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India alternativa alla Cina per gli investitori post-Covid, ma non mancano le ombre

Kongthong è un villaggio indiano di 700 anime dove i figli vengono chiamati con un fischio: a ogni bambina e bambino appena nati viene assegnato dalla madre un motivetto che si porterà per l’intera vita, suo ed esclusivo. Come riferisce un reportage di Sette, il supplemento settimanale del Corriere della Sera, il sistema si chiama Jingrwai Iawbei. Lo scorso settembre, il governo di Delhi ha candidato Kongthong a entrare nella lista dei Migliori Villaggi Turistici della World Tourist Organization dell’Onu, perché questo luogo remoto anche per gli indiani, grazie ai nomi fischiati, sta diventando un’attrazione.

Ma mentre si impegna tanto per sdoganarsi sul mercato globale del turismo, il Paese si sottrae all’impegno della comunità internazionale per l’eliminazione drastica delle centrali a carbone chiesta da altri alla Cop26 di Glasgow. Eppure L’India non è certamente un Paese arretrato: a Bangalore (ora rinominata Bengaluru), nel centro del cono Sud della penisola, Sette riferisce che sono registrate 67mila aziende dell’Information Technology e vi hanno stabilito attività praticamente tutti i grandi nomi dell’hi-tech globale: i campioni nazionali Infosys e Wipro, ma anche Amazon, Ibm, Dell, Microsoft, Siemens, Sap, Google, Nokia e via dicendo. Chennai, la ex Madras, conta 4mila imprese tecnologiche. Hyderabad, più a Nord, è un altro centro per lo sviluppo del software. E poi naturalmente Delhi, Bombay (Mumbai), Calcutta (Kolkata). Dall’inizio del 2021, inoltre 35 start up diventate “unicorni”, hanno cioè superato il valore di un miliardo di dollari. E, in generale, la dinamicità che l’economia dell’India sta mostrando dopo i disastri nella gestione della pandemia s’incontra con la necessità di molti investitori di mettere meno denaro in Cina, dove Xi Jinping sta conducendo una serrata repressione tra le imprese private, soprattutto hi-tech, e di trovare alternative. Il Financial Times ha riportato che nel settore tecnologico quest’anno gli investimenti nelle imprese indiane sono cresciuti del 287%, contro il 118% di quelli nelle aziende cinesi. Nel trimestre luglio-agosto 2021, per ogni dollaro investito in una società hi-tech cinese, un dollaro e mezzo è andato a una indiana. L’orgoglio dell’establishment, a cominciare da quello del primo ministro Narendra Modi, si è ulteriormente gonfiato in ottobre quando il Fondo monetario internazionale ha previsto che l’economia del Paese crescerà del 9,5% quest’anno e dell’8,5% il prossimo, contro i rispettivi 8% e 5,6% della Cina.

Nonostante il Paese sia il maggior produttore di vaccini al mondo, la campagna di immunizzazione ha avuto ritardi e solo da pochi giorni ha superato il miliardo di dosi somministrate (la popolazione sfiora gli 1,4 miliardi). La burocrazia elefantiaca e la corruzione restano una palla al piede. I contadini continuano ad assediare Delhi per protesta contro una riforma modernizzatrice della distribuzione dei prodotti agricoli. C’è un grande bisogno di riforme ma farle è straordinariamente faticoso in un Paese povero, diviso in 28 Stati e 8 Territori dell’Unione, nel quale si parlano 22 lingue riconosciute nella Costituzione. Popolato da lobby, divisioni religiose, partiti politici locali. C’è, appunto l’India che corre, alle velocità delle start-up e della Borsa o con il passo più lento del villaggio dei nomi musicati, e c’è l’India che sta ferma e frena.

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