La vera strategia dei “mancati perdenti”
I risultati elettorali delle ultime legislative hanno dato vita, come nella migliore tradizione della politica italiana, ad una situazione drammaticamente grottesca. Dal 5 marzo si inseguono sui media italiani analisi, ipotesi ed elucubrazioni circa le probabilità di raggiungere un’intesa di governo, con un ingiustificato ottimismo fondato unicamente sulla sottovalutazione di oggettivi impedimenti, che appaiono invece del tutto insuperabili. Dopo la prima tornata di consultazioni del Presidente della Repubblica, perfino davanti al sostanziale nulla di fatto e a fronte dell’acuirsi delle polemiche tra i partiti, incredibilmente risultavano in netta maggioranza i commentatori che giudicavano in positivo l’evoluzione della trattativa. Su cosa si poggi questa convinzione rimane un mistero. Quali sono invece razionalmente le posizioni in campo e, soprattutto qual è la vera strategia di quelli che, in maniera impropria, vengono definiti vincitori e che sarebbe più corretto definire “mancati perdenti”, in modo da distinguerli dai veri sconfitti che sono nell’ordine PD, F.I., LEU e FdI?
In Italia, a causa del lungo processo di logoramento della credibilità della politica e della progressiva delegittimazione dei partiti, l’errore più grande non poteva essere che quello di adottare una legge proporzionale come il “Rosatellum” che, per natura, polverizza il voto e impedisce di individuare un vincitore, lasciando il campo ai partiti per tessere le intese post-voto. Uno scenario ben conosciuto e non a caso volutamente respinto con il referendum del 1993 dagli italiani, che è stato reintrodotto irresponsabilmente dai quattro partiti (PD, F.I., Lega e AP) proprio per avere le mani libere sia per la nomina dei parlamentari, che per gli inciuci nelle trattative del nuovo governo. Una legge in perfetto stile “I Repubblica”, che non aveva mai funzionato a favore degli interessi dei cittadini ma solo dei politici, già ai suoi tempi e che oggi non poteva che fallire, proprio per l’evanescenza dei partiti, che non hanno più l’autorità della identità ideologica. Ai partiti oggi non rimane per identità che la miseria dei punti di un programma, avendo persino mortificato il diritto del popolo di scegliere i propri rappresentanti. Cosa resta quindi della sovranità dei cittadini almeno in riferimento al rispetto degli indirizzi generali per cui hanno votato? Appunto solo il programma elettorale, che diventa così una sorta di camicia di forza inderogabile, salvo correre il rischio di essere tacciati dai propri elettori di tradimento, determinando, come sostiene Travaglio, il rischio per un movimento come i 5stelle in caso di alleanza con la Lega, di venire assaliti con i forconi dai propri militanti. Ecco, quindi, il problema: come si può fare un accordo tra partiti diversi sulla base di programmi elettorali confliggenti? Semplicemente non si può, perché nessun partito può correre il rischio di essere accusato di avere tradito i propri elettori. Ma diventa impossibile fare accordi anche tra programmi apparentemente vicini, perché la semplice sommatoria dei costi, anche solo dei punti principali e qualificanti rende economicamente incompatibile qualunque ipotesi di alleanza, perché i programmi sono stati redatti in maniera scriteriata e con l’unico obiettivo di acquisire consenso, con obiettivi demagogici e irrealizzabili. Qualcuno si è posto per esempio il problema di quantificare il costo della contemporanea adozione del reddito di cittadinanza dei grillini e dell’abolizione della legge Fornero? E di come renderli compatibili con la già annunciata manovra finanziaria per il 2019, che deve contenere coperture per 30 miliardi a legislazione vigente, di cui oltre la metà solo per scongiurare l’aumento delle aliquote Iva? Ecco perché non è difficile, ma è impossibile che si possa raggiungere una qualche forma di accordo tra i “mancati perdenti”, alcuni dei quali ne appaiono ampiamente consapevoli. Per questo se si esaminano i comportamenti finora adottati dal M5S, si evidenzia la sua vera strategia costituita dalla volontà, in questa fase, di non volere andare al governo, ben mascherata dalla tattica di portare avanti una finta trattativa, costituita da timide ed evanescenti aperture parziali a tutti i partiti, condite però con pesanti veti su persone, e quindi boicottando di fatto il tentativo di accordo, nello stesso momento in cui viene offerto, facendo cadere la responsabilità della rottura sugli avversari, messi nelle condizioni di non poterlo accettare, pena la perdita di ogni residua dignità e credibilità. Contemporaneamente, oltre a tentare di arrecare ogni possibile danno, specie al centrodestra, in ordine ai tentati di destabilizzazione della fragile alleanza tra Salvini e Berlusconi, tentare altresì di tesaurizzare, con risultati tangibili, le rendite di posizione che la debolezza e superficialità dei loro avversari gli hanno consentito di ottenere. Quindi, che il M5S non voglia andare al governo in questa fase è chiaro come il sole. L’elemento che ha svelato più di ogni altro questo intendimento è certamente l’atteggiamento usato in occasione della elezione del consiglio di presidenza della Camera dei Deputati, allorquando per avere qualche posto in più ha deciso di mortificare il diritto del PD di avere i rappresentanti spettanti nel prestigioso organo di governo di quel ramo del parlamento. Quindi