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Le medie imprese battono la crisi e corrono più del Pil

Le imprese industriali di medie dimensioni si confermano la spina dorsale del capitalismo familiare italiano: hanno risultati decisamente migliori di quelle di grandi dimensioni, sono al passo (se non migliori) delle loro omologhe straniere, e dal 1996 hanno performato decisamente meglio del Pil. Oggi poi, pur avendo di fronte importanti sfide in termini di governance e correlate con gli effetti delle guerra in Ucraina, si stanno aprendo sempre di più al mondo del green e del digitale. E’ quanto emerge dal XXI Rapporto di Unioncamere, Area Studi Mediobanca e Centro Studi Tagliacarne, secondo cui dopo il rimbalzo del fatturato dello scorso anno le prospettive per il giro d’affari delle medie imprese italiane nel 2022 sono molto favorevoli.

Secondo un indicatore di performance, dal 1996 le medie imprese italiane hanno maturato rispetto al Pil un vantaggio del 34,1%, la maggior parte del quale sviluppato dal 2009. Nel confronto con le grandi imprese manifatturiere, nello stesso periodo, le medie hanno ottenuto una crescita dei ricavi più che doppia (+108,8% contro un +64,4%), centrato un maggiore aumento della produttività (+53% rispetto al +38,6%) e garantito una migliore remunerazione del lavoro (+62,4% le medie, +57% le grandi). Inoltre, i successi sono stati ottenuti con un significativo ampliamento della base occupazionale (+39,8% contro un -12,5%) che ne ha fatto un modello capitalistico inclusivo e partecipativo attraente anche per gli stranieri. La loro produttività è superiore del 21,5% anche a quella delle omologhe tedesche e francesi, un risultato fuori dall’ordinario se si pensa che la nostra manifattura nella sua interezza accusa invece un ritardo del 17,9% rispetto agli stessi Paesi. Non è quindi un caso che negli ultimi 10 anni 210 medie aziende italiane sono state comprate da stranieri.

Il rapporto osserva che le migliori performance delle imprese medie rispetto alle grandi sono state conseguite anche in un contesto non particolarmente favorevole. Basti pensare al nodo fiscale: il tax rate effettivo delle medie imprese è oggi attorno al 21,5% contro il 17,5% delle grandi e si valuta che se nell’ultimo decennio le medie imprese avessero avuto la medesima pressione fiscale delle grandi avrebbero ottenuto maggiori risorse per 6,5 miliardi di euro.

Per quello che riguarda i risultati, lo scorso anno hanno conseguito un rimbalzo del fatturato pari al 19% e si attendono prospettive di crescita anche per il 2022 (+6,3%). Più del 60% delle medie imprese, inoltre, intende investire entro il prossimo triennio nelle tecnologie 4.0 e nel green e quel 52% che l’ha già fatto conto di superare i livelli produttivi pre-Covid entro quest’anno. Si tratta nel complesso di un universo di 3.174 imprese leader del cambiamento che, sottolinea lo studio, è pronto a cogliere anche le opportunità di crescita derivanti dal PNRR: il 59% delle medie imprese si è già attivato o si appresta a farlo. Altro aspetto rilevante da tenere in considerazione è che ricchezza e occupazione delle medie imprese sono prodotte prevalentemente in Italia. L’88,2%, infatti, non ha una sede produttiva all’estero e solo il 3% realizza in stabilimenti stranieri oltre il 50% dell’output. Il tema del re-shoring appare quindi di poca rilevanza per queste aziende che, invece, partecipano attivamente alle catene globali del valore: l’88,8% si avvale infatti di fornitori stranieri, ottenendo in media il 25% delle proprie forniture. Inoltre, la quota di vendite destinata all’estero è pari al 43,2% del fatturato.

Guardando al futuro, tuttavia, le sfide non mancano e una tra tutte, la staffetta generazionale, rischia di rallentarne il cammino: per 1 impresa su 4 infatti il passaggio o non è perfezionato o rappresenta un vero ostacolo.

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