttamente nelle sezioni ordinarie del comune di temporaneo domicilio;
    se il Comune di temporaneo domicilio appartiene a una circoscrizione elettorale diversa da quella a cui appartiene il comune di residenza, gli studenti fuori sede voteranno presso il comune capoluogo della regione alla quale appartiene il comune di temporaneo domicilio, recandosi presso sezioni elettorali speciali.
    Nel caso della Lombardia il capoluogo è Milano e i seggi speciali saranno comunicati tramite propri canali ufficiali entro 15 gg dal voto.

    La domanda per esercitare il diritto di voto fuori sede deve essere presentata al proprio comune di residenza entro il 5 maggio 2024, usando il modello predisposto dal Ministero dell’Interno,

    Alla domanda occorre allegare copia di un documento di riconoscimento in corso di validità, copia della tessera elettorale personale, copia della certificazione o di altra documentazione attestante l’iscrizione presso un’istituzione scolastica, universitaria o formativa.

    Studentesse e studenti aventi residenza a Milano, che vogliono votare fuori sede, devono inviare una mail all’indirizzo DSC.fuorisede@comune.milano.it sempre entro il 5 maggio 2024.
    Il Comune di domicilio o il Comune capoluogo di Regione trasmetterà agli elettori e alle elettrici richiedenti l’attestazione di ammissione al voto fuori sede con l’indicazione del numero e della sezione presso cui votare (comprensiva dell’ubicazione spaziale del seggio).

    Il Comune di domicilio o il Comune capoluogo di Regione trasmetterà agli elettori e alle elettrici richiedenti, entro il 4 giugno 2024, l’attestazione di ammissione al voto fuori sede con l’indicazione del numero e della sezione presso cui votare, da esibire al Presidente del seggio insieme alla tessera elettorale e a un documento di identità.

    Tutte le informazioni sono disponibili sul sito del comune di Milano

     

  • Il vero obiettivo dello stato etico o religioso

    A Parigi è passato il referendum attraverso il quale i proponenti intendevano triplicare i costi di parcheggio ai Suv. Al di là della specifica domanda proposta attraverso questo strumento democratico, l’aspetto più pericoloso che pochi hanno colto è rappresentato dal fatto che se si sia recato alle urne poco più del 5% della popolazione.

    All’interno di una democrazia avanzata e rappresentativa sarebbe da decenni operativa una legge che prevedesse la soglia minima del 50% più uno degli aventi diritto per rendere effettivi gli esisti del referendum.

    Invece, uno stato sempre più etico e simile nelle forme e dinamiche a una vera e propria teocrazia laica
    non si preoccupa della sintonia tra gli esiti elettorali e la volontà della maggioranza degli elettori.
    Anzi, spinge sempre più verso una più marcata percezione del distacco  dei cittadini dalle istituzioni che si estrinseca con l’abbandono di ogni strumento  democratico e quindi della centralità delle stesse elezioni
    come strumento finalizzato all’indirizzo politico di uno stato ed espressione popolare.
    Oltre  la specificità dello strumento referendario, quindi, questo  progressiva perdita di fiducia dei cittadini verso il semplice esercizio della democrazia permette ad ogni élite politica o religiosa di assicurarsi gli esiti elettorali voluti e programmati in quanto il peso elettorale dei propri sostenitori diventerebbe determinante.

    Tornando, infatti, ai numeri del referendum a Parigi si è registrato un afflusso di poco superiore al 5%, numeri che hanno espresso un parere favorevole con il 54,6% al quesito referendario. In altri termini, si pretenderebbe che con il favore del 2,6% degli elettori sia considerato legittimato un referendum e con esso le strategie delle élite
    politiche nel modificare una legge.

    Lo Stato etico, cioè la versione laica della teocrazia, si nutre proprio della propria perdita di credibilità e quindi si alimenta dello stesso scetticismo espresso attraverso un allontanamento da ogni strumento democratico, come quello elettorale.
    Quindi prospera della gestione del consenso ormai monopolistico dei propri affiliati alla religione o all’etica dominante dominandone cosi persino gli esiti elettorali.

  • L’anno delle elezioni mondiali e il futuro dell’Unione europea. Prospettive geopolitiche per il 2024

    Riprendiamo da ‘QN Il Giorno’ del 2 febbraio 2024 l’articolo di Achille Colombo Clerici che ripubblichiamo

    Duemilaventiquattro, anno di elezioni nel mondo che coinvolgeranno oltre due miliardi e 600 milioni di persone. Si comincia in giugno con il voto per il rinnovo del Parlamento dell’Unione Europea; seguiranno India, Stati Uniti, Russia, Indonesia. Nel nostro pianeta di reti sociali, politiche, commerciali e diplomatiche intessute tra loro senza interruzione, le decisioni degli uni influenzeranno più che mai quelle degli altri. Non ci saranno isole.