il M5S, che si trovava nella felice condizione di applicare la strategia che per cinquant’anni ha mantenuto la DC al potere e cioè quella dei “due forni”, vi ha rinunciato per la miseria di qualche posto in più in un organo di rappresentanza e ha deciso di mortificare il suo più probabile potenziale alleato per una possibile coalizione di governo? Se così fosse, e non invece per sabotare scientemente sin dall’inizio ogni possibile alleanza con il PD, sarebbe stata una scelta davvero stupida e autolesionista. E poi, come se non bastasse tale schiaffo, Di Maio ha confermato la strategia di volontario boicottaggio degli accordi, ponendo il veto a Renzi e Berlusconi, e successivamente ha dettato le sue condizioni al Capo dello Stato dando per scontato il suo diritto alla nomina a premier e alla pedissequa attuazione del suo programma, senza sostanziali spazi di trattativa. Quindi il primo partito d’Italia, che ha solo il 32% dei consensi, invece di ricercare le soluzioni per trovare il 19% mancante, ha trattato tutti con sufficienza e arroganza al punto che anche il più arrendevole e accattone politicante da strapazzo avrebbe difficoltà ad aderire ad una alleanza dove non è prevista neanche la più elementare forma di rispetto e perfino di educazione. La logica dei veti, in particolare, appare funzionale solo a costruire rotture e non solo per l’aspetto formale, ma anche sostanziale ben sapendo la inutilità di qualunque accordo con il PD senza Renzi, che notoriamente da solo controlla la maggioranza del gruppo al Senato e, dall’altro lato, l’impossibilità per Salvini di esporsi all’indebolimento di lasciare Berlusconi, perché perderebbe più della metà della propria coalizione e si esporrebbe alla critiche di tradimento anche tra i suoi elettori, pagando un prezzo altissimo e senza alcuna evidente contropartita. Da parte sua al M5S basterebbe solo tesaurizzare le posizioni di potere già acquisite presso la Camera dei Deputati per portare avanti qualche manovra ai limiti della costituzionalità, ma di grande impatto propagandistico, come l’abolizione dei vitalizi, che potrebbe consentire al movimento di affermare che laddove è riuscito a raggiungere le leve del potere, ha coerentemente attuato il programma e che, per il resto, gli altri gli hanno impedito l’accesso a Palazzo Chigi. L’obiettivo finale a questo punto appare fin troppo chiaro, non potendo andare al voto subito i grillini “subirebbero” un governo comunque sia degli altri, meglio se minoritario, destinato a trascinarsi stancamente per tutto il 2018, sperando di andare al voto, con o senza la nuova legge elettorale ai primi dell’anno prossimo, probabilmente rinforzati e con la concreta speranza di conseguire la maggioranza assoluta e avere finalmente la situazione sotto controllo. Questa strategia tra l’altro impedirebbe la cosa che più teme il M5S e cioè la messa a nudo della inattuabilità di gran parte del suo farneticante programma politico, che in un governo di coalizione verrebbe immediatamente messo in discussione dagli alleati. Se questa è la strategia dei cinque stelle, l’unica contromossa intelligente è vedere il bluff, capovolgere la situazione e offrire al M5S stelle la disponibilità a “subire” un loro governo di minoranza, anche con la “non sfiducia” e senza chiedere nulla in cambio, aspettando semplicemente che porti il suo programma nell’articolazione legislativa dei vari punti all’attenzione delle Camere, dell’opinione pubblica e dell’UE e sollecitando unicamente l’impegno di eliminare il Rosatellum, per approvare tutti insieme al suo posto una legge elettorale che consenta ai cittadini finalmente di scegliere i propri rappresentanti e un vincitore certo la stesa sera della chiusura delle urne. La legge c’era e solo l’arroganza delle oligarchie dei partiti ne ha determinato la sostituzione e si chiamava Mattarellum, che è l’unica norma che non solo consente agli elettori la scelta vera dei propri rappresentanti, ma anche la piena rappresentanza dei vari territori, molti dei quali oggi non hanno nessuno a cui rivolgersi, che riduce la possibilità dei “paracadutati” e garantisce anche con la quota proporzionale limitata a un massimo del 25% di avere il sacrosanto diritto di tribuna ai piccoli partiti. Se i partiti avessero un minimo di senso di responsabilità, sarebbero arrivati da soli a queste conclusioni e già oggi si potrebbe ragionare in prospettiva di una rinascita del senso civico nazionale, che faccia giustizia di tutti gli atteggiamenti ispirati al risentimento, che tanto danno hanno arrecato al nostro Paese. Una riforma elettorale essenziale per una diversa modalità di esercizio della politica, che non può prescindere dal rapporto elettori-eletti e dal diritto di scelta che una democrazia compiuta deve garantire ai propri cittadini quale viatico ed elemento fondamentale per il recupero del grande valore, assente purtroppo dagli intendimenti dei protagonisti dello scenario politico nazionale e cioè la effettiva “tutela del bene comune”, che tutti i partiti hanno da tempo cinicamente sacrificato ai loro inconfessabili egoismi e la cui mancanza è alla base della fallimentare gestione della “Cosa Pubblica” nel nostro Paese. E’ su questo che bisognerebbe che i cittadini rivolgessero la loro attenzione, finora distolta dal rancore, che non è mai stato un buon consigliere.
Nicola Bono – già parlamentare e sottosegretario ai beni e alle attività culturali