La crisi d’identità dell’Europa
In attesa che i leader europei raggiungano un accordo sulle nomine alle quattro più importanti e prestigiose cariche dell’Unione europea (Consiglio europeo, Commissione, Parlamento, Banca centrale), viene naturale chiedersi le ragioni del fallimento che ha incontrato fino ad ora il Consiglio europeo, l’istituzione incaricata di presentare i candidati. Siamo consapevoli della complessità dell’operazione e degli elementi che entrano in gioco per il raggiungimento di un equilibrio politico e di nazionalità. Per quanto riguarda il primo, da due legislature funzionava un metodo, detto dello “spitzencandidat”, che garantiva la presidenza della Commissione europea al partito che aveva raggiunto il maggior numero di seggi alle elezioni. Il metodo era stato scelto dal Parlamento e semplificava di parecchio le trattative per le altre tre presidenze. Ma con l’arrivo di Macron, il presidente francese, questo metodo è stato considerato obsoleto e non più rispondente alle esigenze dell’attualità. Per questo è stata rifiutata subito la candidatura del presidente del gruppo del PPE, il bavarese Manfred Weber, che con 179 deputati ha il maggior numero di seggi. Il principio democratico della vittoria elettorale doveva essere sacrificato all’esperienza di governo e alla notorietà, che non caratterizzavano la carriera politica di Weber. I fatti hanno dimostrato subito che il rifiuto del principio dello spitzencandidat era un pretesto, poiché Macron, con la Merkel, i socialisti e gli spagnoli hanno presentato la candidatura dello spitzencandidat socialista Frans Timmermans, olandese. Il che sta a dimostrare che Macron non voleva un democratico cristiano, non uno spitzencandidat. L’atteggiamento equivoco della Merkel che accetta il rifiuto di un candidato della sua parte politica e della sua nazionalità si spiega con la sua preferenza per la presidenza della Banca Centrale Europea da affidare a Jens Weidmann, attuale presidente della Deutsche Bundesbank. I giochi non sono ancora fatti. Circolano vari nomi, come è normale, ma il cerchio non è ancora chiuso e le divisioni tra i 28 governi possono riservare sorprese. Ma non ci meraviglia che i negoziati vadano per le lunghe. Gli equilibri da raggiungere sono delicati e toccano gli interessi di oltre 120 partiti nazionali rappresentati al Parlamento europeo e riuniti nei sette gruppi politici. E’ normale che ciascun gruppo cerchi il maggior spazio possibile. Quel che però non convince è il muoversi a vuoto, l’agitarsi per il posto da occupare, senza una visione generale da perseguire, senza un obiettivo chiaro e distinguibile che riguardi il bene comune e l’interesse di oltre mezzo miliardo di cittadini europei. Quale Europa? Quale suo posto nel mondo? In quali valori identificarsi? Tutti questi traguardi ci paiono assenti nelle trattative negoziali di questi giorni. Ecco, a noi pare che questa Europa, con la sua crisi attuale, sia il risultato di una mancanza di identità precisa, specifica, facilmente individuabile e perciò avvertita e vissuta dalla stragrande maggioranza degli europei. No, questa identità non c’è più, ammesso che ce ne fosse una con le Comunità europee, o non c’è ancora, se vogliamo partire da Maastricht e dalla fondazione dell’Unione europea. “Stiamo finalmente vivendo – scrive lo storico David Engels su l’European Conservative del maggio scorso – le conseguenze di un pericolo che Robert Schuman, il padre fondatore della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ha avvertito più di mezzo secolo fa – e cioè che un’Europa unificata non deve rimanere solo un’impresa economica e tecnocratica, ma ha bisogno di un’anima, di una consapevolezza delle sue radici storiche e dei suoi obblighi presenti e futuri”. Senza un’identità comune, nessuna solidarietà europea è possibile in tempi difficili come i nostri di oggi. Tale identità, tuttavia, deve basarsi non solo sull’idea di diritti umani universali, ma deve anche tener conto di ciò che l’Europa e gli europei hanno in comune: una visione occidentale dell’uomo profondamente radicata nella tradizione e nella storia. Se un tale sforzo dovesse fallire, ci sono solo due possibilità: ricadere negli stati nazionali, che saranno poi in balia di potenze come la Cina, la Russia, il mondo musulmano o gli Stati Uniti, o scendere ulteriormente in un centralismo burocratico e senza anima. Sono due rischi che Schuman aveva già avvertito quando scriveva: “La democrazia (europea) sarà cristiana o non sarà. Una democrazia anticristiana è destinata a diventare una caricatura che si disintegra in tirannia o in anarchia” (….) L’Europa è molto più della semplice somma delle persone che attualmente vivono nelle nostre terre. Deve rimanere fedele all’eredità dei suoi antenati assicurando un rapporto positivo con la tradizione classica e cristiana, proteggendo l’ideale occidentale della famiglia e favorendo un sano orgoglio per l’unicità della propria ricca eredità. Se deve esserci l’obbligo morale di affrontare i crimini della propria storia, allora c’è anche il dovere di commemorare le grandi conquiste e i grandi risultati della nostra civiltà”. Condividiamo le opinioni di Engels e ci chiediamo con apprensione se i leader europei stanno lavorando anche per ridefinire un’identità a questa Europa in crisi. Temiamo invece che questa crisi sia sistemica, non congiunturale, sia l’inizio di quanto temuto da Schuman sessant’anni fa. Se così è, i nomi scelti per le nomine ci dicono poco. La ricerca dell’identità deve diventare invece l’obiettivo massimo per chi sarà chiamato e presiedere le istituzioni europee.
- Apprendiamo ora che il ministro della Difesa tedesco, esponente di punta della CDU, Ursula von derLeyen, entra nella corsa per la presidenza della Commissione europea. Allieva della scuola europea di Bruxelles, madre di sette figli, a lei i nostri migliori auguri, con l’auspicio che i timori di Schuman possano rappresentare un impegno di lavoro.