    Ce lo ricorda Riccardo Pennisi, analista politico e collaboratore di Aspenia, il quale, citando Il politologo Robert Kaplan, parla di una vendetta, o di una rivincita, contro chi ha creduto che la digitalizzazione, le reti sociali, le nuove tecnologie rendessero la realtà sociale omogenea, o le condizioni fisiche ininfluenti. Il peso della geografia sta tornando preponderante sulle spalle di chi si era cullato nei miti di autosufficienza, isolamento e superiorità.

    In Europa c’è, ad esempio, la questione dell’allargamento ad Ucraina, Serbia, Balcani, estendendovi le garanzie di stato di diritto, difesa comune e integrazione economica, come vorrebbe la geopolitica. Ma forse ci si dovrebbe chiedere se l’Unione Europea può allargarsi ancora. Zoppica infatti il consenso delle opinioni pubbliche, in molti anzi ritengono che sia già troppo larga…

    Intanto si è eroso anche l’altro pilastro di quasi tutti i sistemi politici europei, cioè la solida presenza di partiti che vedessero la società secondo linee di ispirazione cristiano-democratica, rimpiazzati da altri che ne accettano una visione gerarchica e diseguale. La legge sull’immigrazione adottata dalla maggioranza macroniana nel parlamento francese, con il consenso entusiasta di Marine Le Pen, è solo l’ultimo di una serie di casi che testimoniano la tendenza al ripristino di un sistema di frontiere rigido e selettivo.

    L’area subsahariana sta prendendo sempre più le forme di un “opposto” per l’Europa, area decisiva per i flussi migratori, per la fornitura di energia, per la presenza di risorse naturali strategiche. Ma sulla quale l’Unione non ha più quasi alcuna presa, né culturale né politico-diplomatica, sostituita spesso dall’ingresso di attori internazionali politici, economici, militari alternativi, legati alla Russia, al Golfo Persico e alla Cina.

  • La separazione dei poteri

    I tre poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale, vengono assegnati dalla nostra costituzione a tre organi statali: il governo, il parlamento e la magistratura.

    All’interno di una democrazia delegata come quella italiana, gli elettori scelgono i propri rappresentanti al parlamento attraverso le elezioni, il cui modello attuale tuttavia riduce la possibilità di espressione.
    A questi rappresentanti viene delegata la funzione legislativa ed implicitamente la rappresentanza e la tutela degli interessi politici ed economici degli elettori.

    L’azione del governo esercita la funzione esecutiva, trae la propria forza dal supporto di una maggioranza parlamentare e rappresenta la funzione esecutiva che esercita con pieno mandato.

    La magistratura rappresenta il terzo potere il cui esercizio meriterebbe una riflessione aggiuntiva.

    In questo contesto istituzionale sarebbe bastato  leggere poche pagine del libro di Crisafulli di Diritto Costituzionale per chiudere una volta per tutte questa penosa querelle relativa al limite di mandati alla Presidenza della Regione che ha innestato l’attuale governatore Zaia.
    Andrebbe ricordato come non viene previsto un limite alla rappresentanza dei propri elettori, come un delirante partito di 5Stelle cercò di introdurre, in quanto il consenso elettorale incide  molto meno nelle articolazioni dello Stato rispetto alla funzione governativa.

    Il potere esecutivo, anche se è eletto direttamente come nella ipotesi di un premierato, viceversa deve essere soggetto ad un limite in quanto il suo esercizio crea una rete di interesse che solo un termine temporale può depotenziare e non rendere parte integrante dello Stato.

    Le democrazie più avanzate, infatti, pongono un limite numerico alla elezione del presidente, come, per esempio, negli Stati Uniti.

    Tornando alla Regione Veneto, sarebbe bastato leggere poche pagine del libro di Diritto Costituzionale per togliere ogni vis polemica a chi non si dimostra ancora pago di essere al comando della Regione dal 2010 e che sta cercando di trasformare un consenso in un diritto regale.

    La democrazia, per sua stessa natura, pone dei limiti al potere esecutivo proprio per mantenere le proprie caratteristiche ed assicurare un minimo di garanzie.

    Sole poche pagine del libro di Crisafulli sarebbero state sufficienti per capirlo, piuttosto che esercitarsi nell’equitazione.

  • Il Presidente del Consiglio chiede agli italiani “volete scegliere voi o far scegliere ai partiti?”

    Alla domanda di Giorgia Meloni rispondiamo con chiarezza: vogliamo scegliere noi, ovviamente, e vogliamo scegliere prima di  tutto chi ci deve rappresentare al Parlamento.

    Nessuna riforma costituzionale, per eleggere il premier, può essere incardinata ed attuata se prima non si da risposta all’esigenza espressa da tempo dagli italiani di tornare, con la preferenza, a votare direttamente chi dovrà rappresentarli, esigenza inascoltata che ha portato ad una sempre maggior astensione dal voto.

    Da troppo tempo sono i capi partito a scegliere chi andrà al Parlamento a rappresentare i cittadini: l’aver esautorato gli elettori dal loro diritto di scelta li ha allontanati dalle urne e ha consentito ai leader di nominare parlamentari a loro vicini e spesso signorsì.

    I deputati, con l’attuale sistema elettorale, non hanno nessun obbligo, interesse, a occuparsi del territorio di elezione mentre sono tesi ad accontentare i capi partito sperando di essere confermati anche nella prossima tornata elettorale. Anche per questo il Parlamento ha sempre minor peso.

    Se i cittadini sono degni di eleggere il premier a maggior ragione lo sono per eleggere i parlamentari.

    Se di pari passo all’elezione diretta del premier non ci sarà il diritto di preferenza per i cittadini ci troveremmo di fronte ad una menzogna, ad un nuovo violento vulnus della democrazia.

    Se è legittimo un premio di maggioranza alla coalizione che vince le elezioni, ripetiamo coalizione e non singolo partito con più voti, crediamo che il primo problema da porsi sia quello di quanti elettori hanno partecipato al voto. Risulta difficile infatti pensare che chi, eventualmente, ha vinto con il 26% del 50%, o poco più, degli aventi diritto al voto possa ottenere il 55% dei seggi.

    Ancora oggi né le forze di governo né quelle di opposizione si sono  poste il problema di quanto sia pericoloso, per la democrazia e la stessa stabilità, il costante aumento dell’astensionismo.

    La risposta a Giorgia Meloni perciò è semplice: vogliamo scegliere noi partendo dal diritto di eleggere chi riteniamo più idoneo a rappresentarci in parlamento, così potremo anche valutare il suo operato a Roma  e sul territorio.

    Vogliamo una riforma che garantisca il sistema democratico, al di là di chi vince le elezioni, il ruolo del parlamento deve rimanere centrale e perciò non si può più accettare che sia composto dai parlamentari nominati dalle oligarchie dei partiti.

    Non riteniamo garanzia di stabilità e trasparenza che un premier possa essere sostituito da un altro leader della sua coalizione, questo sistema si presta a ricatti e ad indebite pressioni e in pochi potrebbero decretare la fine di un presidente del Consiglio eletto  per meri interessi di corrente.

    Se il cuore della riforma è avere un premier eletto dai cittadini come si concilia l’eventuale sostituzione del  premier eletto, e sfiduciato dalla sua maggioranza, con un altro personaggio, della stessa maggioranza, che il popolo non ha votato? E’ una palese contraddizione di quello che il governo dice essere lo spirito della riforma.

    Giorgia Meloni, con la sua domanda posta anche via social, sembra individuare nei partiti l’ostacolo alla pienezza della democrazia e si appella al popolo, ma i partiti non sono forse stati la cinghia di trasmissione tra i cittadini e le istituzioni?

    E se i partiti sono oggi invece diventati puri centri di interesse e di potere, scegliendo anche chi deve essere parlamentare, la colpa non è forse di quel leaderismo che imperversa da troppi anni in Italia e al quale anche la Meloni non si è mai opposta?

    E la colpa non è anche di coloro che hanno impedito che all’interno dei partiti vi fosse quel minimo di ragionamento, confronto, dibattito, contrapposizione che è proprio il sale della democrazia? Non per nulla tutt’ora non si è dato seguito a quanto la Costituzione chiede per partiti e sindacati. E sono state chiuse quelle sedi periferiche che furono luogo di incontro e confronto tra cittadini, dirigenti ed eletti.

    La maggioranza degli elettori può essere favorevole a riforme per aumentare i poteri del presidente del Consiglio se, contemporaneamente, il parlamento tornerà ad essere autentica espressione dei cittadini e non come ora delle oligarchie di partito.

    Rispetto alle notizie fino ad ora circolate, questo non sembra essere il senso della proposta per la quale Giorgia Meloni ci chiede se vogliamo scegliere noi il capo del governo o vogliamo lasciarlo scegliere ai partiti.

    Suona per altro  strano che proprio un indiscusso leader di partito, come è la Meloni, al di là dei congressi ritenuti inutili perché di esito scontato (come se non fossero utili allargati dibattiti interni), dia agli elettori un segnale così critico e negativo proprio sui partiti.

    In ultimo ricordiamo a tutti che la stabilità non è un valore in sé ma un obiettivo da perseguire con leggi rispettose degli elettori e con azioni politiche volte a riconquistare la fiducia dei cittadini.

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